Isgrò, aforismi e intervista - Gruppo bancario Credito Valtellinese
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E. <strong>Isgrò</strong> con l’opera<br />
Dichiaro di non essere Emilio <strong>Isgrò</strong>,<br />
Milano, Centro Tool, 1971<br />
10
Quarantanove<br />
<strong>aforismi</strong> su isgrò<br />
e un’<strong>intervista</strong><br />
con emilio<br />
Marco Meneguzzo<br />
E. <strong>Isgrò</strong> (al centro)<br />
con J. F. Kennedy<br />
alla Casa Bianca (Washington), 1963<br />
Anch’io sono Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
(“...io sono Spartaco!...<br />
no, io sono Spartaco!...no,<br />
io sono Spartaco!”, dicevano<br />
orgogliosamente gli schiavi<br />
ribelli nel film Spartacus di<br />
Stanley Kubrick).<br />
Cogliere anche l’ironia<br />
nelle opere di Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
significa comprenderle.<br />
Cogliere solo l’ironia<br />
nelle opere di Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
significa non comprenderle.<br />
L’opera Dichiaro di non<br />
essere Emilio <strong>Isgrò</strong>, del<br />
1971, mostra l’artista<br />
nella stessa posizione in<br />
cui, pochi anni più tardi,<br />
verranno fotografati i<br />
sequestrati dalle Brigate<br />
Rosse, col giornale spiegato<br />
davanti per identificare il<br />
giorno in cui è stata presa<br />
l’immagine. L’artista è stato<br />
sequestrato dalla sua opera.<br />
Conoscendo Emilio <strong>Isgrò</strong> e la<br />
sua maniacale attitudine alla<br />
revisione del testo, talora<br />
si ha l’impressione che la<br />
sua cancellatura sia davvero<br />
il risultato di una revisione<br />
ripetuta.<br />
Bisogna coprire per vedere,<br />
come suggerisce Emilio<br />
<strong>Isgrò</strong>? Un vecchio gallerista<br />
mi raccontava che se vuoi<br />
vendere un quadro, devi<br />
metterlo girato contro la<br />
parete, mentre tutti gli<br />
altri sono ben appesi sui<br />
muri. Il primo venduto è<br />
quello.<br />
Bisogna cancellare per<br />
capire? Anche senza<br />
considerare le opere<br />
di Emilio <strong>Isgrò</strong>, basta<br />
guardare un qualsiasi libro<br />
di testo di uno studente<br />
universitario.<br />
Titolo di giornale, 1962<br />
33x57 cm<br />
carta fotografica montata su legno.<br />
Collezione Reale, Milano<br />
11<br />
Emilio <strong>Isgrò</strong> ama la figura di<br />
Marinetti, ma non la segue:<br />
è un Marinetti solitario, il<br />
che è una contraddizione in<br />
termini.<br />
La capacità di Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
di avvicinare immagini<br />
improbabili, alla maniera<br />
surrealista – Torquemada che<br />
cammina sulla rugiada, Attila<br />
che cammina sul velluto,<br />
Paolo e Francesca che non<br />
si incontrano mai... -, e<br />
la sua contemporanea abilità<br />
di far vedere nella mente<br />
l’immagine risultante dal suo<br />
inverosimile accostamento, ci<br />
porta a pensare che la pipa di<br />
Magritte sia davvero una pipa.<br />
Cancellatura, 1965<br />
65x50 cm<br />
carta fotografica<br />
Archivio <strong>Isgrò</strong>, Milano<br />
Qualcuno potrebbe accostare<br />
le mappe geografiche<br />
cancellate di Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
alle mappe geografiche mute<br />
che si usavano un tempo nelle
Corrono corrono, 1965<br />
60x130 cm<br />
carta fotografica montata su legno.<br />
Collezione privata, Messina<br />
scuole. Nulla di più lontano,<br />
anzi, opposto: a scuola si<br />
dava la parola al luogo, qui<br />
la si toglie.<br />
L’operazione che Emilio<br />
<strong>Isgrò</strong> compie ingrandendo<br />
a dismisura i particolari<br />
di certi personaggi noti<br />
– Mao-Tse Tung ingrandito<br />
915 volte, Jacqueline<br />
Onassis 34 volte, Elisabetta<br />
d’Inghilterra 624 volte...-<br />
in un certo senso assomiglia<br />
all’operazione di Andy<br />
Warhol rivolta a personaggi<br />
simili (talora gli stessi,<br />
come Jacqueline e Mao): il<br />
personaggio scompare.<br />
Cos’è più forte, l’icona<br />
o la memoria? Ripensando<br />
al confronto Emilio <strong>Isgrò</strong>/<br />
Andy Warhol sui personaggi<br />
celebri (celebri nel momento<br />
in cui venivano “prelevati”<br />
dall’artista per essere posti<br />
all’interno di un’opera),<br />
vien da chiedersi se Mao sia<br />
più forte per la sua icona<br />
(Warhol) o per la sua memoria<br />
(<strong>Isgrò</strong>).<br />
La memoria è il basso<br />
continuo o, se volete, il<br />
rumore di fondo di tutte le<br />
opere di Emilio <strong>Isgrò</strong>.<br />
La memoria non è un elemento<br />
intrinseco alla logica<br />
linguistica, all’analisi del<br />
linguaggio, perché riguarda<br />
il significato, il contenuto<br />
dei segni e dei semi: questa<br />
è l’anomalia concettuale<br />
dell’opera di Emilio <strong>Isgrò</strong>.<br />
Se guardo la Mappa degli<br />
Stati Uniti dipinta da Jasper<br />
Johns vedo una bandiera, se<br />
guardo la mappa cancellata<br />
The United States (1982) di<br />
Emilio <strong>Isgrò</strong> vedo un libro.<br />
Emilio <strong>Isgrò</strong> ha talmente<br />
connaturata nella sua opera<br />
la forma-libro – cioè il vero<br />
e proprio oggetto, oltre che<br />
il concetto – che c’è anche<br />
quando non c’è.<br />
L’opera di Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
Biografia di uno scarafaggio<br />
(1980), composta da più<br />
pannelli, mi ha richiamato<br />
alla mente il dipinto a<br />
12<br />
tempera di William Blake<br />
Fantasma di una pulce (1819-<br />
20). Non c’è nulla che li<br />
accomuna, se non la scelta<br />
del soggetto, un essere<br />
ripugnante. O forse una cosa<br />
c’è: che si tratti di uno<br />
scarafaggio e di un pulce lo<br />
sappiamo per entrambi solo<br />
dal titolo.<br />
Al contrario di tanta arte<br />
concettuale (non diciamo<br />
tutta, perché continuiamo a<br />
pensare che anche <strong>Isgrò</strong> vi<br />
abbia fatto parte), ogni opera<br />
di Emilio <strong>Isgrò</strong> ha bisogno di<br />
uno spettatore dalla “memoria<br />
condivisa”, di un pubblico,<br />
cioè, che ritrovi nell’opera<br />
il proprio vissuto e non solo<br />
le basi analitiche del proprio<br />
comunicare.<br />
La cancellatura è la cifra di<br />
Emilio <strong>Isgrò</strong>, come l’IKB lo<br />
è per Klein, lo specchio per<br />
Pistoletto e Marilyn Monroe<br />
per Warhol: trovare in questi<br />
esempi quello semanticamente<br />
meno omogeneo.<br />
Provino del film cancellato La jena più ne ha<br />
più ne vuole, 1969<br />
Certe volte penso che Emilio<br />
<strong>Isgrò</strong> sia l’equivalente di un<br />
grande “pittore di storia”,
S dalla parola Montedison, 1972<br />
97x90 cm<br />
tela emulsionata.<br />
Collezione privata, Padova<br />
così come venivano definiti<br />
gerarchicamente gli artisti<br />
nei secoli passati, a seconda<br />
della loro specializzazione:<br />
in fondo lui ama narrare.<br />
Anche la cancellatura ha<br />
vissuto gli sviluppi tipici<br />
di ogni avanguardia: appena<br />
inventata è una dichiarazione<br />
di guerra, poi diventa un<br />
trattato sulla guerra,<br />
infine un racconto di guerra<br />
pieno di chiaroscuri e di<br />
storie parallele. Lo si<br />
vede dalla decisione con<br />
cui Emilio <strong>Isgrò</strong> cancellava<br />
i primi testi, per arrivare<br />
alla raffinatezza di questi<br />
ultimi, dove si continua a<br />
cancellare, ma poi si lascia<br />
intravedere, si occulta a<br />
metà, si fa emergere la<br />
parola di sotto al nero o al<br />
bianco che la cancella.<br />
Ogni volta che vedo le<br />
formiche di Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
13<br />
annerire una statua con<br />
la loro presenza, mi viene<br />
in mente Gabriel García<br />
Márquez che, in Cent’anni di<br />
solitudine, descrive come le<br />
formiche ricoprono il corpo di<br />
un neonato nella culla. Ogni<br />
volta mi vengono i brividi.<br />
Le formiche per Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
sono una cancellatura mobile.<br />
Emilio <strong>Isgrò</strong> è un retore, nel<br />
senso classico del termine,<br />
oppure nel senso che della<br />
Storia rossa, 1977<br />
85x85 cm<br />
acrilico su tela.<br />
Collezione privata, Courtesy Erica Fiorentini<br />
Arte Contemporanea, Roma<br />
retorica ha dato Hans Georg<br />
Gadamer, per il quale ogni<br />
relazione umana è governata<br />
dalla retorica, cioè dagli<br />
strumenti del convincimento.<br />
La cancellatura di Emilio<br />
<strong>Isgrò</strong> è una minaccia di<br />
sparizione e al contempo una<br />
epifania.<br />
Contro l’eccesso analitico:<br />
le macroscopie di Emilio
<strong>Isgrò</strong> – i “particolari<br />
ingranditi n volte” –<br />
fanno sparire l’oggetto<br />
dell’analisi per eccesso di<br />
approfondimento.<br />
“Emilio Isgro’ (sotto<br />
l’albero) medita sul destino<br />
del Vecchio Continente” è il<br />
testo verbale di un’opera<br />
del 1969: dall’inizio della<br />
sua avventura non ha fatto<br />
altro che stare sotto<br />
quell’albero.<br />
Un semiologo usa la parola<br />
cercando di definirne<br />
esattamente gli ambiti, un<br />
poeta usa la parola in modo<br />
che sfugga ai suoi ambiti:<br />
Emilio <strong>Isgrò</strong> è un poeta.<br />
E. <strong>Isgrò</strong> alla mostra Contemporanea, Roma,<br />
Parcheggio di Villa Borghese, 1973<br />
L’ansia di definire porta alla<br />
tautologia dell’”A uguale<br />
ad A”. Per il timore di<br />
arrivarci, Emilio <strong>Isgrò</strong> non<br />
ci si avvicina nemmeno.<br />
A volte penso che l’opera di<br />
Emilio <strong>Isgrò</strong>, basata sulla<br />
verbalità, tragga la sua<br />
forza da tutti gli elementi<br />
non verbali presenti nel suo<br />
contesto.<br />
Il principale elemento non<br />
verbale presente in tutta<br />
l’opera di Emilio <strong>Isgrò</strong> è la<br />
memoria.<br />
La parola è popolare, la<br />
cancellatura è popolare,<br />
l’immagine è popolare: perché<br />
le opere di Emilio <strong>Isgrò</strong> non<br />
lo sono?<br />
Se si pensa ai luoghi comuni<br />
dell’Arte Concettuale, si<br />
direbbe che l’attitudine<br />
analitica non può coincidere<br />
con una vocazione profetica:<br />
l’opera di Emilio <strong>Isgrò</strong> è lì<br />
a smentire questa credenza.<br />
Quando la parola si<br />
allontana “troppo” dalla<br />
Il nome di Dio, 1996<br />
cm 180x95<br />
acrilico su tela montata su legno.<br />
Courtesy collezione Ambra Gaudenzi, Genova<br />
14<br />
cosa, il rischio è la vuota<br />
astrazione: Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
evita questo pericolo grazie<br />
all’immagine mnemonica che<br />
si crea sempre in ogni sua<br />
opera.<br />
L’immagine corroborata dalla<br />
memoria è il territorio<br />
abitato dall’opera di Emilio<br />
<strong>Isgrò</strong>.<br />
La parola corroborata dalla<br />
memoria è il territorio<br />
abitato da Emilio <strong>Isgrò</strong>.<br />
Perché il Seme d’arancia<br />
di Emilio <strong>Isgrò</strong> (1997-<br />
98) dovrebbe essere<br />
un’operazione concettuale<br />
piuttosto che plastica? Per<br />
il cortocircuito che si crea<br />
nella mente pensando a un<br />
vero seme e al suo sviluppo:<br />
da embrione piccolissimo si<br />
trasforma in qualcosa di<br />
grande e di molto diverso,<br />
mentre qui non si trasforma<br />
altro che in se stesso<br />
ingigantito a dismisura. Il<br />
modo migliore per far pensare<br />
alla funzione del seme,<br />
alla sua idea e non alla sua<br />
forma.<br />
Ancora sul Seme d’arancia<br />
di Emilio <strong>Isgrò</strong>: a dispetto<br />
di quanto si dice e si<br />
pensa – anche di ciò che<br />
ho appena detto, e che<br />
purtuttavia mantiene la<br />
sua giustificazione critica<br />
– l’opera non è solo un<br />
lavoro concettuale, ma<br />
anche formale. Ci sono<br />
semi più “belli” di altri,<br />
esattamente come prediligiamo<br />
certe opere di Duchamp<br />
– la ruota di bicicletta
Agamènnuni. L’Orestea di Gibellina di Emilio<br />
<strong>Isgrò</strong> da Eschilo, prefazione di P: Volponi,<br />
Milano, Feltrinelli, 1983<br />
sullo scolabottiglie, sulla<br />
“fontana” o viceversa... -<br />
per la loro forma e non per<br />
la loro valenza concettuale,<br />
sostanzialmente simile o<br />
uguale.<br />
La cancellatura di Emilio<br />
<strong>Isgrò</strong> è un invito alla<br />
riscoperta dei piaceri<br />
dell’epigrafia?<br />
La cancellatura di Emilio<br />
<strong>Isgrò</strong> è la nostalgia della<br />
letteratura? Semmai è la<br />
nostalgia del futuro della<br />
parola.<br />
A volte Emilio <strong>Isgrò</strong> tira<br />
in ballo l’onnipotenza di<br />
Dio per affermare che anche<br />
questa deve fermarsi sulla<br />
soglia dell’ineluttabilità<br />
della parola e<br />
dell’immagine: “Dio Nostro<br />
Polifemo, Milano, Mondadori, 1989<br />
Signore apre questo occhio<br />
ma non riesce a chiuderlo”<br />
e “Dio Nostro Signore crea<br />
questo braccio ma non<br />
riesce a muoverlo” sono<br />
testi verbali di sue opere<br />
che portano alle estreme<br />
conseguenze il “C’est ci<br />
n’est pas un pipe”.<br />
Un tempo la “damnatio<br />
memoriae” coincideva con<br />
la cancellatura del nome<br />
- del faraone, del re,<br />
dell’imperatore... - da<br />
tutti i monumenti. Oggi la<br />
cancellatura di Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
è piuttosto una “damnatio<br />
oblivionis”.<br />
Il rapporto tra parola e<br />
immagine nell’opera di Emilio<br />
<strong>Isgrò</strong> non tende a distinguere<br />
i due territori linguistici<br />
(il terzo territorio è<br />
15<br />
quello della “cosa”...) ma a<br />
integrarli.<br />
L’elemento più evocativo<br />
della memoria nelle opere di<br />
Emilio <strong>Isgrò</strong> è la didascalia.<br />
Che le acque circondino<br />
le terre e non viceversa<br />
lo si vede chiaramente<br />
dall’andamento delle<br />
cancellature delle scritte<br />
che si trovano sul mare,<br />
nelle mappe cancellate di<br />
Emilio <strong>Isgrò</strong>.<br />
Chissà perché cancellare<br />
l’immagine di un quadro<br />
proponendola come arte è<br />
stato previsto sin dal<br />
“Capolavoro sconosciuto” di<br />
Honoré de Balzac, e poi messo<br />
in pratica da tanti artisti,<br />
mentre cancellare le parole,<br />
come ha fatto con pervicacia<br />
singolare e unica Emilio<br />
<strong>Isgrò</strong>, suona ancora così<br />
sacrilego?<br />
L’integrazione linguistica<br />
tra parola e immagine nelle<br />
opere di Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
assomiglia all’operazione<br />
compiuta dal matematico<br />
Mandelstam con i frattali,<br />
che tendono a eliminare il<br />
concetto di incomunicabilità<br />
tra le dimensioni<br />
geometriche.<br />
Non è vero che Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
porta all’estremo limite le<br />
possibilità della parola: al<br />
contrario gli piace navigare<br />
in mezzo alla ricchezza della<br />
parola. All’estremo limite<br />
c’è solo la tautologia.<br />
Anch’io non sono Emilio <strong>Isgrò</strong>.
