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Riforme
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Convenzione
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Responsabilità
medica
Giudizio
Responsabilità
medica
EDITORIALE
Diritto penale e processo
Sommario
LA RIFORMA POSSIBILE, ANZI DOVEROSA…
di Luigi Kalb 129
LEGISLAZIONE
NOVITÀ NORMATIVE 135
UN ULTERIORE INTERVENTO A TUTELA DEI MINORI (I PARTE)
Legge 1 ottobre 2012, n. 172 137
LA RIFORMA DEI REATI DI PROSTITUZIONE MINORILE E PEDOPORNOGRAFIA
di Annamaria Peccioli 140
NUOVE NORME A SALVAGUARDIA DEL MINORE, DELLA SUA LIBERTÀ (INTEGRITÀ) SESSUALE
E DEL MINORE NELLA “FAMIGLIA”
di Antonio Vallini 151
GIURISPRUDENZA
Osservatori
OSSERVATORIO CORTE COSTITUZIONALE
a cura di Giuseppe Di Chiara 168
OSSERVATORIO CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE
a cura di Alfredo Montagna 171
OSSERVATORIO CORTE DI CASSAZIONE - DIRITTO PENALE
a cura di Stefano Corbetta 174
OSSERVATORIO CORTE DI CASSAZIONE - PROCESSO PENALE
a cura di Francesco Peroni 181
OSSERVATORIO CONTRASTI GIURISPRUDENZIALI
a cura di Guglielmo Leo 188
Giurisprudenza commentata
LE LINEE GUIDA E I NUOVI CONFINI DELLA RESPONSABILITÀ MEDICO-CHIRURGICA:
UN PROBLEMA IRRISOLTO
Cassazione penale, Sez. IV, 19 settembre 2012 (c.c. 11 luglio 2012), n. 35922 191
di Lucia Risicato 195
REGOLA DEL B.A.R.D. NEL GIUDIZIO D’APPELLO E RIFORMA «CONTRA REUM»
DELLA SENTENZA ASSOLUTORIA
Cassazione penale, Sez. VI, 9 febbraio 2012 (u.p. 26 ottobre 2011), n. 4996 205
di Alessio Scarcella 205
OPINIONI
LINEE GUIDA, BUONE PRATICHE E COLPA GRAVE: VERA RIFORMA O MERO PLACEBO?
di Alessandro Roiati 216
Diritto penale e processo 2/2013 127

Diritto penale e processo
Sommario
Pirateria
marittima
128
GIUSTIZIA SOVRANAZIONALE
STATO DI DIRITTO E LOTTA ALLA PIRATERIA NELLE ACQUE SOMALE
di Matteo Tondini 230
OSSERVATORIO CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
a cura di Giulio Garuti 246
INDICI
INDICE AUTORI-CRONOLOGICO-ANALITICO 252
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
Diritto penale: M. Bertolino; A. Ceretti; G. De Francesco; M. V. Del Tufo; E. Dolcini; M. Donini; G. Fiandaca; A. Fiorella;
G. Flora; G. Forti; A. Gargani; G. Grasso; R. Guerrini; G. Insolera; S. Larizza; C. de Maglie; G. Mannozzi; F. Mantovani;
G. Marinucci; A. M. Maugeri; E. Mezzetti; V. Militello; A. Pagliaro; C. E. Paliero; M. Papa; M. Romano; F. Viganò.
Processo penale: A. Bargi, G. Bellantoni, A. Bernasconi, P. Corso, A. De Caro, G. Dean, P. Dell’Anno, V. Fanchiotti,
L. Filippi, A. Gaito, A. Giarda, P. Gualtieri, S. Lorusso, A. Marandola, M.R. Marchetti, E. Marzaduri, M. Menna,
A. Molari, P. Moscarini, G. Pansini, V. Patané, A. Pennisi, G. Pierro, A. Presutti, A. Scaglione, M. Scaparone, A. Scella.
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Diritto penale e processo 2/2013

La riforma possibile, anzi
doverosa…
di Luigi Kalb - Ordinario di Procedura penale nell’Università degli studi di Salerno
Editoriale
Processo penale
Il codice di procedura penale è stato oggetto, nel tempo, di molteplici interventi di riforma diretti a salvaguardare
l’attuazione delle garanzie fondamentali. Il dibattito, mai terminato, sugli ulteriori interventi novellistici
è oggi incentrato su alcuni temi, al fine di privilegiare la formulazione di nuove soluzioni in grado, da un
lato, di aumentare il livello di “efficienza” del sistema processuale e, dall’altro, di realizzare i necessari “adattamenti”
imposti dalle fonti sovranazionali. In tale quadro una riforma appare non più differibile, anche in ragione
dei giudizi di condanna formulati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e impone di trovare soluzioni
al drammatico fenomeno del sovraffollamento carcerario.
Premessa
Nel corso degli studi, dei dibattiti, dell’attività didattica,
nonché di quella scientifica, credo che molti
possano sostenere come il riferimento al termine
“riforma” risulti tra quelli maggiormente utilizzati
nell’elaborazione delle proprie argomentazioni.
Le ragioni sono facilmente apprezzabili ove solo si
rifletta che quando si ricorre a questo concetto - ovviamente
pur sempre in riferimento a ciò che si intende
riformare - si auspica un cambiamento destinato
ad assicurare il miglioramento degli effetti prodotti
dallo status quo. La “novità” è dunque teleologicamente
connessa al perseguimento di un’evoluzione
della situazione attuale.
Tutto ciò è stato percepito con chiarezza sin dagli
anni universitari e, poi, vivendo le diverse stagioni
che hanno accompagnato le plurime riforme del sistema
processuale penale. Come poter dimenticare
il lungo e complesso cammino che ha condotto alla
pubblicazione del nuovo codice di procedura penale
e i vari approfondimenti che hanno consentito la
definizione degli istituti, rivissuti, ancora oggi, attraverso
le emozionanti ed accorate ricostruzioni degli
illustri giuristi che se ne sono occupati?
Identica percezione è stata avvertita con riferimento
alle innumerevoli iniziative di riforma che, per un
verso inaspettatamente, sono state presentate già all’indomani
dell’entrata in vigore del codice e che
hanno accompagnato, nel tempo, la sua applicazione
fino ai giorni nostri.
La costante ricerca di pervenire a soluzioni in grado
di assicurare l’evoluzione di quanto esistente trova
plurime motivazioni che possono essere facilmente
sintetizzate.
Se è vero che le norme del codice di rito penale costituiscono
l’espressione del grado di civiltà esistente
all’interno di una determinata comunità sociale è
perché le scelte legislative in materia costituiscono
il riflesso del rapporto intercorrente tra sistema politico
e sistema processuale (1). Quanto più la struttura
politica dello Stato si preoccupa di realizzare i diritti
fondamentali dei cittadini, tanto più il modello
processuale adottato al suo interno manifesta la naturale
vocazione a tradurre in norme questa aspirazione.
Il miglioramento che ispira qualsiasi ipotesi di riforma
è naturalmente collegabile alla giusta ambizione
di completare o elevare il quadro dei diritti fondamentali
connotanti il meccanismo predisposto per
l’accertamento del fatto-reato.
Anche a questo proposito basta riflettere su come i
principi del “giusto processo” - saldamente consacrati
all’interno delle Carte internazionali dei diritti
e della nostra Costituzione - siano stati il volano per
il raggiungimento di un maggior tasso di garanzie
fondamentali all’interno del sistema processuale nel
Nota:
(1) Per un approfondito studio sul collegamento diretto tra politica
e processo, al fine di verificare in che modo le variazioni ideologiche
determinano il grado di protezione che lo Stato accorda
ai diritti fondamentali nel processo penale, cfr. M. Damaska, I
volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo,
Bologna, 1991, 39 ss., nonché L. Ferrajoli, Diritto e ragione.
Teoria del garantismo penale, Roma-Bari, 1996, 721 ss. a
proposito della struttura garantista conseguente all’entrata in vigore
dei principi costituzionali. In relazione al sistema americano
v. R. Kagan, La giustizia americana, Bologna, 2009. Sul punto, in
relazione al rapporto “autorità” e “libertà” nel vigente sistema
processuale penale v. A. A.Dalia-M. Ferraioli, Manuale di diritto
processuale penale, Padova, 2010, 8 ss.
Diritto penale e processo 2/2013 129

Editoriale
Processo penale
tentativo, non sempre riuscito, di conseguire livelli
di efficienza appaganti in ragione delle esigenze avvertite
dalla collettività.
Tutto ciò confligge con il basso livello di credibilità
che, già da tempo, la nostra collettività attribuisce
alla giustizia penale e ai suoi moduli operativi; percezione
destinata a non migliorare ove solo si rifletta
sui segnali provenienti dalle ultime vicende di rilievo
nazionale, determinanti una composizione
della controversia mediante il ricorso al conflitto tra
poteri dello Stato.
Alla ricerca dell’efficienza
Sul piano dell’innalzamento del livello di efficienza
del sistema il dibattito, come per le riforme, non si è
mai concluso.
L’obiettivo di assicurare la piena ed efficace funzionalità
del sistema giudiziario soprattutto per quanto
concerne l’esercizio della funzione giurisdizionale in
tempi «ragionevoli» senza scalfire l’attuazione delle
garanzie processuali fondamentali è oramai esigenza
primaria, in particolar modo in Italia, come ampiamente
accertato e documentato anche dai risultati
conseguiti in sede di controllo giurisdizionale sovranazionale.
Non è sufficiente limitarsi a denunciare la macchinosità
dell’organizzazione giudiziaria e la carenza di
modelli operativi in grado di assicurare efficienti risposte
di giustizia; tanto meno sembrano aver ricevuto
apprezzamento quelle indagini, di carattere anche
socio-economico, volte a rilevare l’aspetto della
produttività del sistema, in ragione dei provvedimenti
giurisdizionali adottati. Piuttosto sarebbe stato
opportuno che tutte le componenti - quella politica,
quella forense e quella scientifica - avessero riunito
gli sforzi, sin dal passato, per cercare di trovare
soluzioni agli interrogativi nascenti sull’incidenza
negativa esistente tra ruolo della giurisdizione ed efficienza
dell’apparato.
Ragionevolezza dei tempi non significa rapidità nello
svolgimento del processo a tutti i costi, né, tanto
meno, rispetto di termini legalmente prestabiliti. Il
principio si traduce nella ricerca di un punto di
equilibrio tra l’esigenza di contenere, il più possibile,
la durata del dibattimento e quella di non pregiudicare
l’ordinario articolarsi del rito e, con esso, la
completezza dell’accertamento. In funzione dell’adozione
del giudizio, tutto ciò si compendia nel
conseguimento del risultato entro termini che tengano
conto della reale situazione processuale, rapportata
alla singola vicenda, attraverso evidenziatori
di circostanze che possono comunque incidere
sullo svolgimento temporale del processo. Ragione-
130
volezza della durata non è dunque sinonimo di rapidità
assoluta, non potendosi mai giustificare, comunque,
che il conseguimento della celerità comporti
come costo la sfiducia del cittadino nella giustizia.
Altra prospettiva è quella che inquadra l’efficienza
processuale non tanto come valore garantistico che
si aggiunge agli altri principi che connotano il contenuto
del “giusto processo”, ma come fattore che si
contrappone a questi ultimi, tutte quelle volte in cui
il loro esercizio consenta alle parti di strumentalizzare
il ricorso ad istituti giuridici per manovre dilatorie
(2). L’efficienza, in altre parole, connoterebbe un
processo “prima” rapido e “poi” giusto, in cui la “giustizia”
in tanto ha un senso in quanto non ostacoli la
“rapidità”. Il rischio di una tale impostazione - che
finisce, in ultima analisi, per creare una «tenzone»
tra garanzie individuali ed efficienza del processo (3)
- è che in nome dell’efficienza si degradino le garanzie
a strumenti impeditivi dell’“accertamento della
verità” (4) e si giustifichino sacrifici alle esigenze del
giusto processo, quali imparzialità, oralità e contraddittorio,
«dimenticando che in nessun modo si può
essere efficienti violando i principi fondamentali»
(5).
La vera efficienza processuale - è stato sottolineato -
è tale solo se «ingloba anche l’efficienza nel riconoscimento
e nello sviluppo delle garanzie processuali».
L’efficienza processuale non è, insomma, «quella
di un processo purchessia in funzione di una maggiore
repressione: è efficienza di un processo che deve sì
consentire di raggiungere dei risultati credibili anche
nel senso della tempestività e dell’efficacia delle
sanzioni, ma deve consentire di raggiungerli in modo
“giusto” anche sul piano delle modalità di percorso»;
il riferimento è, perciò, all’efficienza di «un
processo che non giri su se stesso; di un processo che
miri - per quanto è possibile - ad assolvere gli inno-
Note:
(2) Deve pure osservarsi come per alcuni (M.E. Catalano, L’abuso
del processo, Milano, 2004, 243 s.) il divieto di abuso del processo
si collochi su un piano diverso rispetto al principio di efficienza
processuale: «le istanze di razionalità nella disciplina e
nell’impiego degli istituti processuali vengono in rilievo quale valore
costituzionalmente protetto in giustapposizione al bene dell’efficienza
processuale e alle garanzie individuali».
(3) L’espressione è presa da M. Chiavario, Garanzie individuali ed
efficienza del processo, in Il giusto processo. Atti del convegno
presso l’Università di Salerno, 11-13 ottobre 1996, Milano, 1998,
54.
(4) Tale rischio è ben messo in evidenza da G. DI Chiara, L’incompatibilità
endoprocessuale del giudice, Torino, 2000, 80.
(5) Così G. Conso, Conclusioni, in Il giusto processo. Atti del convegno
presso l’Università di Salerno, 11-13 ottobre 1996, Milano,
1998, 261.
Diritto penale e processo 2/2013

centi e a condannare i colpevoli; ma è anche quella
di un processo intrinsecamente corretto e leale».
Quindi, «l’approfondimento del valore dell’efficienza
processuale port[a] anzitutto a far capire che, sotto
certi profili, rafforzamento dell’efficienza e rafforzamento
delle garanzie, soprattutto di quelle più sostanziali,
sono la stessa cosa» (6).
L’efficienza è, dunque, essa stessa una garanzia, un
valore essenziale senza il quale tutte le altre garanzie
si rivelerebbero inidonee a realizzare un giusto processo.
Dalle riflessioni formulate, una volta preso atto dello
stato di crisi in cui versa l’istituzione giudiziaria,
deve concludersi che la prospettiva di studio fino ad
ora condotta nella comunità scientifica è risultata
condizionata dalla situazione contingente e dalla
conseguente, pressante esigenza di porvi rimedio, al
fine di frenare il dilagante senso di sfiducia incidente
sulla credibilità dell’esercizio della funzione giurisdizionale.
All’interno di questo scenario poco ottimistico
potrebbe apparire persino naturale che il tema
dell’efficienza sia ricondotto, in prima battuta, al
recupero della garanzia - mai poco proclamata - della
ragionevolezza dei tempi processuali; così come
potrebbe risultare altrettanto normale che si richiami
l’attenzione sull’efficienza ogni qualvolta si attuino
strategie volte a forzare il limite di ragionevolezza
di istituti giuridici previsti nel sistema per assicurare
innegabili istanze di garanzia.
Bisogna, pertanto, prendere le distanze da chiavi di
lettura che riducano l’efficienza processuale alla sola
esigenza di recupero della “durata ragionevole” - il
cui agognato perseguimento non può, comunque,
essere posto in discussione - o, addirittura, occorre
ribaltare quelle altre conclusioni che compromettono
la stessa configurazione dell’efficienza come vera
e propria garanzia da assicurare, al pari delle altre i
cui abusi ci si limita a denunciare.
Gli adattamenti imposti dalle fonti
sovranazionali
Una serie di riforme indifferibili è ricollegabile alla
costante produzione normativa sovranazionale,
sempre più attenta a definire “norme minime comuni”
affinché risulti assicurato uno standard di garanzie
non rinunciabile a favore dei protagonisti del
procedimento penale in ragione degli interessi in
gioco (7).
Rispetto al complesso quadro normativo costituito
dalle numerose decisioni-quadro, prima, e dalle più
recenti direttive, poi, si avverte in tutta la sua reale
dimensione la difficoltà dell’intervento da realizzare.
Al di là delle inevitabili riflessioni sulle ricadute
Editoriale
Processo penale
determinanti una parziale cessione di sovranità nazionale
(8), appare a tutti chiaro come i necessari
“adattamenti” del nostro ordinamento siano proporzionati
alla mole e ai contenuti delle riforme richieste
in sede sovranazionale e ai termini entro i quali
provvedere al loro perfezionamento (9).
Proprio l’esperienza passata - che evidenzia, tra l’altro,
i cronici ritardi con i quali il nostro legislatore
procede ai necessari adempimenti - fa presagire tempi
lunghi per il futuro, sia a causa di quanto accumulato
a seguito degli inadempimenti pregressi, sia a
causa dei corposi interventi di riforma imposti dalle
più recenti iniziative sovranazionali.
È ben noto a tutti come - al di là dei casi in cui sia
già esistente un modulo procedimentale completo,
tanto per l’adattamento effettuato, quanto per la
conseguente prassi applicativa insorta - risultino
molteplici gli interventi ancora da realizzare, atteso
che solo nell’ultimo periodo sono state pubblicate
plurime direttive volte ad assicurare il rispetto di
norme comuni nei singoli ordinamenti giuridici.
Basta riflettere sulle tematiche oggetto di intervento
per cogliere la rilevante portata degli adattamenti
da portare a termine: una puntuale attuazione del
diritto all’assistenza linguistica a favore di coloro
che sono direttamente coinvolti dalla vicenda processuale
nella qualità di indagato, imputato o con-
Diritto penale e processo 2/2013 131
Note:
(6) In questi termini cfr. M. Chiavario, Garanzie individuali ed efficienza
del processo, cit., loc. cit.
(7) A tal fine il 30 novembre 2009 il Consiglio ha adottato una risoluzione
relativa a una “tabella di marcia” per il rafforzamento
dei diritti procedurali di indagati o imputati in procedimenti penali
(G.U.U.E. C 295 del 4.12.2009, 1). Nella seduta del 10-11 dicembre
2009 il Consiglio europeo ha adottato il nuovo programma
pluriennale denominato “programma di Stoccolma - Un’Europa
aperta e sicura al servizio e a tutela dei cittadini” (pubblicato in
G.U.U.E. n. C 115 del 4 maggio 2010), per il periodo 2010-2014,
inserendo tale “tabella di marcia“ nello stesso programma.
(8) A questo proposito cfr. le interessanti riflessioni di A. Gaito,
Spazio penale europeo e cooperazione giudiziaria internazionale,
in AA. VV., Procedura penale, Torino, 2012, 894, secondo il quale
l’evoluzione della produzione normativa extranazionale e i rapporti
con gli ordinamenti interni consentono di affermare che il
complesso degli interventi in materia di cooperazione ha creato
uno «spazio penale europeo» in ragione del quale «l’interesse alla
collaborazione prevale oramai sull’interesse del singolo Stato».
Cfr. pure F. Palazzo, Correnti superficiali e correnti profonde
nel mare delle attualità penalistiche (a proposito della retroattività
favorevole), in questa Rivista, 2012, 1176, che evidenzia come
le correnti profonde di trasformazione, oggi, siano appannaggio
degli organi giurisdizionali, in particolare di quelli sovranazionali.
(9) Per un approfondimento sul complesso degli interventi adottati
e da adottare nel nostro sistema processuale penale, sia
consentito rinviare ad AA. VV., “Spazio europeo di giustizia” e
procedimento penale italiano. Adattamenti normativi e approdi
giurisprudenziali, a cura di L. Kalb, Torino, 2012.

Editoriale
Processo penale
dannato (direttiva 2010/64); l’introduzione di meccanismi
idonei ad assicurare il pieno riconoscimento
del diritto all’informazione (direttiva 2012/13);
l’estensione di tali diritti alla vittima, con particolare
attenzione a coloro che risultano minorenni (direttiva
2012/29).
La direttiva 2012/13 stabilisce norme relative al diritto
all’informazione - a favore delle persone indagate
o imputate e di quelle destinatarie di un mandato
di arresto europeo - in merito ai diritti di cui
godono nel procedimento penale e all’accusa elevata
a loro carico. Il diritto all’informazione, operante
fino all’adozione della decisione definitiva, ha dei
contenuti minimi, riguardanti il diritto alla difesa
tecnica, le condizioni per beneficiare del gratuito
patrocinio, la conoscenza dell’accusa, il diritto di
poter ricorrere all’ausilio di un interprete e di un traduttore,
il ricorso al silenzio. Per le persone arrestate
o detenute, inoltre, lo standard minimo di informazione
si estende al diritto «di informare le autorità
consolari e un’altra persona», all’accesso all’assistenza
medica d’urgenza, alla conoscenza del «numero
massimo di ore o giorni in cui l’indagato o
l’imputato può essere privato della libertà prima di
essere condotto dinanzi a un’autorità giudiziaria».
La stessa direttiva proclama «il diritto di accesso alla
documentazione relativa all’indagine» tanto nei
confronti del destinatario della misura restrittiva
della libertà personale, quanto di colui che è legittimato
a difendersi poiché «il merito dell’accusa è sottoposto
all’esame di un’autorità».
Con la direttiva 2012/29 - volta a «garantire che le
vittime di reato ricevano informazione, assistenza e
protezione adeguate e possano partecipare ai procedimenti
penali» - si mira a garantire, senza indebito
ritardo, sin dal primo contatto con l’autorità giudiziaria,
la conoscenza sul tipo di assistenza assicurata
e, se del caso, informazioni di base sull’accesso all’assistenza
sanitaria; sulle procedure per la presentazione
di una denuncia e il ruolo attribuito alla vittima;
sulle condizioni necessarie per ottenere protezione;
su quelle occorrenti per avere accesso all’assistenza
di un legale, al patrocinio a spese dello Stato e a
qualsiasi altra forma di assistenza; su quelle indispensabili
per conseguire un risarcimento e il rimborso
delle spese sostenute nel procedimento; sul ricorso
all’interpretazione e alla traduzione; le misure,
le procedure o i meccanismi speciali a cui può ricorrere
per tutelare i propri interessi nello Stato membro
in cui ha luogo il primo contatto con l’autorità
competente, se diverso da quello di residenza; le procedure
disponibili per denunciare casi di mancato
rispetto dei propri diritti da parte dell’autorità com-
132
petente; le informazioni relative alle possibilità di
aver comunicazioni sul proprio caso e sui servizi di
giustizia riparativa.
Si tratta di interventi, nel loro complesso, determinanti
un salto di qualità assai significativo, destinato
a lasciare il segno all’interno del sistema processuale
penale.
La riforma più importante
C’è un’altra riforma - sicuramente indifferibile anche
se attesa già da tempo - che trova la sua giustificazione
non tanto nelle scelte legislative effettuate,
sovranazionali o no che siano, quanto nel perseguimento
di valori radicati nella società contemporanea
ed espressione del suo grado di civiltà, quali il rispetto
della dignità umana e la tutela della persona,
a prescindere dallo status personale.
È da troppo tempo, oramai, che le statistiche diffuse
dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria
evidenziano, impietosamente, la drammatica situazione
del sovraffollamento carcerario, così come
emergente dall’enorme divario che intercorre tra il
numero di detenuti prestabilito, fissato quale soglia
massima indicativa della c.d. capienza regolare, e
quello effettivo, riguardante le persone, a vario titolo,
ristrette negli istituti penitenziari. È, infatti, dal
2007 che tale ultimo dato è in progressiva crescita,
senza che le iniziative adottate, a dire il vero poche,
abbiano sortito risultati significativi (10).
Premessa la non percorribilità, per differenti motivi,
delle due risposte forse più ovvie per far fronte al fenomeno
del sovraffollamento carcerario - vale a dire
il ricorso ad altri atti di clemenza o la realizzazione
di nuove strutture penitenziarie nell’ambito di un
efficace piano carceri (11) - appare inevitabile che
le iniziative utilizzabili si riducano ai meccanismi di
sospensione dell’esecuzione della pena, al fine di
evitare così un inutile transito nell’istituto penitenziario,
e alla oculata concessione delle misure alternative
alla detenzione. A questo proposito non si
Note:
(10) Si è passati dai 48.693 detenuti del 2007 ai 65.701 del 2012
(con una capienza regolamentare fissata in 47.040 unità); rispetto
al numero complessivo di detenuti, ben 25.777 risultano ancora
rivestire lo status di imputato e 38.656 quello di condannato.
L’unico segnale positivo, rispetto ad una situazione complessivamente
drammatica, è rappresentato dalla diminuzione del
numero di imputati in carcere, atteso che dai 29.809 del 2009 si
è passati ai 25.777 dello scorso dicembre.
(11) A dire il vero, nella relazione Lo stato della giustizia in Italia
redatto dal relativo ministero per l’anno 2012 si specifica che
l’obiettivo perseguito - quale risultato complessivo di interventi
finanziati dal c.d. piano carceri ed interventi “ordinari” - è la consegna,
entro il 31 dicembre 2014, di 11.700 nuovi posti.
Diritto penale e processo 2/2013

può evitare di contestare la mancata volontà politica
di portare a termine la riforma diretta ad ampliarne
l’operatività (12). Quanto all’iniziativa cautelare,
i cui effetti rilevano in modo significativo sull’intero
fenomeno, è doveroso richiamare gli operatori
alla puntuale attuazione del principio del “minor sacrificio”,
di modo che la custodia cautelare in carcere
sia disposta “soltanto quando ogni altra misura risulti
inadeguata” (art. 275, comma 3, c.p.p.).
Le criticabili modalità di esecuzione della pena detentiva
negli attuali istituti - alle quali va aggiunta
pure la quasi totale impossibilità di esercitare un’attività
lavorativa, sia all’interno che all’esterno del
carcere - pongono insormontabili ostacoli al perseguimento
della funzione della pena, così come intesa
dalla Carta costituzionale e dalle Carte internazionali
sui diritti fondamentali.
Non costituisce pertanto una sorpresa, determinando
piuttosto una profonda amarezza per le mancate
risposte offerte dal nostro sistema, il giudizio formulato
in sede di giurisdizione sovranazionale, ove si è
pervenuti all’ennesima condanna del nostro Paese.
Nonostante dal campanello d’allarme offerto con
l’intervento giurisdizionale del 2009 (13) fossero desumibili
i pericoli connessi all’ulteriore deriva alla
quale il fenomeno poteva giungere, in realtà nulla di
efficace è stato adottato per ostacolare l’escalation
del sovraffollamento e le conseguenti, disumane
modalità di esecuzione della pena.
In altre parole, la recente sentenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo rappresenta un provvedimento
annunciato dagli effetti dirompenti che pretendono
risposte immediate (14). Con l’ultima condanna
dell’Italia per le modalità esecutive della pena
detentiva, a causa degli spazi inadeguati in cui è
ristretto il detenuto in carcere, si è stabilito anche il
risarcimento dei danni morali a favore dei detenuti
ricorrenti (15).
All’ulteriore conferma di una situazione carceraria
insopportabile e alla concessione del risarcimento a
favore dei condannati si è aggiunta, quale novità, la
messa in mora del nostro Stato: entro un anno dovranno
essere adottate misure idonee a garantire la
soluzione di quanto causato dal sovraffollamento
carcerario e la creazione di ricorsi interni anche per
deflazionare il carico di procedimenti dinanzi alla
Corte europea (16). In particolare, si sollecita la
creazione di «un ricorso o una combinazione di ricorsi
che abbiano effetti preventivi e compensativi e
garantiscano realmente una riparazione effettiva
delle violazioni della Convenzione». Ciò comporterà
pure, «in attesa dell’adozione da parte delle autorità
interne delle misure necessarie sul piano nazio-
Editoriale
Processo penale
nale», il rinvio di un anno della trattazione di procedimenti
contro l’Italia aventi lo stesso contenuto.
Proprio perché, come accertato dalla stessa Corte, la
vicenda presa in considerazione non riguarda «episodi
isolati, ma trae origine da un problema sistemico
risultante da un malfunzionamento cronico proprio
del sistema penitenziario italiano, che ha interessato
e può interessare ancora in futuro numerose
persone», è facile prevedere che l’inutile decorso del
tempo, senza l’adozione degli indifferibili interventi
legislativi, comporterà ulteriori e plurime condanne
ai relativi risarcimenti a favore dei detenuti ricorrenti.
Stante l’inviolabilità del diritto tutelato dall’articolo
3 della Convenzione, «lo Stato è tenuto ad
organizzare il suo sistema penitenziario in modo tale
che la dignità dei detenuti sia rispettata».
Se è vero che la presa di posizione della Corte comporta
gli stessi effetti prodotti, a fini deflativi, dalla l.
n. 89/2001, in materia di verifica della ragionevole
durata del procedimento, quanto al necessario esaurimento
dei ricorsi interni prima del coinvolgimento
della giurisdizione sovranazionale, è altresì necessario
prendere atto di una prima risposta della cassazione
sul punto. La decisione con la quale si attribuisce
alla giurisdizione civile la competenza a conoscere
le domande di risarcimento dei detenuti per
le condizioni di vita in carcere costituisce un primo
tentativo di dare soluzione alla richiesta della Corte
europea, evitando future condanne e, in quanto idoneo
rimedio interno, introducendo un meccanismo
Diritto penale e processo 2/2013 133
Note:
(12) Si allude al d.d.l. n. 5019-bis, presentato dal ministro della
giustizia e approvato solo dalla Camera dei deputati lo scorso 9
ottobre, in materia di sospensione del procedimento con messa
alla prova e di pene detentive non carcerarie.
(13) Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 16 luglio
2009, Sulejmanovic c. Italia (ricorso n° 22635/03), ove si è ritenuto
che la mancanza di spazio personale patita dal ricorrente fino
all’aprile 2003 integrasse, di per sé, un trattamento inumano
o degradante risolvendosi in una violazione dell’articolo 3 della
Convenzione.
(14) Sul punto, v. P. Corso, Condanna giusta ma rimedi incerti per
il sovraffollamento delle carceri, in Quotidiano giuridico,
10.1.2013.
(15) Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, 8 gennaio 2013,
Torreggiani ed altri c. Italia (ricorso n° 43517/09), ove sono stati
concessi fino a 23.500 euro di risarcimento a seguito della verificata
inosservanza dell’art. 3 della Convenzione. Per un approfondimento
della sentenza v., infra, Osservatorio Corte europea
dei diritti dell’uomo, a cura di G. Garuti, in questo stesso fascicolo.
In tema v. pure l’ultima condanna pronunciata dalla Corte europea
dei diritti dell’uomo, Sez. II, 29 gennaio 2013, Cirillo c. Italia
(ricorso n° 36276/10), per la non adeguata assistenza medica offerta
al detenuto.
(16) Cfr. le interessanti riflessioni di P. Corso, Carenze endemiche
di posti carcere: più posti o meno carcere ?, in Quotidiano
giuridico, 22.1.2013.

