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“Come ti chiami?” tutto qui. Sono presentazioni scarne. A volte sanno<br />
già, l’hanno visto in televisione e non fanno altre domande. Conoscono il<br />
dolore del ricordo.<br />
Il dottor Esti dice che al primo incontro nello studio le donne cercano soprattutto<br />
di capire se possono fidarsi. Lo sguardo a terra. Soltanto a tratti si<br />
solleva e si sofferma sulla parete di fronte alla scrivania. C’è un quadro raffigurante<br />
la testa di un lupo siberiano dipinto da una donna un tempo ospite<br />
della casa.<br />
“Sa signora, mi rendo conto che lei ha tante domande da fare.Vorrà sapere<br />
perchè è stata portata qui, quanto dovrà restarci e se i suoi familiari potranno<br />
venirla a trovare… lei, signora, in carcere lo sa, stava molto male, si<br />
sentiva depressa, a volte sentiva anche delle voci… noi qui cercheremo di<br />
curarla.”<br />
“Ma io dottore queste voci le sento proprio qui dentro la testa, come farà<br />
a farle sparire? E poi a volte mi fanno compagnia… altre volte sono cattive.<br />
Mi fanno paura…”<br />
“Vedrà che starà meglio. Abbia fiducia.”<br />
La malattia subdola<br />
È inevitabile chiedersi perché siano soprattutto le madri a perdere il contatto<br />
con la realtà e a trascinare nel loro delirio anche il proprio figlio.<br />
Per curiosità da cronista ho consultato le ricerche sulle madri che uccidono,<br />
saggi lugubri nei quali gli esperti dibattono sulla possibile origine genetica<br />
del problema. Insomma come se in una infinitesima, impercettibile, nanoscopica<br />
particella del DNA vi fosse impressa la dicitura “ucciderà suo figlio”<br />
e il grande dilemma sulla follia fosse soltanto un timbro da apporre. Si<br />
soffermano sulla valenza culturale che ovviamente ogni società assegna ai<br />
figli. Spiegano che nell’antichità per i gruppi di cacciatori raccoglitori come<br />
i boscimani o gli aborigeni australiani o i gruppi artici, l’infanticidio era un<br />
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