16<br />
E. <strong>Isgrò</strong> al tavolo di lavoro, 1990<br />
(foto Giovanna Borgese)
milano, 12 luglio 2008<br />
archivio isgrò.<br />
m.m.<br />
Con l’idea di una lunga <strong>intervista</strong> partiamo veramente<br />
dall’inizio. Ho letto una tua biografia in cui: bambino, con<br />
una certa attitudine alle lettere, poi a Milano, l’incontro con<br />
una serie di intellettuali - intellettuali siciliani e no che stavano<br />
nella città lombarda -, che mi sembra ti fornissero una sorta di<br />
viatico che partendo dalla Sicilia arrivava fino a Milano…<br />
Un’ ambiente letterario diciamo in qualche modo tradizionale, a<br />
parte l’incontro con Elio Pagliarani. È così o no?<br />
e.i.<br />
Si era un’ ambiente letterario che contava allora. Non so<br />
se posso definire tradizionale Montale, il termine è certo<br />
riduttivo nei suoi confronti. Però certamente non erano<br />
degli apostoli di quella che poi si chiamerà Avanguardia,<br />
e che verrà almeno otto/dieci anni dopo.<br />
Io da questa società fui accolto benevolmente. Il mio<br />
primo libro fu pubblicato da Schwarz, che era già un<br />
editore, e già mezzo mercante d’arte, ancora non aveva<br />
cominciato lavorando molto attivamente. Assorbii da un<br />
lato la cultura più avanzata dell’epoca, seppure senza<br />
possedere necessariamente le stigmate dell’avanguardia,<br />
e contemporaneamente, continuavo invece ad assorbire<br />
l’impronta dell’avanguardia che avevo conosciuto già<br />
in Sicilia, avendo vissuto in un ambiente molto sensibile<br />
culturalmente. Per esempio, i Futuristi venivano spesso<br />
in Sicilia dal barone Iannelli, che era amico di Marinetti<br />
e lui stesso un futurista.<br />
m.m.<br />
Stiamo parlando di fine anni Quaranta inizio anni<br />
Cinquanta?<br />
e.i.<br />
Anni Trenta, Quaranta, forse anche Venti. C’era stato<br />
questo futurista, che si chiamava appunto Guglielmo<br />
Iannelli che ha fatto un manifesto per la distruzione del<br />
teatro di Siracusa. Manifesto futurista. Chiaramente sulle<br />
orme della distruzione del Canal Grande, patrocinata<br />
da Marinetti: testimonianza comunque di un ambiente<br />
culturalmente non inerte.<br />
m.m.<br />
Ma scusa… tu sei nato nel 1937: in che senso hai vissuto quel<br />
periodo?<br />
17<br />
e.i.<br />
Perché in famiglia mi si raccontava tutto questo.<br />
Conoscevo il nipote del barone Iannelli, che una volta<br />
mi portò nella villa dello zio e mi mostrò dei quadri<br />
di Depero e di Balla. E lì, in mezzo a tanti quadri<br />
futuristi, vidi un laghetto alpino con le montagne che<br />
si specchiavano nell’acqua, mi pare che ci fossero<br />
anche delle ochette, con una stranissima luce. Allora<br />
ho detto “che opera è questa?”. Era un’opera di<br />
Balla che, siccome non vendeva niente, si illudeva<br />
di commercializzare il proprio lavoro scegliendo un<br />
tema scemo. Però evidentemente c’era dentro la luce<br />
che si è poi vista nel miglior Balla. Quindi il quadro<br />
era effettivamente suo. Sono quindi cresciuto in un<br />
ambiente molto avvertito culturalmente. Non ho avuto<br />
difficoltà. In famiglia si faceva musica, mio padre era<br />
anche un compositore quasi professionista. Componeva<br />
musica, aveva un’orchestrina da ballo e suonava in<br />
tutte le contrade siciliane e io lo seguivo spesso nei suoi<br />
viaggi. Avevo uno zio pittore che mi introdusse all’uso<br />
dei pennelli. Quindi avevo un’educazione mista. Facevo<br />
il liceo, ero sollecitato da mille cose. Ma diciamo che<br />
la mia prima vocazione è stata quella letteraria, se non<br />
altro perché non avevo nessuna voglia di sporcarmi le<br />
mani, come invece dovevano fare i pittori e gli scultori.<br />
Ahimè: ho iniziato a sporcarmele sempre di più, e ci<br />
sono rimasto. Spero di non essermele sporcate però fino<br />
al punto da non poter tornare più indietro.<br />
m.m.<br />
In questo senso quindi la tua passione è una passione<br />
eminentemente letteraria…<br />
e.i.<br />
A quell’età non avevo problemi di feeling, né di musica.<br />
Cioè studiavo la musica, ma per il fatto stesso che fosse<br />
un’imposizione paterna sfuggivo sempre. La pittura<br />
c’era già in famiglia…ma sfuggivo a tutto questo. Avevo<br />
un’educazione artistica a 360 gradi, ma trovavo più<br />
comodo per me esprimermi scrivendo poesie. Vinsi un<br />
premio da giovanissimo, avevo quindici anni. Poi quando<br />
arrivai a Milano nel ’57 mi iscrissi all’Università. Avevo<br />
finito il liceo classico. Incontrai Schwarz, incontrai Crovi.<br />
In quegli anni conobbi anche Piero Manzoni che mi fece<br />
conoscere la mia prima moglie, Brigitte…<br />
m.m.<br />
Però non è che uno scende dal treno a Milano e incontra Arturo<br />
Schwarz...
e.i.<br />
No, Schwarz lo conobbi perché un mio compagno<br />
di scuola all’Università era Raffaele Crovi. Raffaele<br />
Crovi era l’assistente di Elio Vittorini, e aveva letto le<br />
mie poesie, che gli avevo spedito grazie a un amico in<br />
comune prima di partire dalla Sicilia. Quando le lesse -<br />
aveva tre o quattro anni più di me, era un po’una specie<br />
di fratello maggiore, molto generoso intellettualmente<br />
-, gli piacquero e mi portò da Schwarz, perché curava<br />
assieme a lui una collana di poesie. Schwarz le lesse,<br />
piacquero anche a lui e mi pubblicarono: così arrivai a<br />
Milano nel ’56 contemporaneamente all’uscita del mio<br />
libro. Subito. Fu un colpo fortunato, molto fortunato.<br />
Perché trovai subito spazio. Li dopo incontrai da<br />
Pasolini, per dirne uno, a Montale, da Quasimodo, a<br />
Vittorio Sereni che volle conoscermi, a tutto quello che<br />
allora si chiamava establishment. Pubblicai tre poesie su<br />
Il Verri, perché me le chiese Nanni Balestrini. Se nella<br />
vita poi purtroppo mi sono fatto dei nemici, devo dire<br />
che ho fatto di tutto per crearmeli, perché mai nessuno<br />
ha avuto un’amarezza programmatica nei miei confronti,<br />
almeno a quell’età. Anzi, piacevo alle persone. Forse<br />
ero un po’ noioso perché parlavo sempre di poesie e di<br />
arte, ma per quello purtroppo non c’è niente da fare.<br />
Infatti sono rimasto noioso, se uno non mi vuol bene…<br />
Nel ’56 pubblicai questo libro e contemporaneamente<br />
cominciai a pubblicare le mie poesie sul Verri, con<br />
Franceschi attraverso Balestrini: ancora non c’erano<br />
Milano, 1966.<br />
<strong>Isgrò</strong> organizza e promuove<br />
con l’editore Sampietro una<br />
mostra di Poesia Visiva alla<br />
Libreria Feltrinelli.<br />
A destra, l’invito alla<br />
manifestazione<br />
18<br />
le Neoavanguardie, e in particolare il gruppo ’63, che<br />
sorgerà appunto sette anni dopo, però conobbi tutte<br />
le persone che avrebbero fatto l’avanguardia, come lo<br />
stesso Pagliarani.<br />
Non vivo e non vivevo una vita d’artista, ma allora<br />
ero giovane e con questi miei amici un po’ di<br />
vita comunitaria comunque la facevo, non ero<br />
completamente isolato. Pubblicai delle poesie sul<br />
Menabò, incontrai Vittorini che mi volle conoscere,<br />
scrivevo e contemporaneamente mi ero iscritto<br />
all’Università, dove studiavo scienze politiche, anche<br />
se sostanzialmente frequentavo le lezioni di storia del<br />
teatro. Quindi diciamo che coltivavo quella vocazione<br />
artistica a 360 gradi di cui parlavamo, anche se ancora<br />
non mi ero cimentato con le arti visive vere e proprie<br />
E. <strong>Isgrò</strong> (a sinistra) con A. Zanzotto, 1965<br />
Dibattito presso la Libreria Feltrinelli di Milano,<br />
9 Marzo 1966, in occasione della mostra Poesia visiva.<br />
Da sinistra L. Tola, E. <strong>Isgrò</strong>, G. Dorfles,<br />
E.R. Sampietro, L. Pignotti, A. Bueno
(tranne due quadretti che avevo dipinto in Sicilia,<br />
usando malissimo i colori direttamente dal tubetto,<br />
perché evidentemente non li sapevo diluire: il risultato<br />
era una sorta di tristezza espressionista dovuta alla<br />
mia incapacità. Uno l’ho fatto vedere recentemente e<br />
nessuno mi ha mai detto che è un’infamia, ma in effetti<br />
è un’infamia!).<br />
m.m.<br />
Tutto questo è una specie di lungo apprendistato, in cui si<br />
evidenziano già della caratteristiche che saranno tue proprie,<br />
come il frequentare diversi territori linguistici, che sono poi la<br />
caratteristica della poesia visiva, cui il tuo nome è stato legato.<br />
Ma qual è stato il momento di passaggio da artista verbale ad<br />
artista visivo? Come sei approdato alla poesia visiva?<br />
Fiere del Sud, Milano,<br />
Schwarz Editore, 1956<br />
e.i.<br />
Guarda io sono approdato all’esperienza di poeta<br />
visivo perché, pur essendo un poeta lineare, verbale,<br />
abbastanza interessante anche per le avanguardie, mi<br />
dava da pensare l’atteggiamento un po’ perentorio<br />
del <strong>Gruppo</strong> ’63, nel quale contavo degli amici, ma<br />
del quale non facevo parte. Mi sembravano troppo<br />
decisamente professori: non è un mistero che<br />
Sanguineti doveva fare delle cose da museo (cosa<br />
che poi, detto fra noi, ha fatto anche Celant)! L’arte<br />
può finire al museo, ma parlando di una forma<br />
d’arte d’avanguardia mi sembrava il tradimento<br />
di quelle che erano gli statuti delle Avanguardie<br />
del Novecento. Anche se io capivo benissimo cosa<br />
voleva dire Sanguineti, non potevo logicamente<br />
19<br />
Venezia, 1964: una delle prime cancellature.<br />
Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong><br />
accettarlo. Quindi mi tenni sempre fuori, e cominciai<br />
a fare delle poesie visive, tipo la Volkswagen, in cui<br />
volevo misurarmi con i problemi che la mia epoca<br />
poneva, che erano principalmente il superamento<br />
del linguaggio. A quell’età si competeva sanamente,<br />
anarchicamente: non si competeva certo per il<br />
mercato, perché semplicemente non c’era, o a noi era<br />
precluso (eravamo troppo giovani oltretutto), però si<br />
competeva molto intellettualmente. Io volevo dire la<br />
mia. E per questo mi trovai a dare una definizione di<br />
arte generale del segno, cioè un’arte in cui la parola,<br />
ormai sfiancata dalla comunicazione verbale secolare, si<br />
univa all’immagine per creare nuove metafore. Quindi<br />
una comunicazione diversa da quella tradizionalmente<br />
verbale.<br />
m.m.<br />
A questo proposito, hanno avuto un qualche peso certe<br />
esperienze milanesi come il Mac pubblicava nei documenti d’arte<br />
oggi delle cose di Porta, di Pagliarani, di Monnet che ormai<br />
erano già quasi poesia visiva,o le contemporanee riviste romane
E. <strong>Isgrò</strong> (al centro) con G. Lollobrigida a Venezia<br />
durante la XXVII Mostra internazionale<br />
d’arte cinematrografica, 1966<br />
come L’Esperienza Moderna, la rivista di Novelli e di Perilli, che<br />
indagava il segno in rapporto alla scrittura, grande tema degli<br />
anni Cinquanta ?<br />
e.i.<br />
Se devo essere brutale e sincero io ho scoperto la<br />
bellezza di certe opere di Novelli molto tardi: da giovane<br />
Novelli non mi interessava, l’ho scoperto dopo, vedendo<br />
certe opere in casa di amici, specialmente dei grandi<br />
quadri con segni di matita. Li preferisco a Twombly,<br />
avrà fatto pochi pezzi, ma è più grande lui, perché<br />
effettivamente lui il problema della verbalità e della<br />
scrittura se lo pone anche come carico di memoria, e lì<br />
ci trovo una vicinanza, quanto meno di intenzioni. Però<br />
allora non le conoscevo. E il bello, e il paradosso è che<br />
molti che poi scoprirò fratelli, non mi piacevano. Avevo<br />
un pregiudizio. Ce l’avevo sul tutto il <strong>Gruppo</strong> ’63. Mi<br />
erano proprio antipatici. Per questo sognavo un’arte in<br />
grado di fare a meno di loro. Per questo mi sono tenuto<br />
distante da loro. Il fatto è che poi ho visto che con altri<br />
artisti – spesso dei poeti - avevo più punti di coincidenza.<br />
Devo dire che io quella del <strong>Gruppo</strong> ’63 non l’ho mai<br />
considerata una poesia visiva degna di questo nome:<br />
non era tale, era un’esperienza minoritaria. Con tutto il<br />
rispetto che io ho per Villa - amo molto la sua traduzione<br />
dell’Odissea e certi scritti teorici -, credo che la sua<br />
attività propriamente creativa sia minore: al massimo i<br />
20<br />
Venezia, 1965<br />
È l’anno di Jacqueline, una risposta concettualmente<br />
europea allo strapotere mediatico della Pop Art.<br />
Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong><br />
poeti del <strong>Gruppo</strong> ’63 arrivavano a qualche esperienza di<br />
poesia concreta.<br />
Non amavo molto, delle loro esperienze, il legame<br />
che avevano con l’informale. Erano troppo legati<br />
all’Informale. Io mi preoccupai della mia dichiarazione,<br />
allontanandomi da tutto quel mondo: così la mia<br />
posizione diventava per forza polemica. Era una<br />
posizione polemica perché volevo che il rapporto tra<br />
l’immagine e la parola non si riducesse a un magma che<br />
portasse come traccia l’espressività informale, quindi<br />
l’efficacia espansiva, ma si risolvesse in un disegno che<br />
potenziasse la comunicazione.<br />
m.m.<br />
L’aspetto della poesia visiva. Come è nata? Perché si è chiamata così?<br />
e.i.<br />
La poesia visiva si è chiamata così per un motivo molto<br />
semplice: molti di noi, i cosiddetti poeti visivi, venivano<br />
da aree letterarie, e il convergere verso esperienze di<br />
tipo visuale certamente derivava da una certa tradizione<br />
novecentesca, e tardo ottocentesca, da Mallarmè in poi.<br />
Quindi la chiamammo “poesia visiva” semplicemente per<br />
questo motivo.<br />
m.m.<br />
C’ è un coniatore di questo termine o si perde nel ricordo?