Editoriale
Processo penale
destinato a deflazionare il carico giudiziario dinanzi
alla giurisdizione sovranazionale (17).
La soluzione è apprezzabile, ma è del tutto inidonea
ad operare sulla patologia del fenomeno. Occorre riversare
tutte le risorse scientifiche per disegnare
nuovi interventi di politica penale idonei a porre rimedio,
una volta per tutte, alle cause del sovraffollamento.
Il risultato non è più differibile e non può essere
sollecitato solo dal pericolo, fondato, di future
condanne, ma deve costituire l’obiettivo principale
di una comunità capace di testimoniare, pretendendone
l’attuazione, i valori insopprimibili del rispetto
della dignità umana e della tutela della persona. Più
che mai tornano alla memoria i moniti di chi sottolineava
che “l’antisociale” può essere aiutato nel
percorso di risocializzazione «soltanto in un clima di
rispetto della sua persona e di disponibilità nei suoi
confronti», precludendo modalità che si traducano,
134
piuttosto, «nell’esecuzione materiale di una pena
coercitiva e mortificante» (18).
Note:
(17) Cfr. Cass., Sez. I, 15 gennaio 2013, n. 172, V., in
www.penalecontemporaneo.it. Sul punto, v. F. Viganò, La Cassazione
sul risarcimento da lesione dei diritti dei detenuti: un importante
seguito alla sentenza Torreggiani c. Italia della Corte
EDU, ivi, 18.1.2013, secondo il quale resta «da verificare se la
via che sembra ora indicare la Cassazione consentirà di adeguare
lo stato del diritto italiano all’obbligo ora impostoci della Corte
europea, la quale insiste sulla dimensione di necessaria effettività
della tutela giurisdizionale dei diritti convenzionali: che implica,
certo, la tutela risarcitoria ex post, ma che esige altresì una tutela
preventiva, intesa quale capacità del rimedio di far cessare
eventuali violazioni in essere».
(18) Cfr. C.M. Martini, Non è giustizia, Milano, 2003, 117. Meritano
anche di essere ricordate le riflessioni critiche di chi auspicava
«una gamma di provvedimenti giudiziari e legislativi tempestivi»,
al fine di impedire che la situazione carceraria continuasse
a provocare “torti” (F. Stella, La giustizia e le ingiustizie, Bologna
2006, 148).
Diritto penale e processo 2/2013

Novità normative
Caso ILVA
Legislazione
Novità in sintesi
Legge 24 dicembre 2012, n. 231
«Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 3 dicembre 2012, n. 207, recante disposizoni urgenti
a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse
strategico nazionale»
(G.U. 3 gennaio 2013, n. 2)
Convertito in legge, con modificazioni, il d.l. 3 dicembre 2012, n. 207, emanato dal Governo per porre rimedio al braccio
di ferro insorto tra magistratura e i custodi dello stabilimento Ilva di Taranto (per una sintesi v. questa Rivista,
2013, 13). Tra le modifiche apportate in sede di conversione, da segnalare l’introduzione dell’art. 1-bis, che, in tutte
le aree interessate da stabilimenti di interesse strategico nazionale di cui agli artt. 1, comma 1, e 3, comma 1, impone
all’azienda sanitaria locale e all’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente competenti per territorio di redigere
congiuntamente, con aggiornamento almeno annuale, un rapporto di valutazione del danno sanitario anche
sulla base del registro tumori regionale e delle mappe epidemiologiche sulle principali malattie di carattere ambientale.
Nuovo anche il comma 3 dell’art. 3, secondo cui, a decorrere dal 4 gennaio 2013 «per un periodo di trentasei
mesi, la società ILVA S.p.a. di Taranto è immessa nel possesso dei beni dell’impresa ed è in ogni caso autorizzata,
nei limiti consentiti dal provvedimento di cui al comma 2, alla prosecuzione dell’attività produttiva nello stabilimento
e alla commercializzazione dei prodotti, ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata
in vigore del presente decreto, ferma restando l’applicazione di tutte le disposizioni contenute nel medesimo
decreto». È doveroso segnalare che il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto ha promosso
giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, nei confronti «del Governo della Repubblica nelle persone
del Presidente del Consiglio dei Ministri, del Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e del
Ministro dello Sviluppo Economico in relazione al Decreto», avuto riguardo all’emanazione del d.l. 3 dicembre 2012,
n. 207. Secondo la Procura di Taranto, «non spetta, nel caso di specie, al Governo della Repubblica autorizzare la prosecuzione
dell’attività produttiva per periodo di tempo predeterminato né che tale disposizione trova applicazione anche
quando l’A.G. abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell’impresa titolare del provvedimento nella
parte in cui è previsto che tali provvedimenti non impediscono, nel corso del predetto periodo, l’esercizio dell’attività
d’impresa» (il testo del ricorso è integralmente consultabile sul sito www.penalecontemporaneo.it).
Corte penale internazionale
Legge 20 dicembre 2012, n. 237
«Norme per l’adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale»
(G.U. 8 gennaio 2013, n. 6)
Elezioni
Dopo la ratifica dello statuto della Corte penale internazionale, avvenuta con l. 12 luglio 1999, n. 232, recante «Ratifica
ed esecuzione dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale» (in questa Rivista, 1999, 1331, con
commento di A. Saccucci) e l’entrata in vigore il 1° luglio 2002 dello Statuto medesimo (essendo decorso il termine,
previsto dall’art. 126, di sessanta giorni dal deposito «del sessantesimo strumento di ratifica, di accettazione, di approvazione
o di adesione presso il Segretariato generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite»), la legge in rassegna,
in vigore dal 23 gennaio 2013, detta le norme necessarie per la concreta cooperazione dell’Italia con la Corte
dell’Aja. La legge si compone di 24 articoli, suddivisi in 3 capi: “Disposizioni generali” (artt. 1-10); “Consegna”
(artt. 11-14); “Esecuzione dei provvedimenti della Corte penale internazionale” (artt. 15-24). Pur senza entrare
nel dettaglio della minuziosa disciplina, vanno in questa sede segnalate le modifiche all’ordinamento interno resesi
necessarie per l’adeguamento alle disposizioni delle statuto. L’art. 10 prevede i “delitti contro la Corte penale
internazionale”; la norma modifica una pluralità di norme del codice penale (artt. 322-bis, 368, 371-bis, 372, 374,
374-bis, 377, 378 e 380) ovvero ne introduce di nuove (art. 343-bis), che hanno lo scopo di estendere la portata delle
fattispecie incriminatrici di volta in volta interessate anche ai membri, ai funzionari e al personale della Corte.
Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235
«Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo
conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della
legge 6 novembre 2012, n. 190».
(G.U. 4 gennaio 2013, n. 3)
In attuazione della delega conferita dall’art. 1, comma 63, l. 6 novembre 2012, n. 190, il provvedimento in esame in-
Diritto penale e processo 2/2013 135

Legislazione
Novità in sintesi
136
troduce disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di governo conseguenti a
sentenze definitive di condanna per delitti non colposi. Il d.lgs., in vigore dal 5 gennaio 2013, si compone di 24 articoli,
suddivisi in 5 capi: “Cause ostative all’assunzione e allo svolgimento delle cariche di deputato, senatore
e di membro del Parlamento europeo spettante all’Italia” (artt. 1-5); “Cause ostative all’assunzione e allo svolgimento
di incarichi di Governo” (art. 6); “Incandidabilità alle cariche elettive regionali” (art. 7-9); “Incandidabilità
alle cariche elettive negli enti locali” (art. 10-12); “Disposizioni comuni, transitorie e finali” (artt. 13-18).
In vista della prossima tornata elettorale, va evidenziato che, ai sensi dell’art. 1, «non possono essere candidati e non
possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore: a) coloro che hanno riportato condanne definitive
a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e3quater,
del codice di procedura penale; b) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni
di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti nel libro II, titolo II, capo I, del codice penale; c) coloro che
hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati,
per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, determinata ai sensi dell’articolo
278 del codice di procedura penale». Le medesime situazioni ostano all’assunzione e allo svolgimento di incarichi
di Governo. Ai sensi dell’art. 13, l’incandidabilità in esame «decorre dalla data del passaggio in giudicato della
sentenza stessa ed ha effetto per un periodo corrispondente al doppio della durata della pena accessoria dell’interdizione
temporanea dai pubblici uffici comminata dal giudice. In ogni caso l’incandidabilità, anche in assenza
della pena accessoria, non è inferiore a sei anni». Da segnalare, che, per espresso dettato normativo (art. 15,
comma 1) l’incandidabilità opera anche nel caso di sentenza definitiva di “patteggiamento” ex art. 444 c.p.p. A
norma dell’art. 15, comma 3, la sentenza di riabilitazione, ai sensi degli artt. 178 ss. c.p., «è l’unica causa di estinzione
anticipata dell’incandidabilità e ne comporta la cessazione per il periodo di tempo residuo».
Diritto penale e processo 2/2013

Protezione dei minori
Un ulteriore intervento
a tutela dei minori (I parte)
Legge 1 ottobre 2012, n. 172
…(Omissis)...
Capo II
DISPOSIZIONI DI ADEGUAMENTO
DELL’ORDINAMENTO INTERNO
Art. 4
Modifiche al codice penale
1. Al codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 157, sesto comma, è aggiunto, in fine, il
seguente periodo: “I termini di cui ai commi che precedono
sono altresì raddoppiati per il reato di cui all’articolo
572 e per i reati di cui alla sezione I del capo III del titolo
XII del libro II e di cui agli articoli 609-bis, 609-quater,
609-quinquies e 609-octies, salvo che risulti la sussistenza
delle circostanze attenuanti contemplate dal terzo
comma dell’articolo 609-bis ovvero dal quarto comma
dell’articolo 609-quater”;
b) dopo l’articolo 414 è inserito il seguente:”Art.
414-bis (Istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia).
- Salvo che il fatto costituisca più grave reato,
chiunque, con qualsiasi mezzo e con qualsiasi forma di
espressione, pubblicamente istiga a commettere, in danno
di minorenni, uno o più delitti previsti dagli articoli
600-bis, 600-ter e 600-quater, anche se relativi al materiale
pornografico di cui all’articolo 600-quater.1, 600quinquies,
609-bis, 609-quater e 609-quinquies è punito
con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni.Alla
stessa pena soggiace anche chi pubblicamente fa
l’apologia di uno o più delitti previsti dal primo comma.Non
possono essere invocate, a propria scusa, ragioni
o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di
costume”;
c) all’articolo 416 è aggiunto, in fine, il seguente comma:”Se
l’associazione è diretta a commettere taluno dei
delitti previsti dagli articoli 600-bis, 600-ter, 600-quater,
600-quater.1, 600-quinquies, 609-bis, quando il fatto è
Legislazione
Diritto penale
«Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento
e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento
interno».
(G.U. 8 ottobre 2012, n. 235)
commesso in danno di un minore di anni diciotto, 609quater,
609-quinquies, 609-octies, quando il fatto è commesso
in danno di un minore di anni diciotto, e 609-undecies,
si applica la reclusione da quattro a otto anni nei
casi previsti dal primo comma e la reclusione da due a sei
anni nei casi previsti dal secondo comma”;
d) l’articolo 572 è sostituito dal seguente:”Art. 572
(Maltrattamenti contro familiari e conviventi). - Chiunque,
fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta
una persona della famiglia o comunque convivente,
o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata
per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza
o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte,
è punito con la reclusione da due a sei anni.La pena è
aumentata se il fatto è commesso in danno di persona minore
degli anni quattordici.Se dal fatto deriva una lesione
personale grave, si applica la reclusione da quattro a
nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione
da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione
da dodici a ventiquattro anni”;
e) all’articolo 576:
1) al primo comma, alinea, le parole: “la pena di morte”
sono sostituite dalle seguenti: “la pena dell’ergastolo”;
2) il numero 5) del primo comma è sostituito dal seguente:”5)
in occasione della commissione di taluno dei
delitti previsti dagli articoli 572, 600-bis, 600-ter, 609bis,
609-quater e 609-octies”;
3) nella rubrica, le parole: “Pena di morte” sono sostituite
dalla seguente: “Ergastolo”;
f) all’articolo 583-bis, dopo il terzo comma, è inserito
il seguente:”La condanna ovvero l’applicazione della pena
su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del
codice di procedura penale per il reato di cui al presente
articolo comporta, qualora il fatto sia commesso dal genitore
o dal tutore, rispettivamente:1) la decadenza dall’esercizio
della potestà del genitore;2) l’interdizione perpetua
da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela
e all’amministrazione di sostegno”;
g) l’articolo 600-bis è sostituito dal seguente:”Art.
Diritto penale e processo 2/2013 137

Legislazione
Diritto penale
600-bis (Prostituzione minorile). - È punito con la reclusione
da sei a dodici anni e con la multa da euro 15.000 a
euro 150.000 chiunque:1) recluta o induce alla prostituzione
una persona di età inferiore agli anni diciotto;2) favorisce,
sfrutta, gestisce, organizza o controlla la prostituzione
di una persona di età inferiore agli anni diciotto,
ovvero altrimenti ne trae profitto.Salvo che il fatto costituisca
più grave reato, chiunque compie atti sessuali con
un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto
anni, in cambio di un corrispettivo in denaro o altra utilità,
anche solo promessi, è punito con la reclusione da
uno a sei anni e con la multa da euro 1.500 a euro 6.000”;
h) all’articolo 600-ter:
1) il primo comma è sostituito dal seguente:”È punito
con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da
euro 24.000 a euro 240.000 chiunque:1) utilizzando minori
di anni diciotto, realizza esibizioni o spettacoli pornografici
ovvero produce materiale pornografico;2) recluta
o induce minori di anni diciotto a partecipare a esibizioni
o spettacoli pornografici ovvero dai suddetti spettacoli
trae altrimenti profitto”;
2) sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:”Salvo che
il fatto costituisca più grave reato, chiunque assiste a esibizioni
o spettacoli pornografici in cui siano coinvolti
minori di anni diciotto è punito con la reclusione fino a
tre anni e con la multa da euro 1.500 a euro 6.000.Ai fini
di cui al presente articolo per pornografia minorile si
intende ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di
un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali
esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione
degli organi sessuali di un minore di anni diciotto
per scopi sessuali”;
i) l’articolo 600-sexies è abrogato;
l) l’articolo 600-septies è sostituito dal seguente:”Art.
600-septies (Confisca). - Nel caso di condanna, o di applicazione
della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo
444 del codice di procedura penale, per i delitti
previsti dalla presente sezione, nonché dagli articoli 609bis,
quando il fatto è commesso in danno di un minore di
anni diciotto o il reato è aggravato dalle circostanze di
cui all’articolo 609-ter, primo comma, numeri 1), 5) e 5bis),
609-quater, 609-quinquies, 609-octies, quando il
fatto è commesso in danno di un minore di anni diciotto
o il reato è aggravato dalle circostanze di cui all’articolo
609-ter, primo comma, numeri 1), 5) e 5-bis), e 609-undecies,
è sempre ordinata, salvi i diritti della persona offesa
alle restituzioni e al risarcimento dei danni, la confisca
dei beni che costituiscono il prodotto, il profitto o il
prezzo del reato. Ove essa non sia possibile, il giudice dispone
la confisca di beni di valore equivalente a quelli
che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del
reato e di cui il condannato abbia, anche indirettamente
o per interposta persona, la disponibilità. Si applica il terzo
comma dell’articolo 322-ter”;
m) dopo l’articolo 600-septies sono inseriti i seguenti:”Art.
600-septies.1 (Circostanza attenuante). - La pena
per i delitti di cui alla presente sezione è diminuita da un
terzo fino alla metà nei confronti del concorrente che si
adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a
conseguenze ulteriori, ovvero aiuta concretamente l’au-
138
torità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di
prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti.Art.
600-septies.2 (Pene accessorie). - Alla condanna
o all’applicazione della pena su richiesta delle parti
a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale
per i delitti previsti dalla presente sezione e per il delitto
di cui all’articolo 414-bis del presente codice conseguono:1)
la perdita della potestà genitoriale, quando la
qualità di genitore è prevista quale circostanza aggravante
del reato;2) l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio
attinente alla tutela, alla curatela o all’amministrazione
di sostegno;3) la perdita del diritto agli alimenti e l’esclusione
dalla successione della persona offesa;4) l’interdizione
temporanea dai pubblici uffici; l’interdizione dai
pubblici uffici per la durata di anni cinque in seguito alla
condanna alla reclusione da tre a cinque anni, ferma restando,
comunque, l’applicazione dell’articolo 29, primo
comma, quanto all’interdizione perpetua.La condanna o
l’applicazione della pena su richiesta delle parti a norma
dell’articolo 444 del codice di procedura penale per uno
dei delitti previsti dalla presente sezione e per il delitto di
cui all’articolo 414-bis del presente codice, quando commessi
in danno di minori, comporta in ogni caso l’interdizione
perpetua da qualunque incarico nelle scuole di
ogni ordine e grado, nonché da ogni ufficio o servizio in
istituzioni o strutture pubbliche o private frequentate
abitualmente da minori.In ogni caso è disposta la chiusura
degli esercizi la cui attività risulta finalizzata ai delitti
previsti dalla presente sezione, nonché la revoca della licenza
di esercizio o della concessione o dell’autorizzazione
per le emittenti radiotelevisive”;
n) l’articolo 602-bis è abrogato;
o) all’articolo 602-ter, dopo il secondo comma, sono
aggiunti i seguenti:”Nei casi previsti dagli articoli 600bis,
primo comma, e 600-ter, la pena è aumentata da un
terzo alla metà se il fatto è commesso con violenza o minaccia.Nei
casi previsti dagli articoli 600-bis, primo e secondo
comma, 600-ter, primo comma, e 600-quinquies,
la pena è aumentata da un terzo alla metà se il fatto è
commesso approfittando della situazione di necessità del
minore.Nei casi previsti dagli articoli 600-bis, primo e secondo
comma, 600-ter e 600-quinquies, nonché dagli articoli
600, 601 e 602, la pena è aumentata dalla metà ai
due terzi se il fatto è commesso in danno di un minore degli
anni sedici.Nei casi previsti dagli articoli 600-bis, primo
comma, e 600-ter, nonché, se il fatto è commesso in
danno di un minore degli anni diciotto, dagli articoli
600, 601 e 602, la pena è aumentata dalla metà ai due terzi
se il fatto è commesso da un ascendente, dal genitore
adottivo, o dal loro coniuge o convivente, dal coniuge o
da affini entro il secondo grado, da parenti fino al quarto
grado collaterale, dal tutore o da persona a cui il minore
è stato affidato per ragioni di cura, educazione, istruzione,
vigilanza, custodia, lavoro, ovvero da pubblici ufficiali o
incaricati di pubblico servizio nell’esercizio delle loro
funzioni ovvero ancora se è commesso in danno di un minore
in stato di infermità o minorazione psichica, naturale
o provocata.Nei casi previsti dagli articoli 600-bis, primo
comma, e 600-ter, nonché dagli articoli 600, 601 e
602, la pena è aumentata dalla metà ai due terzi se il fat-
Diritto penale e processo 2/2013

to è commesso mediante somministrazione di sostanze alcoliche,
narcotiche, stupefacenti o comunque pregiudizievoli
per la salute fisica o psichica del minore, ovvero se
è commesso nei confronti di tre o più persone.Le circostanze
attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli
98 e 114, concorrenti con le circostanze aggravanti di cui
alla presente sezione, non possono essere ritenute equivalenti
o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena
si operano sulla quantità della stessa risultante dall’aumento
conseguente alle predette aggravanti”;
p) dopo l’articolo 602-ter, è inserito il seguente:”Art.
602-quater (Ignoranza dell’età della persona offesa). -
Quando i delitti previsti dalla presente sezione sono commessi
in danno di un minore degli anni diciotto, il colpevole
non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età
della persona offesa, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile”;
q) all’articolo 604, le parole: “e 609-quinquies” sono
sostituite dalle seguenti: “, 609-quinquies, 609-octies e
609-undecies”;
r) all’articolo 609-quater:
1) il secondo comma è sostituito dal seguente:”Fuori
dei casi previsti dall’articolo 609-bis, l’ascendente, il genitore,
anche adottivo, o il di lui convivente, il tutore,
ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione,
di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato,
o che abbia con quest’ultimo una relazione di convivenza,
che, con l’abuso dei poteri connessi alla sua posizione,
compie atti sessuali con persona minore che ha
compiuto gli anni sedici, è punito con la reclusione da tre
a sei anni”;
2) al quarto comma, le parole: “fino a due terzi” sono
sostituite dalle seguenti: “in misura non eccedente i due
terzi”;
s) l’articolo 609-quinquies è sostituito dal seguente:”Art.
609-quinquies (Corruzione di minorenne). -
Chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore
di anni quattordici, al fine di farla assistere, è punito
con la reclusione da uno a cinque anni.Salvo che il fatto
costituisca più grave reato, alla stessa pena di cui al primo
comma soggiace chiunque fa assistere una persona
minore di anni quattordici al compimento di atti sessuali,
ovvero mostra alla medesima materiale pornografico,
al fine di indurla a compiere o a subire atti sessuali.La pena
è aumentata fino alla metà quando il colpevole sia
l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il di lui convivente,
il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di
cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia,
il minore è affidato, o che abbia con quest’ultimo una
relazione di stabile convivenza”;
t) l’articolo 609-sexies è sostituito dal seguente:”Art.
609-sexies (Ignoranza dell’età della persona offesa). -
Quando i delitti previsti negli articoli 609-bis, 609-ter,
609-quater, 609-octies e 609-undecies sono commessi in
danno di un minore degli anni diciotto, e quando è commesso
il delitto di cui all’articolo 609-quinquies, il colpevole
non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età
della persona offesa, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile”;
u) all’articolo 609-nonies:
Legislazione
Diritto penale
1) il primo comma è sostituito dal seguente:”La condanna
o l’applicazione della pena su richiesta delle parti
ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale
per alcuno dei delitti previsti dagli articoli 609-bis, 609ter,
609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 609-undecies
comporta:1) la perdita della potestà del genitore,
quando la qualità di genitore è elemento costitutivo o
circostanza aggravante del reato;2) l’interdizione perpetua
da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela
e all’amministrazione di sostegno;3) la perdita del diritto
agli alimenti e l’esclusione dalla successione della persona
offesa;4) l’interdizione temporanea dai pubblici uffici;
l’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque
in seguito alla condanna alla reclusione da tre a cinque
anni, ferma restando, comunque, l’applicazione dell’articolo
29, primo comma, quanto all’interdizione perpetua;5)
la sospensione dall’esercizio di una professione o
di un’arte”;
2) al secondo comma, le parole: “e 609-octies” sono
sostituite dalle seguenti: “, 609-octies e 609-undecies”;
3) dopo il secondo comma sono aggiunti i seguenti:”La
condanna per i delitti previsti dall’articolo 600-bis,
secondo comma, dall’articolo 609-bis, nelle ipotesi aggravate
di cui all’articolo 609-ter, dagli articoli 609-quater,
609-quinquies e 609-octies, nelle ipotesi aggravate di cui
al terzo comma del medesimo articolo, comporta, dopo
l’esecuzione della pena e per una durata minima di un anno,
l’applicazione delle seguenti misure di sicurezza personali:1)
l’eventuale imposizione di restrizione dei movimenti
e della libera circolazione, nonché il divieto di avvicinarsi
a luoghi frequentati abitualmente da minori;2)
il divieto di svolgere lavori che prevedano un contatto
abituale con minori;3) l’obbligo di tenere informati gli
organi di polizia sulla propria residenza e sugli eventuali
spostamenti.Chiunque viola le disposizioni previste dal
terzo comma è soggetto alla pena della reclusione fino a
tre anni”;
v) all’articolo 609-decies:
1) il primo comma è sostituito dal seguente:”Quando
si procede per taluno dei delitti previsti dagli articoli 600,
600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-bis, 609ter,
609-quinquies, 609-octies e 609-undecies commessi
in danno di minorenni, ovvero per il delitto previsto dall’articolo
609-quater, il procuratore della Repubblica ne
dà notizia al tribunale per i minorenni”;
2) il secondo comma è sostituito dal seguente:”Nei
casi previsti dal primo comma, l’assistenza affettiva e psicologica
della persona offesa minorenne è assicurata, in
ogni stato e grado del procedimento, dalla presenza dei
genitori o di altre persone idonee indicate dal minorenne,
nonché di gruppi, fondazioni, associazioni od organizzazioni
non governative di comprovata esperienza nel
settore dell’assistenza e del supporto alle vittime dei reati
di cui al primo comma e iscritti in apposito elenco dei
soggetti legittimati a tale scopo, con il consenso del minorenne,
e ammessi dall’autorità giudiziaria che procede”;
z) nella sezione II del capo III del titolo XII del libro
II, dopo l’articolo 609-decies è aggiunto il seguente:”Art.
609-undecies (Adescamento di minorenni). - Chiunque,
Diritto penale e processo 2/2013 139

Legislazione
Diritto penale
allo scopo di commettere i reati di cui agli articoli 600,
600-bis, 600-ter e 600-quater, anche se relativi al materiale
pornografico di cui all’articolo 600-quater.1, 600quinquies,
609-bis, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies,
adesca un minore di anni sedici, è punito, se il fatto
non costituisce più grave reato, con la reclusione da uno
140
a tre anni. Per adescamento si intende qualsiasi atto volto
a carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe
o minacce posti in essere anche mediante l’utilizzo
della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione”.
…(Omissis)...
La riforma dei reati di prostituzione minorile e pedopornografia
di Annamaria Peccioli
Con la legge in commento, che ratifica la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei bambini
contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali (Lanzarote, 25 ottobre 2007), sono state introdotte significative
novità ai reati di pedopornografia caratterizzate da un’anticipazione della punibilità anche a condotte prodromiche
rispetto alla realizzazione dei reati di cui agli art. 600 ss. c.p., al fine di predisporre una tutela rafforzata
allo sviluppo psicofisico del minore sfruttato, che comportano dei problemi di compatibilità con il principio
costituzionale di offensività.
Premessa
La legge in commento, che rappresenta uno dei
molteplici interventi legislativi che negli ultimi anni,
a partire dal 1998, hanno introdotto modifiche
al sistema penale dei reati a tutela della personalità
individuale, ha innovato sia sul piano processuale
sia sul piano sostanziale la disciplina dei reati di pedopornografia
(artt. 600-bis, 600-ter e 600 sexies,
600 septies, 600 septies1 c.p.) e dei reati sessuali (artt.
609-quater, 609-septies e 600-novies, 609 novies; 609
unidecies c.p.).
La riforma, come evidenziato dai lavori preparatori
(1), trova la propria ratio giustificatrice nell’esigenza
di armonizzare il precedente impianto normativo ai
parametri fissati dalla Convenzione del Consiglio
d’Europea per la protezione dei bambini contro lo sfruttamento
e gli abusi sessuali (Lanzarote, 25 ottobre
2007) e dalla Direttiva dell’Unione europea
2011/93/UE (2) contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale
dei minori e la pornografia minorile. L’esigenza di
dare attuazione a precedenti impegni assunti a livello
internazionale ed europeo aveva già costituito la
base di partenza dei precedenti interventi di riforma
del 1998 e del 2006, con cui erano state predisposte
le misure sanzionatorie a tutela dei minori in caso di
sfruttamento sessuale (si trattava della Convenzione
ONU sui diritti dell’infanzia del 1989 e della Dichiarazione
finale della Conferenza mondiale di
Stoccolma del 1996). In realtà la normativa italiana
presentava un elevato livello di compatibilità con le
disposizioni di diritto comunitario (in modo partico-
lare con riguardo alle cornici edittali delle diverse
fattispecie incriminatrici): al fine di predisporre una
tutela rafforzata allo sviluppo psicofisico del minore
sfruttato vengono introdotte nuove ipotesi incriminatrici
(quali per esempio l’adescamento di minori
all’art. 609 undecies c.p. e la punibilità del fruitore
degli spettacoli pornografici al sesto comma dell’art.
600 ter c.p.) caratterizzate da un’anticipazione della
punibilità anche a condotte prodromiche alla realizzazione
dei reati di cui agli art. 600 ss. c.p. (anticipazione
che può comportare dei problemi di compatibilità
con il principio costituzionale di offensività) e
vengono eliminate alcune asimmetrie rispetto ai parametri
europei (quale l’indicazione espressa degli
elementi costitutivi della nozione di pornografia minorile
all’ultimo comma dell’art. 600 ter c.p.).
Le modifiche al delitto di prostituzione
minorile (art. 600 bis c.p.)
L’art. 4, primo comma, lett. h) della legge in esame
Note:
(1) La l. n. 172/2012 in commento ha avuto un iter legislativo
particolarmente lungo e complesso: dalla presentazione, nel
marzo 2009, dell’originario disegno di legge (C 2326) sono trascorsi,
infatti, più di due anni ed è stato caratterizzato da diversi
passaggi con ripetute modificazioni tra Camera e Senato.
(2) Pubblicata in GUCE, l. 135, 17 dicembre 2001, 1 ss. Per un
commento si veda M. Trogli, Lotta contro l’abuso, lo sfruttamento
sessuale dei minori e la pornografia minorile: alcune riflessioni
sulla direttiva 2011/93/Ue del Consiglio del 13 dicembre
2011, in Cass. pen., 2012, 1906 ss.; A. Verri, Contenuto ed
effetti (attuali e futuri) della direttiva 2011/93/UE, in
www.penalecontemporaneo.it.
Diritto penale e processo 2/2013

ha introdotto alcune variazioni alla fattispecie incriminatrice
della prostituzione minorile dell’art. 600bis
c.p.
La prima modifica, anche se non rilevante, riguarda
la cornice edittale dell’ipotesi del primo comma: invariata
la pena della reclusione (da sei a dodici anni),
in quanto appariva conforme agli standards internazionali
ed europei, viene leggermente rimodulata
la pena della multa (che oscilla da un minimo di
quindicimila euro ad un massimo di centocinquantamila
euro)
Una seconda modifica riguarda l’inserimento, sempre
nel primo comma, accanto alle tradizionali condotte
di induzione, di favoreggiamento e di sfruttamento,
delle ipotesi di reclutamento, da un lato, e
dall’altro, della gestione, dell’organizzazione, di controllo
e di trarre profitto.
Non si tratta di una nuova incriminazione (3) in
quanto, nella vigenza della previgente formulazione
dell’art. 600-bis c.p., le condotte venivano ritenute
per interpretazione prevalente della dottrina e della
giurisprudenza quali forme di concretizzazione delle
generiche ipotesi di favoreggiamento e di sfruttamento.
L’introduzione di tali nuove condotte non risponde
all’esigenza di dare attuazione alla Convenzione
di Lanzarote e alla direttiva 2011/93/UE, che
non prevedono tale articolazione delle forme di prostituzione
minorile. Il legislatore, attraverso l’elencazione
delle diverse forme di realizzazione (indicate
rispettamene con la numerazione 1) e 2)) delle tradizionali
ipotesi di favoreggiamento e di sfruttamento
della prostituzione, ha utilizzato una tecnica normativa
casistica al fine di rendere la norma maggiormente
conforme al principio di determinatezza e di
tassatività: per evitare il rischio di creare alcune lacune
nell’incriminazione viene inserita altresì da ultimo
una generica ed indefinita condotta di trarre
profitto dalla prostituzione minorile.
Va precisato in relazione al reclutamento (che non
rappresenta comunque una novità normativa in
quanto precedentemente disciplinato (4) dall’art. 3,
primo comma, n. 1 della l. 20 febbraio 1958, n. 75)
che l’elemento di distinzione rispetto alla condotta
di induzione è rappresentato dall’assenza di una
qualsiasi forma di persuasione ad esercitare l’attività
di prostituzione (5).
Con la suddivisione della prostituzione minorile in
due autonome fattispecie, si è voluto comporre un
contrasto interpretativo (6), sviluppatesi già sotto il
vigore della legge Merlin, nel caso di realizzazione di
condotte susseguenti di induzione e di sfruttamento
a danno della stessa vittima minore. La nuova formulazione
sembra essere indicativa della volontà le-
Legislazione
Diritto penale
gislativa di prevedere una norma a più fattispecie:
pertanto nel caso di realizzazione di una pluralità di
condotte si configurerà un concorso di reati.
(segue) La punibilità del cliente
della prostituzione minorile: le modifiche
al secondo comma dell’art. 600-bis c.p.
Anche il secondo comma dell’art. 600-bis c.p., che
prevede la punibilità del cliente della prostituzione
minorile, è stato investito dall’intervento riformatore
della l. n. 172/2012. In primis viene raddoppiata la
pena detentiva (da uno a sei anni) per colui che
compie atti sessuali con un minore di età compresa
tra i quattordici e i diciotto anni. Ulteriore modifica
è rappresentata dalla previsione della rilevanza penale
del compimento di atti sessuali forniti in cambio
anche della sola promessa del corrispettivo di denaro
o di utilità, che, peraltro, non deve più necessariamente
avere, diversamente dalla previgente disciplina,
natura economica. L’eliminazione del carattere
necessariamente economico dell’utilità e la sufficienza
della mera promessa del corrispettivo, ampliando
la portata applicativa del secondo comma
dell’art. 600-bis c.p., portano ad affermare che siamo
di fronte ad ipotesi di nuova incriminazione non applicabile
in via retroattiva alle condotte realizzate
sotto la vigenza della precedente formulazione ma i
cui procedimenti penali sono ancora in corso.
Dall’art. 600-bis c.p. vengono, altresì, eliminate la
circostanza aggravante del compimento di atti sessuali
a danno di minori che non abbiano ancora
compiuto gli anni sedici e la circostanza attenuante,
che era applicabile nel caso in cui il cliente fosse un
minore degli anni diciotto.
In relazione alla circostanza attenuante siamo in
presenza di un’abolizione invece, in relazione alla
circostanza aggravante, il legislatore ha inserito tale
ipotesi nell’art. 602-ter c.p.
Nel quinto comma dell’art. 602-ter c.p. viene assor-
Diritto penale e processo 2/2013 141
Note:
(3) P. Pisa, Una nuova stagione di miniriforme, in questa Rivista,
2012, 1422 ss.; E. Bricchetti-L. Pistorelli, Sesso a pagamento punito
con sei anni e 6 mila euro, in Guida dir., 27 ottobre 2012, 43,
92 ss.
(4) Ex multis Cass., Sez. VI, 5 novembre 2008, n. 43872, T., in
www.dejure.giuffre.it
(5) P. Pisa, Una nuova stagione di miniriforme, in questa Rivista,
2012, 1422 ss.; E. Bricchetti-L. Pistorelli, Sesso a pagamento punito
con sei anni e 6 mila euro, in Guida dir., 27 ottobre 2012, 43,
92 ss.
(6) Per una disamina dei recenti orientamenti dottrinali e
giurisprudenziali in materia si veda L. Bontempi, Commento all’art.
600 bis c.p., in Codice penale commentato, a cura di E. Dolcini
- G. Marinucci, Milano, 2011, 5726 ss.

