Mitra & mandolino IMPAG. - Gaffi

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30.05.2013 Views

pazzo che vestito di tutto punto camminava avanti e indietro in piazza san Giovanni e aspettava tamburellando nervoso le dita sempre sullo stesso giornale tenuto sottobraccio. Faceva ampi passi, ruotava su se stesso con dietrofront degno di un soldato e muovendosi a scatti, come una scossa a tratti nella testa, guardava l’orologio in attesa di qualcuno che non sarebbe mai arrivato. Lo chiamavamo il pazzo dell’appuntamento e come Anita che diceva parolacce, il suonatore della stazione Termini che si esibiva con scodelle e pentole, il folle di corso Francia che ancor oggi si pulisce la bava rovesciandosi catini d’acqua sulla testa, appartengono ormai all’iconografia di una grande città. Elementi naturali. Tragico folklore. Come lo scemo che un tempo suo malgrado accoglieva i forestieri all’ingresso del villaggio. Ho ripensato alle foto che Cesare Lombroso commentava per tentare di trovare corrispondenze e relazioni tra la pazzia e il crimine nei volti. “Donna omicida, labbra tumide, fisionomia virile. Donna parricida. Archi sopraccigliari e seni frontali assai sviluppati, rughe strane, fronte sfuggente, zigomi e mascelle molto sviluppate, labbra sottili…” e così via, un sorprendente campionario che annoverava per ogni specifico delitto deformità delle mascelle o delle orecchie, queste ultime quasi sempre troppo sviluppate. Del resto Lombroso diceva che una donna che uccide il figlio non è più una madre ma uno scherzo maligno della natura e assai maligno di conseguenza doveva essere il suo aspetto. Pensieri grotteschi. Ridicoli dinanzi alla persona che ho davanti. Manuela non dice parolacce, non suona pentole, non salta come una assatanata e non ulula alla luna, forse perché la scienza ha posto in parte fine a tutto questo. Lo ha guarito, lo ha camuffato o, scoprirò dopo, lo ha solamente in parte nascosto. Eppure Manuela è l’immagine del dolore. È come se il dolore non potesse essere rappresentato che attraverso di lei, la sua voce e i suoi gesti, al punto che mi scopro a provare immediatamente nei suoi riguardi un sentimento di protezione, a parlarle con dolcezza e a sentirmi più adulta e matura di quanto in effetti non sia. 24

Indossa una bella maglietta azzurra, i pantaloni blu. È magrissima. Ha i capelli scuri tagliati alla maschietto, un ciuffo dritto sulla fronte che la fa sembrare quasi una bambina, una monella capricciosa disegnata dalla fantasia di uno scrittore di racconti per adolescenti. Un personaggio buffo e dispettoso. Ma gli occhi, gli occhi scuri, sono già umidi. Ha pianto. Di Manuela, ancora prima di sprofondare nel suo dramma, mi colpisce proprio la fragilità dello sguardo. È seduta davanti a me, le due poltrone così vicine che le nostre ginocchia quasi si sfiorano, ma i suoi occhi continuano a fuggire verso un punto che passa esattamente sopra la mia testa, verso la finestra e inseguono un orizzonte lontano che per lei è un approdo. Soltanto qualche volta riuscirà a guardarmi davvero, a raggiungermi e a sintonizzarsi. Come quando per troncare il terribile imbarazzo dell’incontro, le chiedo se guarda la televisione… se vuole potrà vedermi qualche volta… ma non ho telecamere e di certo non scatterò foto. Non sono un nemico e non voglio farle del male. E allora abbozza un sorriso e mi racconta che a Castiglione tutti possono vedere la tv e scegliere i programmi che desiderano anche quando le cronache sono terribili, come il delitto del piccolo Samuele a Cogne e altre storie di madri assassine. Le racconto anche altro di me. Della mia vita. Della mia famiglia. Le dico che ho una bambina, anzi una ragazzina. Lei piega appena la testa, lo sguardo ha un barlume… dice:“davvero? Lei sembra così giovane…” Le chiedo di fidarsi e non mi sentirò in colpa quando, in modo naturale, la nostra conversazione si spingerà sino all’abisso, violando il patto da me stretto con il dottor Gradante di limitarmi a un colloquio generico. Non sul “fatto”. Manuela se ne sta con la borsetta rosso bordeaux sulle gambe e da quella borsetta poi tirerà fuori il libro che, mi racconta, sta leggendo in quei giorni. Perros de Espana di Fabrizio Dentice. “Vede” mi dice sfogliandolo “è un libro divertente. Ci sono storielle su un tizio che deve fotografare alcuni cani per un concorso.” “Ma riesce a concentrarsi, a leggere?” le chiedo. 25

pazzo che vestito di tutto punto camminava avanti e indietro in piazza san<br />

Giovanni e aspettava tamburellando nervoso le dita sempre sullo stesso<br />

giornale tenuto sottobraccio. Faceva ampi passi, ruotava su se stesso con<br />

dietrofront degno di un soldato e muovendosi a scatti, come una scossa a<br />

tratti nella testa, guardava l’orologio in attesa di qualcuno che non sarebbe<br />

mai arrivato. Lo chiamavamo il pazzo dell’appuntamento e come Anita che<br />

diceva parolacce, il suonatore della stazione Termini che si esibiva con scodelle<br />

e pentole, il folle di corso Francia che ancor oggi si pulisce la bava rovesciandosi<br />

catini d’acqua sulla testa, appartengono ormai all’iconografia di<br />

una grande città. Elementi naturali. Tragico folklore. Come lo scemo che un<br />

tempo suo malgrado accoglieva i forestieri all’ingresso del villaggio.<br />

Ho ripensato alle foto che Cesare Lombroso commentava per tentare di<br />

trovare corrispondenze e relazioni tra la pazzia e il crimine nei volti.<br />

“Donna omicida, labbra tumide, fisionomia virile. Donna parricida. Archi<br />

sopraccigliari e seni frontali assai sviluppati, rughe strane, fronte sfuggente,<br />

zigomi e mascelle molto sviluppate, labbra sottili…” e così via, un<br />

sorprendente campionario che annoverava per ogni specifico delitto deformità<br />

delle mascelle o delle orecchie, queste ultime quasi sempre troppo sviluppate.<br />

Del resto Lombroso diceva che una donna che uccide il figlio non è<br />

più una madre ma uno scherzo maligno della natura e assai maligno di conseguenza<br />

doveva essere il suo aspetto.<br />

Pensieri grotteschi. Ridicoli dinanzi alla persona che ho davanti. Manuela<br />

non dice parolacce, non suona pentole, non salta come una assatanata e<br />

non ulula alla luna, forse perché la scienza ha posto in parte fine a tutto questo.<br />

Lo ha guarito, lo ha camuffato o, scoprirò dopo, lo ha solamente in parte<br />

nascosto.<br />

Eppure Manuela è l’immagine del dolore. È come se il dolore non potesse<br />

essere rappresentato che attraverso di lei, la sua voce e i suoi gesti, al punto<br />

che mi scopro a provare immediatamente nei suoi riguardi un sentimento<br />

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