Venezia, 1964. È l’anno della Volkswagen: la casa automobilistica<br />
tedesca diffida l’artista dall’uso del marchio.<br />
L’artista risponde: “Ritirerò la mia opera quando<br />
voi ritirerete le vostre automobili”.<br />
Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong><br />
e.i.<br />
Il termine poesia visiva fu coniato da me e altri,<br />
sostanzialmente dal <strong>Gruppo</strong> ’70. In un libro di Renato<br />
Barilli si dice che l’accezione che gli do io è diversa da<br />
quella tradizionale.<br />
Un coniatore preciso non c’è. Però le aree<br />
dell’avanguardia più o meno usavano questo termine.<br />
Non è come l’Arte Povera o la Transavanguardia che<br />
hanno un’etichetta precisa e un inventore identificato.<br />
m.m.<br />
La differenza tra poesia visiva e poesia concreta?<br />
e.i.<br />
La poesia concreta era un’esperienza monosegnica, nel<br />
21<br />
senso che si usava soltanto la parola. Avveniva all’interno<br />
della verbalità. Non c’era un’immagine. A meno che le<br />
stesse immagini non diventassero forme visive. Se tu leggi<br />
certi miei testi si trovano le differenze. Fui io a introdurre<br />
il distacco dalla poesia concreta definendo la poesia visiva<br />
come un’arte generale del segno. Un campo aperto dove<br />
potessero coesistere segni iconici e segni verbali.<br />
Bisognava distaccarla dalla poesia visiva. E io l’ho fatto in<br />
una chiave polemica. Allora si polemizzava molto, anche<br />
con gli artisti amici. Specialmente con gli epigoni italiani<br />
della poesia concreta. Da un lato introdussi però una<br />
concezione della poesia non come collage, che utilizza<br />
materiali di scarto, ma come progetto visivo che parte<br />
dall’ essere novecentesco.<br />
Comunque la definizione di poesia visiva come arte
generale del segno è mia. Prima non c’era. È chiaro che<br />
poi ci fu un adeguamento da parte anche di altri artisti.<br />
m.m.<br />
Vi trovavate, avevate fatto un gruppo?<br />
e.i.<br />
C’era il <strong>Gruppo</strong> ’70 a Firenze, con il quale ad un certo<br />
punto ci incontrammo. Venivano a trovarmi loro a<br />
Venezia, Pignotti e Miccini. A volte andavo io a Firenze.<br />
Ma questo durò pochi mesi. Poi c’era un gruppo a<br />
Genova, che si riuniva intorno alla galleria la Garabaga.<br />
C’erano vari gruppi e vari individui. Vi era una forte<br />
guerra contro la poesia concreta da parte di tutti. Quasi<br />
tutti. Infatti nell’antologia della poesia visiva di Pignotti<br />
la poesia concreta non è neppure contemplata: ci sono<br />
22<br />
però alcuni artisti che venivano dal <strong>Gruppo</strong> ’63, come<br />
Novelli. Immodestamente io capii immediatamente la<br />
portata di quel discorso. Gli stessi fiorentini, secondo<br />
me, non avevano capito. Quello che avevo capito era che<br />
noi, se fossimo entrati nell’ambito del visivo, avremmo<br />
dovuto risolvere problemi che erano di tipo visivo. Non<br />
letterario. Loro si connotavano come letterati.<br />
m.m.<br />
Però il gruppo ’70 gravitava già nell’ambito del sistema dell’arte.<br />
e.i.<br />
Non in quanto poesia visiva. Loro si consideravano<br />
letterari. C’era Antonio Bueno, con il quale collaborai<br />
Cartolina per un Natale, 1965<br />
cm 50x65<br />
carta fotografica montata su legno.<br />
Archivio <strong>Isgrò</strong>, Milano<br />
scrivendogli un testo. C’era Sylvano Bussotti, il musicista.<br />
C’era Giuseppe Chiari, il musicista fluxus. C’erano dei<br />
pittori che operavano nella loro area.<br />
m.m.<br />
Quello che mi domando è questo: mentre voi vi siete definiti tutti<br />
come letterati, in realtà tutte le manifestazioni gravitavano in<br />
un altro ambito. Quali erano le manifestazioni che facevate da<br />
letterati?<br />
e.i.<br />
La verità è che quello connotato sul piano letterario ero io.<br />
Avevo pubblicato da Einaudi, il menabò di Vittorini. Avevo<br />
pubblicato da Schwarz delle poesie. Da Mondadori un altro<br />
libro di poesie. Per gli altri la poesia visiva era un modo<br />
per fare dell’avanguardia letteraria. Mentre per me era
Il Corriere della Sera annuncia l’uscita del “romanzo elementare”<br />
Il Cristo cancellatore, Milano, 1968<br />
23<br />
un modo per affrontare un campo diverso. Avevo fortuna<br />
come poeta. Feci un sacrificio di me stesso in nome di una<br />
causa. Mi immolai, perché avevo delle capacità verbali<br />
assolute. Pignotti, Micini, ancora oggi pubblicano delle<br />
poesie. Io ho vissuto questa esperienza in maniera totale.<br />
m.m.<br />
Di fatto, durante la Modernità – intesa come insieme di progetti<br />
ideologici sulla realtà -, questo attraversamento dei territori<br />
è sempre stato guardato con diffidenza, così come lo stare<br />
nei territori di confine: di solito una persona sta dentro una<br />
disciplina o fuori da questa. Voi eravate nel mezzo.<br />
e.i.<br />
No. Mi rifiutati di stare in mezzo. Mi assunsi tutte le<br />
responsabilità che la scelta comportava. Se dovevo fare<br />
delle mostre nelle gallerie, agivo visivamente. Sapevo<br />
perfettamente che l’elemento verbale avrebbe introdotto<br />
una dimensione come minimo di inquietudine<br />
comunicazionale, o linguistica. Però rifiutai, cercai, capii<br />
che si trattava di un nuovo medium che nasceva dalla<br />
contemporaneità. Dal fatto che la parola non veniva più<br />
staccata dall’immagine. Puntai tutto sulla parola. Quando<br />
la cancellai, anche se l’esperienza della cancellatura<br />
è un’esperienza a latere rispetto alla poesia visiva, mi<br />
accorsi che il risultato era visivo. Che ciò che coprivo<br />
aveva importanza in sé. Sia quando coprivo le parole, sia<br />
quando più tardi coprivo le immagini. Allora mi accorsi<br />
che diventavo ciò che strenuamente non volevo essere.<br />
m.m.<br />
Cosa volevi essere? Un’artista?<br />
e.i.<br />
C’è un certo equivoco sul termine. Io per dieci anni circa<br />
sono stato considerato un po’ il leader del movimento.<br />
Ero l’amministratore unico di una società che non<br />
esisteva. Soprattutto io chiamavo poesia visiva qualcosa<br />
che era arte concettuale di fatto.<br />
m.m.<br />
La definizione di arte concettuale ancora non c’era.<br />
e.i.<br />
Non esisteva.<br />
m.m.<br />
Fabro diceva che si parlava di “arte mentale”. La parola<br />
concettuale non la usava nessuno.
e.i.<br />
Io che venivo dalla letteratura non avevo bisogno<br />
di usare il termine mentale. Mi sforzavo di dare<br />
all’immagine la stessa mobilità della parola. Ti dirò che<br />
non conoscevo neanche Matisse. Lo devo confessare. Ma<br />
quando vidi Matisse, fu da lui che venni ispirato.<br />
Quando Filiberto Menna mi fece la prefazione per la<br />
mostra a Parma, fui io a suggerirgli di guardare Matisse<br />
per il mio lavoro. Trovo Matisse molto intrigante per<br />
24<br />
il rapporto tra immagine e parola…Comunque nella<br />
poesia visiva, le due esplorazioni che volevo fare erano<br />
quelle della verbalità. Da un lato la cancellatura: mi<br />
accorsi che la parola cancellata diventava a sua volta<br />
un segno quasi iconico. Aveva un impatto visuale.<br />
Basta pensare alla pittura segnica di quegli anni dove si<br />
ritrovano delle suggestioni. Non da parte mia, che ero<br />
completamente ignorante di arte visiva.<br />
m.m.<br />
Certo che se uno parla di segno, icona, parola, e lo collega<br />
cronologicamente e culturalmente alla fine degli anni<br />
Cinquanta/inizio dei Sessanta diventa quasi automatico<br />
pemsare a questo grande melting pot, a questo grande crogiuolo<br />
dove tutto, tutti i linguaggi si confondono. Il tuo problema era,<br />
al contrario, la definizione.<br />
Londra, 1969. Il Daily Mirror, tabloid londinese,<br />
annuncia l’inizio delle riprese del film cancellato<br />
La jena più ne ha e più ne vuole, presentato<br />
in conferenza stampa a Milano<br />
con la protagonista Paola Pitagora.<br />
Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong><br />
e.i.<br />
Dipanare la materia. Infatti facevo appello alla Gestalt –<br />
forse era un po’ banale -, per poter trarre poi tre righe<br />
di ragionamento che facessero al mio caso. Certo, il mio<br />
discorso era vedere i limiti di quel discorso percettivo e<br />
psicologico, che pure era un discorso importantissimo,<br />
interessantissimo. Solo oggi posso dire che quel discorso era<br />
importante: lo posso dire perché non c’è più conflittualità.<br />
Ripeto, sarà anche per un fatto di gusti, caratteriale, ma col<br />
<strong>Gruppo</strong> ’63, nonostante l’amicizia di Pagliarani, non c’era<br />
feeling, agivo veramente da solo. Quando cominciai a fare le<br />
mie poesie visive mi ritrovai a fianco il gruppo tecnologico<br />
fiorentino, Pignotti, Miccini, che faceva dei collages.
Fotogramma cancellato del film La jena più ne ha e più ne vuole, 1969<br />
Il grosso shock, più ancora che l’Informale, Lucio<br />
Fontana, e Piero Manzoni, che avevo conosciuto<br />
quando stava a Milano, me lo diede la Pop. Quando<br />
abitavo a Venezia, nel 1964, vidi lo sbarco della Pop,<br />
uno sbarco in forze: non avevo mai trovato nulla di così<br />
formidabilmente potente sul piano della proposta visiva.<br />
Mi prese. Mi prese Rauschenberg, e il New Dada…<br />
m.m.<br />
Tuttavia nella Pop il problema era tutto nell’immagine.<br />
e.i.<br />
Esatto. A quel punto è chiaro che le mie ambizioni di artista<br />
25<br />
crescevano. Non mi accontentavo di ciò che facevano<br />
gli altri, perché ero cresciuto in una famiglia dove mio<br />
padre predicava la differenza tra gli artisti come un valore<br />
assoluto. Mi ricordo che lui era un uomo che cercava di<br />
essere diverso dagli altri. Ce l’avevo nel cromosoma. Allora<br />
capii che quel discorso era potente e possente e ne vidi<br />
però anche i pericoli. Allora facevo le pagine culturali de “Il<br />
Gazzettino”, per cui seguivo la faccenda: invasero l’Europa<br />
in una stagione, tanto che non si poteva più parlare<br />
della Germania, o della Francia e naturalmente neppure<br />
dell’Italia. L’Italia è un paese in questo senso molto fragile,<br />
queste cose le sappiamo. Fu proprio in relazione alla Pop<br />
che avvenne il mio passaggio tra parola e immagine.
m.m.<br />
…In polemica con la Pop?<br />
e.i.<br />
Era un tentativo di costruire un discorso diverso, una<br />
concettualizzazione diversa, così come la mia Jacqueline è<br />
un’opera concettuale. Il legame con quel mondo è nella<br />
tematica: volevo dare una risposta a tutto questo. Lo dico<br />
con coscienza tranquilla, lo feci contro la Pop. Per non fare<br />
l’artista americano. Anche se avevo amato molto la Pop, ne<br />
vidi il pericolo: capii che cominciava il grande protettorato<br />
per noi europei. Io avevo una cultura europea, avevo<br />
studiato a scuola tedesco, e avevo studiato tedesco perché<br />
a tutti gli allievi ribelli lo facevano studiare, perché<br />
era la nazione che aveva perso la guerra. Le signorine<br />
Parete cancellata<br />
per una stanza da letto, 1968,<br />
cancellatura-enviroment per<br />
la Casa Museo Brindisi,<br />
Lido di Spina (Ferrara)<br />
di buona famiglia studiavano il francese, i ragazzi più<br />
sofisticati l’inglese, mentre Quelli che erano un po’ ribelli<br />
all’ambiente, quelli che non provenivano da famiglie<br />
decisamente benestanti finivano a studiare il tedesco. Però,<br />
attraverso lo studio del tedesco, che poi io non ho mai<br />
imparato del resto, conobbi la letteratura tedesca, e una<br />
moglie tedesca. Conobbi la grande forza dell’Europa.<br />
Andò così. Non so se conviene dire che era un<br />
atteggiamento polemico, ma forse lo era.<br />
m.m.<br />
Ti chiedo questo proprio perché questa parola – “polemica” -,<br />
evidentemente è un bel motore.<br />
e.i.<br />
Quando uscì il mio primo libro di poesie Piede del Sud, la<br />
rivista Belfagor di Luigi Russo, che allora era il massimo,<br />
fece una segnalazione in cui si concludeva così: “l’autore<br />
26<br />
Milano, 1970.<br />
Cancellazione dell’Enciclopedia Treccani:<br />
l’opera viene installata nella Galleria Schwarz,<br />
suscitando scandalo e polemiche.<br />
(Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong>)<br />
non manca di ingegno e, soprattutto di vis-polemica”.<br />
Si una vis-polemica c’era nel mio lavoro. E allora, da<br />
giovane, era intenzionale, perché era l’epoca in cui la<br />
polemica, che non era aggressiva, significava difformità.<br />
Poi, con l’andare del tempo, è diventata talora purtroppo<br />
preterintenzionale, cioè al di là delle mie intenzioni, per<br />
cui se, ad esempio, io vado in chiesa a pregare magari<br />
qualcuno pensa che sto facendo della polemica contro<br />
qualcuno, mentre sto semplicemente pregando. Adesso<br />
me ne guardo bene, perché c’è un tempo per tutto: in<br />
gioventù è giusto cercare una collocazione nel mondo<br />
che sia omogenea al tuo carattere, al tuo modo di<br />
sentire, e quindi rompere con le abitudini.