Legislazione
Diritto penale
bita la circostanza aggravante che nella previgente
disciplina era stata inserita nel secondo comma dell’art.
600-bis c.p.: all’epoca del 1998 l’attribuzione
della natura giuridica di circostanza aggravante all’ipotesi
in cui il minore non avesse compiuto 16 anni
avrebbe potuto comportare la neutralizzazione del
rigore sanzionatorio in sede di bilanciamento con
eventuali circostanze attenuanti, dal momento che
le ipotesi contenute all’art. 600-bis, secondo e terzo
comma non erano ricomprese tra quelle che potevano
usufruire del particolare meccanismo di esclusione
dal giudizio di bilanciamento. Tale rischio è stato
neutralizzato (anche se parzialmente) attraverso
l’estensione nell’ultimo comma dell’art. 602-ter c.p.
del privilegio nel giudizio di bilanciamento a tutte le
circostanze aggravanti dei delitti contro la personalità
individuale.
Con la riforma del trattamento sanzionatorio del secondo
comma dell’art. 600-bis c.p. potrebbero porsi
dei problemi di diritto intertemporale per l’individuazione
della norma in concreto applicabile alle ipotesi
di prostituzione minorile realizzate sotto la vigenza
della precedente normativa ma i cui procedimenti penali
sono ancora in corso. Per quanto riguarda l’ipotesi
del compimento di atti sessuali con minori di età
compresa tra i sedici e i diciotto anni, la norma in
commento non può trovare applicazione retroattiva
alla luce dell’aumento della cornice sanzionatoria; altrettanto
per quanto riguarda l’ipotesi del compimento
di atti sessuali con minori di età compresa tra i
quattordici e di sedici anni dal momento che la nuova
circostanza aggravante dell’art. 602-ter è caratterizzata
da un inasprimento sanzionatorio e dall’esclusione
dal giudizio di bilanciamento.
Il legislatore avrebbe potuto introdurre una definizione
degli elementi costitutivi della prostituzione
non solo per meglio ottemperare a quanto imposto
dall’art. 19, secondo comma della Convenzione di
Lanzarote e dall’art. 2, lett. d) della direttiva
92/20121/UE ma anche per porre fine al dibattito
(7) che si era sviluppato, sotto la vigenza della precedente
disciplina, in merito alla rilevanza del singolo
atto di prostituzione e, conseguentemente, alla
natura solo eventualmente abituale del delitto di
prostituzione. Va sottolineato che le definizioni europee
qualificando la prostituzione minorile come
«l’attività di utilizzo di un minore per attività sessuali
dove il denaro o altre forme di remunerazione
o di corrispettivo sono date o promesse come pagamento,
a prescindere dal fatto che tale pagamento...
sia fatto al minore o a una terza persona», inducono
a ritenere che abbia rilevanza penale anche il singolo
atto di prostituzione (8).
142
Le modifiche al reato di pornografia
minorile: l’utilizzo dei minori
per la realizzazione e la produzione
di esibizioni, spettacoli e materiale
pornografico (art. 600-ter, primo comma,
n. 1, c.p.)
Il nucleo centrale della riforma attuata dalla l. n.
172/2012 è rappresentato dalle modifiche introdotte
alla fattispecie incriminatrice della pornografia
minorile dell’art. 600-ter c.p. In primo luogo, sul
modello già utilizzato in relazione all’art. 600-bis
c.p., vengono inserite attraverso un’elencazione numerata
due diverse ipotesi incriminatrici: la realizzazione
di esibizioni o spettacoli pornografici o la produzione
degli stessi utilizzando minori (art. 600-ter,
primo comma, n. 1), c.p.) e il reclutamento, l’induzione
di minori a partecipare ad esibizioni o spettacoli
pornografici o il trarre profitto da essi (art. 600ter,
primo comma, n. 2, c.p.).
In relazione alla prima delle due condotte non vengono
introdotte significative novità rispetto alla
previgente formulazione dell’art. 600-ter c.p., dal
momento che viene inserito solo il riferimento agli
spettacoli di natura pornografica, senza però definirne
i contenuti. L’introduzione di una norma definitoria
avrebbe consentito una migliore distinzione rispetto
alla tradizionale figura delle esibizioni, di cui,
sotto la vigenza della precedente disciplina, era stata
elaborata un’ampia nozione, secondo la quale era
tale ogni rappresentazione di natura pornografica
realizzata in pubblico a cui potevano assistere più
persone (anche se in concreto era sufficiente la presenza
di un singolo soggetto) (9). A meno di non
Note:
(7) La giurisprudenza (ex plurimis Cass., Sez. III, 11 gennaio
2011, n. 4235, in www.dejure.giuffre.it; Cass., Sez. III, 15 aprile
2010, n. 21335, L., in www.dejure.giuffre.it; Cass., Sez. III, 4 luglio
2007, in Cass. pen., 2007, 2412 ss.; Cass., Sez. III, 25 giugno
2006, n. 33615, M., in Cass. pen., 2003, 3170) e la dottrina
prevalenti (per una recente ricostruzione degli orientamenti in
materia si veda L. Bontempi, sub art. 600 bis c.p., in Codice penale
commentato, III ed., a cura di E. Dolcini-G. Marinucci, Milano,
III ed., 2011, 5729 ss.; affermano che è sufficiente un singolo
atto di prostituzione prescindendo dalla natura necessariamente
abituale del reato in esame.
(8) V. Relazione della Corte di Cassazione Novità legislative,: L. 1
ottobre 2012, n. 172 recante “Ratifica ed esecuzione della Convenzione
del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro
l o sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre
2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno”,
8 ss.; E. Bricchetti-L. Pistorelli, Sesso a pagamento punito
con sei anni e 6 mila euro, cit.
(9) A. Cadoppi, sub art. 600 ter, I e II comma, c.p., in AA. VV,
Commentario delle norme contro la violenza sessuale e contro
la pedofilia, a cura di A. Cadoppi, IV ed., Padova, 2006, 143 ss.
(segue)
Diritto penale e processo 2/2013

considerare pleonastico l’inserimento del riferimento
agli spettacoli pornografici, in quanto analoghi
per contenuto alle esibizioni, anche alla luce della
definizione contenuta nella Convenzione di Lanzarote
e nella direttiva europea (secondo le quali per
spettacolo deve intendersi l’«esibizione dal vivo, diretta
ad un pubblico, anche a mezzo di tecnologie
dell’informazione o della comunicazione») è necessario
affermare che le esibizioni pornografiche sono
penalmente rilevanti anche se rivolte ad un singolo
soggetto determinato (10).
L’aver mantenuto nell’art. 600-ter, primo comma, n.
1), c.p. il riferimento alla condotta di utilizzo dei minori
pone all’attenzione dell’interprete il problema
inerente la rilevanza penale della produzione di materiale
pornografico ad uso personale (c.d. pornografia
domestica o ad uso privato richiamando il testo della
Convenzione). Tale interrogativo, come è noto, si
era già posto sotto la vigenza della precedente formulazione
dell’art. 600-ter, quando con la l. 38/2006
venne rivista l’ipotesi del primo comma con l’eliminazione
del riferimento all’ambigua nozione di sfruttamento
e la rilevanza penale veniva incentrata sulla
realizzazione di esibizioni pornografiche e sulla
produzione di materiale pornografico.
La modifica del primo comma dell’art. 600-ter c.p.
assumeva un rilievo particolare in quanto la legge
del 1998 aveva incentrato le fattispecie incriminatrici
della pedopornografia sulla tutela del minore
sfruttato per la realizzazione di esibizioni pornografiche
o la produzione di materiale pornografico. Secondo
un’interpretazione letterale (11), che alla luce
della riforma del 2006 non avrebbe dovuto avere
alcun margine di applicazione, lo sfruttamento implicava
una finalità di lucro da parte del soggetto
agente. Una differente impostazione interpretava
più ampiamente la nozione di sfruttamento comprendendo
sia una finalità economica sia quella di
strumentalizzare i minori a fini egoistici o libidinosi.
Sul punto, come è noto, era intervenuta la Cassazione
a Sezioni Unite (12) chiarendo che la nozione di
sfruttamento non doveva avere necessariamente
una connotazione di tipo economico ma andava intesa
come la «strumentalizzazione dei minori a fini
egoistici in modo tale da mettere in pericolo il loro libero
sviluppo personale». Si richiedeva, peraltro, la dimostrazione
che la produzione del materiale pornografico
potesse comportare anche il pericolo di una successiva
diffusione verso l’esterno; in tale ottica si
evidenziavano alcuni indici rivelatori di tale pericolosità,
quali, a titolo esemplificativo, il collegamento
con la “rete” dei pedofili, la presenza di una struttura
organizzativa, la disponibilità materiale di stru-
Legislazione
Diritto penale
menti tecnici. Riprendendo la pronuncia delle Sezioni
Unite, sarebbe stato «il giudice ad accertare di
volta in volta se ricorre il concreto pericolo di diffusione
del materiale pornografico, facendo ricorso a elementi
sintomatici della condotta, quali: l’esistenza di una
struttura organizzativa anche rudimentale, atta a corrispondere
alle esigenze del mercato dei pedofili; il concreto
collegamento dell’agente con soggetti pedofili, potenziali
destinatari del materiale pornografico; la disponibilità
materiale di strumenti tecnici (di riproduzione e o di
trasmissione, anche telematica) idonei a diffondere il
materiale pornografico in cerchie più o meno vaste di destinatari;
l’utilizzo, contemporaneo o differito nel tempo,
di più minori per la produzione del materiale pornografico
(in questo senso la pluralità di minori impiegati
non è elemento costitutivo del reato, ma indice sintomatico
della pericolosità concreta della condotta); i precedenti
penali, la condotta antecedente e le qualità soggettive
del reo, quando siano connotati dalla diffusione
commerciale di pornografia minorile; altri indizi significativi
che l’esperienza può suggerire». Tale interpretazione,
apprezzabile per aver evidenziato come lo
sfruttamento non dovesse presentare necessariamente
una dimensione economica, in linea con
quanto contenuto sia nel preambolo iniziale della
legge di riforma del 1998 sia negli atti internazionali,
è stata oggetto di puntuali critiche nella parte in
cui ha ricostruito l’art. 600-ter c.p. in chiave di reato
di pericolo concreto.
La previsione di tale ulteriore pericolo di diffusione,
Diritto penale e processo 2/2013 143
Note:
(continua nota 9)
Per una disamina degli orientamenti in materia si veda S. Del Signore,
Commento all’art. 600 ter c.p. - Pornografia minorile, in
Trattato di Diritto penale, diretto da A. Cadoppi-S. Canestrari-A.
Manna-M. Papa, Trattato di diritto penale, Parte speciale,vol.
VIII, I delitti contro l’onore e la libertà individuale, Torino, 2010,
430; L. Pistorelli, sub art. 600 ter, in Codice penale commentato,
III ed., a cura di E.Dolcini-G.Marinucci, Milano, III ed., 2011,
5738 ss.
(10) Per analoghe considerazioni si veda Relazione della Corte di
Cassazione Novità legislative: L. 1 ottobre 2012, n. 172 recante “Ratifica
ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la
protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta
a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento
dell’ordinamento interno”, 9-10, in www.cortedicassazione.it.
(11) Si veda P. Pittaro, Le norme di diritto penale sostanziale, in
questa Rivista, 1998, 1226 ss.; A. Cadoppi, Commento all’art. 2,
I comma della legge 269/1998, in AA.VV., Commentari delle norme
contro la violenza sessuale, Padova, 558 ss. Per una recente
disamina degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali si veda
S. Delsignore, Pornografia minorile, in AA.VV., I reati contro la
persona, diretto da A. Cadoppi-S. Canestrari-M. Papa, III, Reati
contro la liberta sessuale e lo sviluppo psico-fisico dei minori, a
cura di A. Cadoppi, Torino, 2006, 477 ss.
(12) Cass., Sez. un., 31 maggio 2000, n. 13, B., in Cass.
pen., 2000, 2983.

Legislazione
Diritto penale
come è stato evidenziato (13), non sembrava comunque
coerente con la ratio delle norme incriminatrici
della pedopornografia in quanto se la finalità
era (ed è tuttora) quella di garantire l’armonico sviluppo
del minore la lesione del bene protetto sembrerebbe
essere integrata già con la realizzazione del
materiale pornografico senza che il successivo pericolo
di diffusione possa potenziare l’offensività delle
condotte in esame. Interpretando la nozione di
sfruttamento alla luce dei parametri indicati dalla
giurisprudenza la c.d. pornografia domestica poteva
assumere rilevanza penale solo nel caso in cui fosse
in concreto dimostrato che il materiale potesse essere
oggetto di una successiva diffusione a soggetti terzi.
Con l’intervento riformatore del 2006 per la configurabilità
del reato di pornografia minorile non
sembrava essere più necessario discutere sul significato
dello “sfruttamento” dei minori utilizzati né
tantomeno avrebbero dovuto essere considerati rilevanti
quei parametri indicati dalla giurisprudenza,
anche successiva (14) all’intervento delle Sezioni
unite, in base ai quali assumevano rilevanza penale
quale forme di pornografia minorile solo quelle condotte
dotate di concreta pericolosità di una successiva
diffusione verso l’esterno del materiale pornografico
prodotto. La diffusione e la distribuzione a soggetti
diversi dai produttori del materiale pornografico
rimaneva (e rimane), invece, caratteristica specifica
delle altre condotte previste nei commi successivi
(diffusione, cessione, divulgazione, distribuzione,
pubblicizzazione) da parte di soggetti che non
hanno partecipato alla realizzazione o alla produzione
del materiale pornografico (in virtù della clausola
di riserva con cui si aprono il terzo comma e il
quarto comma). Nonostante l’eliminazione del riferimento
allo sfruttamento del minore, la giurisprudenza
(15) ha continuato a richiedere il pericolo di
diffusione e a qualificare l’ipotesi del primo comma
quale reato di pericolo concreto.
Al fine di affermare che alla luce della riforma del
2012 ha rilevanza penale anche la pornografia domestica
possono essere addotte ulteriori argomentazioni
rispetto a quelle appena evidenziate. In primo
luogo la sua punibilità discende dalla ratio ispiratrice
della legge in commento: al fine di predisporre una
tutela rafforzata allo sviluppo psicofisico del minore
sfruttato con la rilevanza penale anche della pornografia
ad uso privato si ha un’anticipazione della punibilità
anche a condotte che possono costituire il
presupposto per una successiva diffusione verso
l’esterno del materiale realizzato.
In secondo luogo va sottolineato che la riformulazione
delle fattispecie incriminatrici induce a rite-
144
nere che la finalità di profitto non è una componente
necessaria per la realizzazione di tutte le condotte
dell’art. 600-ter, primo comma c.p.: come è stato
correttamente evidenziato (16) la componente economica
caratterizza solo l’ultima condotta, ad ampio
spettro applicativo, del trarre profitto dagli spettacoli
(ipotesi separata dalle altre dall’avverbio disgiuntivo
altrimenti).
Anche la definizione introdotta nell’ultimo comma
dell’art. 600-ter c.p. può essere utilizzata per sostenere
la punibilità della pornografia domestica dal momento
che tale nozione è incentrata sul pregiudizio
che i materiali o gli spettacoli possono arrecare allo
sviluppo psicofisico del minore, che compie o subisce
atti sessuali o i cui organi sessuali sono rappresentati,
al fine di appagare l’istinto sessuale altrui,
senza richiedere che ne derivi alcun profitto materiale.
Ulteriore argomento a sostegno può trarsi dalla considerazione
che il legislatore italiano non ha esercitato,
come si evince dalla lettura della relazione di
accompagnamento del disegno di legge iniziale e dei
lavori preparatori, la riserva prevista dall’art. 20, terzo
comma della Convenzione di Lanzarote, in base
alla quale le Parti potevano optare per non riconoscere
la rilevanza penale alle condotte di produzione
di immagini pedopornografiche realizzate con il
consenso dei minori ed esclusivamente per il loro
uso privato.
(segue) Le ulteriori condotte
dell’art. 600-ter c.p. La punibilità
del fruitore del materiale pornografico
Come anticipato, all’art. 600-ter, primo comma, n.
2), c.p. viene prevista la rilevanza penale delle condotte
di reclutamento, di induzione di minori a partecipare
ad esibizioni o spettacoli pornografici o del
trarre profitto da essi (art. 600-ter, primo comma,
Note:
(13) Si veda P. Pisa, Giurisprudenza commentata di diritto penale,
IV ed., Padova, 2006, 699 ss.; A. Cadoppi, sub art. 600 ter, I e
II comma, c.p., in AA. VV, Commentario delle norme contro la
violenza sessuale e contro la pedofilia, a cura di A. Cadoppi, IV
ed., Padova, 2006, 559 ss. Sia consentito un richiamo a A. Peccioli,
Lotta contro lo sfruttamento sessuale dei minori e la pedopornografia,
in questa Rivista, 2006, 948 ss.
(14) Ex plurimis Cass., Sez. III, 24 giugno 2003, M.P., in Riv. pen.,
2004, 324 ss.
(15) Cass., Sez. III, 21 novembre 2012, n. 47239, C.A., in
www.dirittoegiustizia, Quotidiano giuridico on line del 10 dicembre
2012; Cass., Sez. III, 11 ottobre 2011, n. 2681, in Foro it.,
2012 II, 468; Cass., Sez. III, 5 giugno 2007, n. 27252, in Guida
dir., 2007, 34, 55.
(16) E. Bricchetti-L. Pistorelli, Carcere per chi assiste a spettacoli
pornografici, in Guida dir., 2012, 43, 94 ss.
Diritto penale e processo 2/2013

n. 2), c.p.). In relazione al reclutamento, come precedentemente
affermato in relazione all’art. 600-bis
c.p., l’elemento di distinzione rispetto a quella di
induzione è rappresentato dall’assenza di una qualsiasi
forma di persuasione ad esercitare l’attività di
prostituzione (17). La riformulazione delle fattispecie
incriminatrici porta a ritenere che la finalità di
profitto non è una componente necessaria per la
realizzazione di tutte le condotte dell’art. 600-ter,
primo comma c.p.: come è stato correttamente evidenziato
(18) la componente economica caratterizza
solo l’ultima condotta ad ampio spettro applicativo
del trarre profitto dagli spettacoli (ipotesi separata
dalle altre dall’avverbio disgiuntivo altrimenti).
L’art. 600-ter amplia, rispetto alla previgente formulazione,
il catalogo di condotte incriminate con la
previsione del comportamento di chi “assiste” agli
spettacoli o esibizioni pornografiche: la punibilità
del fruitore, inserita per adeguarsi agli standards
contenuti nella Convenzione di Lanzarote, uniforma
la disciplina a quella dell’art. 600-bis c.p. che
prevedeva fin dal 1998 la punibilità del cliente della
prostituzione minorile. L’uniformità tra le due
fattispecie è completa dal momento che nell’ipotesi
di pornografia minorile viene prevista, all’art.
602-ter, quinto comma c.p. una circostanza aggravante
(aumento della pena da un terzo alla metà)
nel caso in cui il minore coinvolto nell’esibizione o
nello spettacolo pornografico non abbia ancora
compiuto i sedici anni.
Si tratta di un reato doloso che, in virtù della clausola
iniziale di salvaguardia, ha una sfera di applicazione
residuale rispetto all’integrazione di un più
grave reato: se il soggetto non si limiterà ad assistere
passivamente alle esibizioni o agli spettacoli pornografici,
in cui sono coinvolti minori, ma terrà una
condotta di partecipazione attiva, potranno essere
integrati gli estremi della prostituzione minorile
(art. 600-bis, secondo comma c.p.) o di alcuni reati
sessuali (art. 609-bis c.p., art. 609 quater c.p e art.
609 quinquies c.p.).
(segue) L’introduzione della definizione
di pornografia minorile
La legge in esame, colmando una lacuna evidenziata
sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza, ha introdotto
all’ultimo comma dell’art. 600-ter c.p. la definizione
di materiale pornografico: è pornografica la
rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore
degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali
esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione
degli organi sessuali di un minore degli anni
diciotto per scopi sessuali.
Legislazione
Diritto penale
Con tale previsione il legislatore ha dato attuazione
non solo all’art. 20, secondo comma della Convenzione
di Lanzarote ma anche a quanto disposto inizialmente
dalla Decisione quadro 2004/68/GAI e
successivamente dalla Direttiva 2011/92/UE. All’epoca
dell’introduzione delle norme in tema di pedopornografia
ad opera della legge 269/1998 e delle
riforme degli anni successivi (2006, 2009 e 2010), si
era lamentata la mancata determinatezza delle fattispecie
in oggetto per il non inserimento di una definizione
espressa (19) della nozione di pornografia.
Disposizione che avrebbe consentito di distinguere
l’ambito di applicazione delle fattispecie contenute
negli artt. 600-ter c.p. rispetto alle ipotesi incriminatrici
delle condotte di osceno, ex artt. 539 c.p., rendendole
maggiormente conformi al principio di determinatezza
in conformità agli standards contenuti
negli atti di diritto comunitario. Nel silenzio della
legge la dottrina (20) aveva elaborato diverse nozio-
Diritto penale e processo 2/2013 145
Note:
(17) P. Pisa, Una nuova stagione di miniriforme, in questa Rivista,
2012, 1422 ss.; E. Bricchetti-L. Pistorelli, Carcere per chi assiste
a spettacoli pornografici, in Guida dir., 2012, 43, 95.
(18) Relazione della Corte di Cassazione Novità legislative: L. 1
ottobre 2012, n. 172 recante “Ratifica ed esecuzione della Convenzione
del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro
l o sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre
2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno”,
8 ss.; E. Bricchetti-L. Pistorelli, Carcere per chi assiste a
spettacoli pornografici, in Guida dir., 2012, 43, 95 ss.
(19) Critiche alla mancanza della determinatezza della fattispecie
sono state mosse fin dall’epoca della su introduzione nel codice
penale ad opera della legge 3 agosto 1998, n. 269: si veda in particolare
in A. Cadoppi, Commento all’art. 600 ter, I e II comma, in
AA.VV., Commentario delle norme contro la violenza sessuale e
contro la pedofilia, a cura di Cadoppi, Padova, 2006, 129 ss.; G.
Marra, Pornografia minorile: contenuti e limiti di una definizione,in
Cass. pen., 2005, 3873 ss.;L. Gizzi, Il delitto di pornografia
minorile (art. 600 ter, I e II comma, c.p. e art. 600 quater, c.p.), in
Aa.Vv., I reati sessuali. I reati di sfruttamento e di riduzione in
schiavitù per fini sessuali, a cura di F. Coppi, Torino, 2007, 399 ss.;
M. Hefler, Davvero indeterminato il concetto di pornografia, specie
minorile?, in questa Rivista, 2004, 622 ss.; A. Manna, Profli
problematici della nuova legge in tema di pedofilia, in Ind. pen.,
1999, 48 ss.; A. Roiati, Quali immagini configurano “materiale
pornografico”, in Cass. pen., 2011, 1412 ss.; G. Ariolli, Commento
all’art. 600 ter c.p., in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza
e di dottrina, a cura di G.Lattanzi - E. Lupo, vol. XI, t. II, Milano,
2012, 909 ss.; A. Scarcella, Tassatività e determinatezza della
nozione di pornografia: la Cassazione apre al diritto comunitario,
in questa Rivista, 2010, 973 ss.; F. Serraino, Principio di offensività
e favoreggiamento della prostituzione, in Foro it., 2005,
454 ss.; A. Peccioli, Lotta contro lo sfruttamento sessuale di minori
e la pedopornografia, in questa Rivista, 2006, 948 ss.
(20) Per un excursus sulle diverse definizioni di materiale pornografico
elaborate dalla dottrina si veda recentemente S. Del Signore,
Commento all’art. 600 ter c.p. - Pornografia minorile, in
Trattato di Diritto penale, diretto da A. Cadoppi-S. Canestrari-A.
Manna-M. Papa, Trattato di diritto penale, Parte speciale,vol.
VIII, I delitti contro l’onore e la libertà individuale, Torino, 2010,
430 ss.

Legislazione
Diritto penale
ni di materiale pornografico: ad un’interpretazione
meramente soggettivistica, in base alla quale il materiale
prodotto poteva essere qualificato come pornografico
in relazione alla soglia di tollerabilità dei singoli
soggetti (interpretazione che poteva condurre a
ingiustificate disparità di trattamento), si contrapponevano
soluzioni interpretative che fondavano la
nozione di pornografia su parametri oggettivi. Secondo
una prima interpretazione (21) perché possa
parlarsi di pornografia è necessario il compimento di
atti sessuali da parte del minore o sul minore, affinché
possa verificarsi in concreto un effettivo pregiudizio
al bene giuridico tutelato, rappresentato, riprendendo
i passi della nota pronuncia Bove della
Corte di Cassazione a Sezioni Unite, dal corretto ed
armonico sviluppo psicofisico del minore. Diversamente
si è obiettato che possono essere ricomprese
nella definizione di materiale pornografico anche la
riproduzione, la rappresentazione o l’esibizione di organi
genitali consistenti in manifestazioni dell’istinto
sessuale. La giurisprudenza (22), pur in assenza di
una definizione della nozione di pornografia, aveva
elaborato una nozione, in piena conformità a quella
della decisione quadro 2004/68/GAI e della direttiva
2011/92/UE, in base alla quale era pornografico «il
materiale che ritragga o rappresenti un minore implicato
o coinvolto in una condotta sessualmente esplicita,
tra cui va ricompresa anche la mera esibizione
lasciva dei genitali e della regione pubica».
Del resto in questa prospettiva avrebbe potuto fornire
validi parametri per guidare il legislatore nella riforma
dei reati di pedopornografia il progetto di riforma
del codice penale predisposto dalla Commissione
Pagliaro, che sembrava anticipare alcune disposizioni
contenute nella decisione quadro europea
e nella direttiva: anch’esso conteneva una definizione
di pornografia nell’art. 74, secondo la quale doveva
considerato pornografico ogni oggetto o spettacolo
(considerato nella sua totalità o anche solo in
parte) consistente «in manifestazioni o in sollecitazioni
dell’istinto sessuale espresso con la riproduzione,
con la rappresentazione o con l’esibizione di organi
genitali» (23).
La riforma del 2006 si è limitata ad inserire solo la
discutibile definizione di materiale virtuale: l’art.
600-quater, n. 1), c.p. contiene una delimitazione
della rilevanza penale del materiale pornografico
virtuale in base alla quale può essere tale solo quello
prodotti on tecniche di elaborazione grafica e idonee
a rendere verosimile una situazione inesistente.
Rientreranno nella sfera di applicazione della nuova
norma incriminatrice quelle particolare forme di
Morphing, attraverso le quali, per esempio, ad un
146
corpo adulto che sta compiendo atti sessuali viene
sovrapposto il volto di un minore od ancora quei disegni
realizzati attraverso l’utilizzo di meccanismi informatici
tali per cui il confine tra la realtà e l’apparenza
non sembra evidente (si pensi, a titolo esemplificativo,
alla realizzazione di immagini particolarmente
elaborate nei video giochi o in film di animazione).
Nel 2012 il legislatore dà un riconoscimento normativo
espresso all’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale
prevalenti, affermando che può definirsi
pornografico non solo il materiale che rappresenti
con qualsiasi mezzo (l’ultimo comma non introduce
alcuna limitazione di sorta alle modalità di realizzazione
del materiale pornografico) che un minore degli
anni diciotto coinvolto in attività sessuali ma anche
la mera rappresentazione degli organi sessuali.
Entrambe le tipologie di materiale possono essere
qualificate pornografiche nel solo caso in cui si dimostri
la loro finalità sessuale: le immagini devono
concretizzarsi in manifestazioni o sollecitazioni dell’istinto
sessuale dei produttori o dei fruitori.
Il delitto di adescamento di minori
(art. 609 undecies c.p.)
Con la legge in esame al fine di predisporre una tutela
rafforzata allo sviluppo psicofisico del minore
sfruttato e di dare attuazione all’art. 23 della Convenzione
di Lanzarote, viene introdotta all’art. 609undecies
c.p. la fattispecie incriminatrice dell’adescamento
di minori, in cui vi è «un’anticipazione
della punibilità a condotte prodromiche rispetto alla
realizzazione dei reati di prostituzione minorile, di
pedopornografia e dei reati sessuali». La norma in-
Note:
(21) A. Cadoppi, Commento all’art. 600 ter, I e II comma, in
AA.VV., Commentario delle norme contro la violenza sessule e
contro la pedofilia, a cura di Cadoppi, Padova, 2006, 129 ss.
(22) Cass., Sez. III, 8 giugno 2004,n. 2546, M., in Cass. pen.,
2004, 3577 ss., con nota di F. Catullo, Sullo sfruttamento della
prostituzione on line e di G. Marra, Pornografia minorile: contenuti
e limiti di una definizione,in Cass. pen., 2005, 3873 ss.;
Cass., Sez. III, 22 marzo 2010, n. 10981, K., in questa Rivista,
2010, 973, con nota di A. Scarcella, Tassatività e determinatezza
della nozione di pornografia: la Cassazione apre al diritto comunitario;
contra Cass., Sez. III, 9 dicembre 2009, n. 8285, in
www.dejure.giuffre.it.
(23) All’art. 73 il Progetto Pagliaro (La riforma del codice penale.
Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice
penale, in Doc. giust., 1992, 305 ss.) strutturava le norme incriminatrici
prendendo come modello la pornografia avente ad
oggetto persone adulte e relegando a circostanza aggravante le
condotte realizzati su soggetti minori. Le condotte erano previste
in tre forme alternative quali la produzione, la detenzione e la
diffusione la cui rilevanza penale non si fondava sullo sfruttamento
dei minori ma su una finalità più prettamente economica.
Diritto penale e processo 2/2013

crimina gli atti volti a carpire la fiducia di un minore
infrasedicenne mediante artifici, lusinghe o minacce
(24), posti in essere mediante l’utilizzo di internet:
atti compiuti allo scopo di commettere vari
reati a danno del minore (art. 600, 600-bis, 600-ter,
reati sessuali).
La norma, diversamente dalla disposizione della
Convenzione del Consiglio d’Europa, non richiede
che lo scopo avuto di mira dall’adescatore si realizzi
in concreto, dal momento che in tal caso si realizzerebbero
nella forma consumata i reati oggetto delle
mire dell’adescatore. La giurisprudenza (25), prima
dell’introduzione della norma in commento, ha qualificato
in termini di tentativo le condotte di adescamento
finalizzate al compimento di reati di natura
sessuale. Pertanto se gli atti devono essere idonei
alla realizzazione dei reati in oggetto si dovrebbe
configurare la punibilità a titolo di tentativo dei delitti
a cui l’adescatore mira; per garantire una sfera di
applicazione autonoma all’art. 609-undecies c.p.
sembra necessario prescindere dall’accertamento del
requisito dell’idoneità, con un conseguente eccessivo
arretramento della soglia della tutela penale dando
rilevanza al compimento di atti che difficilmente
possono porre in pericolo (26) il bene giuridico dello
libero sviluppo armonico della personali e della libertà
sessuale del minore. Come già era stato evidenziato
(27) in tema di pedopopornografia virtuale,
dubbi di legittimità costituzionale per violazione
del principio di offensività potranno essere sollevati
in relazione a tale fattispecie in cui si intende prevenire
la commissione di ulteriori reati mediante l’incriminazione
di comportamenti che ne possono costituire
la premessa senza che in concreto alcun minore
venga effettivamente leso nella sua dignità o
nella sua libertà sessuale.
Le modifiche al catalogo
delle circostanze aggravanti
Con la legge in commento il legislatore ha proceduto
alla ristrutturazione del catalogo delle circostanze
aggravanti dei delitti di pedopornografia e di prostituzione
minorile, abrogando l’art. 600-sexies c.p. ed
inserendo le circostanze aggravati in alcuni nuovi
commi dell’art. 602-ter c.p. Le circostanze aggravanti
era in origine contenute nell’art. 600-sexies c.p. e
nell’art. 602-ter c.p.: la dislocazione in due distinte
disposizioni degli aumenti di pena erano dovuto al
fatto che nel 2010 il legislatore, introducendo l’art.
602-bis c.p., aveva unificato le circostanze aggravanti
originariamente contenute negli artt. 600, 601,
602 c.p. al fine di evitare inutili e sovrabbondanti
duplicazioni di norme.
Legislazione
Diritto penale
Il terzo comma dell’art. 602-ter c.p. prevede una circostanza
aggravante ad effetto speciale (con un aumento
della pena da un terzo alla metà) se il fatto
previsto dagli articoli 600-bis, primo comma, e 600ter
c.p. è commesso con violenza o minaccia. Il previgente
art. 600-sexies, terzo comma, c.p., prevedeva
un’analoga ipotesi circostanziale avente, diversamente
dall’attuale disposizione, la natura giuridica
di circostanza ad effetto comune (aumento della pena
solo fino ad un terzo).
L’attuale quarto comma prevede che nei casi previsti
dagli articoli 600-bis, primo e secondo comma, 600ter,
primo comma, e 600-quinquies, c.p., la pena è aumentata
da un terzo alla metà se il fatto è commesso
approfittando della situazione di necessità del minore.
La previsione dell’approfittamento della situazione
di necessità non è una novità nell’ambito dei delitti
contro la libertà individuale dal momento che
rappresenta una delle modalità di realizzazione dello
stato di soggezione continuativa nei reati di riduzione
in schiavitù e tratta degli esseri umani. Analogamente
agli artt. 600 e 601 c.p. anche l’art. 602-ter,
quarto comma c.p. non contiene alcuna definizione
degli elementi caratterizzanti lo stato di necessità.
La giurisprudenza, escludendo l’integrazione degli
estremi della causa di giustificazione di cui all’art. 54
c.p., inizialmente alla luce dell’art. 1448 c.c., successivamente
facendo riferimento alla nozione di stato
di bisogno quale circostanza aggravante dell’usura
(art. 644 c.p.) e alla definizione contenuta nella decisione
quadro ed, attualmente, della direttiva europea,
aveva interpretato lo stato di necessità quale situazione
di difficoltà e particolare vulnerabilità da
accertare in concreto.
Il quinto comma dell’art. 602-ter c.p. riproduce con
alcune significative variazioni il previgente primo
comma dell’art. 600-sexies c.p., ove era prevista nei
casi di 600-bis primo comma, di 600-ter, primo comma,
di turismo sessuale e riduzione in schiavitù, tratta
e acquisto ed alienazione di schiavi, una circostanza
ad effetto speciale con aumento della pena da
un terzo alla metà se il fatto fosse stato commesso a
Diritto penale e processo 2/2013 147
Note:
(24) P. Pisa, Una nova stagione di miniriforme, in questa Rivista,
2012, 1422 ss. Secondo l’A. la minaccia appare poco compatibile
con la finalità di carpire la fiducia dei minori.
(25) Ex plurimis Cass., Sez. III, 26 ottobre 2011, n. 45698, in
www.dejure.giuffre.it.
(26) Secondo P. Pisa, Una nuova stagione di miniriforme, in questa
Rivista, 2012, 1422 ss., la minaccia appare poco compatibile
con la finalità di carpire la fiducia dei minori.
(27) A. Peccioli, Lotta contro lo sfruttamento sessuale di minori
e la pedopornografia, in questa Rivista, 2006, 948 ss.