Quindi sì, avevo questo atteggiamento polemico, che<br />
mi viene da mio padre, che non era mai allineato con<br />
niente. Era una famiglia intellettuale la mia. Era una<br />
famiglia di gente non ricca, ma era piena di libri la mia<br />
casa. In casa mia non si faceva altro che dipingere e<br />
studiare, fare musica. Quindi io sono un figlio d’arte da<br />
questo punto di vista. E la polemica l’avevo acquisita nel<br />
fatto che, come ti dicevo, quella era la terra dove c’erano<br />
tanti futuristi quanti a Milano. Quando incominciai per<br />
esempio a scrivere poesie in cui non sfruttavo più la<br />
metrica italiana, mio padre, che me l’aveva insegnata,<br />
mi chiese “Ma che vuoi fare il futurista?”. Quindi c’era<br />
sempre questa reattività a ciò che accadeva in fondo<br />
a me, e ti devo dire che purtroppo, o per fortuna,<br />
è rimasta ancora oggi. Io ancora oggi non sono<br />
indifferente a quello che accade. A volte me ne pento<br />
anche, perché sono costretto a mutare giudizio nel<br />
27<br />
giro di due o tre anni, su situazioni che magari li per<br />
li non mi sono piaciute e per cui magari reagivo male,<br />
mentre poi, conoscendole meglio, capisco di aver avuto<br />
torto. D’altra parte l’ingiustizia perpetrata ai danni<br />
della conoscenza al momento dell’insorgere di certe<br />
esperienze mi ha portato ad inventare qualche altra cosa.<br />
Devo dire però che talvolta ho lo stesso atteggiamento<br />
di ripulsa anche per situazioni molto belle, molto<br />
soddisfacenti, che però sotto sotto mi spingono a fare<br />
qualche altra cosa, per superarle, per innovarle o per<br />
inventare situazioni nuove, e ciò accade anche rispetto<br />
a me stesso, al lavoro che faccio. Io sono uno che si<br />
critica continuamente. E ho avuto bisogno della critica,<br />
che non ho mai avuto purtroppo, e che finalmente è<br />
arrivata anche attorno a me. Prima ero molto fazioso. A<br />
volte non riconoscevo certe situazioni. Ma allora, nelle<br />
Avanguardie e nelle neoavanguardie, si usava…
Milano, 1971.<br />
In primo piano, Emilio <strong>Isgrò</strong> tra le braccia<br />
di Christian Stein all’inaugurazione<br />
della mostra di gruppo Proletarismo<br />
e dittatura della poesia, curata dallo stesso<br />
artista per la Galleria Sant’Andrea.<br />
In secondo piano, il gallerista Gianfranco Bellora.<br />
Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong><br />
m.m.<br />
L’autoriflessione, o, meglio, l’autocritica non è una caratteristica<br />
fondamentale per gli artisti. Certe volte potrebbe essere<br />
controproducente. Però, torniamo a quegli anni: nel ’64 la Pop<br />
arriva a Venezia. Tu eri a Venezia per altre questioni. La Pop è<br />
lo shock, anche se tu avevi già conosciuto personaggi come Piero<br />
Manzoni, che oggi riteniamo shockanti ma che forse allora non<br />
erano presi in considerazione… in quel momento la provocazione<br />
massima veniva invece da quest’immagine altra, che era la Pop.<br />
e.i.<br />
Secondo me tu vedi bene. Perché le provocazioni<br />
manzoniane non erano prese come tali. Non<br />
28<br />
funzionavano a livello di dibattito culturale. A torto o a<br />
ragione, il povero Piero Manzoni nessuno lo prendeva<br />
sul serio. E quando lui parlava, gonfiava i palloncini<br />
d’aria, non è che il discorso fosse poi così affascinante.<br />
Il personaggio di quell’epoca sostanzialmente era Lucio<br />
Fontana. Era quello che aveva dato a noi giovani quello<br />
shock salutare, apparentemente in chiave italiana,a<br />
molti di noi. Era lui, non era Piero Manzoni, perché<br />
effettivamente allora – e lo penso ancora oggi - una<br />
parte di Lucio Fontana, o almeno certe sue opere, erano<br />
più nuove. Apparivano più nuove. Per lo meno quelle<br />
coi buchi purissimi, quelli sono capolavori. Quella<br />
audacia forse l’avrà avuta il primo Boccioni scultore nel<br />
Novecento italiano. E poi mi è sempre molto piaciuto<br />
il Fontana che ad un certo punto smentiva se stesso<br />
caricando di pietre e pietruzze i suoi oli bucati. Mi<br />
Carta P72, 1972<br />
Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong><br />
Come le farfalle notturne, libro cancellato, 1972<br />
Courtesy Andrea Manzitti
piaceva. Dicevo “ci vuole un bel coraggio”. Un artista<br />
che ha la forza di raggiungere l’estremo limite, ma che<br />
ha anche l’intelligenza creativa di tornare indietro. Sai<br />
perché lo dico? Perché anch’io agisco così. Quindi è un<br />
maestro. Il vero maestro è lui. Fontana per noi era un<br />
coetaneo, andava ad incoraggiare i giovani, comprando<br />
loro qualche opera: a me comprò una versione della<br />
Volswagen. E poi, mi ha fatto conoscere Brigitte.<br />
Manzoni, come dicevo, non veniva preso molto sul<br />
serio. Però lui non faceva niente per farsi prendere sul<br />
serio, se non si era dotati di buona volontà. Ma questo<br />
lo capisco perché gli artisti spesso sono masochisti: io<br />
stesso lo sono stato in altre epoche. Perché allora il<br />
gioco dell’incomprensione era una lotta alla borghesia.<br />
Era la borghesia a non capirti. La borghesia non era<br />
in grado di capire i migliori valori che essa stessa a<br />
volte poteva esprimere, visto che lo stesso Manzoni era<br />
un aristocratico borghese, che io avevo una cultura<br />
borghese, che facevo l’Università…<br />
E poi va detto che la borghesia italiana non era<br />
quella francese. Non aveva il culto dell’irregolarità e<br />
dell’irregolare. L’artista ubriacone dava fastidio. Invece<br />
Fontana vestiva con quei grandi vestiti, elegantissimo,<br />
con il gessato. Era lui il grande mito della nostra<br />
generazione. Manzoni guadagnerà in prospettiva dopo,<br />
perché con l’insorgere delle tematiche e delle tecniche<br />
concettuali è stato possibile rileggere il suo lavoro in una<br />
chiave un po’ diversa. Io per esempio non ammiro tanto<br />
di Manzoni la Merda d’artista, però certamente la Linea<br />
Infinita è un’opera formidabile, forse la più concettuale<br />
delle sue opere, mentre le altre sono riferibili più a una<br />
mentalità Dada, ma un Dada meno legato all’alchimismo<br />
duchampiano. Più facile. Fatto di boutades.<br />
m.m.<br />
Quando tu dici “per la nostra generazione era Fontana”. A chi ti<br />
riferisci? Tutti i tuoi coetanei avevano questo mito di Fontana?<br />
e.i.<br />
Con la nostra generazione mi riferisco semplicemente<br />
ai miei coetanei. A quelli che oggi hanno la mia stessa<br />
età. Diciamo che in quegli anni in cui gli altri, da<br />
Castellani,a Dadamaino e altri compagni stavano con<br />
Manzoni, io sostanzialmente mi occupavo di letteratura.<br />
Non ero ancora venuto fuori allo scoperto, anche se<br />
già cominciavo a combinare delle cose, e il mio punto<br />
di riferimento era Milano, pur abitando io dal 1960 a<br />
Venezia.<br />
La verità era che in quegli anni io mi rendevo conto dei<br />
29<br />
limiti dell’avanguardia grazie ai Manzoni, e non grazie ai<br />
Fontana. La forza creativa di Fontana era tale che accettai<br />
pure che fosse un autore legato al Novecento, mentre nella<br />
forza creativa di Manzoni, essendo diversa e indirizzata a<br />
linguaggi solo d’avanguardia, riconoscevo proprio i suoi<br />
limiti avanguardistici, che non gli perdonavo. Io almeno<br />
li vedevo come dei limiti. Allora capii che bisognava<br />
scendere sul terreno dell’avanguardia con qualcosa di<br />
irrevocabile. Nel mio caso fu la cancellatura.<br />
Certo, da un lato la razionalizzazione del rapporto<br />
immagine/parola scorreva come un filo sotterraneo<br />
per tutto il Novecento, ma non credo si fosse posto<br />
in maniera così chiara, verbale e iconica, tranne forse<br />
per Magritte in alcuni momenti. In fondo, se qualcuno<br />
citasse in tal senso i Calligrammes di Apollinaire<br />
risponderei che sono materiale verbale. C’è un<br />
tentennare in essi e in tutto il periodo.<br />
Credo dunque che la mia fortuna fu di pormi chiaramente<br />
questo problema, che era latente. Poi da lì esce l’”arte<br />
generale del segno”: in fondo, quando l’immagine<br />
della Jacqueline sparisce sotto le righe nere, è già una<br />
cancellazione. Io creo un’altra icona: la freccia, il campo<br />
grigio retinato, la scritta. La Jaqueline è una composizione.<br />
A tutti gli effetti. Come saranno le Storie Rosse.<br />
m.m.<br />
Si. Le si percepisce molto chiaramente come composizione…<br />
e.i.<br />
…Poi c’è il rapporto con la fotografia. Qualcuno che<br />
legge le mie Storie Rosse fa un appello a Malevic, tanti<br />
anni fa qualcuno l’ha fatto a El Lissitsky. Può darsi che<br />
tutto questo ci sia. Però in effetti il rosso è un’immagine<br />
cancellata. C’è sotto una fotografia. L’intento quantomeno<br />
è diverso. Se poi echeggiano altre cose è meglio, perché io<br />
credo che l’arte debba sempre riecheggiare il passato. Non<br />
so se tu sei d’accordo su questo.<br />
m.m.<br />
La tua arte echeggia altra arte passata in modo particolare. C’è<br />
veramente un chiaro riferimento, quasi una dichiarazione, un<br />
appello. Non formale però, non nelle forme visibili, e neppure<br />
nella composizione, ma nel tuo ricorrere alla memoria, che deve<br />
essere condivisa con il tuo interlocutore.<br />
e.i.<br />
La parola è legata alla memoria. L’arte è figlia della<br />
memoria, ma soprattutto la poesia.<br />
Un’altra cosa che mi dava fastidio di certe avanguardie
era l’eccesso di formalismo. Quando affronto il problema<br />
della comunicazione, io affronto il problema di un’arte<br />
in grado di andare se non presso tutti, presso molti:,<br />
“quest’arte è per molti ma non per tutti” diceva Nietzsche.<br />
Io non ho mai rifiutato il discorso della comunicazione,<br />
come invece facevano altri artisti della mia generazione,<br />
apparentemente. Io cercavo la comunicazione. Questo<br />
perché ero cresciuto in terra futurista, ma in questo<br />
almeno andavo contro gli americani. E quando vennero<br />
i concettuali io fui felice, perché vedevo una conferma ai<br />
miei discorsi: loro combattevano un’altra battaglia rispetto<br />
alla comunicazione pop.<br />
Edizioni Il Formichiere, Milano, 1975<br />
m.m.<br />
Prima ci siamo chiesti, pensando al tuo lavoro, “come si è<br />
entrati nel territorio dell’arte?”; adesso ti faccio una domanda<br />
apparentemente molto simile ma con un connotato sociale<br />
diverso, derivato anche da questa tua iniziale appartenenza a<br />
un movimento riconosciuto, come quello dell’arte concettuale:<br />
“come sei entrato nel sistema dell’arte?”<br />
e.i.<br />
Sono entrato nel sistema dell’arte quando feci le tre<br />
poesie visive iniziali, nel tentativo di rinnovare la vecchia<br />
parola della poesia occidentale, entrata in crisi e in<br />
lutto a causa di una comunicazione mediatica che ora<br />
vediamo in tutta la sua virulenza (paradossalmente, è<br />
triste pensare che si comunica per sms…); poi c’era<br />
l’incipiente il lutto mediatico della televisione; poi<br />
sentivamo il sottofondo degli inglesi dappertutto e<br />
30<br />
capivamo che per un poeta che parla la lingua italiana<br />
era finita. Si diceva in fin dei conti che la parola stessa<br />
era finita..<br />
Allora io cercai di rendere più comunicazionale la poesia<br />
fondendola coi segni iconici. E tuttavia, proprio grazie<br />
alla Pop, mi accorsi che anche il segno iconico diventava<br />
ridondante, e quindi produceva poca comunicazione.<br />
Allora il mio sottrarre l’immagine alla vista - cioè in<br />
pratica il mio cancellare -, mi fece capire che non<br />
solo bisognava cancellare le immagini e le parole, ma<br />
anche il segno iconico. Quanto meno renderlo non<br />
integro in modo che tutti insieme si incastrassero come<br />
nelle giunture di un mobile, in cui un pezzo entra<br />
robustamente nell’altro. In questo modo crei dei vuoti<br />
nell’immagine e delle punte nella parola in modo che il<br />
discorso diventi organico.<br />
Ho affrontato due problemi fondamentali. Affrontando<br />
Milano, 1972. L’avventurosa vita di Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
nelle testimonianze di uomini di stato, scrittori, artisti,<br />
parlamentari, attori, parenti, familiari, amici,<br />
anonimi cittadini, installazione presentata<br />
per la prima volta allo Studio Sant’Andrea<br />
di Milano. Courtesy Csac, Parma<br />
il problema del rapporto parola/immagine capivo<br />
perfettamente che le vecchie categorie saltavano. Era<br />
un problema specifico, non affrontavo un problema<br />
inerente di arte totale di wagneriana memoria. Mi<br />
proposi di risolvere il problema del rapporto immagine/<br />
parola. Jaqueline: la scritta è monca, l’immagine è monca.<br />
La scritta con il linguaggio della didascalia è finta,<br />
non è una vera didascalia. È perché scatti in rapporto<br />
all’immagine cancellata, che non c’è. Questa è una cosa<br />
importante, che l’avanguardia non aveva esplorato fino<br />
a quei livelli, l’avevano solo accennato. Questo fu quello<br />
che avevo impostato: la poesia come arte del segno.<br />
Per me la grande svolta fu la cancellatura. Mi consentì<br />
di dare un taglio netto con le avanguardie. Le prime<br />
cancellature sono del ’64. Mi accorsi ad un certo punto
che cancellando, o coprendo e sostituendo con il grigio<br />
la fotografia, che c’era questa interazione tra verbalità e<br />
icona. Tanto è vero che avevo ricevuto una lettera da un<br />
giovane critico, che diceva che il mio era il contributo<br />
più coerente allo sviluppo di queste esperienze dopo il<br />
futurismo. Mi fece molto piacere.<br />
A volte il rapporto parola/immagine si intersecava<br />
con la cancellatura. Non era sempre possibile dare<br />
un taglio netto. Però ho capito che quando tu copri<br />
un’immagine, per esempio, o una verbalità, da un<br />
lato liberi l’immagine da una necessità di figurare,<br />
di rappresentare alcunché. Però c’è una traccia della<br />
rappresentazione. L’immagine è coperta, quindi salta il<br />
rapporto figurativo astratto.<br />
Di più, tu hai appena parlato della dimensione della<br />
memoria. Io parlo di linguaggio. Sono sempre stato<br />
tradito da questo: non sono mai riuscito a fare l’opera<br />
che intendevo. Da giovane perché non avevo i mezzi,<br />
ho sempre avuto un solo colpo in canna. E piuttosto<br />
che per uccidermi lo usavo per sgominare un certo<br />
31<br />
modo di pensare e di vedere. Non certo per uccidere.<br />
E purtroppo anche adesso, da vecchio, mi tocca sempre<br />
averne uno.<br />
La cancellatura comunque è il mio autoritratto più<br />
compiuto, per questo resiste al tempo e si carica di<br />
drammaticità.<br />
m.m.<br />
In più c’è l’aspetto vero e proprio della definizione della<br />
didascalia.<br />
e.i.<br />
Il linguaggio notarile che a volte adottavo stabilì un<br />
rapporto di sproporzione fra il particolare rappresentato,<br />
ingrandito ecc. e la scritta. La scritta era notarile. Ma<br />
l’immagine era completamente incontrollabile, quindi<br />
la scritta non serviva a niente. Si creava una specie<br />
di corto circuito sul piano della comunicazione. Si<br />
creava un’apertura per l’immaginazione. Il contrario<br />
del tautologismo concettuale. D’altra parte credo che
queste esperienze scrittorie non avrebbero avuto questo<br />
sviluppo se non insorgeva il concettuale americano,<br />
anglosassone. Il nostro lavoro, che era catacombale,<br />
confinato in Italia, assunse un peso mondiale di colpo.<br />
Gli esperti magari lo sapevano già.<br />
Tutto questo, dunque, ha molto a che vedere con l’arte<br />
concettuale.<br />
m.m.<br />
La rarefazione di cui tu parli che è una chiave di lettura degli<br />
inizi…<br />
e.i.<br />
È la dematerializzazione. Io non ho mai fatto scelte<br />
puramente formali. Ma partendo come poeta verbale,<br />
per me il bianco e il nero e la possibilità di stampare<br />
più volte la stessa opera, come a me è successo, era un<br />
fatto normale. È la tecnica del libro che si stampa in più<br />
esemplari.<br />
32<br />
Milano, 1972. Emilio <strong>Isgrò</strong> conversa<br />
con Christian Boltanski<br />
allo Studio Sant’Andrea in occasione<br />
della mostra L’avventurosa vita di Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
nelle testimonianze di uomini di stato, scrittori,<br />
artisti, parlamentari, attori, parenti, familiari,<br />
amici, anonimi cittadini.<br />
Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong><br />
Dittico Marx – Engels, 1974<br />
Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong><br />
Allora come sono diventato artista visivo pittorico?<br />
Perché mi resi conto che questo non lo facevano ne<br />
in poesia, ne nel contesto concettuale. Mi resi conto<br />
che se volevi effettivamente comunicare in un contesto<br />
di nuovo tipo, attraverso lo spazio delle gallerie,<br />
pubbliche o private, dovevi farlo in campo visivo. Non<br />
bastava trasformare la parola in un’icona, come hanno<br />
fatto in pratica i concettuali, certi concettuali. Poiché<br />
li c’è molta confusione. In fondo si potrebbe dire<br />
che anche questo è un procedimento Pop come gli<br />
altri. Bisognava creare in un contesto globale dove la<br />
nuova icona si avvalesse di una parola che coesistesse
almeno virtualmente anche con altri segni. E che fosse<br />
soprattutto un fatto autonomo ed organico anche a<br />
livello visivo. In pratica una manifestazione estetica e<br />
organica.<br />
m.m.<br />
In realtà in fondo la tua è sempre stata una posizione critica nei<br />
confronti del concettualismo che fa della parola un’icona, o un<br />
feticcio, così come sei sempre stato critico – e in certi casi forse<br />
anche vittima – di certe strategie di comportamento, miranti<br />
alla definizione di una “purezza” concettuale cui si doveva<br />
tendere e appartenere.<br />
Particolare, 1972<br />
(Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong>)<br />
e.i.<br />
Io ero molto attento alla comunicazione: nei limiti<br />
del possibile ho sempre cercato di dialogare con tutti.<br />
C’era però discrepanza tra me e quello che mi accadeva<br />
intorno. Ho fatto sempre un’arte programmaticamente<br />
elitaria, riservata a pochi. In fondo potevo pensare che la<br />
stessa cancellatura potesse diventare un gesto popolare<br />
arrivando persino al livello del plagio, del “contagio”.<br />
Non lo dico come un vanto. Devo dire che forse fu la mia<br />
sola astuzia. Prevedevo che si sarebbe dato importanza<br />
alla cancellatura, proprio per la sua apparente ovvietà.<br />
a quel punto cominciai ad “incassare”: Libri cancellati,<br />
Madonne cancellatrici… non volevo saturare il mercato,<br />
visto che ancora non l’avevo, ma il mercato delle idee.<br />
Ho cercato sempre col mio lavoro di creare dei nodi<br />
33<br />
stradali dove chiunque doveva passare. Come fa un’artista<br />
a non cancellare, visto che è il gesto più naturale del<br />
mondo? È come dire che non devi bere acqua.<br />
m.m.<br />
Parliamo ancora della poesia visiva. Tu hai fatto un discorso di<br />
comunicazione e in qualche maniera anche di unità, di sintesi<br />
tra le discipline linguistiche, in nome di una comunicazione in<br />
fondo più semplice. Quasi popolare. Hai usato tu questo termine.<br />
e.i.<br />
Perché io non me ne vergognavo. Ero convinto che<br />
la cancellatura dovesse essere un gesto popolarissimo,<br />
visto che tutti sono in grado di eseguirlo. È chiaro che<br />
estremizzo, parlo per paradosso: praticarla bene la<br />
cancellatura è difficilissimo.<br />
m.m.<br />
In tutti i tuoi lavori c’era un aspetto volutamente popolare:<br />
nella poesia visiva ritagliare pezzi di giornale…non solo tu. Più<br />
da parte di altri che da parte tua.<br />
e.i.<br />
La mia poesia visiva più tipica è la Jacqueline.<br />
In effetti qui c’è stato un equivoco. Io mi staccai subito<br />
dalla poesia visiva, benché, se guardi i giornali, per circa<br />
dieci anni ero io la poesia visiva. Fui io a portare avanti<br />
il discorso, perché in effetti alcuni si vergognavano<br />
di diventare pittori, ci tenevano molto ad essere degli<br />
scrittori. Per gli italiani poi c’è un pregiudizio…<br />
m.m.<br />
Perché la parola scritta sembra fare aggio sull’immagine…<br />
e.i.<br />
La parola produce ideologia.<br />
Allora io presi le distanze da loro. Presi anche le distanze<br />
dalla poesia concreta. La definizione di arte generale<br />
della parola era mia, non era mai esistita. Come prima,<br />
che non si era mai parlato di cancellatura nell’arte del<br />
Novecento: fino a quel momento li non se ne era mai<br />
parlato.<br />
m.m.<br />
Magari qualcuno l’aveva fatto, ma…<br />
e.i.<br />
…Non se ne era neppure accorto. Comunque non<br />
esisteva. Non se ne era davvero mai parlato. La mia
creatività è la mia cancellatura. Per molti anni mi portai<br />
questo peso. Per me la poesia visiva era Jacqueline. Tanto è<br />
vero che la chiamavano Poesia Jaqueline, o Poesia Volkswagen.<br />
m.m.<br />
Era quello che genericamente si pensava meno come poesia.<br />
Perché non c’era la poesia.<br />
e.i.<br />
Meno male che l’ho fatta. Almeno era diversa, per<br />
esempio dalle tematiche tecnologiche di Firenze. Loro<br />
facevano i collages, io il collage non lo volevo, perché<br />
non accettavo l’ancoraggio alla Pop. Io volevo fare<br />
qualcosa diverso dalla Pop.<br />
m.m.<br />
Ma mentre in Jacqueline questo è evidente, nella Volkswagen meno.<br />
e.i.<br />
È evidente nel fatto che formalmente c’è il bianco,<br />
il nero, non c’è nessun colore. Il testo e l’immagine<br />
interagiscono. Non è una cosa pop, ma certamente è più<br />
legata a quel tipo di immaginario. La Jacqueline no.<br />
La Volkswagen è del ’64, la Jacqueline del ’65: Non c’era<br />
stato Kosuth, non c’era stato niente. Quei titoli di<br />
giornale sono anche loro ‘64/’65. Le cancellature sono<br />
anche loro del ’64…<br />
Il mio destino fu veramente curioso. Ero nato per fare<br />
un’arte popolare, odiando tutti gli artisti aristocratici, o<br />
che avevano pretese di aristocraticità. Non ho mai voluto<br />
essere un’artista per pochi. Però è andata così, e adesso<br />
ci ho preso gusto. Il mio destino era questo. Speriamo<br />
che non succeda fino in fondo perché a questo punto<br />
non ho più l’età. Ma hai capito qual è il paradosso? Io<br />
non ho mai cercato di essere Emilio <strong>Isgrò</strong>.<br />
m.m.<br />
È il problema della comunicazione: hai sempre detto che non<br />
volevi fare la Pop, che avevi visto il pericolo della Pop…<br />
e.i.<br />
Ho vissuto gli anni Sessanta e Settanta. Adesso si lamentano<br />
tutti dell’invasione mediatica americana. Io vedevo schiere<br />
di artisti imbecilli che marciavano con il passo dell’oca.<br />
m.m.<br />
Però questo appello estremo alla comunicazione non<br />
assomiglia un po’ anche a questa specie di immediatezza della<br />
comunicazione che la Pop metteva in atto?<br />
34<br />
e.i.<br />
In un primo momento ho accettato la comunicazione e i<br />
problemi ad essa connessi così come venivano evidenziati<br />
dalla Pop, poi mi son reso conto col tempo che il mio<br />
discorso era diverso. Insomma mi sono trasformato in un<br />
artista aristocratico, senza volerlo essere.<br />
m.m.<br />
Si potrebbe dire che tu fai un discorso sulla comunicazione,<br />
mentre la Pop fa un discorso di comunicazione.<br />
e.i.<br />
Loro fanno un discorso di comunicazione, io ho fatto un<br />
discorso per una comunicazione più alta.<br />
m.m.<br />
Di fatto per fare questo bisogna svelare i meccanismi del<br />
linguaggio. Cosa che invece la Pop assolutamente non faceva.<br />
Però il problema è che la comunicazione rimane la base di tutto.<br />
Una comunicazione in fondo globale, e la tua vuole esserlo.<br />
e.i.<br />
La Pop faceva comunicazione gareggiando con la società<br />
mediatica. Io non gareggio con la società mediatica.<br />
m.m.<br />
Torniamo sulla tuo volontà di essere popolare e di sfuggire<br />
all’aristocraticismo…<br />
e.i.<br />
Il mio modo di fare arte doveva comunque essere<br />
passibile di una divulgazione ampia. Però, da buon<br />
europeo, non ho mai abbandonato l’idea che essa<br />
doveva crescere con me. Anche con e attraverso la mia<br />
formazione politica.<br />
m.m.<br />
A 27/28 anni, cioè nel 1964-65 la tua formazione politica era<br />
già sviluppata?<br />
e.i.<br />
Si. Avevo una posizione politica. Lavoravo al Gazzettino<br />
che era un giornale non certo conservatore. Ero<br />
considerato comunista, senza esserlo poi. Non sono mai<br />
stato iscritto al PCI, ma ero considerato una specie di<br />
sovversivo. Poi avevo un amico di Trieste, che abitava<br />
vicino a Venezia, un poeta ebreo triestino, che mi fece<br />
leggere Marx, mostrandomene anche i limiti. Però<br />
diciamo che sono sempre stato quello che col tempo
si sarebbe definito un liberal. Un liberal chiaramente<br />
non attivissimo sul piano politico, ma sufficientemente<br />
attento anche alla polemica e al piano culturale.<br />
La verità è questa: io pensavo di fare la rivoluzione con<br />
l’arte. Allora era lecito questo. Questo volevo fare con la<br />
cancellatura. Ora non è più lecito.<br />
m.m.<br />
In quegli anni c’erano per esempio l’Arte Cinetica e l’Arte<br />
Programmata, che per risolvere quello stesso problema, cioè fare<br />
la rivoluzione attraverso l’arte, oppure attraverso il design...<br />
proponevano l’arte per tutti, moltiplicata, numericamente per tutti.<br />
La moltiplicazione degli oggetti, il multiplo su scala industriale.<br />
e.i.<br />
Io non ci sono mai arrivato a questo. Neppure nel tempo<br />
del mio trimestrale rapporto con la mia officina. Non<br />
ci ho mai creduto fino in fondo. Ho pensato a un’arte<br />
potenzialmente per molti, non sono mai stato per<br />
un’arte che esclude.<br />
m.m.<br />
Questo in realtà non voleva escludere. Diceva “mettiamo<br />
un’opera d’arte moltiplicata in ogni casa”.<br />
e.i.<br />
Non sono mai arrivato a quelle cose li, ma a un certo<br />
punto ho commesso l’errore di pensare che potesse<br />
essere così.<br />
m.m.<br />
…La provocazione di Beuys “la rivoluzione siamo noi”?<br />
e.i.<br />
Ma si! Tutto questo a volte lo dicevo persino io, però<br />
i miei comportamenti a livello creativo non sono stati<br />
sempre vistosamente conseguenti rispetto a questo piano<br />
di intenti.<br />
Alla fine chi mi aveva accusato di eccessi di aristocraticità<br />
non aveva in fondo tutti i torti. Io mi incavolavo molto.<br />
C’erano certi artisti bravissimi che a volte mi davano<br />
fastidio perché venivano considerati troppo aristocratici.<br />
E io ero felice di non esserlo. Ma c’è stato un equivoco da<br />
parte mia: io pensavo che la finta ovvietà, e il finto modo<br />
nel quale io mi adoperavo, dovessero funzionare. Giocavo<br />
con la comunicazione in questo senso. Andy Warhol ti<br />
“mostra” la Campbell, ti “mostra” la Jacqueline, io no.<br />
Allora è più potente il meccanismo di far vedere le cose o<br />
di non farle vedere? Si tratta di due retoriche diverse.<br />
35<br />
m.m.<br />
Sono due retoriche diverse di cui però una è più facilmente<br />
divulgabile, fa leva su determinate caratteristiche visive, emotive,<br />
dall’altra parte ci sono caratteristiche mentali più mediate.<br />
e.i.<br />
Ma se tu pensi alla pubblicità, le cancellature hanno fatto<br />
poi la pubblicità, come è avvenuto per l’enciclopedia<br />
Treccani cancellata.<br />
m.m.<br />
Si tratta sempre di pubblicità di alto livello,indirizzata a chi<br />
si voleva comprare la Treccani, non di chi automaticamente<br />
comprava la Campbell al supermercato… Comunque, nel ‘64/’65<br />
eri già dentro il sistema dell’arte? Come lo vedevi? Com’era?<br />
e.i.<br />
L’ho visto per molto tempo considerandomi un poeta,<br />
anche quando già era evidente che non ero più soltanto<br />
un poeta nel senso tradizionale del termine. Io nel<br />
sistema dell’arte c’ero già in pieno. Quando poi ci<br />
fu l’avvento dell’arte concettuale è chiaro che le mie<br />
premesse furono confermate, al di la delle polemiche<br />
che si sono fatte da una parte e dall’altra. Però c’era una<br />
cosa che mi divideva profondamente dagli artisti e dalle<br />
gallerie d’arte: io non sapevo neppure che il lavoro di un<br />
artista si potesse vendere.<br />
m.m.<br />
…la purezza dell’arte? Non ti ci vedo.<br />
e.i.<br />
Non perché ero buono, perché non ci pensavo.<br />
m.m.<br />
Se però conoscevi Fontana, sapevi anche che le opere si<br />
vendevano, eccome!<br />
e.i.<br />
Ma io no. Poi mi comprarono le prime cose Schwarz e<br />
Peppino Palazzoli. Per la Treccani cancellata Schwarz<br />
volle l’esclusiva per tutto il mondo. Però non avevo<br />
quella mentalità. Non avevo bisogno di soldi per vivere,<br />
perché facevo il giornalista: per molti anni - fino al<br />
1970/ 71 – sono stato giornalista professionista, e i<br />
giornalisti guadagnavano abbastanza bene. Tutti i<br />
soldi che guadagnavo li spendevo per le mie opere. A<br />
un certo punto ho venduto le mie opere a Palazzoli<br />
perché cominciavo a capire che le gallerie erano utili,
potevo fare le mostre. Contemporaneamente percepivo<br />
una forte voglia di fare quello che allora si chiamava<br />
l’impegno politico, ma non nell’accezione in cui dicevi<br />
prima, a proposito dell’impegno dell’arte programmata<br />
a risolvere i problemi di un mondo percettivamente<br />
migliore.<br />
m.m.<br />
Lì l’impegno politico si è risolto in una specie di fallimento: il<br />
connubio arte/industria non ha funzionato, allora si è deciso<br />
di fare la rivoluzione. Il tuo problema era il circuito mentalità/<br />
percezione del mondo/arte, che avrebbe fatto scattare un diverso<br />
concetto del mondo. Anche questo non ha funzionato.<br />
e.i.<br />
…E quando la cosa non ha funzionato non è che mi<br />
sono coperto il capo di cenere.<br />
Torino, 1973.<br />
La mostra Arte Italiana alla Galleria d’Arte Moderna:<br />
un grande libro cancellato e altre opere di <strong>Isgrò</strong> alle pareti.<br />
(Courtesy Galleria d’Arte Moderna, Torino)<br />
m.m.<br />
Cioè non hai fatto autocritica, come si diceva allora, e non hai<br />
smesso di fare l’artista, come qualcuno – pochi, per la verità –<br />
ha fatto.<br />
e.i.<br />
Ho continuato perché ero convinto che l’arte si basasse<br />
su tempi lunghi. Poi sono rimasto conservatore: l’artista<br />
deve essere solo, nella sua cameretta, deve frequentare<br />
certi ambienti il meno possibile.<br />
36<br />
m.m.<br />
Vorrei che in questa parte della nostra chiacchierata parlassimo<br />
più diffusamente di quanto abbiamo già fatto di quella che<br />
era l’atmosfera a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta:<br />
non l’atmosfera politica, di cui abbiamo anche parlato, ma<br />
l’atmosfera per così dire linguistica, quella con cui ti sei<br />
misurato…le persone che sentivi più vicine, le esperienze che<br />
sentivi più stimolanti come confronto.<br />
e.i.<br />
Evidentemente il clima prevalente era quello delle<br />
neoavanguardie più o meno istituzionali, più o meno<br />
istituzionalizzate. Il clima prevalente era quello del<br />
<strong>Gruppo</strong> 63, che fu una avanguardia eminentemente<br />
letteraria, ma che trasborda anche nelle arti visive.<br />
Attorno al <strong>Gruppo</strong> 63 c’erano delle avanguardie<br />
magari meno conosciute, ma ugualmente agguerrite,<br />
come il <strong>Gruppo</strong> 70 di Firenze. Ti sto parlando del<br />
Napoli, 1974.<br />
Telex, libri cancellati,<br />
carte fotografiche e poesie visive<br />
alla Galleria Lia Rumma.<br />
(Courtesy Lia Rumma)<br />
Pagina a fianco:<br />
La ‘q’ di Hegel, 1972<br />
(Courtesy Galerie der Stats Stuttgart)<br />
‘64/’66. È in quel clima che nasce un’esperienza come<br />
la poesia visiva. Gli incontri, poi, erano abbastanza<br />
casuali. Ad esempio, in quel periodo, quando facevo<br />
le prime poesie visive, ero amico di Adriano Spatola,<br />
che faceva una poesia un po’ concretista, un po’ post<br />
surrealista. Spatola lavorava per l’editore San Pietro<br />
di Bologna. Quando gli feci vedere i Titoli di giornale,<br />
lui mi disse di fare un libro e di farlo pubblicare<br />
da San Pietro. La parola poesia visiva già circolava<br />
nell’aria, ma molti ancora la confondevano con la
Enzo Paci. Nota per <strong>Isgrò</strong> in catalogo della mostra Antologica,<br />
Università degli Studi di Parma-CSAC,<br />
Scuderie della Pilotta, Parma, 1976<br />
(manoscritto originale)<br />
poesia concreta. C’era un po’ di confusione. Anche<br />
se i concreti erano contro il collage novecentesco e<br />
facevano eccezione per me. Ognuno agiva per conto<br />
propri. Non c’era un gruppo. C’era il gruppo ’70,<br />
gli <strong>Isgrò</strong>, Ketty la Rocca, che poi fu scomunicata dal<br />
<strong>Gruppo</strong> ’70 perché era troppo vicina alle mie posizioni.<br />
Io naturalmente volevo smantellare l’idea del collage<br />
novecentesco perché mi sembrava troppo vicino alla<br />
pop, pur ammirandone certe cose. Capivo che il mio<br />
linguaggio doveva essere distante dal loro. Ancora<br />
a quel tempo c’era l’idea che in qualche modo la<br />
singolarità di un’artista consisteva anche nella capacità<br />
di formulare certi discorsi in anticipo sugli altri. A volte<br />
era un po’ fasullo, altre vote era necessario. Dunque<br />
in quell’occasione, tramite San Pietro, conoscemmo<br />
Pignotti, che mi venne a cercare a Venezia con Miccini.<br />
38<br />
Voleva che entrassi nel gruppo ’70. In effetti partecipai<br />
a un paio di manifestazioni.<br />
Il clima era anche quello del Pop Art americana che<br />
si travasava in Europa, e che incominciava ad essere<br />
conosciuta anche dagli europei. In Italia specialmente<br />
emerge la Scuola Romana con personaggi come<br />
Schifano, Angeli…c’era un grande fervore sperimentale:<br />
non importava tanto di che cosa parlavi, anche se per un<br />
movimento come la Pop questo contava. Poteva anche<br />
essere un’analisi sociologica della società.<br />
m.m.<br />
Questo per quanto riguarda il versante europeo, o comunque<br />
italiano della Pop, che secondo me è stato travisato perché la Pop<br />
americana non aveva nessun aspetto di denuncia sociale. Era<br />
la definizione di quello che c’era, l’ostensione dell’esistente.