Legislazione
Diritto penale
danno dei minori degli anni quattordici. Nell’ottica
di una tutela rafforzata del minore, che rappresenta
il leit motiv della riforma del 2012 (confermata anche
dall’ampliamento delle circostanze privilegiate
nel giudizio di bilanciamento nell’ambito dei delitti
contro la personalità individuale), oltre alla modifica
del trattamento sanzionatorio (l’aumento della
pena dalla metà a due terzi) ad oggi la circostanza risulta
applicabile nei casi in cui il minore non abbia
compiuto i sedici anni (con estensione dell’aumento
della pena anche ai soggetti di età compresa tra i
quattordici ed i sedici anni) con un innalzamento
della soglia di età rilevante per l’integrazione della
fattispecie aggravata. In relazione all’applicabilità
della circostanza aggravante al delitto di pedopornografia,
si segnala che l’aumento di pena non viene
più riconosciuto solo in relazione all’ipotesi più grave
di pornografia minorile contenuta nel primo
comma ma per tutte le condotte incriminate (comprensive
anche di quelle introdotte dalla legge in
commento) del riconoscimento dell’aumento di pena
solo in relazione all’ipotesi più grave di pornografia
minorile contenuta nell’art. 600-ter c.p.
Nel quinto comma viene assorbita la circostanza aggravante
che nella previgente disciplina era stata inserita
nel secondo comma dell’art. 600-bis, secondo
comma, c.p.: all’epoca l’attribuzione della natura
giuridica di circostanza aggravante all’ipotesi in cui
il minore non abbia compiuto 16 anni avrebbe potuto
comportare la neutralizzazione del rigore sanzionatorio
(che caratterizzava la riforma del 2006)
in sede di bilanciamento con eventuali circostanze
attenuanti dal momento che le ipotesi contenute
agli artt. 600-bis, commi 2 e 3 non erano ricomprese
tra quelle possono usufruire del particolare meccanismo
di esclusione dal giudizio di bilanciamento. Tale
rischio è stato neutralizzato (anche se parzialmente)
attraverso l’estensione nell’ultimo comma dell’art.
602 ter c.p. del privilegio nel giudizio di bilanciamento
a tutte le circostanze aggravanti dei delitti
contro la personalità individuale.
La circostanza aggravante del quinto comma in relazione
alle ipotesi di cui agli artt. 600-601-602 c.p.
può porre un problema di rapporto con l’ipotesi circostanziale
contenuta nel suo primo comma, in cui è
previsto l’aumento della pena da un terzo alla metà
nel caso in cui la persona offesa sia un minore degli
anni diciotto. Ad una prima lettura sembra esserci
una sovrapposizione tra le due ipotesi circostanziali:
una lettura coordinata e sistematica delle disposizioni
induce a ritenere che l’aumento della pena sarà
da un terzo alla metà se la vittima avrà un’età compresa
tra 16 e 18 anni (art. 602-ter, primo comma,
148
c.p.) e dalla metà ai due terzi in caso di minore di età
inferiore ad anni 16 (art. 602-ter, quinto comma,
c.p.).
Il sesto comma dell’art. 602-ter c.p. riproduce con
l’analogo aumento della pena dalla metà a due terzi
le previgenti circostanze aggravanti dell’art. 600-sexies,
secondo comma c.p. relative alla particolare
qualifica soggettiva dell’autore del reato e allo stato
di inferiorità e menomazione psichica del minore.
Il settimo comma dell’art. 602-ter c.p. introduce una
prima circostanza aggravante ad effetto speciale
(con un aumento della pena dalla metà a due terzi)
se i reati di prostituzione minorile (art. 600-bis, primo
comma, c.p.), di pornografia minorile (art. 600ter
c.p.), di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), di
tratta (art. 601 c.p.) e di acquisto ed alienazione di
schiavi (art. 602 c.p.) siano commessi mediante la
somministrazione di sostanze alcoliche, narcotiche,
stupefacenti o comunque pregiudizievoli per la salute
fisica o psichica del minore. È stato correttamente
osservato (28) che tale circostanza potrebbe interferire
con quella, contenuta nel secondo comma
dell’art. 602-ter c.p., dell’approfittamento dello stato
di incapacità o menomazione psichica del minore
nel caso in cui venga procurato attraverso la somministrazione
di sostanze.
Il settimo comma dell’art. 602-ter c.p. contiene una
seconda circostanza aggravante rappresentata dalla
commissione dei reati di prostituzione minorile (art.
600-bis, primo comma, c.p.), di pornografia minorile
(art. 600-ter c.p.), di riduzione in schiavitù, di
tratta e di acquisto ed alienazione di schiavi a danno
di tre o più persone. Tale ipotesi pone fine al dubbio,
che era sorto con la riforma dei reati schiavitù della
l. n. 228/2003, se nel caso in cui i delitti di riduzione
in schiavitù, di tratta e di acquisto ed alienazione di
schiavi fossero realizzati a danno di più persone, si
configurasse una pluralità di reati.
A seguito della riforma introdotta dalla l. n. 228 del
2003, l’art. 601 c.p. non si limita più ad una definizione
tautologica della tratta di persone ma individua
gli elementi costitutivi sotto il profilo sia oggettivo
sia soggettivo. Nella vigenza della precedente
normativa assumendo rilevanza penale ex art. 601
c.p. solo quegli episodi realizzati a danno di una pluralità
di soggetti, nell’ipotesi di tratta avente ad og-
Nota:
(28) Relazione della Corte di Cassazione Novità legislative: L. 1
ottobre 2012, n. 172 recante “Ratifica ed esecuzione della Convenzione
del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro
l o sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre
2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno”,
14, in www.cortedicassazione.it.
Diritto penale e processo 2/2013

getto un’unica vittima si sosteneva non applicabilità,
per violazione del principio di legalità, dell’art.
601 c.p. (neanche nella forma tentata) a favore della
figura sussidiaria dell’art. 602 c.p. Nell’attuale formulazione
il reato ex art. 601 c.p. è configurabile anche
nel caso in cui la tratta abbia ad oggetto un singolo
soggetto e si deve ritenere requisito implicito
per la sua realizzazione la necessità di una dimensione
organizzativa, in considerazione della complessità
dell’attività del traffico anche nell’ipotesi di unica
vittima. Nel caso in cui la tratta abbia ad oggetto
più persone (ipotesi di frequente verificazione pratica)
si avrà una pluralità di reati ex art. 601 c.p. in
quanto più azioni lesive di un bene giuridico altamente
personale (quale nel caso di specie la dignità
umana). Un’interpretazione opposta renderebbe,
invece, indifferente sul piano delle sanzioni in concreto
irrogabili la commissione del reato a danno di
una o più persone. Per evitare l’applicazione di una
pena particolarmente elevata si auspicava la previsione
di un meccanismo (analogo a quello inserito
nell’abrogato art. 534 c.p. e nell’art. 12, d.lgs. n. 286
del 1989) in base al quale le pene del reato base verrebbero
aumentate in proporzione al numero delle
vittime della tratta. Con la circostanza aggravante
prevista nel settimo comma dell’art. 602-ter c.p. si
pone fine al dibattito interpretativo dal momento
nel caso in cui i delitti di riduzione in schiavitù, di
tratta e di acquisto ed alienazione di schiavi siano
realizzati a danno di più persone si configurerà un
unico reato aggravato.
L’ottavo comma dell’art. 602 ter c.p., come in precedenza
evidenziato, riproduce la clausola di blindatura
a base totale del giudizio di bilanciamento in maniera
parzialmente analoga a quella ab origine nell’ultimo
comma dell’art. 600-sexies c.p.: viene, infatti,
ampliato il catalogo delle circostanze privilegiate
inserendo il riferimento a tutte le ipotesi circostanziate
ricomprese nella sezione dedicata ai delitti
contro la personalità individuale (per esempio la
circostanza aggravante dell’ingente quantità ex art.
600-ter, quinto comma, c.p. e ex art. 600-quater, secondo
comma, c.p.).
La riduzione delle circostanze
attenuanti speciali
A seguito dell’abrogazione dell’art. 600-sexies c.p. le
circostanze attenuanti speciali applicabili ai delitti
contro la personalità individuale sono state inserite
nell’art. 600-septies.1. La riforma ha inciso in maniera
significativa in quanto se da un lato viene estesa
l’applicazione della diminuzione di pena a tutti i delitti
contenuti nella sezione, dall’altro viene ridi-
Legislazione
Diritto penale
mensionato il contenuto della disposizione premiale.
In primo luogo sorprendentemente viene eliminata
la circostanza attenuante (che prevedeva una
diminuzione della pena da un terzo alla metà) per
chi si fosse adoperato per far recuperare al minore la
propria autonomia e libertà: tale intervento ha creato
un’asimmetria con le circostanze premiali previste
per il sequestro di minori all’art. 605, quinto
comma, c.p. e per il sequestro a scopo di estorsione
all’art. 630 c.p.
La formulazione delle circostanze era comunque differente,
in quanto nell’art. 600 sexies c.p. era prevista
la diminuzione della pena nel caso in cui il minore
avesse riacquistato la propria libertà ed autonomia
venendo meno lo stato di soggezione continuativa
nei confronti dello sfruttatore, che non comporta
necessariamente, come è noto, la limitazione
della libertà individuale come nel sequestro di persona.
In secondo luogo viene riformulata (generando anche
in quest’ipotesi una disarmonia con quanto disposto
in tema di sequestro di persona) la circostanza
attenuante di ravvedimento operoso prevista precedentemente
al quinto comma dell’art. 600-sexies
c.p.: la diminuzione di pena da un terzo alla metà
viene prevista solo nel caso in cui si adoperi per evitare
che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze
ulteriori o aiuti concretamente l’autorità giudiziaria
o di polizia nella raccolta di prove decisive per
l’individuazione e la cattura dei concorrenti. Viene
esclusa la possibilità di riconoscere la diminuzione
di pena nel caso di raccolta di prove decisive per la
ricostruzione dei fatti per la sottrazione di risorse rilevanti
alla consumazione dei delitti.
Razionalizzazione delle pene accessorie
applicabili ai delitti contro la personalità
individuale
Con la legge in commento si è proceduto, altresì, a
razionalizzare il catalogo delle pene accessorie dei
reati contro la personalità individuale, la cui precedente
elencazione era suddivisa tra l’art. 600-septies,
secondo comma, c.p. e l’art. 602-bis c.p., diversificandone
la disciplina rispetto a quella delle pene accessorie
applicabili ai delitti sessuali (art. 609-novies
c.p.).
Le pene accessorie per i delitti in esame erano state
inserite nel secondo comma dell’art. 600-septies c.p.
con la riforma del 2006, che preveda l’applicazione
in ogni caso dell’interdizione perpetua da qualsiasi
incarico nelle scuole, di ogni ordine e grado, e da
ogni ufficio o servizio in istituzioni pubbliche o private
frequentare prevalentemente da minori. Con il
Diritto penale e processo 2/2013 149

Legislazione
Diritto penale
c.d. Pacchetto sicurezza (l. n. 94/2009) e l’introduzione
dell’art. 602-bis c.p. si era arricchito il catalogo
per alcuni solo dei delitti contro la personalità individuale
(riduzione in schiavitù, tratta, acquisto ed
alienazione di schiavi, ex artt. 600, 601, 602 c.p.),
per le mutilazioni genitali femminili (art. 583 bis
c.p.) e alcuni reati sessuali (art. 609-bis; 609-quater,
609-quinquies e 609-octies c.p.) con la previsione
della decadenza dall’esercizio della potestà genitoriale
e della interdizione perpetua da qualsiasi ufficio
attinenti all’amministrazione di sostegno, alla tutela
e alla cura.
Abrogato l’art. 602-bis c.p., le pene accessorie applicabili
specificatamente in caso di condanna (anche
nell’ipotesi di applicazione della pena su richiesta
delle parti ex art. 444 c.p.p.) per tutti i delitti contro
la personalità individuale sono ad oggi previste nel
nuovo art. 600-septies n. 2), che prevede oltre alla
decadenza dall’esercizio della potestà genitoriale e
della interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinenti
all’amministrazione di sostegno, alla tutela e
alla cura (già contenute nel previgente art. 602-bis
c.p.) alcune nuove ipotesi (analoghe a quelle previste
dall’art. 609-novies c.p. per i reati sessuali) ai n.
3) e n. 4) del primo comma: la perdita del diritto degli
alimenti; l’esclusione dalla successione della persona
offesa; l’interdizione temporanea dai pubblici
uffici (la cui durata è determinata ai sensi dell’art.
29, secondo comma, c.p.: cinque anni nel caso di
condanna compresa tra tre e cinque anni di reclusione
e perpetua se superiore ad anni cinque).
L’ultimo comma dell’art. 600-septies.1 c.p. qualifica
espressamente quale pena accessoria la previsione
della obbligatoria chiusura degli esercizi la cui attività
è finalizzata alla realizzazione dei delitti contro
la personalità individuale, della revoca della licenza
di esercizio, della concessione o dell’autorizzazione
per le emittenti radiotelevisione: ipotesi che è rimasta
invariata nei contenuti rispetto alla previgente
disciplina ma che è stata traslata dalla parte finale
del primo comma all’ultimo comma dell’art. 600septies.l
c.p.
Cenni alla riforma della disciplina
della confisca nei reati di pedopornografia
Dopo l’inserimento nell’art. 600-septies.1 del catalogo
delle pene accessorie, ad oggi l’art. 600-septies c.p.
contiene unicamente la disciplina della confisca,
che ha subito alcune modifiche pur conservando
l’impianto originario.
In primo luogo la confisca deve essere disposta obbligatoriamente
solo in relazione al profitto, al prodotto
e la prezzo del reato derivanti dai delitti con-
150
tro la personalità individuale e non in tutti i casi
previsti dall’art. 240 c.p., come previsto nella previgente
versione della norma. Le cose che servirono o
furono destinate a commettere il reato (come, per
esempio, le strumentazioni informatiche utilizzate
perla produzione o la diffusione del materiale pedopornografico),
non operando più la disciplina derogatoria,
posso essere passibili della sola confisca facoltativa
disciplinata dall’art. 240, primo comma,
c.p.
In secondo luogo viene previsto che la confisca per
equivalente può riguardare anche i beni di cui il
condannato ha la disponibilità solo indirettamente
o per interposta persona e che, anche se non espressamente
ma con un anomalo richiamo all’art. 322
ter c.p., il giudice, con la sentenza di condanna, debba
determinare le somme di denaro o i beni che costituiscono
il prezzo, il prodotto e il profitto o il valore
corrispondente per la confisca per equivalente.
In terzo luogo vengono estese la confisca obbligatoria,in
deroga alla disciplina dell’art. 240 c.p., e la
confisca per equivalente, ai reati sessuali commessi a
danno di minori.
L’art. 600-septies c.p. non esaurisce la disciplina delle
diverse tipologie di confisca applicabili ai delitti contro
la personalità individuale, dal momento che l’art.
8 della legge in esame ha ampliato l’elenco dei reati
per cui è possibile disporre la confisca allargata ex art.
12-sexies d.l. n. 306/1992, conv. in l. n. 356/1992, introducendo
il riferimento alla fattispecie di prostituzione
minorile (art. 600-bis, primo comma) di pornografia
minorile (art. 600-ter c.p.), anche se, discutibilmente,
limitata alle condotte del primo comma e
di turismo sessuale (art. 600-quinqiues c.p.).
Diritto penale e processo 2/2013

La nuova fattispecie di maltrattamenti
La “Convenzione di Lanzarote” mira a edificare presidi
nazionali, transnazionali ed internazionali a salvaguardia
del minore rispetto a condotte criminose
incidenti, in specie, sulla delicatissima sfera della
sessualità. È solo per una sorta di assonanza simbolica
ed empirica, dunque, che la l. n. 172/2012, di ratifica
ed esecuzione di quella Convenzione, interviene
su un reato come quello di cui all’art. 572 c.p.
Quella di maltrattamenti è tradizionalmente classificata
tra le fattispecie a danno di “soggetti deboli”,
categoria che i bambini rappresentano in modo paradigmatico,
tanto da essere tra le vittime elettive
del comportamento criminoso (insieme alle donne
nel rapporto con l’uomo), e non di rado di un maltrattamento
che attinge gli aspetti più intimi e delicati
della loro personalità. Nella sua tipicità astratta,
nondimeno, la figura criminosa inserita tra i reati
contro la “famiglia” è decisamente più generica e a
tratti eterogenea rispetto ad altre direttamente poste
a tutela della sessualità minorile, quanto a soggetti
passivi (insistendo sulla relazione tra agente e vittima,
non sull’età), condotta tipica e orientamento
teleologico (la condotta è indefinita, se non nella
sua natura abituale e nella sua componente vessatoria,
ai danni di una non predeterminata sfera della
personalità, mentre difettano profili di sfruttamento
economico e corporale, come quelli, abominevoli,
che invece caratterizzano condotte di abuso della
sessualità infantile). La circostanza che le modifiche
all’art. 572 c.p. avvengano proprio in occasione dell’esecuzione
della Convenzione non è, però, affatto
espressiva di un intento di far più strettamente corrispondere
la dimensioni tipica e quella empirica di
Legislazione
Diritto penale
Nuove norme a salvaguardia del minore, della sua libertà
(integrità) sessuale e del minore nella “famiglia”
di Antonio Vallini
In occasione della ratifica della “Convenzione di Lanzarote per la protezione dei bambini contro abuso e
sfruttamento sessuale”, il legislatore riformula sin dalla rubrica la fattispecie di maltrattamenti, perfezionandone
l’orientamento teleologico ma rendendola più distante, in realtà, da un progetto di salvaguardia specifica
del minore. Significative altre innovazioni in materia di: delitti a tutela della integrità sessuale del minore,
a partire dalla codificazione di una ulteriore fattispecie di “corruzione di minorenne”, peraltro mal coordinata
con quella già vigente; delitti contro la vita, con l’introduzione di una nuova, problematica figura di omicidio
aggravato; delitti contro l’ordine pubblico, alcuni dei quali (pubblica istigazione e associazione per delinquere)
sono valorizzati in funzione di una tutela “anticipata” della sessualità minorile. La controversa disciplina
dell’error aetatis viene riformulata in modo sistematicamente e costituzionalmente coerente, traendo
spunto dagli ultimi interventi della Corte costituzionale. Non di poco conto, infine, gli interventi sulle pene,
principali e accessorie, sulle misure di sicurezza, sui termini di prescrizione, sul regime di estensione della
legge italiana al fatto commesso all’estero.
cui s’è detto. La sostanza delle modifiche apportate,
infatti, è orientata in direzione inversa, e in specie
ad incrementare la centralità della relazione interindividuale
tra soggetto attivo e passivo nell’economia
della fattispecie, e a espungere, per altro verso, ogni
elemento costitutivo che precisamente si riferisca
alla minore età. L’operazione, contraddittoria rispetto
alla sede legislativa, ma in sé, come presto vedremo,
non priva di plausibilità, è attuata da un lato
abrogando l’ipotesi criminosa del maltrattamento di
minore degli anni quattordici non appartenente alla
famiglia del soggetto attivo, né a questi correlato da
un qualche rapporto qualificato (il “maltrattamento
verso fanciulli”, sinora considerato dalla rubrica distintamente
da quello “in famiglia”); dall’altro lato
specificando e, con ciò, valorizzando ulteriormente
il rapporto “familiare” rilevante, esteso anche alla
mera “convivenza” (ferme restando le altre relazioni
di carattere non familiare, la cui elencazione rimane
immutata).
La figura del soggetto passivo minore di quattordici
anni riaffiora, è vero, nei termini di un’aggravante
nel secondo comma, ma la distinta “etichetta”
comporta un profondo mutamento della struttura
tipica. Siccome una fattispecie aggravata, per vincolo
logico, è “speciale” rispetto alla relativa fattispecie
base (1), l’ipotesi di cui al nuovo art. 572, secondo
comma, c.p. riguarda di necessità soltanto i
casi di minore inserito in una di quelle relazioni sociali
che nel primo comma sono elevate a tipiche (e
Nota:
(1) Per tutti, volendo: A. Vallini, Circostanze del reato, in Le forme
di manifestazione del reato, a cura di G. De Francesco, Torino,
2011, 4.
Diritto penale e processo 2/2013 151

Legislazione
Diritto penale
che si tratti di una figura circostanziata, non già autonoma,
è reso evidente dalla mancata determinazione
dell’aumento di pena, che rimanda per forza
all’art. 64 c.p. (2)). Si assiste, in sostanza, ad una
successione di fattispecie incriminatrici, solo con
riferimento ai casi di maltrattamento ai danni di un
minore appartenente alla famiglia del maltrattante,
o sottoposto alla sua autorità, o a lui affidato per ragioni
di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia,
o per l’esercizio di una professione o di un’arte
(e in questi casi l’aggravante non potrà operare
retroattivamente); ad una abolitio criminis, invece,
per quel che concerne l’ipotesi di maltrattamento
di infraquattordicenne in difetto di quella relazione-presupposto
(ferma restando la possibilità di una
qualifica del fatto pregresso alla stregua di altre fattispecie).
L’evocazione, poi, del rapporto di mera convivenza -
su cui insiste anche la rubrica, oggi intitolata ai
“maltrattamenti contro familiari e conviventi” -
parrebbe mutuare e formalizzare in legge l’orientamento
giurisprudenziale consolidato che intende
per “famiglia”, ai fini del 572 c.p., anche quella c.d.
di fatto, cioè ogni consorzio umano al di fuori del
matrimonio in cui comunque operino vincoli di solidarietà
ed affetto (3). Come però è stato giustamente
notato (4), in realtà la giurisprudenza era solita
riferirsi, più in generale, a “comunioni solidali o
degli affetti” connotate da stabilità e frequentazione,
non necessariamente da una vera e propria convivenza
e neppure da una mera coabitazione (si consideri,
ad esempio, il rapporto con l’amante non
convivente, o quello tra marito e moglie separati)
(5), sicché anche da questo punto di vista la novella
sembra “amputare” una porzione della (dimensione
di diritto vivente della) previgente fattispecie,
con quel che ne consegue ex art. 2, secondo comma,
c.p. Nei primi commenti si manifesta, tuttavia,
un’inclinazione a ribadire la validità dei precedenti
orientamenti estensivi, in virtù di esegesi tutto sommato
plausibili. Si osserva, in particolare, come
l’appartenenza alla famiglia sia dalla nuova norma
ancora considerata disgiuntamente dalla convivenza
(i due termini sono separati da un “o comunque”),
sicché ben può ancora rilevare un rapporto
familiare in assenza di convivenza (6). Per quel che
vale, corrobora quest’ipotesi la rubrica, la quale ancor
più nettamente considera alternative la qualifica
di “familiare” e quella “di convivente” (utilizzando
una semplice “o”, non già il più ambiguo “o, comunque”,
che potrebbe lasciar intendere un nesso
di “specialità” tra il primo e il secondo termine).
Decisiva, infine, un’interpretazione ispirata al crite-
152
rio della “non superfluità” delle parole del legislatore.
Se, infatti, la norma avesse inteso attribuire rilievo
ai rapporti familiari unicamente quando tra conviventi,
ebbene, sarebbe stato sufficiente nominare
soltanto la convivenza - concetto cui è già riconducibile
l’ipotesi, speciale, di convivenza “tra familiari”
- invece che richiamare, distintamente, anche la
nozione di “familiarità”.
Sotto altro profilo, è soprattutto l’approccio teleologico
a lasciar intravedere interessanti opportunità.
L’estromissione dal novero delle ipotesi tipiche del
maltrattamento su minore a prescindere da una
qualsiasi previa relazione restringe l’oggettività giuridica
della fattispecie (che si fa, adesso, senz’altro
“reato proprio” (7)) intorno ad un nucleo decisamente
più univoco di quanto non fosse in precedenza
(ed in questo sta la plausibilità, comunque,
dell’operazione). Già acquisito da tempo che, al di
là della sua collocazione sistematica, la disposizione
è posta a tutela della persona, non dell’istituzione
famiglia (8), maltrattamenti penalmente tipici sono,
adesso, esclusivamente quelli attuati nel contesto
di un già avviato legame intersoggettivo ove si coltivano
cointeressenze, affettività e importanti aspirazioni
esistenziali (non soltanto mere “frequentazioni”,
benché protratte (9)), sicché ben si può affermare
che la norma vada fondamentalmente a
sanzionare una grave alterazione del ruolo costituzionalmente
rilevante delle formazioni sociali, le
quali, stando all’art. 2 Cost., dovrebbero essere luogo
di sviluppo, non già di menomazione, della perso-
Note:
(2) Per altri argomenti a sostegno della natura circostanziale: G. Pavich,
Luci e ombre nel “nuovo volto” del delitto di maltrattamenti.
Riflessioni critiche sulle novità apportate dalla legge di ratifica della
Convenzione di Lanzarote, 7, in www.penalecontemporaneo.it.
(3) Ad es. Cass., Sez. V, 17 marzo 2010, n. 24688, in Ced Cass.
248312; Cass., Sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 20647, in Ced Cass.
239726; Cass., Sez. VI, 24 gennaio 2007, Gatto, in Cass.pen.,
2008, 2858, nota S. Beltrani.
(4) G. Pavich, op.cit., 5; cfr. altresì Id., Il delitto di maltrattamenti.
Dalla tutela della famiglia alla tutela della personalità, Milano,
2012, 6 ss.
(5) Ad es. Cass., Sez. V, 17 marzo 2010, n. 24688, in Ced Cass.
248312; Cass., Sez. VI, 22 settembre 2003, n. 49109, in Ced
Cass.227719. In tema M. Bertolino, La famiglia, le famiglie: nuovi
orizzonti della tutela penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 584
ss.
(6) G.Pavich, Luci e ombre, cit., 5 s.
(7) Dubbi su tale qualifica rimanevano, appunto, con riferimento
alla fattispecie di “maltrattamento verso fanciulli”, che prescindeva
da un previo rapporto qualificante il soggetto attivo: G. Pavich,
Il delitto di maltrattamenti, cit., 11 ss.
(8) Sul punto da ultimo G. Pavich, Il delitto, cit., 2 ss.
(9) In tal senso, peraltro prima della riforma, G. Pavich, Il delitto,
cit.,4 ss.
Diritto penale e processo 2/2013

nalità individuale (10). In questa prospettiva, anche
il rilievo attribuito ad una condotta abituale si comprende,
appunto, per il fatto che soltanto una vessazione
protratta e ripetuta comporta un’alterazione
delle dinamiche complessive di un rapporto umano
non occasionale, ma che procede e si struttura nel
tempo. Offese episodiche, per quanto gravi, possono
intendersi al più attuate nel contesto di una relazione
sociale, senza assumere i tratti di una strumentalizzazione
negativa della relazione sociale, né necessariamente
compromettere l’opportunità di trarre da
quella comunione d’affetti o vicinanza di vita, per il
resto, un motivo di soddisfazione delle proprie istanze
esistenziali.
Questo più univoco ancoraggio valoriale e costituzionale
potrebbe sostenere esegesi interessanti, che
in questa sede possiamo soltanto prefigurare. Esso
potrebbe contribuire, in qualche modo, ad una migliore
specificazione della condotta tipica - altrimenti
piuttosto vaga e onnicomprensiva (11) - da
intendersi appunto come “mala” attuazione del
“trattamento” dell’altro all’interno della formazione
sociale, cioè come alterazione funzionale della relazione,
strumentalizzazione della vicinanza e delle
opportunità occasionate dal rapporto interpersonale,
con esiti di sopraffazione (12); condotta praticabile,
in particolar modo, da colui che abbia un ruolo
preminente e, dunque, la potestà e la responsabilità
di orientare in termini positivi certe dinamiche intersoggettive
(non a caso la fattispecie si rivolge prevalente,
anche se non esclusivamente, a soggetto a
cui l’altro sia “affidato”). Il disvalore specifico della
condotta si coglie, cioè, non solo nel profilo “positivo”
della causazione, discontinua, di specifiche e
singolari sofferenze, ma anche in quello, “negativo”,
della privazione (tendenzialmente continuativa
(13)) di un’opportunità di implementazione delle
proprie prerogative che dovrebbe fisiologicamente
correlarsi all’ambito affettivo e solidale di volta in
volta in questione, “profittando” dell’affidamento
che la controparte ripone in quella relazione e, dunque,
della peculiare esposizione della vittima.
Aspetti che meritano adeguata valorizzazione anche
nella ricostruzione del dolo; requisito psichico che,
al di là della consapevolezza e volontà d’ogni singolo
episodio offensivo, deve connotarsi per la consapevolezza
e volontà d’alterare nella sua interezza un
peculiare rapporto sociale (14).
Una lettura orientata in tal senso, quali ne siano gli
esiti, potrebbe altresì avallare interpretazioni estensive
del concetto di “famiglia” (e, ora, “convivenza”)
già oggetto di ampia condivisione, e al tempo
stesso contenerle, dovendosi comunque pretendere
Legislazione
Diritto penale
un contesto solidale adibito allo sviluppo di aspetti
costituzionalmente significativi della personalità dei
soggetti coinvolti, ex art. 2 Cost (15). In tale prospettiva
bisognerebbe dunque meditare, ad es., circa
la proposta limitazione dell’ambito applicativo della
fattispecie ai soli casi di stretta “parafamiliarità”,
quale quella operata da parte della giurisprudenza
per escludere che l’art. 572 c.p. possa intervenire in
caso di mobbing all’interno, ad esempio, di imprese
di grandi dimensioni (16).
Diritto penale e processo 2/2013 153
Note:
(10) L’interesse dell’individuo allo sviluppo della personalità all’interno
della relazione familiare, o parafamiliare, era peraltro già
individuato quale oggetto giuridico della fattispecie, nella diversità
dei toni, ad es.: F. Coppi, Maltrattamenti in famiglia, Perugia,1979,
222 ss.; A. Delogu, Diritto penale, in Commentario al
diritto italiano della famiglia, a cura di Cian-Oppo-Trabucchi, VII,
Padova, 1995, 641 ss. Più di recente G.Fiandaca-E.Musco, Diritto
penale, parte speciale, II, t. I, I delitti contro la persona, III ed.,
Bologna, 2011, 378; L. Monticelli, Maltrattamenti in famiglia o
verso fanciulli, in Trattato di diritto penale, parte speciale, VI, I
delitti contro la moralità pubblica, di prostituzione, contro il sentimento
per gli animali e contro la famiglia, a cura di A. Cadoppi-
S. Canestrari-A. Manna-M. Papa, Torino, 2009, 626 ss.
(11) Sul vizio di determinatezza della fattispecie A. Sereni, Maltrattamenti
e atti persecutori nel diritto penale del XXI secolo, in
Studi in onore di Franco Coppi, a cura di D. Brunelli, I, Torino,
2011, 559 ss. spec. 593 ss., 619 ss.
(12) Opportunamente G. Pavich, Il delitto, cit., 10 ss., individua
“l’essenza” della condotta di maltrattamenti in una “sopraffazione”
di una parte sull’altra, «con conseguente situazione di supremazia
e di correlativa soggezione: o in virtù di un rapporto giuridico
di tipo lato sensu gerarchico […] o in forza di un rapporto
di fatto che, a prescindere da connotazioni giuridiche che non
siano “di garanzia” (es. tra sanitari e ricoverati) o addirittura nonostante
queste (es. tra marito e moglie, tra loro in rapporto giuridico
paritario), venga a determinarsi nel senso di una condizione
di supremazia del soggetto attivo del reato e di subalternità di
quello passivo».
(13) Di abitualità della condotta, ma di permanenza dell’offesa,
nei reati di maltrattamenti parla A. Sereni, Maltrattamenti e atti
persecutori nel diritto penale del XXI secolo, in Studi in onore di
Franco Coppi, a cura di D. Brunelli, I, Torino, 2011, 593.
(14) Non importa, dunque, di volta in volta, la previsione di tutti
gli atti futuri, e il ricordo di tutti gli atti passati, che vanno a comporre
la condotta abituale, ma la consapevolezza che la singola
vessazione contribuisce ad una più generale alterazione di un intero
rapporto sociale o familiare. Sul problema del dolo nei maltrattamenti,
con utili riferimenti alla giurisprudenza, da ultimo G.
Pavich, Il delitto di maltrattamenti, cit.,36 ss.; cfr. altresì l’ampia
sintesi di L. Monticelli, op.cit., 653 ss.
(15) Sull’eccessiva estensione della nozione di “famiglia” nell’art.
572 parte della dottrina manifesta dubbi degni di massima
considerazione: ad es. F. Mantovani, Il concetto di famiglia nella
giurisprudenza penale (Note a margine di due recenti sentenze
della Corte di Cassazione), in Iustitia, 2010, 5 ss.; M. Riverditi, La
doppia dimensione della famiglia (quella “legittima” e quella “di
fatto”) nella prospettiva del diritto penale vigente. Riflessioni, in
Studi in onore di Franco Coppi, a cura di D. Brunelli, I, Torino,
2011, 559 ss.; R. Bartoli, Unioni di fatto e diritto penale, in Studi,
cit., II, Torino, 2011, 676 s.
(16) Cass., Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12517, in Ced Cass.
252607; Cass., Sez. VI; 10 ottobre 2011, n. 43100, in Ced Cass.
(segue)