e.i.<br />
Questo è un interrogativo aperto. E l’interrogativo è<br />
questo: se l’apprendista stregone alla fine non ci lascia<br />
le penne.<br />
Cosa voglio dire: la società americana, l’artista<br />
americano e l’opera, hanno lasciato all’epoca un grosso<br />
punto interrogativo, non ci hanno mai detto fino in<br />
fondo, e forse come artisti non potevamo pretendere<br />
che loro ce lo dicessero, se volevano cantare le lodi<br />
del supermercato, o in qualche modo denunciarne la<br />
valenza omologante.<br />
Milano, 1977.<br />
A un vernissage con il critico Pierre Réstany.<br />
(Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong>)<br />
m.m.<br />
C’era anche la terza via. Vale a dire l’indicazione del “esiste<br />
il supermercato”. Non schierarsi né a favore, nell’esaltazione,<br />
né nella denuncia. Una semplice constatazione di realtà. Un<br />
condensato di realtà.<br />
e.i.<br />
Non c’è dubbio che per me suonano più opere di<br />
denuncia. Io trovo che Pollock denunci di più di Warhol.<br />
Ma se lo vado a dire in giro mi ammazzano. Trovo che sia<br />
molto più eversivo Rothko di Rauschenberg. Credo che<br />
quello fu il tentativo di dare distacco alla vecchia Europa<br />
che evidentemente era in crisi: avendo gli americani vinto<br />
la seconda guerra mondiale, volevano tentare anche<br />
nuove strade dell’arte. Niente di strano, tutte le potenze<br />
lo fanno. Domani sarà la Cina, dopodomani l’India.<br />
m.m.<br />
Da quello che mi hai appena detto ci sono due aspetti che<br />
39<br />
Milano, 1979.<br />
L’installazione Chopin, partitura per 15 pianoforti,<br />
alla Rotonda di Via Besana.<br />
(Foto Antonia Mulas)<br />
emergono chiaramente dalle tue frasi: il primo è la tua<br />
derivazione eminentemente letteraria, molto accentuata se si<br />
pensa al territorio linguistico e di sistema dove si è sviluppato<br />
poi il tuo lavoro. E questa è la prima cosa…<br />
e.i.<br />
Sì, ma è una tendenza, tendo a precisare subito, che<br />
è insita nelle avanguardie del Novecento, perché in<br />
fondo le grandi rivoluzioni artistiche cominciarono<br />
con personaggi che si chiamavano Marinetti,<br />
letterato, Breton, letterato… Senza Marinetti non<br />
sarebbero esistiti né Balla, né Depero, né Boccioni<br />
probabilmente, sono i letterati che danno l’input.<br />
Il cubismo viene buona parte definito almeno<br />
criticamente da un personaggio come Apollinaire. I<br />
letterati sono stati molto presenti, e se poi pensi anche<br />
a Breton, o Tristan Tzara, dove l’arte alla fine diventa<br />
scrittura, dove, dopo un lungo transito, ci si accosta a
Milano, 1984.<br />
L’artista nel suo studio mentre lavora all’installazione multimediale<br />
La veglia di Bach su commisione del Teatro alla Scala.<br />
Courtesy Teatro alla Scala<br />
Milano, 1985.<br />
Un’immagine dell’installazione La veglia di Bach<br />
con il tipico manifesto scaligero all’ingresso.<br />
Courtesy Teatro alla Scala<br />
un’esperienza nuova… L’arte concettuale nasce tutto<br />
sommato da quello, dall’attitudine a considerare la<br />
pittura anche scrittura. Ritengo che l’arte concettuale<br />
abbia creato un gusto per la verbalità nel quadro,<br />
l’abbia rafforzato.<br />
m.m.<br />
Il secondo elemento è appunto il tuo concetto di eversione<br />
linguistica. Quando tu dici “Pollock denuncia molto di più, ed<br />
40<br />
è più eversivo di Andy Warhol “, è perché cerca un linguaggio<br />
nuovo, mentre Warhol no. Magari cerca un soggetto nuovo,<br />
mentre gli altri cercano un linguaggio nuovo…<br />
e.i.<br />
…E lo trovano sostanzialmente proprio con<br />
quello stesso procedimento di ingrandimento che<br />
apparentemente è una prerogativa della Pop. Si<br />
potrebbe dire che l’Informale americano di quel<br />
periodo è una dilatazione di un certo Informale<br />
europeo. Però l’arte americana, fino a quando è una<br />
costola della grande arte occidentale (non dico dell’arte<br />
europea, ché sarebbe capzioso e riduttivo), è un’arte<br />
che interessa. Diventa meno interessante quando<br />
diventa troppo locale, troppo americana, allora perde<br />
stimoli, anche se è chiaro che non possiamo non dare<br />
peso al pragmatismo che si manifesta con la Pop Art,<br />
alla voglia di dire magari cose ovvie, alla voglia di dire<br />
la “caduta”, per cui arrivo anche a capire il desiderio<br />
di mercantilizzare certi prodotti: non c’è dubbio infatti<br />
che c’è una stretta alleanza tra mercato e cultura in quel<br />
caso. Ma questo era accaduto anche nella Francia di<br />
Picasso e di Braque.<br />
m.m.<br />
Non si sfugge a questa deriva mercantile, e alla fine non vedo<br />
neppure perché vi si dovrebbe sfuggire ...<br />
e.i.<br />
La realtà è quella che è. Basta guardarla in faccia e<br />
sapere. Poi è chiaro che ci sono delle forme ideologiche<br />
che nella vecchia Europa erano appunto ancorate a<br />
una visione marxistico rivoluzionaria, chiamiamola così,<br />
nei confronti della realtà. Differentemente, negli Stati<br />
Uniti dalla Pop Art in poi, fino alla Minimal e poi su fino<br />
alla Conceptual Art, abbiamo un’arte sostanzialmente<br />
ancorata a un positivismo logico viennese che, attraverso<br />
l’Inghilterra, aveva varcato l’Oceano. La Pop è stata<br />
a Londra per un certo periodo della sua vita. Ripeto,<br />
chiamare le cose con il loro nome è sempre un pregio,<br />
però diventa poco pregevole l’indifferenza dei discorsi<br />
veicolati. Cosa voglio dire: finché c’è un margine di<br />
ambiguità la Campbell dipinta è diversa da quella che<br />
vedo al supermercato, e l’opera di Andy Warhol mi<br />
interessa. Quando cade questo margine che attiene<br />
anche alla stessa capacità di informare esteticamente -<br />
basta guardare le teorie informazionali di quegli anni<br />
che andavano per la maggiore -, allora io comincio ad<br />
essere indifferente anche alla Pop Art.
Perché se uno fa l’apprendista stregone, a forza di<br />
mimare i processi del supermercato ci cade dentro.<br />
Non voglio fare un discorso moralistico. È una mia<br />
sensazione. Ma era fatale arrivare a Jeff Koons.<br />
Con questo non nego che Andy Warhol sia stato<br />
sicuramente un artista importante come lo è stato<br />
Rauschenberg. Tuttavia, ho molti amici che si sono<br />
abbeverati alle fonti di quest’arte e che si lamentano del<br />
successo che ha un’artista come Jeff Koons: in questo<br />
frangente è proprio il caso di dire”chi la fa l’apetti”.<br />
Ma l’arte è anche pendolarità di opinioni. Divergenza<br />
di opinioni. Per quanto io veda i limiti del modello<br />
americano, non posso non riconoscerne l’importanza.<br />
Ciononostante, non vedo perché gli americani debbano<br />
essere la guida delle arti nel mondo, visto che ormai<br />
hanno perso lo slancio che hanno avuto fino al ‘64 /‘65.<br />
(ti prego, però, queste affermazioni maneggiamole<br />
con prudenza estrema, che sennò sembra che faccia<br />
l’antiamericano…).<br />
41<br />
m.m.<br />
Torniamo a te. Abbiamo già parlato della poesia visiva, da<br />
cui tu in qualche maniera ti stacchi. Mi pare che il tuo modo<br />
di agire, se vogliamo definirlo in qualche maniera, sia più<br />
riferito all’arte concettuale. Ma chi erano i tuoi interlocutori?<br />
Ad esempio, ti sei confrontato, scontrato, affrontato con<br />
persone, movimenti…? Erano ad esempio gli anni dell’Arte<br />
Povera…<br />
e.i.<br />
Diciamo che l’Arte Povera comincia due anni dopo le<br />
mie prime mosse in pubblico.<br />
La mia Volkswagen è del ’64, ma appare pubblicata<br />
nel ‘65. Le mie cancellature sono più o meno del ‘64<br />
/’65. L’Arte Povera fa la sua comparsa nel ‘67. Quindi<br />
eravamo quasi coevi. E io personalmente non sono mai<br />
minimamente entrato in conflitto con l’Arte Povera.<br />
Mi è sempre sembrato un fenomeno da guardare con<br />
interesse.
È ovvio che guardai con interesse ancora più vivo l’arte<br />
concettuale, perché vi ritrovavo gli elementi che io<br />
stesso avevo attraversato con opere come Jacqueline.<br />
L’usare la dematerializzazione assoluta - pensa alle mie<br />
carte fotografiche -, dove praticamente la definizione<br />
sostituisce l’oggetto! ...non ci vuole un manuale di<br />
semiologia per capire questo, basta una cultura anche<br />
media!<br />
Quindi vidi nell’arte concettuale una conferma<br />
dei miei interessi. Purtroppo però lo scivolare nel<br />
tautologismo di alcuni artisti concettuali l’ ho vissuto<br />
come una presa di distanza dalla possibilità di<br />
intervenire sui fatti del mondo, dicendola volgarmente.<br />
Ora è chiaro che l’artista non nomina i governi, che<br />
l’arte non cambia la società, ma nessun artista della<br />
mia epoca si augurava che questo fosse vero. In fondo,<br />
Comune, 1983<br />
cm 68x51 acrilico su libro in box di legno e plexiglass.<br />
Collezione privata, Sondrio<br />
che l’arte fosse impotente non è che ci bloccava<br />
molto, anche se io dicevo qualche volta “ si l’arte<br />
non può niente, chi se ne frega, chi se ne infischia..”.<br />
Però era più un esorcismo, che una realtà. Mentre<br />
un‘arte con presunzione di autosufficienza totale<br />
quale stava diventando l’arte concettuale, è quella che<br />
paradossalmente aprirà le porte alla gestione dell’arte<br />
come puro fatto finanziario e mercantilistico, perché se<br />
l’arte non può niente neppure Koons può niente. Tutto<br />
è innocuo, o nocivo.<br />
42<br />
Credo che adesso siamo ancora in una posizione<br />
concettuale di questo tipo. Anche i Young British<br />
Artists sono ancora in una ideologia perfettamente<br />
concettuale. Quella fine della storia che l’America<br />
non è più riuscita ad imporre alle potenze come la<br />
Cina e l’India, le ha imposte sul piano dell’ideologia<br />
artistica.<br />
m.m.<br />
La fine della storia non è riuscita a imporla magari perché<br />
qualcuno ha sequestrato degli aerei ed è andato addosso a due<br />
torri: accanto alla tragedia, è anche il segnale che il mondo non<br />
può essere gestito da un solo potere e che la storia esiste.<br />
e.i.<br />
Però è chiaro che sul piano dell’arte impera<br />
Il verme, un volume tratto dal ciclo “Guglielmo Tell”<br />
presentato nel 1993 alla XLV Biennale di Venezia.<br />
(Courtesy Kunstmuseum Bonn, Bonn)<br />
un’ideologia americana. Oggi un’artista cinese non è<br />
meno americano di un artista che vive a NY.<br />
m.m.<br />
Da queste affermazioni emerge un fatto: in fondo tu pensi e<br />
auspichi che l’arte debba prendere altre posizioni: la posizione<br />
dell’arte dovrebbe essere dunque quella della consapevolezza<br />
di non nominare i governi, ma d’altro canto anche della<br />
consapevolezza che qualcosa possa essere cambiato, o per lo meno<br />
che si debba lavorare per quello.
e.i.<br />
Io negli anni che tu hai menzionato sono stato uno dei<br />
prototipi, diciamo, del modello dell’artista impegnato,<br />
te lo ricordi bene, per le mie opere. Tanto è vero Marco<br />
Bazzini ,pensando alla mia mostra al Museo Pecci di<br />
Prato, voleva presentarmi come l’artista del ’68. io<br />
però non ho voluto. Non ho voluto perché sarebbe<br />
stato mettermi una camicia di forza. E poi non era del<br />
tutto vero perché il ‘68 ha dei lati che ancora vanno<br />
ridiscussi, esplorati, quindi chiudermi in una cifra non<br />
mi andava. Non ho mai creduto che il mondo potesse<br />
essere cambiato dall’arte, o dall’oggi al domani, però<br />
mi sono sempre comportato come se potesse essere<br />
cambiato e se il mutamento fosse un fatto biofisiologico.<br />
Cioè, ho sempre avuto un sano scetticismo unito a<br />
una sana voglia di godermi i frutti quanto meno di<br />
un’utopia possibile. Non mi sono mai fatto illusioni,<br />
questo no, sono troppo lucido da questo punto di vista,<br />
ma non mi sono mai comportato con l’idea che l’arte<br />
dovesse per forza stare al suo posto, per non uscire<br />
di casa e buscarsi il raffreddore. L’amore per i grandi<br />
rivolgimenti, essendo nato in un’area politicamente e<br />
culturalmente progressista, era sempre presente in me:<br />
il primo libro che lessi arrivato a Milano fu di Trotzsky.<br />
Tutti pensavano che io fossi trotskysta. Non lo ero. Ma,<br />
come il rivoluzionario russo concepiva una rivoluzione<br />
sociale permanente, anch’io concepivo l’arte come una<br />
rivoluzione permanente, e il mio modello ispiratore<br />
sotterraneo era Picasso. Più di Duchamp. Anche se senza<br />
di lui sicuramente alcune esperienze non sarebbero<br />
Rettangolo forsennato, 1987<br />
cm 63x88 tecnica mista su alluminio.<br />
Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong><br />
43<br />
Venezia,1993.<br />
Le attrici Francesca Benedetti e Anna Nogara<br />
recitano la Preghiera ecumenica per la salvezza<br />
dell’arte e della cultura scritta dall’artista<br />
per l’inaugurazione della XLV.<br />
Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong><br />
neppure esistite. Quando ho fatto le Storie Rosse davvero<br />
pensavo di fare la rivoluzione. Ma il linguaggio mi ha<br />
tradito, per fortuna.<br />
m.m.<br />
Ma quelle opere come le Storie Rosse e le Storie Gialle allora<br />
avevano un certo significato. L’aspetto ironico che c’era dietro a<br />
queste opere lo vedevi di più allora, o di meno? Lo inserivi?<br />
e.i.<br />
Nel mio caso quella che tu chiami ironia è sempre<br />
preterintenzionale. Nel senso che io l’ironia la esercito<br />
mio malgrado. È il linguaggio che mi salva, che mi<br />
tradisce. Voglio sempre dire delle cose serie.<br />
m.m.<br />
In questo senso tu hai un’enorme fiducia nel linguaggio<br />
dell’arte.<br />
e.i.<br />
Assoluta. Ed è per questo che ho dei dubbi, perché<br />
il modo di agire che ha l’arte è quello di incidere sul
linguaggio. Quando non incide più sul linguaggio, -<br />
perché oggi, parliamoci chiaro, assistiamo a un’arte<br />
puramente mimetica, siamo tornando alla mimesis -, non<br />
è più interessante: al contrario, io vengo da una scuola,<br />
che credo bisognerebbe ristudiare, dove è il modo che<br />
conta, non la cosa. La cosa viene dopo.<br />
Non credo nella fiducia assoluta che le avanguardie<br />
hanno nel mutamento, come non credevo, come<br />
nessuno crederebbe oggi, per fare un traslato politico,<br />
in un comunismo o socialismo assoluto, che cambia il<br />
mondo, ma certamente il bisogno di novità è un bisogno<br />
fisiologico, non è un bisogno ideologico, e semmai il<br />
limite delle avanguardie di allora è stato quello di averlo<br />
fatto diventare un fenomeno ideologico. Il decennio di<br />
mutamento non finisce con la fine delle avanguardie, è<br />
connaturato all’uomo, come il bisogno di giustizia non<br />
finisce col crollo delle utopie comuniste o socialiste.<br />
m.m.<br />
Non c’è una contraddizione con la frase che hai appena detto,<br />
per cui ciò che importa in arte “non è il cosa, ma è il modo”,<br />
cioè il come si affrontano i problemi?<br />
e.i.<br />
Sono le teorie dei formalisti che possono tornare<br />
utili ancora oggi, mentre il “come” si riduce allo<br />
straniamento duchampiano, che alla fine è ben poca<br />
cosa. Al contrario di quanto avevano fatto allora, adesso<br />
prima di decontestualizzare bisogna contestualizzare, è il<br />
contesto dell’ arte che manca, cioè il contesto culturale.<br />
Perché il contesto dell’arte oggi è puramente finanziario.<br />
m.m.<br />
Questo era appunto quello a cui volevo arrivare. Questa<br />
affermazione, non corretta da ulteriori affermazioni, quelle che<br />
stai facendo tu adesso, potrebbe portare effettivamente all’aspetto<br />
tautologico dell’arte concettuale.<br />
e.i.<br />
No. Tu hai ragione nel pormi questo dubbio. Io ho<br />
cercato di evitare sia il rischio della tautologia, sia il<br />
rischio di un impegno che fosse pura sudditanza verso<br />
ideologie di tipo politico o mercatista, come si dice con<br />
un neologismo.<br />
m.m.<br />
Come si fa a fare questo? Se da una parte c’è una specie<br />
di tautologia, un punto d’arrivo per molti (non è soltanto<br />
Kosuth, ma Sol Lewitt ecc…), far sì che la parola rimanga<br />
44<br />
nella sua assoluta immunità, e nella sua assolutezza,quasi<br />
un Minimalismo della parola, mentre dall’altra rimane il<br />
mondo, la “cosa”, come si fa a non essere presi dalle regole<br />
del linguaggio, oppure a non essere catturati totalmente<br />
dall’osservazione della realtà? È una questione di equilibrio,<br />
ovviamente.<br />
e.i.<br />
Hai detto bene. È una questione di equilibrio, di<br />
sistema nervoso dell’artista, anche di intelligenza degli<br />
interlocutori, e di contesto sociale. Il gioco dell’arte<br />
è sempre un gioco di intelligenze. Quando io ero<br />
più giovane me la prendevo coi critici, come tutti gli<br />
artisti della mia generazione. Poi sono stato il primo<br />
a capire che la critica è importante. Me la prendevo<br />
per il mercato, per una questione di stile, perché la<br />
nostra era una posizione ideologica. Ma me la prendevo<br />
relativamente perché avevo avuto mercanti come<br />
Palazzoli, mercante a tutti gli effetti, era un capitalista<br />
all’antica molto amante degli artisti e dell’arte, me<br />
le faceva sparare grosse e si divertiva. L’ho capito poi<br />
retrospettivamente. Non era un benefattore, ma era un<br />
borghese intelligente, aperto.<br />
È una questione di grande equilibrio. Io ho dovuto<br />
sempre mantenermi con equilibrio. Pensa a come ho<br />
gestito la mia cancellatura. L’aspetto prevalente era<br />
quello della distruzione, anche se fin dall’inizio c’era<br />
la compresenza della ricostruzione del linguaggio.<br />
Però io l’ho gestita per quarant’anni facendo credere<br />
praticamente che l’opera che compivo sulla Treccani<br />
o sulla Divina Commedia era un’opera di devozione<br />
quasi mariana rispetto al linguaggio. Ma un conto è<br />
un’ambiguità che si mantiene all’interno dello stesso<br />
linguaggio e che si legge poi nel contesto sociale, un<br />
conto è sorridere e non dire niente.<br />
m.m.<br />
Dunque si potrebbe dire che è la capacità intuitiva, e non solo<br />
questa, che hai avuto nella cancellatura per com-prendere, per<br />
prendere dentro e trattenere a lungo la tua azione linguistica,<br />
la tua poetica. Hai scelto un luogo ambiguo, con un’ambiguità<br />
linguisticamente duratura.<br />
e.i.<br />
Un luogo ambiguo che oggettivamente si presenta ad<br />
un lettore. Ma non è un’ambiguità di tipo sociologico, è<br />
un’ambiguità di tipo estetico. Quindi agisco all’interno<br />
del linguaggio, ma sapendo che dietro al linguaggio<br />
c’è il mondo. Agire sul mondo direttamente, come
pretendevano molti artisti, che pensavano che per aver<br />
fatto un’opera il giorno dopo sarebbe scoppiata una<br />
nuova Rivoluzione Francese, non mi è mai appartenuto.<br />
Tanto è vero che sono sempre stato un uomo tutto<br />
sommato prudente. Come artista. Anche se ho fatto delle<br />
innovazioni, o almeno così le considero, che esigevano<br />
un certo coraggio. Ma sono sempre stato un uomo molto<br />
cauto. Tu guarda il percorso del mio lavoro. Ho una cosa<br />
e ne inseguo un’altra con conseguenza assoluta.<br />
Ti dirò di più. Quella rivoluzione permanente che molti<br />
predicavano al tempo delle barricate sessantottesche,<br />
che non era possibile nell’azione politica, era possibile<br />
però nel mondo dell’arte, come specchio di una<br />
realtà mutevole. Quindi come rappresentazione. Lì si<br />
che andava bene. Picasso ce ne aveva dato un grande<br />
esempio. Per questo io mi sono sempre nutrito di una<br />
certa struttura, di certi modi linguistici che venivano<br />
dalle grandi lezioni delle avanguardie. Però ho sempre<br />
considerato il grande Picasso capace di resistere al<br />
mercato attraverso l’aiuto del mercante Kahnweiler.<br />
In questo è stato superbo. Non so se Andy Warhol sia<br />
riuscito a fare altrettanto.<br />
m.m.<br />
Forse il suo scopo non era quello. Non aveva questa intenzione.<br />
Non è che uno fallisce nel suo intento o non fallisce.<br />
Probabilmente il suo scopo era un’altra faccenda. Non possiamo<br />
giudicare Warhol secondo i nostri metri.<br />
e.i.<br />
Non mi riferisco a Warhol stesso, che indubbiamente è<br />
stato un’artista di carattere. Mi riferisco ad una lettura<br />
che ne è stata data anche negli Stati Uniti. È un’altra<br />
cosa. Sono realtà divergenti, come sono divergenti gli<br />
Stati Uniti e l’Europa. Noi europei bene o male ad un<br />
certo punto siamo sempre costretti ad incrociare Kant.<br />
m.m.<br />
Tu vedi sempre tanto questa differenza tra Europa e America…<br />
e.i.<br />
Io non la vedo tanto. Me la auguro, perché la storia non<br />
finisca. Ma in parte c’è. Io lavoro contro quel modello<br />
unico.<br />
m.m.<br />
È però vero che entrambe queste cose fanno parte della cosiddetta<br />
“arte occidentale”. Quindi evidentemente una matrice comune<br />
esiste.<br />
45<br />
e.i.<br />
Certo che esiste. Il problema è questo: come gli Stati<br />
Uniti si sono intellettualmente distaccati dall’Europa,<br />
dopo avere imparato dall’Europa. Pensa a tutti gli<br />
artisti americani che vivevano a Parigi negli anni ‘20,<br />
così adesso l’Europa sarà forse costretta a distaccarsi<br />
dalla matrice americana dopo però averne imparato la<br />
lezione più importante, che è quella di una visione meno<br />
ideologica dell’arte, che noi europei abbiamo invece<br />
avuto. Non dimentichiamo infine una cosa: i movimenti<br />
sono una cosa, poi ci sono le individualità degli artisti.<br />
Cioè, ci sarà poi un’arte americana, o un’arte europea<br />
davvero? Ci sono invece degli individui artisti che ti<br />
dicono di non pensare che l’individuo conti in un’epoca<br />
in cui i grandi capitali della finanza planetaria si<br />
connotano come individui, sia pure nascosti dietro ai<br />
computer. Pensa alla figura di Bill Gates.<br />
m.m.<br />
Quindi tu hai ancora fiducia in questa idea dell’individuo?<br />
e.i.<br />
Assoluta, assoluta! Non saranno gli europei a far<br />
naufragare il mondo, o i cinesi, o gli Stati Uniti. Saranno<br />
gli individui che faranno o non faranno certe cose.<br />
m.m.<br />
Hai spesso usato, spesso si usa, e tu lo usi, il termine<br />
“ideologico” ed “ideologia” nei confronti della tua arte, della<br />
tua poetica. Dici “Ho avuto un atteggiamento ideologico, l’arte<br />
europea ha un atteggiamento più ideologico, quella americana<br />
meno ideologico”…vogliamo focalizzare questo termine e<br />
tentarne una definizione attuale?<br />
e.i.<br />
È chiaro che non ho mai avuto un atteggiamento<br />
ideologico nel mio fare arte. Basta guardare le opere e si<br />
vede che non c’è questo atteggiamento. Però certamente<br />
ho sposato in certi anni delle posizioni politiche:<br />
ero di sinistra, credevo nel mutamento. Non ero un<br />
sessantottino, però i sessantottini mi consideravano uno<br />
dei loro. Mi invitavano spesso alle sfilate e io qualche<br />
volta ci andavo pure. Mi sono ritrovato in due o tre.<br />
Certamente ho condiviso meno l’atteggiamento incline<br />
alla violenza che ad un certo punto è stato indotto da certi<br />
personaggi del ‘68, giusto o sbagliato, a ragione o torto,<br />
non lo so… Ma si è avuta questa sensazione. Io penso<br />
che l’arte è violenza allo stato puro, che annulla ogni<br />
altra violenza, cioè credo al potere catartico, aristotelico
Competition is competition, 1999. Courtesy Erica Fiorentini<br />
dell’arte. Quindi non c’è bisogno della bella morte reale,<br />
quando questa può essere ottenuta con altri mezzi. È<br />
questo che deve fare un’artista. Tu sai che la categoria<br />
dell’impegno è una categoria anche essa ambigua. Non è<br />
detto che l’impegno sia tutto a sinistra. Giovanni Gentile è<br />
stato un impegnato ed era uno di destra.<br />
m.m.<br />
Infatti ideologico non significa di fatto di sinistra.<br />
e.i.<br />
Credo che l’impegno sia più di sinistra in Italia, perché<br />
abbiamo avuto Gramsci, che del resto era uno che<br />
46<br />
leggeva benissimo Gentile. C’era una certa confusione.<br />
Non credo nell’ intellettuale organico, né durante le<br />
dittature, né nelle democrazie. Io credo che oggi ci sia<br />
un’abbondanza di intellettuali organici.<br />
m.m.<br />
Abbiamo parlato tanto degli inizi. Abbiamo toccato il momento<br />
di massima sintonia del tuo lavoro con l’intero sistema<br />
espressivo che potrebbero essere gli anni Settanta, in cui bene<br />
o male il tuo lavoro veniva assimilato a quello dell’Arte<br />
Concettuale. Gli anni Settanta sono cioè gli anni della sintonia<br />
col contesto generale dell’arte: Il lavoro individuale di Emilio<br />
<strong>Isgrò</strong> è perfettamente in sintonia con quello che è l’aspetto della
Un Libro cancellato del 1972 esposto negli anni Novanta alla Biblioteca Braidense di Milano. Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong><br />
rarefazione, della definizione, del catalogo, tutte caratteristiche<br />
dell’arte concettuale di quel decennio.<br />
e.i.<br />
Io non voglio smentire un critico, ma devo farlo. Non<br />
sono mai stato in sintonia con il concettuale, per il<br />
fatto stesso che il concettuale non era in sintonia con<br />
me. E da me tutti i concettuali prendevano le distanze,<br />
e si affannavano a dire che io non ero un concettuale.<br />
Questo perché avevo fatto le Storie Rosse, per esempio,<br />
e questa veniva considerata una stravaganza, in un<br />
ambito dove dovevano dominare il nero, il grigio e<br />
le nuances bianco su bianco. Veniva considerata una<br />
47<br />
stravaganza, quasi una follia. In effetti io ho usato il<br />
rosso, dunque il colore, un elemento di devianza. Il<br />
rosso corposo delle Storie Rosse, o il giallo qualche volta,<br />
proprio perché volevo dimostrare che non era una certa<br />
tipologia artistica che ti portava in qualche modo in<br />
ambito concettuale, ma l’uso che tu fai del linguaggio.<br />
Quindi anche nelle mie opere apparentemente colorate,<br />
il colore viene usato con una funzione puramente<br />
segnico-simbolica. Non ha un valore pittorico. È poi<br />
vero che io sono un uomo creativamente ansioso.<br />
Sapevo perfettamente che il rosso avrebbe avuto un<br />
impatto gestaltico di notevole portata, e non mi pareva<br />
vero uscire da quelle che erano le battute d’arresto
del concettuale. Adesso non voglio tornare su vecchie<br />
polemiche, siamo tutti cresciuti e non è il caso. Ma<br />
come ti ho detto il concettuale, abbassando la soglia<br />
di vigilanza della realtà umana, e accontentandosi di<br />
un’arte priva di porte e di finestre, quindi cercando<br />
la propria autosufficienza, ha abbassato la soglia di<br />
attenzione di molti critici e collezionisti, che ad un certo<br />
punto si sono abituati ad accettare tutto e il contrario<br />
di tutto in nome del concettuale. Perché tanto conta<br />
l’intenzione: ora l’intenzione processuale dell’opera,<br />
ora quella ideologica, ora le intenzioni economiche del<br />
Barcellona di Sicilia, 1998.<br />
Emilio <strong>Isgrò</strong> esamina un seme d’arancia<br />
con la lente d’ingrandimento nel giardino<br />
della sua casa siciliana.<br />
La fotografia è di Ferdinando Scianna,<br />
come l’immagine del Tir che ha trasportato<br />
il seme per tutta l’Europa.<br />
Courtesy Archivio <strong>Isgrò</strong><br />
sistema. L’opera non conta più. Conta così poco l’opera<br />
che adesso si accetta tutto. Questa soglia l’ha abbassata il<br />
concettuale. Ha aperto le porte al mercato e, non voglio<br />
essere polemico come ero negli anni Sessanta e Settanta<br />
contro gli americani (figuriamoci se uno può essere<br />
polemico con gli Stati Uniti in questo momento…), al<br />
mercato americano. Però questo ha anche aperto le<br />
porte ad un mercato nuovo, facendone le spese. Non<br />
sono per un’arte ideologizzata, politicizzata, ma un’arte<br />
autosufficiente, cioè che non si apra all’esistenza degli<br />
altri luoghi, è un’arte destinata a fallire. Destinata ad<br />
48<br />
aprire soltanto le porte al mercantilismo: questa è<br />
un’arte puramente commerciale.<br />
m.m.<br />
Così, il concettualismo che si è sempre presentato come l’antitesi<br />
del mercato sarebbe per te il grimaldello con cui il mercato è<br />
entrato da padrone nell’arte? Di più, il tuo secondo paradosso<br />
è quello per cui il concettuale in realtà avrebbe abbassato la<br />
soglia di attenzione invece di innalzare il livello di raffinatezza<br />
dell’arte?<br />
e.i.<br />
Sì, è stata l’apertura al mercato americanizzato, alla<br />
visione americana del mercato. E poi<br />
ha aperto le porte alla volgarità che è venuta dopo.<br />
Perché è esso stesso volgare, non certo concettuale, nelle<br />
sue attestazioni di autosufficienza. È banale ed è ovvio.<br />
Questo lo dico con il massimo rispetto per quegli artisti<br />
che hanno ottenuto dei risultati. Per di più, una parte<br />
del mio lavoro viene considerata concettuale, dunque<br />
posso criticare me stesso?<br />
m.m.<br />
Terzo paradosso: tu affermi che gli artisti concettuali non ti<br />
ritenevano tale perché usavi strumenti eterodossi, come il colore.<br />
Poi però aggiungi che il tuo uso del colore è un uso semantico, è<br />
un uso perfettamente cosciente di quello che avrebbe suscitato…<br />
allora non sei tu che non sei concettuale. Sono i concettuali che<br />
non hanno capito il tuo concettualismo.<br />
e.i.<br />
Allora sono i concettuali che non sono concettuali.<br />
In fondo ogni artista ha la sua storia, sono fatti ormai<br />
storicizzati. Ci sono artisti concettuali che io apprezzo<br />
moltissimo, ma qui parliamo dei movimenti…<br />
m.m.<br />
…Anche delle atmosfere. Concetto ancora più vago di movimento.<br />
e.i.<br />
Certo. Quando io cominciai, per esempio, ad agire nel<br />
mondo dell’arte, ad agire su carta fotografica, fino a quel<br />
momento mai nessuno aveva fotografato un progetto<br />
dicendo “questa è la mia opera”: arrivavo in quel modo<br />
ad una dematerializzazione perché avevo interessi<br />
diversi da quelli pittorici. Avevo interessi già concettuali.<br />
Quindi ciò che mi accomuna al concettuale è la<br />
dematerializzazione del linguaggio. Se è solo per questo<br />
io allora sono un concettuale in alcune mie opere.