Legislazione
Diritto penale
Degno di nota, infine, l’intervento sui limiti edittali
di cui all’art. 572, primo comma (si prevede, adesso,
la reclusione da due a sei anni), nonché sui termini
di prescrizione. La norma dell’art. 157, sesto
comma, che prevede tempi raddoppiati rispetto a
quelli ordinari per una serie di delitti, viene estesa
dall’art. 4, primo comma, lett. a anche al reato di
cui all’art. 572 c.p., oltre che a tutti i reati i reati di
cui alla sezione I del capo III del titolo XII del libro
II (già vi rientravano quelli in materia di schiavitù
e servitù); quanto ai reati in tema di libertà sessuale,
v.infra.
Morte della vittima “correlata”
ai reati oggetto di riforma
La riforma incide anche sulle fattispecie, variamente
connotate, di maltrattamento accompagnato da
morte della vittima.
Si inasprisce, in primo luogo, il limite edittale superiore
(ventiquattro anni, invece che venti) riferito
al caso di maltrattamento seguito da morte, di cui all’art.
572 c.p., terzo comma (in precedenza secondo
comma), così come viene elevata da otto a nove anni
la pena massima contemplata per i maltrattamenti
seguiti da lesione personale grave (mentre rimane
invariata la sanzione in caso di lesione gravissima:
da sette a quindici anni). L’intervento altera i nessi
sistematici, già precari, con l’ipotesi di omicidio volontario
in concorso formale con i maltrattamenti
(17). Il precedente massimo edittale si collocava
sotto il minimo edittale dell’omicidio volontario
(ventuno anni). Adesso, invece, si ha una piena
coincidenza quanto a massimo edittale, con la concretissima
possibilità, dunque, che una condotta riconducibile
all’art. 572, terzo comma, c.p. venga ad
essere maggiormente punita, in concreto, rispetto ad
altra rilevante ex artt. 575, anche ove tale norma
dovesse concorrere formalmente con l’art. 572, primo
comma, c.p. (18), dato che il cumulo giuridico
può comportare un incremento anche minimo della
pena stabilita per il reato più grave. La pena massima
ipotizzabile per l’omicidio colposo in concorso
formale con i maltrattamenti potrebbe peraltro collocarsi
intorno ai diciotto anni - posto che l’inasprimento
della pena per l’ipotesi “base” di maltrattamenti
rende oggi possibile che il cumulo giuridico
operi a partire da sei anni - con ampia sovrapposizione,
ancora una volta, agli spazi edittali propri dei
maltrattamenti aggravati da morte (che si sviluppano
da un minimo di dodici anni).
Sfugge, ora più che mai, la ratio di una triplice distinzione
tra maltrattamenti in concorso con un omicidio,
doloso oppure colposo, e ancora il caso dei mal-
154
trattamenti risoltisi nella morte della vittima (19),
quando queste fattispecie sono evidentemente ritenute
dal legislatore in buona parte coincidenti in termini
di disvalore (d’altronde, anche in considerazione
della più recente giurisprudenza (20), l’ipotesi di
maltrattamenti aggravati da morte o da lesione dovrebbe
ritenersi arricchita da un qualche profilo soggettivo
di “colpa” (21)).
Resta comunque fermo che l’art. 572, terzo comma,
c.p. non riguarda i casi in cui l’evento morte sia preveduto
o voluto. Non può, cioè, ritenersi che quella
norma venga oggi a costituire una sorta di precisazione
legale della pena applicabile al caso di concorso
tra maltrattamenti ed omicidio doloso, in deroga
ai più vaghi criteri di cui all’art. 81, primo comma,
c.p. Con una simile conclusione non si concilia la
palese discrasia tra la pena minima stabilita per la
fattispecie aggravata dall’evento e quella plausibilmente
riferibile all’ipotesi di concorso formale in discussione.
V’è poi da considerare la nuova fattispecie di cui all’art.
576, secondo comma, c.p. per come modificato
Note:
(continua nota 16)
251368; Cass., Sez. VI, 22 settembre 2010, n. 685, in Riv. it. dir.
proc. pen., 2011, 1292, nota M. Scalia, La problematica rilevanza
penale delle condotte persecutorie sul luogo di lavoro; Cass.,
Sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594, in Ced Cass. 244457. Criticamente,
al riguardo, C. Parodi, Mobbing e maltrattamenti alla luce
della legge 172/2012 di ratifica e esecuzione della Convenzione
di Lanzarote, in www.penalecontemporaneo.it, che avverte come
oggi un simile indirizzo non dovrebbe appellarsi alla scelta riduttiva
della rubrica (appunto riferita soltanto a “famiglia” e
“convivenze”), palesemente priva di corrispondenza “per difetto”
rispetto all’estensione della fattispecie, dunque carente di
valenza ermeneutica.
(17) Sulla configurabilità di un concorso formale tra reati istantanei
e di durata sia consentito rinviare a A. Vallini, Concorso di norme
e di reati, in Le forme di manifestazione del reato, cit., 306 s.
(18) Concorso (a nostro avviso) formale configurabile ove l’evento
più grave sia voluto. Applica soltanto l’art. 575 c.p. Cass., Sez.
I, 14 maggio 2008, n. 21329, in Ced Cass. 240084; applica l’art.
81, cpv., c.p. Cass., Sez. I, 21 febbraio 2003, n. 16578, in Ced
Cass. 224797.
(19) Critica, sull’assetto complessivo di queste fattispecie, da ultimo
M.R. De Pasquale, Maltrattamenti e morte della vittima.
Considerazioni a margine della legge di ratifica della convenzione
di Lanzarote, in www.penalecontemporaneo.it.
(20) Cass., Sez. un., 22 gennaio 2009, n. 22676, in questa Rivista,
2010, 55, nota S. Beltrandi, La responsabilità del cedente
per la morte dell’assuntore di sostanza stupefacente.
(21) Così in effetti Cass., Sez. VI, 15 ottobre 2009, n. 44492, in
Ced Cass. 245478; si riferisce invece al solo art. 41 c.p., da ultimo,
Cass., Sez. VI, 16 aprile 2010, n. 29631, in Ced Cass.
248199; analogamente, di recente, rispetto all’omicidio preterintenzionale:
Cass., Sez. V, 17 maggio 2012, n. 40389, in Ced
Cass. 253357; Cass., Sez. V, 27 giugno 2012, n. 35582, in Ced
Cass. 253536. In tema, da ultimo, G. Pavich, Il delitto, cit., 51
ss.; R. Bartoli, Colpa in attività illecita: un discorso ancora da sviluppare,
in questa Rivista, 2010, 1047, 1049 ss.
Diritto penale e processo 2/2013

dall’art. 4, primo comma, lett. e 5), l. n. 172/2012;
norma, quella codicistica, già riformulata dall’art. 1,
d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, e riferita ai casi di omicidio
commesso in occasione dei delitti «previsti dagli
articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies» (prima
della modifica del 2009 si parlava di omicidio consumato
“nell’atto di commettere” taluno dei delitti
previsti dagli artt.519, 520 e 521 c.p.), ed estesa dalla
riforma in commento ai casi di omicidio perpetrato
“in occasione” della realizzazione di un reato di
prostituzione o pornografia minorile (artt. 600-bis,
600-ter c.p.), ovvero di “maltrattamenti” ex art. 572
c.p. Trattasi, si è soliti dire, di reato complesso ex art.
84 c.p., che dunque comprende in sé le ipotesi “in
concorso”. È bene però precisare a quali casi di integrazione
di più reati la norma effettivamente si applichi.
La dizione legislativa (omicidio commesso “in occasione”
della “commissione” di altro reato), specie se
confrontata con quella, ben diversa, che dà contenuto
agli artt. art. 572, terzo comma e 586 c.p. (se
“dal fatto” di maltrattamenti, o altro delitto, “deriva”
la morte) evidenzia un rapporto di contestualità
“occasionale” tra “realizzazioni”, cioè tra atti differenti
costitutivi di diversi reati, senza considerare,
invece, una “derivazione causale” della morte da
quel medesimo complesso di comportamenti che integrano
(o contribuiscono ad integrare) il crimine di
pedopornografia o prostituzione minorile o maltrattamenti
(22). In quest’ultimo caso, ove la morte non
sia voluta, per quel che concerne i maltrattamenti
troverà applicazione l’art. 572, terzo comma, c.p.;
l’art. 586 c.p. quando la morte non voluta dipenda,
invece, da comportamenti riconducibili agli artt.
600-bis o 600-ter; gli artt. 572, primo comma, 575 e
81, primo comma, c.p., qualora la morte così provocata
sia, invece, prevista e voluta, sia pure nei termini
di un dolo eventuale. In sostanza, se ne poteva
forse dubitare quando la disposizione, prima del
2009, trattava di un omicidio realizzato “nell’atto di
commettere” altri reati (23); il chiaro riferimento,
oggi, ad una coincidenza soltanto quanto ad “occasione”,
e non ad una “derivazione” eziologica, fa sì, a
nostro parere, che l’art. 576, primo comma, n. 5 vada
a coprire (nelle forme di un reato complesso) per
lo più casi che sarebbero, altrimenti, di concorso
“materiale” per diversità delle condotte impiegate
nella realizzazione dei diversi reati (pur attinenti ad
un medesimo “contesto” criminoso (24)), allo scopo
di applicare l’ergastolo a vicende cui altrimenti
avrebbero corrisposto, al più, trent’anni di reclusione,
secondo le logiche del cumulo materiale di pene.
A quest’ultimo proposito, si segnala che l’art. 4, pri-
Legislazione
Diritto penale
mo comma, lett. e, nn. 1), 3) sostituisce le parole
“pena di morte”, di cui alla rubrica e al primo comma
dell’art. 576, con le parole “pena dell’ergastolo”.
Si tratta di un adeguamento soltanto formale: l’art. 1
d.lgs. lgt. 10 agosto 1944, n. 224, nell’abolire la pena
di morte, già indicava che essa doveva intendersi
sostituita, ove prevista, da quella dell’ergastolo.
Pene accessorie per le mutilazioni genitali
femminili
Anche quelle previste dall’art. 583-bis c.p. (25) sono
fattispecie non necessariamente a danni di un minore,
se considerate nella loro dimensione tipica: la minore
età del soggetto passivo opera, infatti, soltanto come
circostanza aggravante (art. 583-bis, terzo comma,
c.p.). Si tratta, tuttavia, di condotte usualmente
commesse contro un minore (26): profilo “criminologico”,
se non “tipico”, che dunque dà un senso alla
considerazione che la fattispecie riceve nella legge
di ratifica ed esecuzione della Convenzione di
Lanzarote; ed il senso lo si ricava anche dai risvolti
che le mutilazioni e le lesioni genitali hanno su parti
del corpo funzionali, in prospettiva, ad un sano
svolgimento della sessualità.
Il legislatore del 2012, nondimeno, non va a “toccare”
il fatto tipico, ma si limita ad introdurre pene accessorie,
in aggiunta a quella già indirizzata all’esercente
una professione sanitaria dall’art. 583-ter c.p.
Diritto penale e processo 2/2013 155
Note:
(22) Diversamente R. Barra, F. Buraschi, R. Lottini, Le innovazioni
in materia di circostanze del reato, in La nuova normativa sulla
sicurezza pubblica, a cura di F. Giunta e E. Marzaduri, Milano,
2010, 163.
(23) In realtà, questo criterio di connessione era per lo più inteso
nel senso di una contestualità cronologica, per cui il delitto contro
la libertà sessuale doveva immediatamente precedere l’uccisione
o essere contestuale alla consumazione o al tentativo di
consumazione. Cfr. per tutti R. Barra, F. Buraschi, R. Lottini, op.
cit., 160 ss. Riteneva comunque la giurisprudenza che la norma
si applicasse, altresì, quale reato complesso, in luogo di un “concorso
formale” tra omicidio e violenza sessuale (dunque ai casi
in cui i due reati fossero realizzati con la medesima condotta): da
ultimo Cass., Sez. I, 29 gennaio 2008, n. 12680, in Ced Cass.
239365.
(24) F. Macrì, Modifiche alla disciplina delle circostanze aggravanti
dell’omicidio e nuovo delitto di “Atti persecutori”, in questa
Rivista, 2009, 818; amplius R. Barra-F. Buraschi-R. Lottini,
cit., 162 ss.
(25) In rapporto al quale, da ultimo e per tutti, G. Fornasari, Mutilazioni
genitali e pratiche rituali nel diritto penale, in Il governo
del corpo, a cura di S. Canestrari-G. Ferrando-C.M. Mazzoni-S.
Rodotà-P. Zatti, I, Milano, 2011, 715 ss.; in precedenza C. Piemontese,
Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle
pratiche di mutilazione genitale femminile, Leg.pen., 2006,
293 ss.
(26) Cfr. F. Basile, La nuova incriminazione delle pratiche di mutilazione
degli organi genitali femminili, in questa Rivista, 2006,
681 ss.

Legislazione
Diritto penale
Si introduce, a tal fine, un nuovo comma - che diviene,
dunque, il quarto - dopo il terzo comma dell’art.
583-bis, facendo così diventare “quinto comma”
quello che attualmente è il quarto. In caso di
condanna o, anche, di applicazione della pena su richiesta
delle parti a prescindere dalla pena irrogata
(in deroga, dunque, ai limiti definiti dall’art. 445,
primo comma, c.p.p.) si prevede, in particolare, la
decadenza dall’esercizio della potestà quando soggetto
attivo sia il genitore della vittima (ed il figlio
sia, dunque, un minore sottoposto a quella potestà) -
pena accessoria i cui contenuti sono ulteriormente
definiti dall’art. 34 c.p.; l’interdizione perpetua da
qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e
all’amministrazione di sostegno quando, invece, il
reato sia commesso dal tutore ai danni della persona
affidata alle sue cure. La prima parte del nuovo quarto
comma è chiara nello stabilire che le pene accessorie
riguardano, rispettivamente, il genitore o il tutore:
non si comprende del tutto perché restino immuni
l’eventuale curatore o amministratore di sostegno,
se non supponendo che il legislatore abbia inteso
incrementare i presidi sanzionatori a favore di
soggetti particolarmente fragili nella relazione con
l’agente, quali il minore rispetto al genitore, o la
persona che necessita di un tutore (e non “soltanto”
di un curatore o di un amministratore di sostegno).
Ancora una volta sembra cogliersi quell’esigenza di
valorizzare l’affidamento della persona in una “formazione
sociale” che coinvolge in modo peculiare
profili essenziali della sua personalità, che già abbiamo
visto sottesa alla rivisitazione dell’art. 572 c.p.;
oltre che una peculiare applicazione dell’art. 14, terzo
comma, della Convenzione di Lanzarote, che appunto
auspica misure di “allontanamento” del minore
dai genitori o persone che ne abbiano cure,
quando costoro risultino coinvolti in forme di “abuso
o sfruttamento sessuale” ai danni del bambino.
Si consideri che, sino a quest’ultima novella, l’interdizione
perpetua dai pubblici uffici - che comprende
anche la privazione della possibilità di accedere all’ufficio
di tutore o di curatore e di ogni altro ufficio
attinente alla tutela o alla cura (art. 28, secondo
comma, lett. 3, c.p.) - poteva già applicarsi in caso di
condanna ex art. 583 bis alla reclusione per un tempo
non inferiore a cinque anni (art. 29 c.p.); mentre
la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore
a tre anni, per lo stesso delitto, comportava
analoga interdizione per la durata di anni cinque (rispetto
ad ipotesi del genere, dunque, così come in
casi comportanti una pena ancora minore, la nuova
pena accessoria non si presta ad una applicazione retroattiva).
Ove, poi, il reato de quo fosse realizzato da
156
un genitore ai danni del minore, già in passato poteva
trovare spazio l’art. 34, secondo comma - sospensione,
non decadenza, dalla potestà dei genitori per
un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta
- trattandosi senz’altro di delitto commesso con
“abuso della potestà dei genitori”. Ancora una volta,
la modifica in peius della sanzione accessoria non ne
consente un’operatività rispetto a condotte passate.
Infine, non v’è motivo di sopravvalutare il richiamo
che il nuovo quarto comma compie al “reato di cui
al presente articolo”, da intendersi come un modo
un po’ improprio per riferirsi ad “un reato di quelli riconducibili
al presente articolo”. Difficilmente quell’articolo
determinativo (“il reato”), di per sé solo,
può indurre a riconsiderare l’articolazione normativa
dell’art. 583-bis c.p. Non v’è cioè modo di negare
che detta disposizione contempli, in realtà, due reati
(27), strutturalmente incompatibili - posto che la
lesione di cui tratta il secondo comma è espressamente
definita come “diversa” dalla mutilazione indicata
nel primo comma (e il difetto di un rapporto
di “specialità” esclude che l’una fattispecie sia circostanza
dell’altra) - nonché differenziati per risposta
sanzionatoria (sicché non possono considerarsi modalità
alternative di realizzazione d’un medesimo
reato).
Le modifiche al sistema di tutela penale
della libertà sessuale (e del sano sviluppo
sessuale del minore)
La minore età della vittima è profilo che sensibilmente
incide anche sulla strutturazione del sistema
di tutela penale della libertà sessuale.
Così, ad esempio - come è noto - l’art. 609-quater,
primo comma, c.p. (atti sessuali con minorenne),
assumendo che il bambino sia strutturalmente incapace
di soppesare le implicazioni di atti incidenti
sulla sua sfera sessuale, e che il minore “adulto”, pur
dotato in linea di principio di sufficiente maturità,
sia comunque facilmente suggestionabile da persone
che, per il ruolo che rivestono, possono esercitare
una particolare influenza ed approfittare del suo
affidamento (28), presume l’invalidità del consenso
a rapporti intimi prestato dal minore di quattordici
anni, sempre e comunque (primo comma, n. 1), e di
quello tra i quattordici ed i sedici anni, quando l’atto
sessuale sia compiuto con l’ascendente, il genitore
anche adottivo o il di lui convivente, il tutore,
Note:
(27) F. Basile, op.cit., 684 ss.
(28) Cfr. al riguardo Cass., Sez. III, 13 maggio 2004, n. 29662, in
Ced Cass. 229358.
Diritto penale e processo 2/2013

altra persona convivente con il minore o che lo abbia
in affidamento per ragioni di cura, di educazione,
di istruzione, di vigilanza o custodia (primo
comma, n. 2) (29). L’invalidità del consenso (presunta
anche per ragioni di certezza, stante l’insondabilità
delle dinamiche psichiche che possono indurre
di volta in volta soggetti dalla personalità ancora
incerta e malleabile ad acconsentire a scelte
tanto impegnative e potenzialmente pregiudizievoli)
comporta che colui che di quel consenso abbia
usufruito venga punito come se avesse compiuto
una violenza sessuale, e precisamente con la stessa
pena prevista dall’art. 609-bis c.p. (la reclusione da
cinque a dieci anni).
Il soggetto che abbia compiuto gli anni sedici, ma
non ancora i diciotto, si suppone invece vittima di
“suggestione” solo a fronte di un effettivo abuso di una
relazione qualificata (art. 609-quater, secondo comma)
(30). La maggior “capacità di resistenza” di un
adolescente ormai maturo incide, poi, sull’entità della
pena, ridotta nel minimo edittale a tre anni, nel
massimo a sei. Sinora, questa norma non riguardava
tutti i soggetti attivi cui poteva imputarsi l’ipotesi di
“atto sessuale con minorenne” di cui al primo comma,
n. 2, ma soltanto l’ascendente, il genitore anche
adottivo o il di lui convivente, e il tutore. Su questo
profilo in particolare incide l’art. 4, lett. r, l. n.
172/2012, allargando l’ambito applicativo del secondo
comma sino a considerare le posizioni - già tipiche
ai sensi del comma 1, n. 2 - di colui cui l’infrasedicenne
è affidato “per ragioni di cura, di educazione,
di istruzione, di vigilanza o di custodia”, e di colui
che con detto minore abbia una “relazione di convivenza”.
L’intervento potrebbe essere considerato come
una semplice ed opportuna opera di coordinamento
tra due fattispecie criminose contigue, nonché
di (parziale) adeguamento agli artt. 5 e 18, primo
comma, lett. a e b della Convenzione di Lanzarote.
Tali norme invitano gli Stati parte ad assicurare peculiari
misure di protezione del minore a fronte di
possibili abusi di chi tenga con lui «regular contacts
[…]in the education, health, social protection, judicial
and law-enforcement sectors and in areas relating
to sport, culture and leisure activities»; e, per altro
verso, a considerare reato il compimento di atti
sessuali con chi, ai sensi della legge nazionale, non
abbia ancora raggiunto l’età per compiere validamente
attività sessuali, o altrimenti sia vittima di un
abuso «of a recognised position of trust, authority or
influence over the child, including within the family»,
o anche, più genericamente, di un abuso di una
situazione di “dipendenza”. La riformulazione può,
però, essere letta anche come una significativa rime-
Legislazione
Diritto penale
ditazione delle logiche su cui si incentrava la sistematica
dell’art. 609-quater c.p. La precedente differenza
tra fattispecie poteva, infatti, giustificarsi sul
presupposto che il consenso all’atto sessuale del minorenne
maturo fosse da ritenersi invalido non solo a
fronte di un effettivo abuso di posizione, ma anche
quando la controparte fosse persona peculiarmente
qualificata e particolarmente vicina, dunque dotata
di uno speciale potenziale di suggestione (rispetto alla
più comprensiva categoria di soggetti che possono
“affascinare” subdolamente il minore di sedici anni).
Nei fatti, la modifica apportata (che - per inciso -
non può operare retroattivamente) appare più coerente
sul piano criminologico, non essendovi invero
alcuna ragione per ritenere, ad esempio, che il carisma
che il tutore può esercitare sulla pupilla di diciassette
anni sia a priori più intenso di quello che
può spendere il docente a vario titolo sull’allieva altrettanto
giovane, o il medico sulla paziente abbandonata
alle sue cure (31) .
Quel che è bene evidenziare, semmai, è che adesso,
così come prima, vale a qualificare il soggetto attivo
non solo la formale titolarità di una delle qualifiche
indicate, bensì la sostanziale presenza di “poteri” nei
confronti del minore - poteri di cui si possa, appunto,
“abusare” - a quella qualifica correlati di diritto, o di
fatto (mentre una situazione di analoga “soggezione”
non è pretesa dall’art. 609-quater, n. 2, c.p., che valorizza
il dato “puramente formale” della relazione di
parentela, di affidamento o convivenza (32)).
È solo una scelta stilistica, ancora, quella di riformulare
la clausola di riserva che apre il terzo comma:
“fuori dai casi previsti dall’articolo 609-bis”, invece
che “al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 609bis”.
Al proposito, è bene ricordare che si applicherà
l’art. 609-bis quando il soggetto qualificato non si limiti
ad “abusare” dei poteri connessi alla sua posi-
Diritto penale e processo 2/2013 157
Note:
(29) Cfr. E. Venafro, Commento all’art. 5 l. 66/1996, in Leg. pen.,
1996, 449 s. Parla espressamente di “presunzione di responsabilità”,
in rapporto a questa seconda fattispecie, ad es. Cass.,
Sez. III, 21 giugno 2007, n. 36389, in Ced Cass. 237559; Cass.,
Sez. III, 15 giugno 2010, n. 27588, in Ced Cass. 248107, giustificandola
appunto in ragione dell’immaturità del minore.
(30) Cfr. E. Mengoni, Delitti sessuali e pedofilia, Milano, 2008,
102 s.
(31) È peraltro vero che, secondo la giurisprudenza, i rapporti di
“affidamento, cura, custodia” ecc. possono avere anche una carattere
“temporaneo ed occasionale” (da ultimo Cass., Sez. III,
13 maggio 2009, n. 24803, in Ced Cass. 244124; Cass., Sez. III,
13 ottobre 2011, in Ced Cass. 251890), mentre necessariamente
“duraturi” - dunque, in questo senso, necessariamente più
qualificati - appaiono quelli di genitorialità o tutoraggio.
(32) Cass., Sez. III, 19 giugno 2002, n. 32513, in Ced Cass.
223101.

Legislazione
Diritto penale
zione per sollecitare un consenso apparente, ma
operi una vera e propria costrizione mediante violenza
o minaccia (ad esempio minacciando di usare
l’autorità del tutore ai danni del rappresentato)
(33); lo stesso quando si tratti sì di induzione, ma
abusando di una potestà pubblicistica e non privatistica
(34); o, ancora, quando si approfitti non solo
della relazione privilegiata, ma anche di condizioni
di inferiorità fisica o psichica della vittima. Altro restyling
meramente letterale è quello, infine, dedicato
all’art. 609-quater, quarto comma (attenuante dei
casi di “minore gravità”), ove l’espressione “fino a
due terzi” viene sostituita da quella “in misura non
eccedente i due terzi”, sulla falsariga dell’art. 609-bis,
terzo comma.
Decisamente di maggior impatto la riforma del reato
di corruzione di minorenne (art. 609-quinquies) ad
opera dell’art. 4, lett. 6 della l n. 172/2012. L’art. 22
della Convenzione di Lanzarote (rubricato “corruzione
di bambino”) sollecita la criminalizzazione di
chi, per scopi sessuali, faccia assistere ad abusi o attività
sessuali il soggetto di età inferiore a quella ritenuta
valida, dalla legge nazionale, per autodeterminarsi
in tale delicato ambito, a prescindere da un
coinvolgimento di detto minore in quelle attività.
L’Explanatory Report alla Convenzione precisa che la
fattispecie dell’art. 22 debba intendersi riferita non
solo a chi compia personalmente atti sessuali di
fronte al minore, ma anche a chi esponga altrimenti
il bambino alla visione di attività sessuali. Il legislatore
italiano ha evidentemente avvertito come inadeguato
per difetto l’ambito applicativo dell’art.
609-quinquies c.p. sinora vigente, non riferito ai casi
in cui il minore sia mero spettatore di pornografia,
né alle situazioni in cui non sia la medesima persona
a compiere l’atto esposto all’osservazione (salve, ovviamente,
le ipotesi di concorso di persone) (35).
In questa prospettiva si comprende l’introduzione di
una ulteriore ipotesi criminosa. In un nuovo secondo
comma la medesima pena indicata nel primo
comma (e considerevolmente aumentata nell’occasione
(36)) viene applicata a colui che faccia assistere
un minore di anni quattordici in genere al compimento
di atti sessuali, o comunque gli mostri materiale
pornografico (la nozione di “pornografia”, si ricordi,
è ora precisata dal “nuovo” art. 600-ter c.p.).
In questo caso il dolo specifico si fa più intenso e
collocato, idealmente, in un momento logicamente
e cronologicamente successivo: non si pretende più
soltanto il “fine di fare assistere” il minore (anzi, l’effettiva
visione si fa evento del reato, non più profilo
di dolo specifico), ma più precisamente il “fine di indurlo
a compiere o subire atti sessuali”. Sembra che,
158
nell’ipotesi del secondo comma, chi “fa assistere” il
minore debba essere soggetto necessariamente distinto
da chi realizza l’atto sessuale; diversamente
opinando, la nuova fattispecie costituirebbe una
progressione, in termini d’offensività, di quella di
cui al primo comma (nel primo comma chi realizza
l’atto sessuale ha solo il “fine” di fare assistere, nel
secondo comma, invece, farebbe effettivamente assistere
“al fine di indurre a compiere o subire atti sessuali”),
sicché non si comprenderebbe l’equiparazione
quanto a pena, né come mai nel secondo comma
si consideri una condotta (l’esposizione alla vista di
materiale pornografico) trascurata dalla fattispecie
del primo comma, in questa prospettiva “a tutela anticipata”.
Si delinea, in sostanza, una incompatibilità
strutturale tra le due nuove figure tipiche delineate
dall’art. 609-quinquies.
Il legislatore, dunque, prevede una distinta fattispecie,
diversamente e maggiormente connotata quanto
a disvalore soggettivo e struttura obiettiva (si
pretende, appunto, una visione effettiva, non solo
potenziale), forse a compensare un supposto minor
significato offensivo della condotta. Tale supposizione
è però tutta da verificare, non dipendendo
certo dalla corrispondenza o distinzione tra chi
compie l’attività sessuale, e chi fa in modo che il
minore vi assista, la capacità di quella percezione
imposta di determinare quel «risk of serious damage
to […] personality, including a distorted vision of
sex and of personal relationships» che, secondo il
citato Explanatory Report, ma anche secondo la nostra
dottrina e giurisprudenza (37), dovrebbe costituire
la ratio dell’incriminazione. Né, forse, vi è ragione
per ritenere meno pregiudizievole in tal senso
la visione troppo precoce di video o fotografie pornografiche.
Anzi, la condotta di “fare assistere”
Note:
(33) Cfr. al riguardo, Cass., Sez. III, 8 aprile 2009, n. 23873, in
Ced Cass. 244082.
(34) V. in part. Cass., Sez. un., 31 maggio 2000, n. 13, in Ced
Cass. 216338; Cass., Sez. III, 11 ottobre 2011, n. 2681, in Ced
Cass. 251885; Cass., Sez. III, 11 gennaio 2007, n. 8047, in Ced
Cass. 236190. Diversamente Cass., Sez. III, 19 aprile 2012, n.
19419, in Ced Cass. 252768, riconduce all’art. 609 bis ogni forma
d’effettivo abuso di autorità, anche privata, con esito costrittivo.
(35) V. P. Veneziani, Corruzione di minorenne (art. 609 quinquies),
in Trattato di dir.pen., parte spec., cit., IX, Torino, 2011,
184 ss. Valutazione positiva dell’intervento qui in esame, per tale
ragione, da parte di P. Pisa, Una nuova stagione di “miniriforme”,
in questa Rivista, 2012, 1423.
(36) In precedenza essa oscillava tra sei mesi e tre anni, dopo la
riforma tra uno e cinque anni.
(37) V. ad es. Cass., Sez. III, 16 novembre 2005, n. 44681, in Ced
Cass. 232907.
Diritto penale e processo 2/2013

comporta una forma più o meno blanda di coercizione
diretta sulla persona (38) che non si ha necessariamente,
invece, nell’ipotesi del primo comma
(ove si pretende la presenza del minore, ma non
una presenza “imposta”), sicché da questo punto di
vista almeno la nuova figura appare, addirittura, più
offensiva.
In sostanza, la fattispecie, concepita per un incrementare
la tutela rispetto ad una tipologia di offesa
non diversa - anzi maggiore - rispetto a quella presa
in considerazione dal disposto normativo già vigente,
nasce irragionevolmente depotenziata, causa
una differenziazione ed un incremento di elementi
costitutivi di cui sfugge la ratio. Oltretutto, se assumiamo
che il dolo specifico sottintenda anche un
profilo di obiettiva idoneità della condotta a perseguire
lo scopo, la tipicità ha da essere comunque
esclusa quando spettatore sia un minore che, per la
sua piccola età, non possa ricevere dal turpe spettacolo
alcun particolare impulso ad assoggettarsi o
compiere atti sessuali, ma soltanto un’indistinta inquietudine,
che è però esattamente ciò che attenta
al bene tutelato; mentre l’ipotesi del primo comma,
secondo un’interpretazione condivisa, trova applicazione
sinché il bambino, per quanto piccolo, abbia
una qualche possibilità di attribuire un significato
conturbante a ciò cui assiste, fosse pure soltanto
a livello inconscio (39).
Il dolo specifico, ancora, attribuisce un orientamento
finalistico che rende l’incriminazione un presidio
anticipato nel quadro d’una progressione criminosa
destinata a sfociare in un atto sessuale sul minorenne
(o del minorenne su se stesso). Si consolida, così,
un (parziale) nesso sistematico con l’art. 609-quater
c.p. (peraltro rivelato anche dalla clausola di riserva:
“salvo che il fatto costituisca più grave reato”), capace
di coinvolgere in qualche modo l’ipotesi del
primo comma (che è naturale ritenere corrispondente,
quanto ad oggettività giuridica, a quella del
secondo comma), tanto da mettere in discussione
esegesi consolidate, con esiti ancora tutti da verificare,
ad esempio in tema di concorso di norme e di
reati. Sinora, infatti, il significato della “corruzione
di minorenne” era stato precisato anche in negativo,
cioè in virtù della sua eterogeneità, per struttura e
orientamento lesivo, rispetto a fattispecie implicanti
un coinvolgimento personale e diretto del minore
nell’attività sessuale (40). Per inciso: a fronte di tali
interrelazioni, appare viepiù insensata, e costituzionalmente
incompatibile (41), la mancata estensione
ai casi dell’art. 609-quinquies della clausola di
non punibilità (o di non tipicità (42)) di cui all’art.
609-quater: come accettare che venga indirizzata
Legislazione
Diritto penale
una sanzione ipoteticamente sino a cinque anni di
reclusione (!) al quindicenne che faccia vedere ad
una compagna tredicenne un video pornografico,
sperando che lei gli si conceda in qualche modo, e
non già al coetaneo che eviti simili preliminari, dedicandosi
immediatamente ad un amplesso consensuale
con altra tredicenne? V’è davvero da ragionare
se il testo dell’art. 609-quater c.p. (compiere atti
sessuali “con” un minorenne) non sia compatibile
almeno con il nuovo art. 609-quinquies, secondo
comma, ove effettivamente la condotta è se non altro
orientata ad un coinvolgimento diretto e personale
del minore nell’attività sessuale (43).
Altri nessi tra primo e secondo comma si avviluppano
in nodi che dovranno, in qualche modo, essere
sciolti. La nuova ipotesi criminosa, almeno nella sua
prima parte, si prospetta come naturalmente pluri-
Diritto penale e processo 2/2013 159
Note:
(38) La Convenzione di Lanzarote accoglie una nozione lata di
“causing of a child to witness”, atta ad includere «any way in
which the child is made to witness the acts, such as by force,
coercion, inducement, promise, etc.». Art. 22 dell’Explanatory
Report, cit. (che peraltro rimette agli Stati Parte l’interpretazione
della nozione).
(39) V. già E. Venafro, Commento all’art. 6 l. 66/1996, in Leg.
pen., 1996, 455. Cfr. altresì E.Mengoni, op.cit., 127 ss. Men che
mai il reato può ritenersi realizzato quando il soggetto passivo sia
per ragioni contingenti, note all’autore, nell’impossibilità di percepire
alcunché (ad esempio perché addormentato), o quando il
soggetto attivo accetti soltanto il rischio che il minore possa vedere
l’atto sessuale e, per questo, farsi poi più cedevole (ad es.
accetti il rischio che il bambino stia dormendo per finta, o possa
risvegliarsi). Così, già con riferimento all’art. 609 quinquies, primo
comma, ad es. Cass., Sez. III, 12 marzo 2008, n. 15633, in
Ced Cass., 240036.
(40) V. ad es., nell’immediatezza della riforma del 1996, Cass.,
Sez. III, 29 ottobre 1996, n. 1032, in Ced Cass. 207099 e Cass.,
Sez. III, 28 aprile 1997, n. 4761, in Ced Cass. 208279, in tema di
successione di leggi penali nel tempo; o ancora Cass., Sez. III, 3
giugno 2003, n. 33006, in Ced Cass. 226018. Sulla eterogeneità
strutturale quale elemento che esclude il concorso apparente tra
609 quinquies e 609 quater v. ad es. Cass., Sez. III, 3 giugno
2003, n. 33006, in Ced Cass. 226018; Cass., Sez. III, 10 ottobre
2007, n. 4718, in Ced Cass. 239057.
(41) E. Venafro, Commento all’art. 6, cit., 455 s.; P. Veneziani,
Corruzione di minorenne, cit., 193 ss., spec.196, il quale nega la
possibilità di un’estensione analogica in bonam partem; più possibilista,
al riguardo, P. Pisa, Le nuove norme contro la violenza
sessuale, in questa Rivista, 1996, 289.
(42) E. Venafro, Commento all’art. 5, cit., 450 ss. Parla invece di
causa di esclusione della pena F. Mantovani, Diritto penale, parte
speciale, I, delitti contro la persona, IV ed., Padova, 2011, 414.
In tema più di recente L.Russo - S.Basini, Atti sessuali con minorenne
(art. 609 quater), in Trattato, parte speciale, IX, cit., 150
ss.
(43) Sulla possibile estensione della causa di non punibilità al reato
di corruzione di minorenne attualmente al primo comma v. L.
Picotti, Art. 609-quinquies c.p., in Commentario delle norme
contro la violenza sessuale e contro la pedofilia, a cura di A. Cadoppi,
Padova, 2006, 674. Critico tra gli altri E. Mengoni, op.cit.,
125.

Legislazione
Diritto penale
soggettiva, stante la necessaria diversità tra colui
che “fa assistere” il minore, e chi “compie atti sessuali”.
Si prospettano, dunque, almeno le seguenti
alternative (lasciando perdere i casi di mancanza di
dolo, perché ad esempio difetta la consapevolezza di
agire in presenza di un minore, o si ritiene che il minore
non abbia la possibilità di vedere o, comunque,
di capire il significato di quei gesti). Può darsi, in
primo luogo, che chi compie gli atti sessuali intenda
solo “fare assistere” il minore, mentre colui che “fa
assistere” il minore miri a coinvolgerlo in un atto
sessuale. Ove manchino gli estremi per configurare
una fattispecie plurisoggettiva eventuale, ciascuno
risponderà, separatamente e “monosoggettivamente”,
ex art. 609-quinquies, rispettivamente primo o
secondo comma (si pensi al caso in cui taluno induca
un bambino a spiare due persone che fanno sesso
- che egli suppone ignare - sperando che, per curiosità
o spirito d’emulazione, la piccola vittima si abbandoni
ad una successiva molestia; mentre, in realtà,
i due amanti hanno ben compreso d’essere osservati
e proseguono proprio per farsi vedere, senza tuttavia
aver inteso che il minore è stato condotto lì da
altri). Se, invece, ciascun soggetto agente ha contezza
di collaborare con altra persona, e percepisce la
specifica finalità che la muove, si profilano gli estremi
di un concorso di persone nel reato. Ma in quale
reato: in quello del primo o in quello del secondo
comma? Oppure, stante l’eterogeneità strutturale tra
le fattispecie, si ha addirittura un concorso (formale)
di reati, per cui ognuno con la sua azione ad un
tempo realizza una delle due fattispecie previste dall’art.
609-quinquies, e concorre nell’altra fattispecie,
di cui il complice è esecutore materiale? L’insostenibilità
di questa ultima ipotesi, che porterebbe ad un
incremento anche significativo di pena (si potrebbe
arrivare sino a 15 anni di reclusione, in virtù del cumulo
giuridico ex art. 81, primo comma, c.p.) a fronte
di un comportamento chiaramente corrispondente,
quanto ad offensività, se non altro a quello del secondo
comma (che d’altra parte già prende in considerazione,
quale elemento costitutivo, la circostanza
che soggetti diversi da colui che agisce sul minore
compiano atti sessuali), porta senz’altro a concludere
che le due figure tipiche rappresentino modalità
alternative di realizzazione del medesimo reato, sicché
di un solo reato si risponde, ove si contribuisca
alla consumazione dell’una e dell’altra, nel medesimo
contesto, e ai danni dello stesso minore.
Potremmo infine domandarci quale qualificazione
attribuire al caso in cui chi compie l’atto sessuale
abbia l’intento di “indurre” il minore a “compiere o
subire atti sessuali”, mentre chi fa assistere persegua
160
il più blando scopo cui si riferisce il primo comma.
Ora, chi compie l’atto sessuale per indurre il minore
a compiere a subire atti sessuali ha, a fortiori, lo
“scopo di farlo assistere”, dunque realizza per intero
la fattispecie del primo comma. Chi realizza la fattispecie
del secondo comma, deve per forza avere la
consapevolezza e volontà di “fare assistere” il minore,
cioè dell’evento del reato; se però gli difetta, dicevamo,
la peculiare intenzionalità cui il secondo
comma si riferisce, il suo fatto non è tipico per difetto
di un elemento soggettivo, né a tale difetto
può sopperire la presenza del dolo specifico del primo
comma (cioè lo scopo di fare assistere, che nel
caso di specie forgerebbe, in realtà, un vero e proprio
dolo intenzionale, in quanto correlata ad un
evento che effettivamente deve verificarsi). Fatta
salva, ovviamente, l’ipotesi in cui vi siano gli estremi
di un concorso nel fatto tipico realizzato da coloro
che compiono l’atto sessuale, di cui sostanzialmente
già s’è detto.
In conclusione, anche considerate tutte queste complicazioni,
si fanno più forti le perplessità circa una
scelta, così barocca, di costruire una fattispecie del
tutto affine a quella già esistente in termini d’offensività
e substrato criminologico, ma variamente differenziata
quanto a struttura ed orientamento soggettivo.
Non sarebbe stato più semplice riformulare
in termini estensivi la figura del primo comma, comprendendovi
anche la condotta di “mostrare materiale
pornografico”, e considerando altresì l’ipotesi
in cui l’“atto sessuale” non venga realizzato da colui
che “fa assistere” il minore?
Un ultimo comma dell’art. 609-quinquies, anch’esso
introdotto dalla riforma in esame, prevede infine un
aggravamento di pena “fino alla metà” per i medesimi
soggetti di cui trattano gli artt. 572 c.p. e l’art.
609-quater, primo comma, n. 2 e terzo comma, vale
a dire “l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il
di lui convivente, il tutore, ovvero altra persona cui,
per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di
vigilanza o di custodia, il minore è affidato, o che
abbia con quest’ultimo una relazione di stabile convivenza”.
Si determina, così, un coordinamento in
chiave estensiva tra tutte queste fattispecie che, come
si è visto, può ritenersi in parte sollecitato dalla
stessa Convenzione.
Un cenno, ancora, al pur cospicuo intervento che
ha investito l’art. 609-nonies, in tema di pene accessorie
ed altri effetti penali, in caso di condanna o applicazione
della pena ex art. 444 c.p.c. per reati contro
la libertà sessuale.
Detto intervento si sostanzia, in primo luogo, in
qualche opportuno adeguamento sistematico: le
Diritto penale e processo 2/2013

conseguenze di cui tratta la norma (44) sono state
estese anche al nuovo reato di adescamento di minori
(art. 609-undecies); l’“interdizione perpetua”
cui si riferisce il n. 2, è stata riferita anche all’ufficio
dell’amministratore di sostegno, mentre in precedenza
riguardava soltanto tutela e curatela.
Si contemplano, poi, due ulteriori pene accessorie.
In primo luogo l’interdizione temporanea dai pubblici
uffici per la durata di cinque anni, in caso di
condanna alla reclusione da tre a cinque anni (art.
609-nonies, primo comma, n. 4). Si fa salvo l’art. 29
c.p., che impone l’interdizione invece perpetua in
caso di condanna alla reclusione “non inferiore ai
cinque anni”. Uno sforzo normativo francamente
degno di miglior causa, dato che già l’art. 29, primo
comma, c.p. stabilisce l’applicazione dell’interdizione
dai pubblici uffici esattamente per cinque anni
appunto in caso di condanna ad almeno tre anni e
non più di cinque anni (ché altrimenti l’interdizione
si fa perpetua). Per non ritenere la novella del
tutto superflua, si potrebbe paradossalmente sostenere
che essa, in realtà, riduca l’ambito applicativo
di quella sanzione interdittiva rispetto ai reati in
questione. Per vero, l’interdizione temporanea dai
pubblici uffici ex artt. 28 e 29 c.p. si applica tendenzialmente
anche in caso di “patteggiamento”, in
quanto correlata ad una pena (tre anni almeno di reclusione)
superiore a quella (due anni) il cui mancato
superamento è d’ostacolo alle pene accessorie ex
artt. 445, primo comma, c.p.p. L’interdizione temporanea
cui si riferisce il n. 4 del “nuovo” art. 609-nonies
c.p., invece, fa riferimento soltanto, e precisamente,
al caso di “condanna” alla reclusione, provvedimento
che, nel contesto della stessa norma, è
espressamente distinto dall’“applicazione della pena
su richiesta delle parti”. Si fa dunque plausibile - per
quanto distante dalle intenzioni del legislatore, e
priva d’ogni ogni razionalità teleologica - un’interpretazione
secondo la quale, ove trovi applicazione
l’istituto dell’art. 444 c.p.p. in rapporto ai reati indicati
nell’art. 609-nonies, primo comma, l’interdizione
temporanea, eccezionalmente, non debba aver
luogo.
Il n. 5 del primo comma della norma in commento
considera, infine, la «sospensione dall’esercizio di
una professione o di un arte». Detta misura è contemplata,
in via generale, dall’art. 35 c.p., ma a dire
il vero soltanto per le contravvenzioni; ai delitti si
riferisce piuttosto l’omologa misura della “interdizione
temporanea dall’esercizio di una professione
od arte”, di cui all’art. 30 c.p. Deprecabile dunque,
ancora una volta, l’approssimazione del legislatore
nell’intessere (o, meglio, nell’aggrovigliare) questo e
Legislazione
Diritto penale
altri nessi sistematici. In ogni caso, la chiara scelta
lessicale ed il principio di legalità impongono di ritenere
configurata esattamente la misura di cui all’art.
35 c.p. - niente vieta che essa venga eccezionalmente
estesa a delitti, pur con scelta balzana - e
non già quella, diversamente denominata, dell’art.
30 c.p. Tale precisazione è fondamentale per la determinazione
della durata della sanzione (nell’art.
30, secondo comma, contenuta tra un mese e cinque
anni, nell’art. 35 c.p. tra quindici giorni e due anni)
(45), nonché per il fatto che la sospensione, a differenza
della interdizione, non comporta la decadenza
dall’autorizzazione, abilitazione o licenza a svolgere
la professione od arte.
Nello stesso articolo vengono quindi introdotti due
nuovi commi (che diventano il terzo e il quarto),
ove si tratta di alcune originali misure di sicurezza applicabili
per una durata minima di un anno (s’intende:
previa verifica della pericolosità ex artt. 202 e
203 c.p.) (46) in caso di condanna per violenza sessuale
aggravata (ex 609-bis e 609-ter c.p.), atti sessuali
con minorenni (609-quater c.p.), corruzione di
minorenne (609-quinquies c.p.) violenza sessuale di
gruppo aggravata (609-octies, primo e terzo comma,
che rinvia al 609 - ter, c.p.), nonché fruizione della
prostituzione minorile, ex art. 600-bis, secondo comma,
c.p.
Gli istituti previsti sono l’eventuale imposizione di
restrizione dei movimenti e della libera circolazione,
nonché il divieto di avvicinarsi a luoghi frequentati
da minori; il divieto di svolgere lavori che implichino
un contatto abituale con minori; l’obbligo di tenere
informati gli organi di polizia sulla propria residenza
e sugli eventuali spostamenti. Si tratta, come
Diritto penale e processo 2/2013 161
Note:
(44) Riguardo alle quali v. M. Diglio, Commento all’art. 10 l.
66/1966, in Leg. pen., 1997, 482 ss.
(45) Quando la legge determina i limiti minimo e massimo di durata
della pena accessoria, si discute se trovi applicazione l’art.
37 (riferito ai casi di “durata indeterminata”, e secondo il quale
detta durata è uguale a quella della pena principale, nel rispetto
del minimo o del massimo), oppure gli artt. 132 e 133 (con conseguente
delega alla discrezionalità del giudice). Sul punto da ultimo
e per tutti A. di Martino, Pene accessorie, in Le conseguenze
sanzionatorie del reato, a cura di G. De Francesco, Torino,
2011, 131 s.; per la prima soluzione da ultimo G. Marinucci-
E.Dolcini, Manuale di diritto penale, parte generale, IV ed., Milano,
2012, 577; per la seconda soluzione ad es. P. Pisa, sub art.
37, Commentario breve al codice penale, a cura di A. Crespi-
G.Forti-G.Zuccalà, V ed., Padova, 2008, 111, 114.
(46) V. al riguardo G. Andreazza-L.Pistorelli, Novità legislative: l. 1
ottobre 2012, n. 172, recante “Ratifica ed esecuzione della Convenzione
del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro
lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre
2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno”,
19, in www.penalecontemporaneo.it.

Legislazione
Diritto penale
è stato rilevato, di obblighi e divieti che, nel loro insieme,
vengono a comporre una sorta di libertà vigilata
(cui equivalgono anche quanto a durata minima)
- misura, questa, già in precedenza applicabile
per il solo fatto di una condanna a più di un anno di
reclusione (art. 229, n. 1, c.p.) - con prescrizioni
prestabilite dalla legge e non definite dal giudice
(47). L’affinità è tuttavia solo fattuale, trattandosi di
istituti formalmente distinti, sicché non trova applicazione
la norma dell’art. 228 c.p., appunto riferita
alla libertà vigilata (48). V’è da domandarsi, allora,
di quali spazi di discrezionalità disponga il giudice
nello scegliere il tipo di misura. Se l’art. 228 c.p. stabilisce
che egli possa sempre modificare o limitare le
prescrizioni inerenti alla libertà vigilata, l’art. 609nonies,
terzo comma, c.p., considera “eventuale” soltanto
la prima tipologia di imposizioni, tra quelle
elencate, sicché parrebbe, a contrario, che tutte le altre,
pur costituendo ciascuna autonoma misura di sicurezza
(il testo della legge è chiaro in tal senso), siano
parte integrante di una sanzione della pericolosità
non modulabile nei contenuti. La perentorietà
della disposizione («la condanna… comporta…
l’applicazione delle seguenti misure» - non già “può
comportare” l’applicazione “di una o più delle seguenti
misure”) lascia altresì intendere che le ipotesi
successivamente elencate devono trovare applicazione
cumulativa, non “alternativa”. Non hanno
dunque attuazione, in questo caso, i criteri cui si fa
ricorso qualora più misure di sicurezza concorrono in
rapporto al medesimo fatto (in questo caso, dottrina
e giurisprudenza prevalenti ritengono debba essere
applicata una sola misura, maggiormente idonea a
fronteggiare la specifica pericolosità dell’autore del
reato) (49).
Le misure in discussione s’accompagnano ad una
condanna dell’imputato - non riguardano, dunque, il
non imputabile - e se ne prescrive l’applicazione -
non, si badi, soltanto l’esecuzione - dopo l’esecuzione
della pena, così inverando nel caso specifico
un’eventualità già presa in considerazione dell’art.
205 c.p., e rimettendo la decisione al magistrato di
sorveglianza, ex art. 679 c.p.p. (50).
Nell’ultimo comma del novellato art. 609-nonies
c.p. si prevede, infine, che la violazione delle disposizioni
del terzo comma sia punita con la reclusione
fino a tre anni. Una scelta draconiana, irragionevole
e diseguale, rispetto all’ordinario trattamento della
violazione delle misure di sicurezza nei termini di
manifestazioni qualificate di pericolosità che incidono,
al più, sui profili qualitativi e quantitativi del
trattamento della pericolosità.
In chiusura di questo commento alle modifiche in
162
materia di tutela penale della libertà ed integrità sessuale,
necessita ricordare che l’art. 4, primo comma,
lett. a l. n. 172/2012, intervenendo sull’art. 157, sesto
comma, c.p., ha esteso il meccanismo di duplicazione
dei termini per la prescrizione del reato ivi
previsto anche ai reati di violenza sessuale, atti sessuali
con minorenne, corruzione di minorenne e
violenza sessuale di gruppo, salvo che risulti l’attenuante
per i casi “di minore gravità”; mentre l’art. 4,
primo comma, lett. q, ha esteso anche alla violenza
sessuale di gruppo e all’adescamento di minorenni la
regolamentazione del “fatto commesso all’estero” di
cui all’art. 604 c.p., già correlata agli artt. da 609-bis
a 609-quinquies c.p.
Le nuove disposizioni sull’error aetatis
È noto che, sinora, l’art. 609-sexies c.p. impediva di
invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della
persona offesa rispetto ai delitti di violenza sessuale,
violenza sessuale aggravata, atti sessuali con minorenne,
violenza sessuale di gruppo e corruzione di
minorenne. La disciplina (51) era intesa come una
deroga alle regole generali in tema di dolo del fatto
tipico o di imputazione soggettiva delle circostanze
aggravanti, giustificata per supposte difficoltà di
“prova” e peculiari ragioni “general-preventive”, ma
in realtà difficilmente compatibile con il principio
costituzionale di colpevolezza, essendo in tutti quei
casi la minore età elemento che prevalentemente, se
non addirittura esclusivamente, determina l’offensività
della fattispecie (52) (si pensi, in specie, agli
artt. 609-quater e 609-quinquies c.p.). V’era, inoltre,
un profilo di irragionevolezza sistematica, per la
Note:
(47) G. Andreazza-L. Pistorelli, op. cit., 19.
(48) Rispetto alle quali, in generale, da ultimo, D. Notaro, Le singole
misure di sicurezza, in Le conseguenze sanzionatorie del
reato, cit., 514 ss.
(49) In via interpretativa, mancando apposita disposizione: G. De
Francesco, Le misure di sicurezza, in Bricola-Zagrebelsky, Giurisprudenza
sistematica di diritto penale, Codice penale, p.g., I,
Torino, II ed., 1996, 1494; A. Gargani, Misure di sicurezza, in Le
conseguenze sanzionatorie del reato, cit., 488 s.; Cass., Sez. I,
ord. 16 marzo 1971, n. 1135, in Ced Cass. 118077.
(50) Sull’applicazione di misure di sicurezza da parte del magistrato
di sorveglianza v. A. Gargani, Misure di sicurezza, cit., 480.
(51) Introdotta con l’art. 7 della l.15 febbraio 1996, n. 66, che riprendeva
il precedente art. 539, comma 3, c.p. V. A. di Martino,
Commento all’art. 7, in Leg. pen., 1996, 456 ss.
(52) Al riguardo, problematicamente, G. Fiandaca, Inescusabilità
dell’errore sull’età della persona offesa nella violenza carnale e
principi costituzionali, in Foro it., 1983, I, 2652 ss. Un’ampia e recente
panoramica in tema di error aetatis in M. Benincasa-S.
Medioli Devoto, Ignoranza dell’età della persona offesa (art. 609
sexies), in Trattato, parte speciale, IX, cit., 201 ss.
Diritto penale e processo 2/2013

mancanza di un’analoga limitazione rispetto ad altri
reati pure interamente incentrati su di un pregiudizio
per il sano sviluppo sessuale del minore, quali
quelli di pedopornografia e prostituzione minorile.
Rispetto a queste fattispecie, l’errore circa l’età del
soggetto passivo escludeva senz’altro il dolo, aprendo
al più spazi per l’applicazione dei reati in materia
di prostituzione degli “adulti”, di cui all’art. 3, l. n.
75/1958 (53).
Con ord. 24 luglio 2007, n. 322 (54), la Corte costituzionale
- pur rigettando per l’ennesima volta una
questione di legittimità costituzionale - sollecitava
un’interpretazione adeguatrice, secondo la quale
l’ignoranza dell’età poteva ritenersi irrilevante solo
se inescusabile, sulla falsariga delle indicazioni a suo
tempo contenute nella sentenza 24 marzo 1988, n.
364 in tema di ignorantia legis (55) (così riproponendo
un parallelismo tra errore sull’età ed errore sul divieto
già suggerito da importante dottrina (56)).
Un’interpretazione, in tutta onestà, difficilmente
praticabile - se ancora ha valore il dato letterale -
stante la chiara formulazione dell’art. 609-sexies nei
termini di una preclusione assoluta, genericamente
rivolta a qualsiasi tipo di ignoranza (57).
A queste difficoltà intende ovviare l’art. 4, primo
comma, lett. p e t, l. n. 172/2012. Si introduce, in
primo luogo, una disposizione del tutto nuova in tema
di errore sull’età (art. 602-quater c.p.) riferita, in
generale, ai delitti contro la personalità individuale
(categoria codicistica cui appartengono, oltre alle
fattispecie di pedopornografia e prostituzione minorile,
anche quelle in materia di schiavitù e servitù),
quando realizzati ai danni di un minore degli anni
18; in secondo luogo, viene modificato il già citato
art. 609 sexies c.p. In entrambi i casi si attribuisce
espressamente rilievo scusante soltanto all’ignoranza
inevitabile sull’età.
L’intervento rimedia, se non altro, ad una insostenibile
disparità di trattamento tra reati inerenti ad ambiti
sì diversi, ma contigui, rispetto ai quali il requisito
dell’età gioca un’eguale funzione di vettore del
disvalore penale. Si recuperano, poi, quote di colpevolezza,
secondo i suggerimenti della Corte costituzionale:
così almeno nel campo dei delitti contro la
libertà sessuale, mentre, sul terreno dei delitti contro
la personalità individuale, l’intervento opera in
malam partem, negando rilievo ad errori sinora idonei
ad escludere il dolo (l’art. 602-quater non può,
dunque, operare retroattivamente).
A questo proposito urgono alcune precisazioni e distinzioni,
nei limiti concessi dall’economia del presente
lavoro. Rispetto ai casi in cui la minore età
funge da circostanza, la nuova disciplina non fa che
Legislazione
Diritto penale
ripetere, nella sostanza, il generale criterio secondo
il quale per l’imputazione delle aggravanti è sufficiente
un requisito di colpa o di conoscibilità (art.
59, secondo comma, c.p.); criterio cui sinora derogava,
in rapporto ai soli delitti contro la libertà sessuale,
l’art. 609-sexies c.p. (il quale, peraltro, negli ultimi
tempi poteva essere interpretato secondo le indicazioni
della Corte costituzionale).
Maggiore e più problematico l’impatto della novella
normativa in rapporto a tutte le ipotesi in cui la
giovane età è senz’altro elemento costitutivo, perché,
ove l’età fosse più elevata, il comportamento
risulterebbe privo del disvalore specifico che giustifica
quel particolare tipo d’incriminazione: così, ap-
Diritto penale e processo 2/2013 163
Note:
(53) Sull’inapplicabilità in questi casi dell’art. 609-sexies, ché altrimenti
si sarebbe trattato di analogia in malam partem, v. ad es.
Cass., Sez. III, 15 ottobre 2009, n. 46983, in Ced Cass. 245416.
(54) L’ordinanza è pubblicata in questa Rivista, 2007, 1461 ss.,
con nota di L. Risicato, L’errore sull’età tra error facti ed error iuris:
una decisione “timida” o “storica” della Corte costituzionale?,
in questa Rivista, 2007 (a p.1466 ss. un excursus degli argomenti,
talora davvero fantasiosi, con cui la Corte nel tempo ha
sempre rigettato questioni di costituzionalità aventi ad oggetto la
norma in tema di irrilevanza dell’error aetatis. In precedenza v.
Id., Error aetatis e principio di colpevolezza: un perseverare diabolicum?,
in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 584 ss.).
(55) Pubblicata, ad es., in Foro it., 1988, I, 1385, con nota di G.
Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della
legge penale: “prima lettura” della sentenza n. 364/88. I contenuti
della sentenza vennero riproposti e precisati, in tema di “furto
d’uso”, nella successiva del 13 dicembre 1988, n. 1085, in Foro
it., 1989, I, 1378, nota Ingroia.
(56) V. in particolare T. Padovani, L’intangibilità sessuale del minore
degli anni quattordici e l’irrilevanza dell’errore sull’età: una
presunzione ragionevole ed una fictio assurda, Riv. it. dir. proc.
pen., 1984, 438 ss., che appunto prospettava una “analogia” tra
errore sull’età ed errore sul divieto, auspicando che il legislatore
attribuisse rilievo alla sola ignoranza “incolpevole” sull’età. Argomentazioni
di recente rielaborate in L. Risicato, L’errore sull’età,
cit., 1470 ss., che pure auspicava l’introduzione di una analoga
norma, accompagnata da una “attenuante” per il caso di
ignoranza evitabile. In termini simili A.Cadoppi, art. 609-sexies,
in Commentario delle norme contro la violenza sessuale, cit.,
723 ss., che argomenta dalla difficoltà di conoscere con precisione
l’elemento dell’età.
(57) Nel genus “ignoranza” - fenomeno disciplinato come sappiamo
dall’art. 609-sexies - rientra, per necessità logica, la species
“ignoranza inevitabile”. Analoghi tentativi di rilettura “costituzionalmente
orientata” del testo dell’art. 5 c.p. prima della
sentenza della Corte costituzionale n. 364/88 (v. ad es. G. Fornasari,
Buona fede e delitti: limiti normativi del’art. 5 c.p. e criteri di
concretizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, 473 ss.) si infrangevano,
allora, nel medesimo ostacolo testuale (lo rilevava
criticamente T. Padovani, Spunti giurisprudenziali sulla coscienza
dell’illiceità come elemento del dolo, Cass. Pen. Mass. Ann.,
1977, 584), tanto che gli stessi sostenitori ne ammettevano
l’”artificiosità” (D. Pulitanò, Una sentenza storica che restaura il
principio di colpevolezza, in Riv.it.dir.proc.pen., 1988, 688. Ritiene
possibile un adeguamento ermeneutico al principio di colpevolezza
anche contro il testo della norma: M. Vizzardi, Ignoranza
dell’età della persona offesa e principio di colpevolezza,
Riv.it.dir.proc.pen., 1998, 1357.