m.m.<br />
Sai, Emilio, è importante pensare in prospettiva storica, perché<br />
la prospettiva storica prende gli assunti generali di infiniti<br />
episodi particolari, e con quelli e di quelli costruisce una visione<br />
del periodo, trascurando le distinzioni sottili che magari, nel<br />
momento in cui venivano, assumevano per i protagonisti<br />
caratteristiche di vita o di morte. Tralasciando i motivi<br />
personali contingenti – rivalità, passioni, concorrenza tra artisti<br />
- credo sia accaduto questo, in quegli anni: i movimenti, tra cui<br />
il concettuale, come tutte le cose in quel momento, miravano ad<br />
essere sempre più puri, cioè a raggiungere un’idea di purezza<br />
assoluta, a qualsiasi costo (come Robespierre per il quale “la<br />
virtù passa attraverso il terrore”…)<br />
e.i.<br />
Questo è vero. Infatti uno dei contestatori del<br />
concettuale, un poeta visivo, ha detto una volta: “l’arte<br />
concettuale è una forma di poesia visiva depurata,<br />
49<br />
sterilizzata”. Non so se questo è vero, ma in parte lo<br />
sforzo di qualche concettuale è stato questo. La poesia<br />
visiva tendeva a riversarsi al di fuori del proprio ambito<br />
dedicato all’opera, mentre l’arte concettuale, forse per<br />
distinguersi dalla poesia visiva, portava avanti un discorso<br />
tautologico. Verso la fine ci sono state esperienze<br />
concettuali che erano poesie visive tali e quali.<br />
m.m.<br />
Di fatto, da parte loro i concettuali avevano individuato bene<br />
le differenze tra te – e qualcuno con te, come Ketty La Rocca – e<br />
quell’idea tautologica di purezza: tu non sei tautologico, non<br />
sei autoreferenziale, e la parola e il suo uso per te è una finestra<br />
sulla realtà.<br />
e.i.<br />
È chiaro che loro da me e da altri dovevano cercare<br />
una differenza. Se non altro per il fatto che io venivo
prima di loro. Giustamente gli artisti cercavano di<br />
differenziarsi. Però c’erano delle tangenze. Con<br />
questo non voglio dire che il concettuale non sia stato<br />
un movimento interessante. Voglio soltanto dire che<br />
cosa mi differenziava da loro. A proposito di prodotti<br />
artistici apparentemente simili, per farti un esempio,<br />
io non potrei fare a meno di Mondrian però posso fare<br />
benissimo a meno di Max Bill.<br />
Uno che predica la tautologia mi è cordialmente<br />
antipatico. È un fatto di simpatia tra gli artisti. In<br />
passato io ero antipatico ai concettuali, al di la di ogni<br />
valutazione teorico-critica.<br />
L’allestimento della mostra di Emilio <strong>Isgrò</strong><br />
alla Galleria Erica Fiorentini Arte Contemporanea<br />
di Roma nel 2007<br />
m.m.<br />
Il discrimine teorico-critico viene fuori da questa elemento: il<br />
senso di purezza che uno vuole cercare di raggiungere, alla fine<br />
diventa sempre una chiusura. Al contrario, tu hai sempre usato<br />
la parola come finestra di interpretazione sul mondo.<br />
e.i.<br />
Ma anche di rilettura dell’immagine e di arricchimento<br />
della parola.<br />
m.m.<br />
Adesso parliamo di questo rapporto in funzione di quello che è il<br />
tuo lavoro attuale, a partire dagli anni Ottanta, in cui l’aspetto<br />
oggettuale, installativo, di immagine, quasi pittorico in certi casi,<br />
diventa più importante, attenuando il rigore ideologico iniziale.<br />
50<br />
e.i.<br />
Le cancellature, i libri cancellati, la Treccani, sono<br />
già delle installazioni di fatto. I libri grandi o piccoli<br />
hanno già un percorso installativo. Gli anni Ottanta.<br />
Io devo dire che mi sono ritirato formalmente da<br />
ogni competizione artistica, per competere soltanto<br />
con me stesso, dal 1975. Sono stato travolto da<br />
fatti extra artistici. Quando ho visto che quelli che<br />
erano i sogni della mia gioventù, i sogni di riscatto,<br />
riscatto umano, esistenziale, sociale, erano finiti in<br />
assassinii di persone che non c’entravano, in nome<br />
di una rivoluzione in cui credevo, ma che per me<br />
aveva connotazioni eminentemente culturali e non<br />
di sangue e distruzione. Mi sono venuti i brividi,<br />
e il momento di non ritorno fu quando la gente<br />
cominciò a sparare così facilmente. Quando vidi la<br />
crisi del petrolio capii che cambiava anche il discorso<br />
sull’arte: ci si chiudeva in casa, nessuno usciva più.<br />
Anch’io mi rintanai a lavorare. Non certo per paura<br />
del mondo. Ma per paura di un mondo che in<br />
qualche modo aveva rinunciato, prima in nome di<br />
un discorso ideologico troppo stretto, poi in nome<br />
dell’interesse petrolifero, a quel tanto di umanità che<br />
rendeva accettabile il colloquio tra le persone. La<br />
morte di Moro, per esempio, la vissi malissimo. Anche<br />
se certo non ero un simpatizzante. Ebbi un sussulto.<br />
Mi chiamò il Corriere della Sera per una dichiarazione.<br />
Dissi: “tutto questo accade quando la cultura è morta”.<br />
La cultura era morta in quel momento, e non si è<br />
più risollevata. Neanche le spinte liberiste hanno<br />
riattivato il discorso culturale. Perché non può essere<br />
quello di riproduzione di cose esistenti. Ma il discorso<br />
culturale è quello di produzione di cose inesistenti e<br />
di nuove energie. Stiamo andando dalla produzione<br />
alla riproduzione. Per questo oggi ci troviamo alle<br />
crisi bancarie ecc…L’arte non è certo responsabile da<br />
sola per tutto questo. Quando gli artisti perdono la<br />
consapevolezza della loro vita, e diventano essi stessi<br />
agenti di finanza, la perdono tutti gli uomini. Perché<br />
gli uomini non hanno più confronto.<br />
L’artista in fondo dovrebbe esprimere il massimo<br />
di umanità. Il massimo di fragilità umana che si<br />
autoriscatta. Mentre qui l’artista vuole fare vedere che<br />
è potente, che è più abile nella finanza di una banca,<br />
e fa la fine dell’apprendista stregone. Ma c’è una<br />
situazione in cui il mondo ha paura. E purtroppo la<br />
principale funzione dell’arte oggi sembra quella di far<br />
da megafono a questa paura.<br />
Ma torniamo a noi: qual è stato il transito tra gli
Padula (Salerno), 2004.<br />
L’installazione Il padrenostro delle formiche<br />
realizzata nella Certosa di San Lorenzo<br />
Settanta e gli Ottanta…, praticamente io ho continuato<br />
a lavorare, però mi sono dato al teatro. Sono andato<br />
a Gibellina. Ho fatto delle opere per quella cittadina<br />
terremotata: sculture, opere visive, una è li al museo…<br />
E mi sono dedicato al teatro. Li a Gibellina mi fu<br />
dato l’incarico di fare l’Orestea, e scelsi come spazio<br />
dell’opera, per il rapporto parola-immagine, lo spazio<br />
del terremoto. L’Orestea è una grande poesia visiva.<br />
Chiamai a collaborare Arnaldo Pomodoro. Lo chiamai<br />
io poiché avevo carta bianca. Feci teatro. Feci spettacoli<br />
dove io stesso mi occupavo della scenografia.<br />
m.m.<br />
Ti sei dato al teatro per quale motivo? Nel teatro trovavi un<br />
ambiente più ampio di quello dell’arte?<br />
51<br />
e.i.<br />
Perché a Gibellina trovavo un ambiente più favorevole.<br />
E se qualcuno mi avesse chiesto di fare il calzolaio<br />
in Irlanda in quel momento, io sarei andato a fare il<br />
calzolaio in Irlanda.<br />
m.m.<br />
A Gibellina si viveva ancora quell’aspetto utopico – la<br />
ricostruzione di una città ideale da parte degli artisti - che<br />
tu non avevi più trovato a partire dalla metà degli anni<br />
Settanta…<br />
e.i.<br />
Hai detto qualcosa di vero. È così. A Milano non trovavo<br />
più stimoli. Non mi riconoscevo più nel mondo in cui
Copertina del volume “Emilio <strong>Isgrò</strong>.<br />
La cancellatura e altre soluzioni”, Skira, Milano, 2008<br />
mi ero formato intellettualmente. Mi aveva stancato, mi<br />
aveva stufato, e per questo, non sono uscito tanto dal<br />
mondo dell’arte, ma ho finto di uscirne. Tant’è vero che<br />
quando ci sono rientrato, l’ho fatto in maniera decisa<br />
e convinta. Per me è stata una necessità vitale prendere<br />
le distanze dal mondo dell’arte. Purtroppo adesso non<br />
ho più l’età per prenderle ulteriormente, ma se ne fossi<br />
costretto lo farei ancora.<br />
m.m.<br />
Parliamo delle tue opere di quel momento. Quando tu mi<br />
dicevi che in fondo anche la Treccani era già un’installazione.<br />
La Treccani era la Treccani, in carne e ossa, in pagine e<br />
rilegatura. Quest’opera che vedo qui, le pagine aperte su un<br />
52<br />
Copertina del catalogo della mostra<br />
“Dichiaro di essere Emilio <strong>Isgrò</strong>”<br />
a cura di Achille Bonito Oliva,<br />
tenutasi presso il Centro per l’Arte Contemporanea<br />
Luigi Pecci, Prato, 2007<br />
oggetto a forma di libro, coperte di formiche, non è un libro. È<br />
la simulazione, la rappresentazione di un libro. È la formalibro,<br />
ma non è libro.<br />
e.i.<br />
Credo ci sia una certa confusione sulla nozione di<br />
libro d’artista. Per una ragione anche di piccolo<br />
mercato. In effetti, ciò che io ho voluto adottare, è<br />
stato il libro come icona. Come i santi ce l’avevano<br />
nelle vecchie chiese rinascimentali o medievali a<br />
volte. Tenevano il libro in mano come segno di<br />
una santità non più possibile. Di una verità non più<br />
possibile. Sentivo che il libro stava per tramontare<br />
come oggetto di trasmissione culturale. Quindi l’ho
Milano, 2006. Una pagina tratta da I cinque <strong>Isgrò</strong>,<br />
libro d’artista realizzato per i Cento Amici del Libro.<br />
(Foto Andrea Valentini)<br />
usato in tutti i modi. Anche come supporto. Come<br />
supporto in cui ripartivo lo spazio tra l’immagine e la<br />
parola. Così a volte faccio nelle opere più pittoriche.<br />
Dividevo lo spazio facendo interagire le due parti.<br />
Ho usato la forma libro proprio come un’icona della<br />
modernità. Della modernità che tramonta. Che passa.<br />
Da qui tutti i discorsi sulla parola. Rapporto parola/<br />
immagine. È per questo che io a volte trovo una certa<br />
approssimazione quando si parla di libro d’artista, di<br />
arte concettuale. Perché si fa di ogni erba un fascio.<br />
Non si sarebbe arrivati a queste esperienze se fin dalla<br />
fine dell’Ottocento non ci fosse stato già nell’aria un<br />
tentativo di commistione del linguaggio. Wagner si<br />
preparava i libretti da solo per le opere. C’era dunque<br />
53<br />
questo tentativo. Pensa a Manzoni. Sono tutte forme<br />
di azzeramento. Io lavoravo già su un terreno dove<br />
l’azzeramento era d’obbligo. È chiaro che a questo<br />
punto io aggiunsi una dimensione in più, che è la<br />
dimensione di un riscatto del linguaggio verbale, o<br />
non verbale, attraverso uno pseudo-azzeramento.<br />
Non ho mai odiato l’immagine. Non ho mai odiato<br />
la comunicazione. Ho semplicemente cercato di<br />
rafforzarla con altri strumenti. Questo mi fa figlio della<br />
mia epoca. Non posso essere diverso.<br />
m.m.<br />
Nessuno nega che il rapporto parola/immagine ci sia sempre nel<br />
tuo lavoro, da sempre, e ne sia l’elemento portante…
<strong>Isgrò</strong> ritratto da Ferdinando Scianna, 1998<br />
e.i.<br />
…C’è anche quando manca la parola. È un problema<br />
centrale ma ci tengo a ribadirlo, perché questo mi pone<br />
in sintonia da un lato con alcune correnti del Novecento<br />
che avevano già accennato questi discorsi, da un lato<br />
è chiaro che non mi rendo estraneo a certe attitudini<br />
concettuali. Non voglio avere un atteggiamento<br />
sprezzante.<br />
m.m.<br />
Tuttavia, non sto facendo un discorso sul tuo rapporto con il<br />
concettualismo, ma sto facendo un discorso sul tuo rapporto<br />
con la rappresentazione. Prima tu “presentavi” il libro, ora lo<br />
“rappresenti”, lo citi.<br />
e.i.<br />
Certo, diventa anche la rappresentazione del libro…<br />
54<br />
m.m.<br />
Si, ma il solo uso di questa parola – “rappresentazione” - è<br />
fortemente connotativo di un rapporto con la pittura nato negli<br />
anni Ottanta.Per di più una pittura di stampo tradizionale. È<br />
“rappresentazione”: questa parola, che negli anni Settanta e fine<br />
Sessanta nessuno poteva più pronunciare, adesso si pronuncia.<br />
e.i.<br />
A volte mi rendo conto che le persone hanno una<br />
certa difficoltà a inquadrarmi. Il primo a pagare un<br />
prezzo di un inquadramento faticoso sono stato io.<br />
Sono cose che in termini di accettazione presso il<br />
pubblico si pagano. Il pubblico vuole cose semplici.<br />
Non vuole complicazioni. Vuole subito sapere, capire.<br />
Se ci fu qualche sconfinamento pittorico in quel<br />
periodo, non ho nulla di cui pentirmi, perché lo sapevo<br />
perfettamente. Era attraverso la cancellatura - penso
alle cancellature bianche di certi periodi, che sono delle<br />
immagini vere e proprie - che io arrivavo alla pittura. E<br />
nel momento in cui c’era una riscoperta della pittura,<br />
siccome io avevo la nostalgia di non potermi chiamare<br />
pittore, non mi parve vero di poter attingere alle forze<br />
pittoriche attraverso un gesto apparentemente negativo<br />
come la cancellatura. Perché quello che rimane<br />
sotto la cancellatura è pur sempre un’immagine. È<br />
un’immagine pittorica. Si possono ottenere addirittura<br />
degli effetti materici. A volte l’ho fatto, altre no. Lo<br />
rifarò forse. Quindi io non ho nessun pentimento<br />
pittorico, perché il mio dramma non è quello di<br />
assomigliare a un concettuale puro. Il mio problema è<br />
fare quello che la mia coscienza di artista mi detta di<br />
fare. Alcuni critici, quando mi hanno scoperto, quando<br />
hanno visto le prime cose, erano stupiti di questa mia<br />
svolta. E io lo prendevo come un complimento, poiché<br />
erano sinceramente stupiti. Non credo che nell’arte<br />
ci sia un regresso o un progresso. È il senso delle cose<br />
che conta, è come arrivi alle cose. Io non sono arrivato<br />
a queste soluzioni pittoriche, chiamiamole così, se<br />
non in via concettuale. Volevo scoprire una cosa, ma<br />
ne scoprivo poi un’altra. Non sono il tipo che torna<br />
indietro.<br />
m.m.<br />
A rigor di logica non potresti e non dovresti nemmeno parlare<br />
di sconfinamento pittorico. Se ti sei tenuto aperto tutte le<br />
possibilità, non c’è modo di sconfinare. Non c’è nessun tipo di<br />
sconfinamento, perché tutti i territori sono tuoi.<br />
e.i.<br />
I risultati pittorici, questo mio bisogno di pittura, mi<br />
sembrava che il concettuale non potesse darmeli. Sentivo<br />
il bisogno di un’arte più felice. Non amo la pitturaccia,<br />
la banalità. Ma l’arte concettuale per me era prevedibile.<br />
Probabilmente nessuno ammetterà mai di avere<br />
imparato qualcosa da me. Ma io ho imparato un po’ da<br />
tutti. Come una spugna.<br />
m.m.<br />
Pensando a te come una sorta di monolite alla Kubrick ( perché<br />
non si può non identificarti come una specie di cifra), parliamo<br />
di qualcosa di apparentemente lontanissimo da tutto ciò come la<br />
tua scultura.<br />
e.i.<br />
Anche quella è stata una cosa preterintenzionale. Volevo<br />
ottenere una cosa, ne ottenni un’altra.<br />
55<br />
m.m.<br />
Volevi fare un disegno materico e ti è uscita una scultura?<br />
e.i.<br />
No. Fu uno stato di necessità. L’idea della scultura<br />
è nata così: nella mia città avevano dei problemi. Mi<br />
dissero di fare qualcosa. Pensai di fare un quadro.<br />
Mi chiesero invece di fare qualcosa all’aperto, che<br />
potesse dare un segnale di riscossa dai problemi.<br />
Mi chiesi cosa fare. Io non ero uno scultore. Hanno<br />
insistito.<br />
Decisi allora: a Barcellona di Sicilia, dove sono nato,<br />
c’è la piazza della vecchia stazione, da cui partivano<br />
i treni per Parigi, Londra, Milano, carichi di essenze<br />
per i profumieri. Era ancora una terra di produttori,<br />
di agrumai. Le donne andavano a lavorare di notte per<br />
loro. Cavavano le essenze dalla buccia. Era un paese<br />
florido per l’epoca. Pensai ad un segnale di riscossa.<br />
Mi è venuta l’idea del seme d’arancia. Ho preso un<br />
seme d’arancia e decisi di farlo in grande. La cosa<br />
ha funzionato. Non c’erano intenti estetici. Ma ha<br />
funzionato. Fui molto sorpreso quando sul giornale<br />
lessi dello “scultore <strong>Isgrò</strong>”.<br />
Tuttavia, a Barcellona persi credibilità. Finché ero un<br />
professore, uno che scriveva, al massimo un pittore ero<br />
rispettato. Come scultore non so. Mi sono accorto però<br />
che nel mio lavoro c’erano valenze scultoree.<br />
m.m.<br />
Che differenza c’è tra il tuo fuori scala e il fuori scala per<br />
esempio americano di Oldenburg?<br />
e.i.<br />
Che il risultato è formalmente diverso. È quello che<br />
conta. Tutti gli artisti ingrandiscono, rimpiccioliscono.<br />
Non ho trasformato in una teoria l’ingrandimento del<br />
seme. In quel caso ho mirato al sodo. Sono uscito per<br />
una volta dall’arte. Dall’arte intesa come tecnica. Il<br />
risultato formale è diverso, come formalmente è diverso<br />
il particolare ingrandito.<br />
m.m.<br />
Hai usato molte volte questo termine: “formalmente”…<br />
e.i.<br />
Nell’arte non conta la processualità. Conta il risultato.<br />
Aveva ragione Picasso quando diceva: “io non cerco,<br />
trovo”. Le buone intenzioni non mi interessano. Mi<br />
interessa il risultato.