Legislazione
Diritto penale
punto, rispetto ai reati di pornografia e prostituzione
minorile, di corruzione di minorenne e di atti
sessuali con minorenne. Ora, può anche darsi che,
ai fini della colpevolezza, sia sufficiente una mera
“conoscibilità” degli “elementi significativi della
fattispecie”, come ci ricorda la Corte costituzionale
nella ordinanza del 2007 e, ancora prima, nelle già
citate sentenze n. 364/88 e 1085/88. Tuttavia, se il
legislatore propone una disciplina generale, valida
per tutti i reati, che pretende, per l’imputazione dolosa,
la rappresentazione e volontà di ogni elemento
costitutivo del fatto, non è ragionevole operare una
deroga in rapporto ad uno specifico elemento di alcuni
particolari reati. Né questa ragionevolezza può
recuperarsi in considerazione di speciali difficoltà di
prova dell’elemento soggettivo (che ben possono
esserci in rapporto ad una molteplicità di altri casi,
e che comunque non possono eludersi mediante alterazioni
vistose di logiche sostanziali), e men che
mai per la necessità di rispondere ad istanze “general-preventive”
(che di per sé non giustificano flessioni
nel rispetto del principio “personalistico” di
colpevolezza - di cui oltretutto, da tempo, si evidenzia
la funzionalità rispetto alla stessa general-prevenzione
(58) - e che comunque sono riscontrabili,
anch’esse, in rapporto ad una pluralità di fattispecie
criminose per le quali non valgono analoghe deroghe
(59)).
Sennonché, il parallelismo rispetto alla disciplina
dell’ignorantia legis come modellata dalla sentenza
n. 364/1988, proposto già dalla citata ord. 322/2007
e riproposto dalla riforma in esame, non è peregrino.
Normalmente, se è sensato attribuire rilievo
scusante all’errore sul divieto solo quando non rimproverabile,
ed invece riconoscere all’errore sul fatto
la capacità sempre e comunque di escludere il dolo
(salva la colpa), è perché, mentre il secondo è
strutturalmente incompatibile con un orientamento
della volontà a realizzare il disvalore penalmente
rilevante (per la semplice ragione che un simile intento
presuppone una piena percezione degli elementi
in cui quel disvalore si concretizza), l’ignoranza
dell’incriminazione è, per così dire, in sé
“neutra” in termini di colpevolezza, cioè non indicativa
del grado di rimproverabilità dell’agente. Essa
è, infatti, perfettamente conciliabile tanto con
un volontario perseguimento dell’offesa tipica (perché
a tal fine non “serve” conoscere le norme penali
(60)), che tradisce una riprovevole trascuratezza
o avversione verso le scelte dell’ordinamento penale
(così, appunto, quando l’ignoranza dipenda da
quella trascuratezza o avversione); quanto con una
tendenza interiore al rispetto dell’ordinamento pe-
164
nale, cioè con una scelta d’agire compiuta in ragione
della convinzione, pur erronea, che il fatto non
fosse disapprovato dalla legge, sorretta da buona fede
e non da una ostilità verso i valori patrocinati
dal sistema giuridico (così nel caso di ignoranza
“scusabile”) (61). Tanto premesso, e venendo al nostro
caso, è bene ricordare che il limite di quattordici
anni - o altro limite di età che funge da elemento
costitutivo - ha un carattere convenzionale e presuntivo.
Si intende dire che presupposto sostanziale
della “pericolosità” (62) e, dunque, del “disvalore”
di certe condotte non è il dato anagrafico nella sua
espressione “numerica”, bensì l’immaturità, la fragilità
e la manipolabilità in ambito sessuale che normalmente
si accompagna a quell’età, e che peraltro
può non esserci già più in tredicenni o dodicenni
dalla personalità precocemente strutturata, ed esserci
invece ancora, e in modo accentuato, in quattordicenni,
quindicenni, sedicenni ecc. Di talché, è
possibile che chi è convinto, per sbaglio, di avere a
che fare con una persona, ad es., di quindici o sedici
anni (in ragione, ipotizziamo, delle sue fattezze
esteriori), ben percepisca i profili di rischio della
propria azione, rendendosi conto di interferire con
una psiche “infantile”, e in questo esprimendo un
orientamento soggettivo di tipo doloso; orientamen-
Note:
(58) Cfr. ad es. R. Bartoli, Colpevolezza: tra personalismo e prevenzione,
Torino, 2005, 33 ss.
(59) L’argomento dell’esigenza preventiva, in questo particolare
campo, già era contraddetto dalle puntuali argomentazioni di T.
Padovani, L’intangibilità sessuale, cit., 437.
(60) Che anzi potrebbero avere un’efficacia inibente: F. Palazzo,
Ignoranza della legge penale, in Dig. disc. pen., VI, Torino, 1993,
130.
(61) Ancora: essere o meno in errore sul fatto deriva esclusivamente
da evenienze connesse allo svolgimento in concreto della
vicenda criminosa, mentre conoscere od ignorare il precetto è
uno status psicologico che non ha niente a che vedere con il
contesto materiale in cui si svolge l’azione, dipendendo piuttosto
dal più generale “atteggiamento” tenuto dal soggetto nei
confronti dell’ordinamento (T. Padovani, L’ignoranza della legge
penale e la declaratoria d’incostituzionalità parziale dell’art. 5
c.p., in Leg. pen., 1989, 452; F. Palazzo, Il problema dell’ignoranza
della legge penale nelle prospettive di riforma, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1975, 790).
(62) La natura “convenzionale” del limite di età porta a qualificare
reati come l’art. 609-quater e 609-quinquies nei termini di fattispecie
di pericolo “astratto” (v. F. Mantovani, Diritto penale,
cit., 413, 420; P. Veneziani, op. cit., 179 ss.). Un’interpretazione
costituzionalmente orientata della regola in tema di error aetatis
sollecita il recupero (della percezione) di momenti fattuali se non
altro di “rischio”. Quanto, poi, questa operazione possa a sua
volta indurre ad una riqualificazione del fatto tipico è tema che
davvero trascende il compito che in questa sede siamo tenuti a
svolgere. Evidenzia profili di possibile contrasto tra l’opzione per
il pericolo astratto e il principio di offensività, in questi casi, P. Veneziani,
609 quater, in Commentario, cit., 625.
Diritto penale e processo 2/2013

to soggettivo che, tuttavia, non si fa più espressione
di trascuratezza o avversione verso l’ordinamento
penale, ove il soggetto abbia cura di sincerarsi dell’effettiva
età della persona (pur permanendo nell’errore),
in ciò dimostrando una inclinazione a
conformarsi alle scelte del legislatore (il quale comunque
consente, a chi abbia più di quattordici anni,
di esercitare la propria libertà sessuale).
La conoscenza dell’età, in sostanza, opera in modo
molto simile alla conoscenza del precetto: essa non è
essenziale per realizzare volontariamente l’offesa sostanziale
(a tal riguardo conta, semmai, l’intuizione
della gracilità psichica del partner in ragione della sua
giovane età, quale che sia), sicché la mancanza di
quella conoscenza, di per sé, non è ancora indicativa
né di una rimproverabilità né di un difetto di rimproverabilità
dell’agente. Tutto dipende, appunto, dalla
scusabilità o evitabilità di quell’errore (63).
Se, in questi termini, la scelta della Corte costituzionale
prima, del legislatore poi, appare plausibile,
è in questi termini che le nuove norme devono essere
interpretate ed applicate. In sostanza, dalla
sancita sufficienza, ai fini dell’imputazione dolosa,
di una consapevolezza “potenziale” del dato strettamente
anagrafico, non deve dedursi che sia adeguata
anche la mera conoscibilità della natura puerile
del soggetto passivo. Si tratta di elementi in cui si
concentra l’intero disvalore sostanziale, la cui ignoranza,
dunque, unità all’erronea convinzione di
un’età adeguata, fa venir meno un orientamento
soggettivo di carattere doloso, lasciando al più
emergere una “colpa”. In sostanza, si potrà punire sì
a titolo di dolo in caso di errore “evitabile” sull’età,
purché il soggetto avesse percepito (non la semplice
“giovinezza”, come suggerisce la Corte costituzionale,
bensì) specifici fattori di rischio per l’equilibrio
psico-sessuale della controparte, in ragione
della sua ingenuità, fragilità, influenzabilità e fanciullaggine,
essendo appunto tale percezione ad
esercitare quella Appelfunktion che avrebbe dovuto
indurre ad un accertamento riguardo al dato anagrafico,
oppure all’astensione.
Tale rappresentazione effettiva ed attuale di profili di
disvalore sostanziale, nondimeno, dovrà ritenersi
variabile in ragione dell’impatto che le diverse condotte
possono avere sulla sfera personale della controparte,
per la loro connotazione intrinseca. Intendiamo
dire che ben diverso è indurre una ragazzina
(che si crede più adulta) a prestarsi per esibizioni
hard di fronte di un pubblico nutrito, eccitato e perverso,
oppure indurla alla prostituzione, o ancora
usufruire del suo corpo in vendita, rispetto al caso in
cui con lei si abbia, nell’intimità, un rapporto affet-
Legislazione
Diritto penale
tuoso e consensuale (che peraltro, a sua volta, può
variare da semplici carezze e toccamenti, sino all’amplesso)
o con lei si decida di assistere alla visione
di un film pornografico. Nelle prime ipotesi si ha
una strumentalizzazione tanto pervasiva ed aberrante
che solo a fronte di un carattere straordinariamente
spiccato, fortissimo, realmente emancipato e
consapevolmente “libertario” della controparte potrà
venir meno la percezione di mettere a repentaglio
la psiche d’una giovane creatura. Altre condotte,
invece, appartengono più o meno alla “fisiologia”
delle relazioni intime (fatta anche di piccoli azzardi
e trasgressioni: evitiamo d’elevare moralismo e sessuofobia
a misura della responsabilità penale), sicché,
chi pensi di avere a che fare con una ragazza di
oltre quattordici anni, solo se percepisca una individualità
decisamente puerile e ancora chiaramente
inadeguata a vivere esperienze non così straordinarie
potrà apprezzare, nell’atto, un quoziente di pericolosità
per l’equilibrio psichico del partner. Sussistendo
questo atteggiamento soggettivo sostanzialmente
doloso, allora davvero l’errore sull’età potrà
ritenersi irrilevante, a meno che non risulti per altre
ragioni “scusabile” (si pensi ad esempio al caso in cui
la fanciulla presenti al preoccupato amante una carta
di identità falsa) (64).
La tutela anticipata della sessualità
del minore mediante nuove fattispecie
“contro l’ordine pubblico”
È noto che quando il legislatore vuole enfatizzare il
rilievo penale di certi beni, tende quasi naturalmente
in una duplice direzione: anticipare la tutela e incrementare
la risposta sanzionatoria. Anche in quest’occasione
non resiste alla tentazione. Quanto agli
incrementi di pena, già si è detto, e presto si dirà ancora.
Il processo di anticipazione è attuato in modo
meno sommario del solito, cioè rielaborando all’uopo
fattispecie contro l’ordine pubblico, che almeno
in parte pongono minori problemi rispetto al principio
d’offensività (se adeguatamente interpretate),
perché compensano la collocazione della condotta
in una fase preliminare dell’iter criminis con la dimensione
estesa d’un pericolo concreto, cioè con
Diritto penale e processo 2/2013 165
Note:
(63) Una prospettiva per alcuni versi analoga, sia pure in un contesto
ordinamentale ben diverso (precedente, appunto, alla dichiarazione
di incostituzionalità dell’art. 5 c.p.), era delineata da
T. Padovani, L’intangibilità sessuale, cit., 438 ss.
(64) La Corte costituzionale giustamente ritiene non sufficienti
semplici rassicurazioni verbali del minore. Sul tema dell’errore
sull’età in caso di rapporti tra soggetti minorenni v. A. di Martino,
op. cit., 462 ss.

Legislazione
Diritto penale
una reale idoneità a determinare la commissione di
una pluralità di fattispecie criminose (65).
Resta il fatto che le fattispecie, in particolare, di
pubblica istigazione a delinquere e di associazione
per delinquere, su cui interviene l’art. 4, lett. b) e c)
della l. n. 172/2012, erano ovviamente già applicabili
ai reati di pedofilia, di pedopornografia e di attentato
alla libertà e integrità sessuale del minore. Il
legislatore, nondimeno, ritiene opportuno disegnare
delle figure speciali, prima introducendo nel codice
un articolo 414-bis che definisce un reato autonomo
(“istigazione a pratiche di pedofolia e di pedopornografia”),
quindi contemplando una circostanza aggravante
speciale del reato di associazione per delinquere,
in un ultimo comma dell’art. 416 c.p.
Si considerano, rispettivamente, un’istigazione riferita
a, ed un’associazione diretta a, la commissione
di reati di prostituzione e pornografia minorile, di
detenzione di materiale pornografico, anche virtuale,
di iniziative turistiche volte allo sfruttamento
della prostituzione minorile (lo zelante legislatore ci
costringe a immaginare una pubblica istigazione a
propagandare viaggi, una sorta di propaganda della
propaganda), di violenza sessuale a danno di minorenni,
di atti sessuali con minorenni, di corruzione
di minorenne (solo la fattispecie associativa riguarda,
altresì, la violenza sessuale di gruppo e l’adescamento
di minore: chissà perché). Si mira ad aumentare
la risposta sanzionatoria, dicevamo poc’anzi, ma
la montagna produce un topolino: la nuova ipotesi
di istigazione è punita con la reclusione da un anno
e sei mesi a cinque anni, sicché vi è un incremento
di appena sei mesi, e solo sul minimo edittale, rispetto
alla più generale figura di cui all’art. 414 c.p.;
la promozione, costituzione ed organizzazione dell’associazione
aggravata ai sensi del “nuovo” art.
416, ult. co., c.p., viene ad essere punita con la reclusione
da quattro (invece che tre) ad otto (invece
che sette) anni; la mera partecipazione con la reclusione
da due (invece che uno) a sei (invece che cinque)
anni.
Merita concentrare l’attenzione sulla figura autonoma
di reato ora delineata dall’art. 414-bis c.p. Poche
le differenze rispetto all’art. 414 c.p. (66), e non tali,
ci sembra, da far venir meno un nesso di specialità
unilaterale per specificazione dell’oggetto dell’istigazione
(sicché assistiamo ad un successione
tendenzialmente peggiorativa della disciplina di un
persistente nucleo di illiceità penale, ma v. infra).
Anche l’art. 414-bis c.p. considera l’apologia come
condotta alternativa; superfluamente precisa, poi,
che l’istigazione può avvenire “con qualsiasi mezzo e
con qualsiasi forma di espressione”. Interessante
166
piuttosto notare la mancanza della dizione “per il solo
fatto dell’istigazione”, sostituita con una clausola
di riserva (“salvo che il fatto costituisca più grave
reato”) capace di condurre ad inediti risultati, e in
particolare all’impossibilità di configurare un “concorso”
con quella fattispecie plurisoggettiva eventuale
che si realizza ove taluno accolga l’istigazione,
commettendo un reato sanzionato in modo più pesante
(67) (così, ad es., se qualcuno dà seguito ad
una pubblica istigazione a realizzare spettacoli pedopornografici,
detta istigazione integra un reato sanzionato
con la reclusione da sei a dodici anni e con
la multa da euro 24.000 a euro 240.000 - ex artt. 110
e 600-ter, primo comma, c.p. - dunque un “più grave
reato” che assorbe quello di cui all’art. 414-bis). In
questi casi, quindi, l’innovazione può risultare “più
favorevole” al reo, ai fini dell’art. 2 c.p.
Con toni da “tolleranza zero”, nell’ultimo comma
del 414-bis c.p. si sancisce l’impossibilità di invocare,
a propria scusa, ragioni o finalità di carattere artistico,
letterario, storico o di costume. Non si vede,
peraltro, come ragioni (o finalità) di questo genere
potrebbero inficiare l’illiceità penale o la colpevolezza,
dato che il “movente” e la “finalità” dell’istigazione
è normalmente considerata irrilevante (68),
mentre la natura artistica (e scientifica) di una produzione
vale, semmai, ad escluderne l’oscenità, ex
artt. 527-529 c.p.: altro nucleo di fattispecie, orientate
alla salvaguardia di tutt’altri beni e interessi, al
di là della comune attinenza alla dimensione “sessuale”.
È chiaro, nondimeno, che il legislatore vuole
avvertirci dell’astratta possibilità, ricorrendone i
presupposti, di applicare la nuova disposizione incriminatrice,
ad es., a libri o film ove si tratta della prostituzione
minorile (“Noi, ragazzi dello zoo di Berlino”?)
o di attrazioni sessuali verso giovanissime loli-
Note:
(65) Cfr. G. De Vero, Ordine pubblico (delitti contro), in Dig. disc.
pen., IX, Torino, 1995, 88; in tema di recente ampiamente, e problematicamente,
A. Sessa, Tutela penale dell’ordine pubblico e
teleologismo dei valori costituzionali: ambiti e prospettive di un
riformismo razionale, in Delitti contro l’ordine pubblico, a cura di
S. Moccia, Napoli, 2007, 1 ss.
(66) In rapporto alla quale, di recente e per tutti M. Pelissero, Delitti
di istigazione e apologia, in Reati contro la personalità dello
Stato e contro l’ordine pubblico, a cura di M. Pelissero, Torino,
2010, 231 ss.
(67) Cfr. M. Pelissero, op.cit., 241 s. Sui nessi tra pubblica istigazione
e concorso di persone nel reato vedi di recente le considerazioni
di F. Schiaffo, Istigazione e apologia nei delitti contro
l’ordine pubblico, in Delitti contro l’ordine pubblico, cit., spec.
166 ss.
(68) Cass., Sez. I, 11 marzo 1975, n. 10804, in Ced Cass.
131193; Cass.; Sez. I, 11 giugno 1986, n. 13534, in Ced Cass.
174483; Cass., Sez. I, 16 ottobre 2008, n. 40684, in Ced Cass.
241564.
Diritto penale e processo 2/2013

te (“Lolita” di Nabokov e, quindi, di Stanley Kubrick?),
a ricostruzioni giornalistiche o romanzate
delle imprese di pedofili e violentatori seriali, a telegiornali
che, trattando della scoperta di organizzazioni
pedopornografiche, lascino intravedere qualche
immagine scabrosa, sia pure criptata, a contributi
storici sulle abitudini sessuali degli antichi greci,
a pubblicità di pannolini, ad interviste provocatorie
di scrittori trasgressivi.
Nondimeno, da una clausola come quella in esame
appare eccessivo, e ingiustificato, dedurre che la
nuova figura criminosa voglia imprimere un movimento
regressivo a quelli che sono gli sviluppi interpretativi
e legislativi, costituzionalmente orientati,
in tema di reati c.d. “di opinione” (69), mirando alla
repressione d’ogni comunicazione pubblica che,
pur diretta a tutt’altri fini, e ispirata da tutt’altra
ispirazione, possa essere ipoteticamente (e un po’
morbosamente) intesa come una sollecitazione ad
attingere all’intimità fisica dei minori. Si deve perciò
ribadire che istigazione penalmente rilevante è
soltanto quella dotata d’una effettiva e percettibile
idoneità a suscitare in qualcuno la concreta voglia di
realizzare alcuni dei reati indicati, accompagnata
dalla piena consapevolezza, da parte dell’istigatore,
di quella idoneità; e che simile requisito deve misu-
Legislazione
Diritto penale
rarsi in rapporto al contesto nel quale opera il messaggio,
che normalmente sarà abitato da spettatori
dalle ordinarie predilezioni sessuali e dotati di sufficienti
freni inibitori, solo eccezionalmente da menti
malate e perverse, capaci di trarre motivo d’eccitazione
criminale anche dalla visione di minime nudità
di infanti mostrate dalla più innocente réclame
(70). Per altro verso, è bene precisare che non ogni
narrazione di fatti criminosi è “apologia”, ma solo
quella compiuta per esaltare, e dotata anch’essa di
una connotazione istigatoria (71); così come non è
“apologia” una riflessione aperta e problematica, anche
di carattere artistico, sul fenomeno - certo inquietante,
ma concreto e sfaccettato - dell’attrazione
verso la sessualità minorile, per quanto moralisti
e cultori del “politicamente corretto” possano opinare
diversamente.
Diritto penale e processo 2/2013 167
Note:
(69) Riguardo ai quali v. M. Pelissero, Delitti di opinione, in Reati
contro la personalità dello Stato, cit., 97 ss.
(70) Sul (problematico) requisito dell’idoneità nella pubblica istigazione
ancora M. Pelissero, Delitti di istigazione, cit., 238 ss.
(71) Da ultimo e per tutti ancora M. Pelissero, Delitti di istigazione,
cit., 233 ss.

Osservatorio
Corte costituzionale
Osservatorio
Corte costituzionale
a cura di Giuseppe Di Chiara
LEGGE “EX CIRIELLI”, DISCIPLINA
DEGLI STUPEFACENTI E DIVIETO DI PREVALENZA
DELL’ATTENUANTE DELLA LIEVE ENTITÀ
SULLA RECIDIVA REITERATA: INCOSTITUZIONALE
LA RIGIDITÀ DEL MECCANISMO
Corte costituzionale, sent., 15 novembre 2012 (5 novembre
2012), n. 251 - Pres. Quaranta - Est. Lattanzi
È incostituzionale, per violazione degli artt. 3, 25, comma
2, e 27, comma 3, Cost., l’art. 69, comma 4, c.p., come
sostituito dall’art. 3, l. 5 dicembre 2005, n. 251 (“Modifiche
al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n.
354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di
giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i
recidivi, di usura e di prescrizione”), nella parte in cui
prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante
di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990,
n. 309 (“Testo unico delle leggi in materia di disciplina
degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”)
sulla recidiva di cui all’art. 99, comma 4, c.p.
La questione
Il giudice a quo, evocando quali parametri di scrutinio gli artt.
3, 25, comma 2, e 27, comma 3, Cost., aveva dubitato della
legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 4, c.p., come
sostituito dall’art. 3, l. 5 dicembre 2005, n. 251 (“Modifiche
al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia
di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione
delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione”:
c.d. legge “ex Cirielli”), nella parte in cui esclude
che la circostanza attenuante della lieve entità di cui all’art.
73, comma 5, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (“Testo unico delle
leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati
di tossicodipendenza”) possa essere dichiarata prevalente
sulla recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, comma 4, c.p.
La norma censurata, ad avviso del rimettente, si porrebbe
anzitutto in contrasto con l’art. 3 Cost. poiché, in talune fattispecie,
condurrebbe «ad applicare pene identiche a violazioni
di rilievo penale enormemente diverso»: il recidivo reiterato
implicato nel grande traffico di stupefacenti (art. 73, comma
1, d.P.R. n. 309 del 1990) al quale siano riconosciute le
circostanze attenuanti generiche - rimarcava il giudice a quo
- è punito con la stessa pena prevista per il recidivo reiterato
autore di uno «spaccio di strada» di minime quantità, al qua-
168
CIRCOSTANZE
le siano riconosciute le circostanze attenuanti generiche e la
circostanza prevista dal comma 5 dell’art. 73, con la conseguenza
che «l’enorme differenza oggettiva, naturalistica, criminologica
delle due condotte viene completamente obliterata
in virtù di una esclusiva considerazione dei precedenti
penali del loro autore».
La norma censurata violerebbe, inoltre, il principio di offensività
(art. 25, comma 2, Cost.), che, con il suo espresso richiamo
al «fatto commesso», riconoscerebbe «rilievo fondamentale
all’azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore e
non solo in quanto manifestazione sintomatologica di pericolosità
sociale», implicando pertanto «la necessità di un trattamento
penale differenziato per fatti diversi, senza che la
considerazione della mera pericolosità dell’agente possa legittimamente
avere rilievo esclusivo».
La norma sottoposta a scrutinio si porrebbe, infine, in contrasto
con il «principio di proporzionalità della pena (nelle sue
due funzioni retributiva e rieducativa)» (art. 27, comma 3,
Cost.), in quanto «una pena sproporzionata alla gravità del
reato commesso da un lato non può correttamente assolvere
alla funzione di ristabilimento della legalità violata, dall’altro
non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice»:
la condanna a sei anni di reclusione per la cessione
di una singola e modesta dose di sostanza stupefacente - osservava
ancora il giudice a quo - non potrebbe essere considerata,
chiunque ne sia l’autore, una risposta sanzionatoria
proporzionata.
La decisione
Nel ritenere la fondatezza della quaestio prospettata dal rimettente,
la Corte rimarca anzitutto che l’art. 69, comma 4,
c.p. costituisce il punto di arrivo di un’evoluzione legislativa
dei criteri di bilanciamento iniziata con l’art. 6, d.l. 11 aprile
1974, n. 99 (“Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale”),
convertito, con modificazioni, nella l. 7 giugno 1974, n. 220,
che ha esteso il giudizio di comparazione alle circostanze autonome
o indipendenti e a quelle inerenti alla persona del
colpevole: la novella del 1974 aveva propiziato il riequilibrio di
alcuni eccessi di penalizzazione, sortendo nel contempo l’effetto
di rendere modificabili, attraverso il giudizio di comparazione,
le cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, di
aggravamento o di attenuazione, sostanzialmente diverse
dai reati base: ipotesi che solitamente vengono individuate
dal legislatore attraverso la previsione di pene di specie diversa
o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti
da quelli stabiliti per il reato base, come accade
nel caso regolato dall’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del
1990. È rispetto a questo tipo di circostanze - osserva la Corte
- che il criterio generalizzato, introdotto con la modificazione
dell’art. 69, comma 4, c.p., aveva mostrato talune incongruenze,
inducendo il legislatore a intervenire con discipline
derogatorie, come è avvenuto con l’aggravante della «finalità
Diritto penale e processo 2/2013

di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico» (art. 1,
d.l. 15 dicembre 1979, n. 625, recante “Misure urgenti per la
tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica”,
convertito, con modificazioni, nella l. 6 febbraio 1980, n. 15)
e, in seguito, con varie altre disposizioni, generalmente adottate
per impedire il bilanciamento della circostanza c.d. privilegiata,
di regola un’aggravante, o per limitarlo, in modo da
escludere la soccombenza di tale circostanza nella comparazione
con le attenuanti; è appunto questo, invero, il risultato
che si è voluto perseguire con la norma impugnata.
Già la Corte aveva in precedenza avuto modo di rimarcare come
il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee
consenta al giudice di «valutare il fatto in tutta la sua ampiezza
circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte
le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle
che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle
che la diminuiscono» (Corte cost. n. 38 del 1985). Deroghe al
bilanciamento sono, d’altronde, ben possibili e rientrano nell’ambito
delle scelte del legislatore, sindacabili in sede di verifica
di costituzionalità «soltanto ove trasmodino nella manifesta
irragionevolezza o nell’arbitrio» (Corte cost. n. 68 del
2012, in questa Rivista, 2012, 539). Va da sé, peraltro, che le
scelte derogatorie al giudizio di bilanciamento mai possono
giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente
imposti nella strutturazione della responsabilità
penale: una simile alterazione emerge, in verità, proprio dagli
effetti distorsivi cui talora conduce l’automatismo del meccanismo
oggetto di scrutinio.
Invero, la «manifesta irragionevolezza» delle conseguenze, sul
piano sanzionatorio, del divieto di prevalenza dell’attenuante di
cui al comma 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 sulla recidiva
reiterata è resa evidente dall’«enorme divaricazione» delle cornici
edittali stabilite dal legislatore per il reato circostanziato e
per la fattispecie base prevista dal comma 1 della norma medesima
e dagli effetti determinati dal convergere della deroga
al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dallo stesso
art. 73: nel caso di recidiva reiterata equivalente all’attenuante,
il massimo edittale previsto dal comma 5 per il fatto di «lieve
entità» (sei anni di reclusione) diventa il minimo della pena da
irrogare; ciò importa - rimarca la Corte - che il minimo della pena
detentiva previsto per il fatto di «lieve entità» (un anno di reclusione)
viene moltiplicato per sei nei confronti del recidivo
reiterato, che subisce così di fatto un aumento «incomparabilmente
superiore» a quello specificamente previsto dall’art. 99,
comma 4, c.p. per la recidiva reiterata, che, a seconda dei casi,
è della metà o di due terzi.
In altri termini, precisa ancora la Corte, ove si potessero applicare
i criteri stabiliti dall’art. 69, comma 4, c.p. prima della modificazione
operata dalla novella del 1974, la pena da irrogare in
un caso come quello all’origine della quaestio de legitimitate
sarebbe, a seconda del tipo di recidiva, di un anno e sei mesi o
di un anno e otto mesi, cioè di un anno per il reato attenuato
previsto dall’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, aumentato,
a seconda dei casi, di sei mesi o di otto mesi per la recidiva,
mentre il giudizio di equivalenza, imposto dalla norma impugnata,
determina un aumento di cinque anni.
Le rilevanti differenze quantitative delle comminatorie edittali
dei commi 1 e 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 rispecchiano,
d’altronde, le diverse caratteristiche oggettive delle
due fattispecie, sul piano dell’offensività e alla luce delle
stesse valutazioni del legislatore: il trattamento sanzionatorio
decisamente più mite assicurato al fatto di «lieve entità», la
cui configurabilità è riconosciuta dalla giurisprudenza comune
solo per le ipotesi di «minima offensività penale» (Cass.,
Sez. Un., 24 giugno 2010, n. 35737, in questa Rivista, 2010,
Osservatorio
Corte costituzionale
1290), esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata
è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione
della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione
delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva
reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del
reato. Insomma - conclude sul punto la Corte - due fatti, quelli
previsti dai commi 1 e 5 dell’art. 73, che lo stesso assetto
legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano
dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale:
il che determina un contrasto tra la disciplina censurata e
l’art. 25, comma 2, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità
penale (in tema cfr. Corte cost. n. 249 del 2010,
in questa Rivista, 2010, 1055).
La recidiva reiterata - prosegue la Corte - riflette i due aspetti
della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che
questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere,
nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza
tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto
al fatto oggettivo: il principio di offensività - rimarca ancora la
pronuncia in esame - è chiamato a operare non solo rispetto
alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a
tutti gli istituti che incidono sull’individualizzazione della pena
e sulla sua determinazione finale; se così non fosse, la rilevanza
dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare
neutralizzata da un processo di individualizzazione prevalentemente
orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità.
La norma sottoposta a scrutinio vulnera altresì, ad avviso della
Corte, il canone dell’eguaglianza: il recidivo reiterato, cui
siano riconosciute le attenuanti generiche, autore di un fatto
“non lieve” da punire con il minimo edittale della pena stabilita
dall’art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, riceve lo
stesso trattamento sanzionatorio spettante al recidivo reiterato,
cui pure siano riconosciute le attenuanti generiche, ma
autore di un fatto di «lieve entità».
Leso si palesa, infine, il principio di proporzionalità della pena
di cui all’art. 27, comma 3, Cost. La disciplina censurata, nel
precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva
reiterata, realizza una deroga rispetto a un principio generale
che governa la complessa attività commisurativa della
pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione
della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un
processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma,
Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo
dell’applicazione delle circostanze (così già, con riguardo
ad altra quaestio, Corte cost. n. 183 del 2011, in questa Rivista,
2011, 811): nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo
di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante
dell’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990 impedisce il necessario
adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso
l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di
«lieve entità». L’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art.
69, comma 4, c.p. sulla diversità delle cornici edittali prefigurate
dai commi 1 e 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990,
che viene annullata, attribuisce alla risposta punitiva i connotati
di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque,
«inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato»
(Corte cost. n. 68 del 2012, cit.). La norma censurata si palesa,
dunque, per questo aspetto in contrasto con la finalità rieducativa
della pena, che implica «un costante “principio di
proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte,
e offesa, dall’altra» (Corte cost. n. 341 del 1994).
I precedenti
Sulla ratio del giudizio di bilanciamento tra circostanze e sulla
discrezionalità giudiziale che vi è sottesa cfr., tra le altre, Cor-
Diritto penale e processo 2/2013 169

Osservatorio
Corte costituzionale
te cost. n. 38 del 1985 e n. 68 del 2012 (in questa Rivista,
2012, 539). Sulla violazione del principio di offensività di cui all’art.
25, comma 2, Cost. liddove la legge ordinaria riconduca
alla medesima cornice edittale fatti pur riconosciuti come profondamente
diversi sul piano dell’offesa, cfr. Corte cost. n.
249 del 2010 (in questa Rivista, 2010, 1055). Sui rapporti tra
finalità della pena e principio di proporzione tra offesa e qualità
e quantità della sanzione cfr. Corte cost. n. 341 del 1994.
La dottrina
Sugli irrigidimenti apportati dalla c.d. legge “ex Cirielli” alla
170
disciplina della recidiva e del computo della pena, anche con
riguardo al divieto di prevalenza oggi dichiarato incostituzionale,
cfr. già, in termini critici, G. Marinucci, Certezza d’impunità
per i reati gravi e “mano dura” per i tossicodipendenti in
carcere, in questa Rivista, 2006, 170 ss., e A. Melchionda, La
nuova disciplina della recidiva, ibid., 175 ss. Cfr. altresì, per
una ricca trattazione d’insieme delle problematiche implicate
dalla riforma della recidiva operata dalla c.d. legge “ex Cirielli”,
S. Corbetta, Il nuovo volto della recidiva: “tre colpi e sei
fuori”?, in AA.VV., Nuove norme prescrizione del reato e recidiva,
a cura di A. Scalfati, Padova, 2006, 53 ss.
Diritto penale e processo 2/2013

Osservatorio
Cassazione - Sezioni Unite
Osservatorio Corte
di cassazione - Sezioni Unite
a cura di Alfredo Montagna
VENDITA DI SEMI DI PIANTE STUPEFACENTI
E REATI CONFIGURABILI
DISCIPLINA DEGLI STUPEFACENTI
Cassazione penale, Sez. Un., 7 dicembre 2012 (c.c. 16 ottobre
2012), n. 47604 - Pres. Lupo - Rel. Squassoni - P.M.
Fedeli (diff.) - Ric. P.M. in proc. Bargelli
La offerta in vendita di semi di piante dalle quali è ricavabile
una sostanza drogante, correlata da precise indicazioni
botaniche sulla coltivazione delle stesse, non integra
il reato di cui all’art. 82 d.P.R. n. 309/1990, salva la
possibilità di sussistenza dei presupposti per configurare
il delitto previsto dall’art. 414 c.p., con riferimento alla
condotta di istigazione alla coltivazione di sostanze
stupefacenti.
Il caso
La peculiarità della fattispecie giunta all’esame della terza sezione
penale della Corte rende necessaria la indicazione di alcuni
elementi; infatti il collegio era stato chiamato a giudicare
il ricorso del Procuratore della Repubblica avverso la sentenza
di assoluzione che il G.u.p. aveva pronunciato, con la
formula il fatto non sussiste, in un giudizio nel quale erano
stati contestate le violazione degli artt. 81, secondo comma,
e 82 del d.P.R. n. 309 del 1990 a soggetti che avevano offerto
e pubblicizzato su vari siti internet la vendita di molte varietà
di semi di piante con effetti stupefacenti (nella specie
oltre 140 tipi di piante di marijuana). La assoluzione era stata
motivata dalla considerazione che nei siti internet si faceva riferimento
alla sola commercializzazione dei semi delle varie
piante, senza che tale pubblicità fosse accompagnata da consigli
su come ricavare i principi attivi da tali piante, tantomeno
per il loro consumo come stupefacenti. Da ciò il giudice di
merito aveva ricavato l’assenza degli elementi necessari per
configurare il reato di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti,
collocando la fattispecie nell’alveo dell’illecito amministrativo
di cui all’art. 84 dello stesso d.P.R. n. 309, che disciplina
la propaganda di tali sostanze.
Pertanto la decisione dipendeva dalla soluzione da dare alla
questione se, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art.
82, comma 1, del citato d.P.R., fosse sufficiente l’attività di
pubblicizzazione di semi di piante idonee a produrre sostanze
stupefacenti, con indicazioni sulla coltivazione e la resa
(atteso che la normale finalità della coltivazione è l’ottenimento
dello stupefacente per farne uso), o se, invece, fosse
necessario un riferimento diretto alle qualità di tali sostanze,
con la prospettazione dei benefici che si possono ricavare dal
loro uso.
Nella giurisprudenza delle sezioni semplici si rinvenivano soluzioni
diverse, per cui opportunamente il Collegio aveva ritenuto
di devolvere la questione alle Sezioni Unite.
In alcune decisioni si era affermato che la condotta di pubblicizzazione
di semi di piante idonee a produrre una sostanza
stupefacente, anche in mancanza di una pubblicità tesa ad
esaltare la qualità dell’uso della sostanza ricavabile, configurasse
il reato di cui all’art. 82, in quanto si sosteneva la esistenza
di una relazione causale diretta fra la pubblicizzazione
dei semi e della coltivazione delle piante e l’uso della sostanza
stupefacente che se ottiene.
Anche altre decisioni avevano affermato la configurabilità del
reato de qua, ritenendo che la condotta di istigazione potesse
astrattamente consistere anche nel fornire agli acquirenti
indicazioni specifiche sulle modalità di coltivazione dei semi.
Diversamente anche di recente era stato affermato che ai fini
della configurabilità del reato di istigazione all’uso fosse
necessaria un’attività di pubblicizzazione che facesse riferimento
diretto alle qualità delle sostanze stupefacenti ricavabili
dalle piante ed alla prospettazione dei benefici derivanti
dall’uso di tali sostanze. In assenza di questo quid pluris non
si sarebbe realizzato il reato di cui sopra, bensì il semplice illecito
amministrativo di cui all’art. 84, per la propaganda e la
pubblicità di sostanze comprese nelle Tabelle allegate alla
legge.
La decisione
Nella propria motivazione la Corte ha ricordato che qualsiasi
tipo di attività pubblicitaria avente ad oggetto prodotti droganti
è vietata, in ottemperanza all’art. 10, comma 2, della
Convenzione di Vienna, ratificata dal nostro paese con l. 25
marzo 1981 n. 385 (la Convenzione prevede l’obbligo di proibire
le inserzioni pubblicitarie riguardanti le sostanze psicotrope
e destinate al grosso pubblico). Pur tuttavia, si è precisato,
la semplice offerta di semi dalla cui pianta sono ricavabili
sostanze stupefacenti non può essere inclusa nell’ambito
della pubblicità vietata.
Le Sezioni Unite hanno poi affermato che non appare corretto
inquadrare la condotta della quale si discute nella previsione
della istigazione all’uso di stupefacenti, di cui all’art. 82 del
d.P.R. n. 309/1990, in quanto la condotta in questione solo indirettamente
ed eventualmente conduce al consumo di sostanze
droganti. Ragionare diversamente, si sostiene, equivarrebbe
ad equiparare la nozione di stupefacente a quella di
pianta dalla quale, con determinati procedimenti chimici neppure
menzionati nella pubblicità, è possibile ricavare una sostanza
drogante. La Corte evidenzia infine sul punto che se si
fosse trattato di offerta in vendita di sostanze stupefacenti, la
condotta sarebbe riconducibile nella previsione del diverso
art. 73, comma 1, dello stesso d.P.R.
Peraltro la decisione esclude altresì la possibilità di ricorrere
alla ipotesi dell’illecito amministrativo previsto dal citato art.
Diritto penale e processo 2/2013 171

Osservatorio
Cassazione - Sezioni Unite
84, atteso che, se il messaggio non è neutro ed asettico, come
quando si invitano i destinatari all’acquisto di semi quale
attività prodromica al successivo comportamento consistente
nella coltivazione di piante dalle quali è possibile estrarre
una sostanza stupefacente, si individua una condotta prevista
come reato dall’art. 73, comma 3, del d.P.R. n. 309 (stante
l’attuale illiceità della coltivazione).
La soluzione al quesito demandato all’esame della Corte viene
così individuata nella possibile integrazione del delitto di
cui all’art. 414 c.p., istigazione a delinquere, quale norma generale,
che residua dopo avere escluso la riconducibilità del
fatto nella ipotesi di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti
(di cui al citato art. 82). In questa ottica la questione diviene
di merito, in quanto spetta al giudicante la valutazione
della efficienza della azione stimolatrice, contenuta nella
messa in vendita, verso i potenziali acquirenti al fine di indurli
a porre in essere la successiva condotta illecita (della coltivazione).
In considerazione di ciò le Sezioni Unite hanno affermato il
principio di diritto, secondo il quale la offerta in vendita di semi
di piante dalle quali è ricavabile una sostanza drogante,
correlata da precise indicazioni botaniche sulla coltivazione
delle stesse, non integra il reato di cui all’art. 82 d.P.R. n.
309/1990, salva la possibilità di sussistenza dei presupposti
per configurare il delitto previsto dall’art. 414 c.p., con riferimento
alla condotta di istigazione alla coltivazione di sostanze
stupefacenti.
I precedenti
Cass., Sez. VI, n. 16041 del 5 marzo 2001, dep. 19 aprile
2001, in Ced Cass., 218484, Gobbi ed altri; Cass., Sez. IV, n.
22911 del 23 marzo 2004, dep. 14 maggio 2004, ivi, 228788,
D’Angelo; Sez. IV, n. 15083 dell’8 aprile 2010, dep. 19 aprile
2010, inedita, Gracis; Cass., Sez. IV, n. 23903 del 20 maggio
2009, dep. 10 giugno 2009, P.M. in proc. Malerba, in Ced
Cass., 244222; Cass., Sez. IV, n. 26430 del 20 maggio 2009,
dep. 25 giugno 2009, P.M. in proc. Pesce ed altro, ivi,
244503; Cass., Sez. VI, n. 38633 del 24 settembre 2009,
dep. 5 ottobre 2009, ivi, 250545, Barsotti; Sez. IV, n. 6972 del
17 gennaio 2012, dep. 22 febbraio 2012, ivi, 251953, P.M. in
proc. Bargelli ed altro.
La dottrina
V. Militello, Le forme indirette di diffusione degli stupefacenti
nella nuova normativa, in Giust. pen., 1992, II, 183; F. Palazzo,
Consumo e traffico degli stupefacenti (Profili penali),
1994, 207; G. Amato, Commento a Cass. n. 15083 del 2010,
in Guida al dir., 2010, 24, 88; G. Amato, Commento a Cass.
n. 6972 del 2012, in Guida al dir., 2012, 16, 44.
CONTESTAZIONI A CATENA E MOMENTO DI RILEVABILITÀ
DELLA RETRODATAZIONE DEL TERMINE
Cassazione penale, Sez. Un., 20 novembre 2012 (c.c. 19
luglio 2012) n. 45246 - Pres. Lupo - Rel. Fiandanese - P.M.
Fedeli (diff.) - Ric. P. M. in proc. Polcino
Cassazione penale, Sez. Un., 20 novembre 2012 (c.c. 19
luglio 2012) n. 45247 - Pres. Lupo - Rel. Fiandanese - P.M.
Fedeli (diff.) - Ric. P. M. in proc. Asllani
Nel caso di contestazione a catena, la questione della re-
172
MISURE CAUTELARI
trodatazione della decorrenza del termine di custodia
cautelare può essere dedotta anche in sede di riesame
solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
a) se per effetto della retrodatazione il termine sia interamente
scaduto al momento della emissione del secondo
provvedimento cautelare; b) se tutti gli elementi
per la retrodatazione risultino dall’ordinanza cautelare.
Il caso
La quarta sezione penale, con due distinte ordinanze di analogo
contenuto, del maggio 2012 aveva rimesso la trattazione
dei ricorsi alle Sezioni unite, rilevando l’esistenza di un
contrasto giurisprudenziale sulla preliminare questione «relativa
alla deducibilità della regola della retrodatazione dei termini
di custodia cautelare nei casi disciplinati dall’art. 297,
comma terzo, cod. proc. pen. innanzi al tribunale del riesame»,
o se invece ciò fosse possibile solo con istanza di revoca
ex art. 299 c.p.p.
Per lungo tempo l’orientamento della giurisprudenza era stato
contrario alla possibilità di dedurre anche nel procedimento
di riesame l’inefficacia della misura cautelare, che si riteneva
dovesse essere fatta valere soltanto con l’istanza di revoca
prevista dall’art. 306 c.p.p. Si argomentava in proposito
che le cause che determinano la perdita di efficacia della misura
cautelare, tra le quali rientra quella prevista dal terzo
comma dell’art. 297 c.p.p., atterrebbero a vizi processuali
non incidenti sulla intrinseca legittimità dell’ordinanza impositiva
della misura, ma con riflessi sul diverso piano dell’efficacia;
da ciò la conclusione che dovessero essere fatte valere
nel procedimento appositamente promosso con l’istanza
di revoca ex art. 306 c.p.p. e non direttamente con la richiesta
di riesame, istituto preordinato alla verifica dei presupposti
legittimanti l’adozione del provvedimento custodiale. In
sintesi si sosteneva che il fenomeno della retrodatazione dei
termini non incideva sul provvedimento in sé, ma soltanto
sulla decorrenza e sul computo del periodo di custodia cautelare.
Più di recente si era fatto strada un diverso e minoritario
orientamento, per il quale l’applicazione della regola della retrodatazione
dei termini della misura cautelare in caso di cosiddette
contestazioni a catena poteva essere validamente
dedotta davanti al tribunale in sede di riesame, ma ciò a condizione
che già al momento dell’emissione dell’ordinanza
cautelare fossero scaduti interamente, per effetto della retrodatazione,
i termini di custodia. Si sosteneva sul punto
che l’integrale decorso dei termini avrebbe determinato una
inefficacia originaria del titolo custodiale rilevabile anche di
ufficio dal Tribunale per il riesame, innanzi al quale può essere
sollevata anche l’insussistenza delle esigenze cautelari (in
caso di parziale anticipazione dei termini si sarebbe avuta una
inefficacia sopravvenuta del titolo detentivo, deducibile con
l’istanza di revoca innanzi al giudice presso il quale pende il
procedimento).
Va infine ricordato come le Sezioni Unite, pur avendo espressamente
affrontato la specifica tematica della non deducibilità
nel procedimento di riesame della cause sopravvenute di
inefficacia della misura cautelare personale, non avessero
specificato se la questione fosse estensibile anche alle cause
preesistenti in grado di incidere sulla perdita di efficacia
della misura (come la retrodatazione dei termini per le contestazioni
a catena).
La decisione
Le due decisioni delle Sezioni Unite, peraltro identiche, hanno
preliminarmente ripercorso lo sviluppo della giurispruden-
Diritto penale e processo 2/2013

za sul tema dei rapporti tra procedimento di riesame e procedimento
di revoca dell’ordinanza cautelare. Infatti mentre il
riesame delle ordinanze che dispongono misure cautelari costituisce
un mezzo di impugnazione, ancorché peculiare, diversa
è la natura giuridica della richiesta di revoca di misura
cautelare, che, tra l’altro, può essere disposta anche d’ufficio
nelle ipotesi previste dal comma 3 dell’art. 299 c.p.p.; così
che la revoca è stata definita come «quel fenomeno estintivo
che presuppone una valutazione sulla sussistenza ex ante
e sulla persistenza ex post delle condizioni di applicabilità delle
misure cautelari». Nelle successive sentenze delle Sezioni
Unite si è poi operata una ricostruzione sistematica della materia,
elaborando più precise regole sull’ordine delle competenze
nei rapporti tra giudice del procedimento principale e
giudice dell’impugnazione. Infine con due decisioni (Caridi
del 1999 e Piscopo del 2000) le sezioni unite hanno ricostruito
le diverse cause di estinzione delle misure cautelari: dalla
mancanza dei requisiti previsti dall’art. 292 c.p.p., alla mancanza
dei presupposti edittali, probatori o cautelari, alla caducazione
automatica, ope legis, in dipendenza di eventi sopravvenuti,
alla caducazione prevista dall’art. 309, comma
10, c.p.p.; mentre parallelamente hanno analizzato la ratio
dell’istituto della retrodatazione dei termini in caso di contestazioni
a catena, istituto che tende ad evitare che, rispetto
ad una custodia cautelare in corso, intervenga un nuovo titolo
che, senza giustificazione, determini di fatto uno spostamento
in avanti del termine iniziale della misura.
La decisione ha poi ribadito la ricostruzione sistematica operata
dalla giurisprudenza, che traccia la linea di confine tra le
questione devolute alla cognizione del giudice dell’impugnazione
e quelle affidate alle decisioni del giudice del procedimento
principale, evidenziando l’assenza di ragioni per modificarne
l’assetto, anche con riferimento all’ipotesi di inefficacia
della misura cautelare per retrodatazione dei termini ex
art. 297, comma 3, c.p.p., allorquando tale inefficacia sia sopravvenuta
all’adozione della misura stessa.
La motivazione ha poi evidenziato che ove si tratti di eventi
sopravvenuti alla decisione del giudice del riesame, il giudice
di legittimità non potrebbe rilevare la inefficacia del provvedimento
per retrodatazione dei termini. sia in quanto in sede di
legittimità il controllo si riferisce alla correttezza della decisione
del riesame, sia in quanto si tratta di una quaestio facti
non sollevabile per la prima volta in cassazione.
Nel diverso caso di evento intervenuto nel tempo intercorrente
tra l’emissione dell’ordinanza cautelare e la decisione
del Tribunale del riesame, l’ordine delle competenze non potrebbe
essere messo in discussione neppure sotto il profilo
dell’esigenza di rapidità in materia di decisioni de libertate,
posto che, da un lato, sulla presentazione di una richiesta di
revoca il giudice del procedimento principale deve provvedere
con ordinanza entro cinque giorni dal deposito della richiesta
stessa (anche in tempi più rapidi della decisione del Tribunale
del riesame); dall’altro lato, la possibilità di una doppia
valutazione di merito costituisce una garanzia anche per il
soggetto raggiunto dalla misura cautelare.
A conclusioni parzialmente diverse deve pervenirsi nel caso
in cui, in applicazione dei principi della c.d. contestazione a
catena, il termine di custodia cautelare sia interamente scaduto
già al momento della emissione del secondo provvedimento
cautelare. Ma con la precisazione che qualsiasi richiesta
che comporti l’esercizio di poteri istruttori può soltanto
costituire l’oggetto di questioni da proporre al giudice competente
su eventuali istanze di revoca della misura cautelare.
Il giudice del riesame potrà pronunciarsi soltanto quando dalla
stessa ordinanza impugnata emergano elementi incontro-
Osservatorio
Cassazione - Sezioni Unite
vertibili in materia; diversamente sia una decisione favorevole
all’indagato, che quella sfavorevole sarebbero entrambe
viziate dalla impossibilità per il giudice del riesame di svolgere
attività istruttoria, per cui il tendenziale rispetto del principio
di economia processuale rischierebbe di produrre effetti
negativi maggiori.
Conseguentemente le Sezioni Unite hanno affermato il principio
di diritto per il quale “nel caso di contestazioni a catena,
la questione della retrodatazione della decorrenza dei termini
di custodia cautelare può essere dedotta anche in sede di
riesame solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
a) se per effetto della retrodatazione il termine sia interamente
scaduto al momento della emissione del secondo
provvedimento cautelare; b) se tutti gli elementi per la retrodatazione
risultino dall’ordinanza cautelare.
I precedenti
Cass., Sez. I, sentenza n. 1006 del 20 dicembre 2011, dep.
13 gennaio 2012, in Ced Cass., 251687; Cass., Sez. I, sentenza
n. 24784 del 29 marzo 2011, dep. 21 giugno 2011, ivi,
249683; Cass., Sez. III, sentenza n. 9946 del 9 febbraio
2010, dep. 11 marzo 2010, ivi, 246237; Cass., Sez. 1, sentenza
n. 30480 del 29 marzo 2011, dep. 1 agosto 2011, ivi,
251090; Cass., Sez. II, sentenza n. 35605 del 27 giugno
2007, dep. 26 settembre 2007, ivi, 237991; Cass., Sez. VI,
sentenza n. 10325 del 23 gennaio 2008, dep. 6 marzo 2008,
ivi, 239016; Cass., Sez. I, sentenza n. 35113 del 13 luglio
2007, dep. 19 settembre 2007, ivi, 237632; Cass., Sez. V,
sentenza n. 29162 del 10giugno 2010, dep. 23 luglio 2010,
ivi, 247890; Cass., Sez. Un., sentenza n. 14535 del 19 dicembre
2006, dep. 10 aprile 2007, ivi, 235909; Cass., Sez.
VI, sentenza n. 12676 del 20 dicembre 2006, dep. 27 marzo
2007, ivi, 236829; Cass., Sez. VI, sentenza n. 24274 del 24
aprile 2009, dep. 11 giugno 2009, ivi, 245125; Cass., Sez. IV,
sentenza n. 39272 del 22 settembre 2011, dep. 31 ottobre
2011, ivi, 251431; Cass., Sez. I, sentenza n. 40321 del 19
settembre 2008, dep. 29 ottobre 2008, ivi, 241435; Cass.,
Sez. V, sentenza n. 2724 del 4 novembre 2009, dep. 21 gennaio
2010, ivi, 245921; Cass., Sez. II, sentenza n. 49 del 7 dicembre
2011, dep. 4 gennaio 2012, ivi, 251754; Cass., Sez.
I, sentenza n. 12906, del 17 marzo 2010, dep. 7 aprile 2010,
ivi, 246839.
La dottrina
Scalfati, Le contestazioni a catena, in Trattato di procedura
penale, diretto da G. Spangher, Torino, 290 ss.; Santalucia,
Osservazioni a Corte di Cassazione, sez. 1, 29 marzo 2011,
n. 24784, in Cass. pen., 2011, 11, 3781; Potetti, Riesame,
appello e revoca in tema di misure cautelari: una convivenza
difficile, ivi, 1994, 2934; Riviezzo, Pluralità di ordinanze di custodia
cautelare e pluralità di procedimenti nel nuovo art.
297, comma 3, c.p.p., ivi, 1996, 3381.
Diritto penale e processo 2/2013 173

Osservatorio
Cassazione - Diritto penale
Osservatorio Corte
di cassazione - Diritto penale
a cura di Stefano Corbetta
MINACCIA PRETESTUOSA DI ADIRE LE VIE LEGALI:
QUANDO INTEGRA L’ESTORSIONE
Cassazione penale, Sez. II, 17 dicembre 2012 (u.p. 29 novembre
2012), n. 48733 - Pres. Cosentino - Rel. Rago -
P.M. Gialanella (diff.) - Ric. P.A.
Integra gli estremi del reato di estorsione la minaccia di
prospettare azioni giudiziarie (nella specie, decreti ingiuntivi
e pignoramenti) al fine di ottenere somme di denaro
non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a
quelle dovute e l’agente ne sia consapevole, atteso che la
pretestuosità della richiesta va ritenuta un male ingiusto.
Il caso
Il Tribunale del riesame di Genova confermava l’ordinanza di
custodia cautelare in carcere, emessa dal g.i.p. del tribunale
di Sanremo, nei confronti dell’imputato, titolare di impresa familiare
di pulizia, per i reati di estorsione e tentata estorsione.
Questo il fatto: dopo aver emesso false fatture recanti l’indicazione
della realizzazione di lavori di manutenzione-pulizia
per nulla o solo in minima parte effettuati, l’imputato si recava
presso uno studio legale ove prospettava il proprio intendimento
di ottenere il pagamento delle fatture, così inducendo
il professionista ad inviare all’apparente debitore una lettera
raccomandata con cui veniva richiesto il pagamento dell’importo
indicato nel falso documento con la prospettazione, in
caso di mancato pagamento, di “procedere secondo legge” o
di esperire la procedura ingiuntiva, ovvero richiedendo l’emissione
di decreto ingiuntivo. Una delle vittime aveva corrisposto
le somme non dovute, mentre, in altri casi, le persone cui
era stato richiesto il pagamento delle somme non dovute avevano
rifiutato di pagare e si erano rivolte alle Forze dell’Ordine
ovvero si erano opposte al decreto ingiuntivo, ciò che quindi
integrava l’ipotesi del tentativo. Nel ricorrere per cassazione,
la difesa deduceva l’erronea applicazione dell’art. 629 c.p., in
quanto la prospettazione, da parte di un legale, di un procedimento
secondo legge o la richiesta di emissione di un decreto
ingiuntivo non costituirebbero una minaccia tale da integrare
gli estremi del delitto estorsione, tentata o consumata; le
asserite persone offese, infatti, consapevoli dell’infondatezza
e dell’ingiustizia delle pretese, avrebbero potuto resistere nell’eventuale
giudizio civile, così dimostrando l’illegittimità della
pretesa creditoria. A tutto concedere, secondo il ricorrente, il
fatto poteva qualificarsi come truffa.
La decisione
La Cassazione ha rigettato il ricorso perché infondato. La Cor-
174
DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO
te, in primo luogo, ha evidenziato che, di per sé, l’esercizio di
un diritto o la minaccia di esercitarlo non integra i caratteri della
“minaccia” rilevante ex art. 629 c.p. - ossia la prospettazione
di un male futuro e ingiusto, la cui verificazione dipende dalla
volontà dell’agente - perché, pur ponendo il soggetto passivo
nella condizione di subire un pregiudizio dei propri interessi,
tale condotta è esclusivamente diretta alla legittima realizzazione
di un diritto proprio dell’agente. Nondimeno, ha sottolineato
la Cassazione, «se l’esercizio del diritto o la minaccia di
esercitarlo sono volte a realizzare un vantaggio ulteriore e diverso
da quello spettante, il pregiudizio che, attraverso l’iniziativa
giudiziaria formalmente legittima, si prospetta al soggetto
passivo non si pone in un rapporto di funzionalità rispetto al
soddisfacimento del proprio legittimo interesse, ma mira ad
ottenere una pretesa ulteriore ed estranea al rapporto sottostante».
In tal caso la pretesa dell’agente, non trovando alcuna
giuridica giustificazione, «deve considerarsi illegittimamente
perseguita attraverso quel particolare strumento giudiziale utilizzato
o che si minaccia di utilizzare». In altri termini, la prospettazione
alla controparte o a persona terza di un’azione giudiziaria
deve essere considerata come minaccia solo se «è finalizzata
a conseguire un profitto ulteriore ed ingiusto, in quanto
il discrimine tra legittimo esercizio di un diritto o la minaccia
di esercitarlo è da individuarsi proprio nell’ingiustizia del profitto
che si intende realizzare». E l’intenzione di conseguire un ingiusto
profitto può desumersi dal carattere del tutto sproporzionato
ed eccessivo della richiesta, di cui l’agente sia consapevole.
Il concreto esercizio di un’azione esecutiva oppure la
prospettazione di convenire in giudizio il soggetto passivo o di
un’azione esecutiva costituiscono una minaccia - e, dunque,
una illegittima intimidazione idonea ad integrare il delitto di
estorsione - se ricorrono le seguenti condizioni: «a) la minaccia
dev’essere finalizzata al conseguimento di un profitto al quale
non si abbia diritto; b) l’agente dev’essere consapevole dell’illegittimità
o della pretestuosità della propria condotta, anche
se l’illegittima pretesa venga fatta valere in modo apparentemente
legale». Sulla base di questa ricostruzione, la Corte ha
perciò disatteso la tesi difensiva secondo cui l’esercizio di
un’azione giudiziaria o la sua prospettazione, sebbene infondate,
non potrebbe assumere rilevanza ex art. 629 c.p. dato che
il verificarsi del male ingiusto dipenderebbe non già dalla volontà
dell’agente, bensì dal comportamento della vittima che
non ritenga di rivolgersi al giudice civile per tutelare i propri interessi.
La Corte, infatti, ha messo in luce che il processo non
rappresenta la sede in cui le ragioni della parte trovano necessariamente
una tutela: «le concrete dinamiche processuali
possono infatti rendere qualsiasi vicenda giudiziaria aleatoria,
secondo il vecchio brocardo habent sua sidera lites». Ne segue
che «l’ingiustificato coinvolgimento in un’azione legale,
già avviata o anche solo prospettata, costituisce - per chiunque
sia consapevole dell’ingiustizia della pretesa - una minaccia».
Sotto altro profilo, la Cassazione ha pure confutato l’assunto
Diritto penale e processo 2/2013

secondo cui sulla vittima della illegittima richiesta di pagamento
grava l’onere di coltivare un’azione giudiziaria o di opporsi ad
essa o ad un’azione esecutiva, al fine di far accertare l’illegittimità
e la pretestuosità dell’iniziativa avversaria: «così ragionando
- e cioè imputando alla volontà della persona offesa
l’eventuale verificarsi del male ingiusto dalla stessa patito - si
compirebbe un’indebita inversione di prospettiva, essendo essa
vittima di intimidazione e di coartazione della volontà, e non
già la “causa dei propri mali”». Infine, la Corte ha pure disatteso
la tesi subordinata, secondo la quale il fatto integrerebbe lo
schema legale della truffa, ciò che si sarebbe potuto astrattamente
ipotizzare se l’agente si fosse limitato alla falsificazione
delle fatture ed alla richiesta di pagamento delle stesse agli apparenti
debitori. Nel caso in esame, invece, l’imputato non solo
aveva posto in essere una condotta truffaldina (richiesta di
un pagamento non dovuto), ma aveva «adottato una strategia
indubbiamente intimidatoria, consistente nella minaccia azioni
legali, generiche o anche specifiche, oppure, in certi casi, perfino
nell’inizio di un’azione esecutiva, la fattispecie è stata correttamente
qualificata come estorsione». La Corte, conclusivamente,
ha enunciato il seguente principio di diritto: «integra
gli estremi del reato di estorsione e non quello di truffa la minaccia
di prospettare azioni giudiziarie (nella specie decreti ingiuntivi
e pignoramenti) al fine di ottenere somme di denaro
non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle
dovute e l’agente ne sia consapevole, atteso che la pretestuosità
della richiesta va ritenuta un male ingiusto».
I precedenti
In senso conforme, da ultimo, cfr. Cass., Sez. II, 16 gennaio
2003, in Ced Cass., n. 224399, Staniscia, secondo cui in tema
di estorsione, anche la minaccia di esercitare un diritto -
come l’esercizio di un’azione giudiziaria o esecutiva - può costituire
illegittima intimidazione idonea ad integrare l’elemento
materiale del reato quando tale minaccia sia finalizzata al
conseguimento di un profitto ulteriore, non giuridicamente
tutelato. Si veda anche Cass., Sez. II, 24 settembre 2004, ivi,
n. 230139, Faro, la quale, in un caso in cui nella quale il creditore
era stato imputato di tentata estorsione per avere minacciato
il debitore di richiedere il suo fallimento pur in mancanza
dello stato di insolvenza, piuttosto che scegliere la procedura
esecutiva individuale, ha escluso la sussistenza del
delitto per carenza della ingiustizia del profitto perseguito.
La dottrina
L. Conti, voce Estorsione, in Enc. dir., XV, 1966, 995 ss.; R. Febbrai,
Estorsione: la minaccia come fatto etiologicamente colelgato
all’azione volontaria e cosciente dell’agente, in questa Rivista,
2005, 1117 ss.; F. Mantovani, voce Estorsione, in Enc. giur.
Treccani, XIII, 1988; G. Marini, voce Estorsione, in Dig. disc.
pen., IV, 1990, 377 ss; S. Prosdocimi, Note sul delitto di estorsione,
in Riv. trim. dir. pen. ec., 2006, 676 ss.; G. Ragno, Il delitto
di estorsione, Milano, 1966, passim; A. Totaro, Ricorso pretestuoso
alle vie legali: estorsione?, in Ind. pen., 1999, 207 ss.
DELITTI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE
DELLA GIUSTIZIA
NON PUNIBILITÀ DEL TESTIMONE FALSO
CHE AVREBBE DOVUTO ESSERE ESCUSSO
EX ART. 210 C.P.P.
Cassazione penale, Sez. VI, 17 dicembre 2012 (u.p. 20 no-
Osservatorio
Cassazione - Diritto penale
vembre 2012), n. 48764 - Pres. Agrò - Rel. Capozzi - P.M.
D’Ambrosio (diff.) - A.M.
Ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità
prevista dall’art. 384, comma 2, c.p., non assume rilievo
la circostanza che il dichiarante, nel momento in cui rende
la falsa testimonianza, abbia formalmente assunto la
veste di indagato, dovendosi avere riguardo alla sua posizione
sostanziale da valutarsi con riferimento ai già acquisiti
dati indizianti, che non abbiano carattere di mero
sospetto.
Il caso
La Corte di Appello di Roma confermava la sentenza dal
g.i.p. del tribunale capitolino che aveva condannato l’imputato
in ordine al delitto di falsa testimonianza. Nel rigettare l’appello,
la Corte territoriale aveva escluso l’applicazione dell’art.
384, comma 2, c.p., poiché, allorquando era stato esaminato
in dibattimento, l’imputato non soltanto non rivestiva
la qualità di cui soggetto indicato dall’art. 210 c.p.p., ma nemmeno
risultava essere mai stato iscritto nel registro degli indagati
dopo le dichiarazioni a suo carico da parte del soggetto
imputato nel processo in cui era stato sentito correttamente
come teste e persona offesa. Nel ricorrere per cassazione,
la difesa lamentava la violazione dell’art. 384, comma
2, c.p.p., avendo la Corte territoriale erroneamente escluso
che l’imputato dovesse essere sentito con le garanzie previste
dall’art. 210 c.p.p. in quanto egli era stato destinatario,
nel corso delle indagini preliminari, di accuse di violenza privata
da parte del soggetto a carico del quale aveva reso dichiarazioni
in dibattimento, essendo irrilevante, ai fini della
sussistenza della causa di non punibilità in esame, l’iscrizione
nel registro degli indagati del soggetto chiamato a rendere
testimonianza.
La decisione
La Corte ha accolto il ricorso perché fondato. La Cassazione
ha preso le distanze dall’orientamento c.d. formale, seguito
dalla Corte capitolina, che esclude l’assunzione delle dichiarazioni
in veste di testimonianza quando risulti per tabulas
che il dichiarante abbia acquisito la posizione formale (condizione
negativa della testimonianza) di imputato o di indagato
per gli stessi reati o per reati collegati con quelli su cui debbono
acquisirsi le sue dichiarazioni, fatta salva l’ipotesi ovviamente
che tali dichiarazioni si rivelino, per causa originaria
o per motivi emergenti nel corso dell’assunzione, immediatamente
rivelatori di una specifica posizione di potenziale indagabilltà
del soggetto. La Cassazione, per contro, ha aderito
all’orientamento c.d. sostanziale, secondo il quale il giudice
di merito deve compiere «una verifica effettiva della posizione
del dichiarante (a prescindere da indici formali di assunzione
dei ruoli di indagato o imputato), volta a constatare
se costui, in base a tutti i dati disponibili per il giudicante, sia
stato realmente estraneo o meno ad ipotesi criminose concorsuali
o collegate, che impongono di assumerne le dichiarazioni
con le modalità assistite previste dagli artt. 63, 64 e
210 c.p.p.». Di conseguenza, è irrilevante la circostanza che
l’imputato non abbia formalmente assunto la qualità di indagato,
dovendosi piuttosto avere riguardo alla «sua posizione
sostanziale da valutarsi con riferimento ai già acquisiti dati indizianti
che non abbiano carattere di mero sospetto». Ad avviso
della Corte, dall’art. 63, comma 2, c.p.p. - norma «intesa
ad evitare non solo la violazione del diritto di difesa del dichiarante,
ma anche patologici mercanteggiamenti delle autorità
inquirenti realizzabili attraverso “l’obliterazione” dei
Diritto penale e processo 2/2013 175

Osservatorio
Cassazione - Diritto penale
reati da cui ci si è mossi e di cui il soggetto dichiarante è possibile
autore» - discende, in primo luogo, per espressa previsione
normativa, «l’inutilizzabilità erga omnes delle dichiarazioni
che siano state raccolte, senza che al dichiarante sia
stata data contezza della sua posizione processuale e senza
che questa sua posizione venga formalizzata in atti». Ma dalla
ratio sottotesa alla norma in esame deriva un’ulteriore
conseguenza nel caso in cui la persona doveva essere sentita
sin dall’inizio in qualità di imputato o di indagato: mentre
«inappagante e solo parziale è una soluzione totalmente impostata
in termini formalistici (esistenza di notitia criminis,
iscrizione nel registro degli indagati), dato che essa lascia
ampio spazio alla buona volontà degli inquirenti circa il far
sussistere o meno il presupposto In esame all’atto delle dichiarazioni,
salvo poi recuperare successivamente per il dichiarante
la qualità di indagato, in un momento processuale
ritenuto più opportuno», più aderente alla protezione degli
interessi tutelati dalla norma «è invece una considerazione
sostanzialistica del caso, nel senso di non fermarsi solo al
dato di quanto storicamente si è fatto nell’ambito dell’indagine,
ma di considerare anche quanto si sarebbe dovuto fare
rispetto alla situazione, quale appariva al momento in cui
le dichiarazioni sono state rese». Cancellare spazioUn’opzione
di questo tipo, peraltro, non interferisce nella determinazioni
del p.m., che rimane dominus dell’azione penale, ma
consente «quel controllo di legalità delle acquisizioni probatorie
che è compito indefettibile del giudicante». La sentenza
impugnata è stata perciò annullata con rinvio per nuovo
giudizio.
I precedenti
L’orientamento “sostanzialitico”, cui aderisce la sentenza in
esame, è stato avallato da Cass., Sez. Un., 23 aprile 2009, n.
23868, in Giur. it., 2010, III, 675, secondo cui «la sanzione di
inutilizzabilità erga omnes delle dichiarazioni assunte senza
garanzie difensive da un soggetto che avrebbe dovuto fin
dall’inizio essere sentito in qualità di imputato o persona soggetta
alle indagini, postula che a carico dell’interessato siano
già acquisiti, prima dell’escussione, indizi non equivoci di reità,
come tali conosciuti dall’autorità procedente, non rilevando
a tale proposito eventuali sospetti od intuizioni personali
dell’interroga».
La dottrina
C. Conti, L’esimente prevista dell’art. 384 c.p. tra diritto al silenzio
e diritto a confrontarsi con l’accusatore, in P. Tonini (a
cura di), Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e
valutazione della prova, Padova, 2001, 127 ss.; M. Papa, Giusto
processo e non punibilità: la modifica dell’art. 384 comma
2 c.p., ibidem, 567 ss.; G. Piffer, I delitti contro l’amministrazione
della giustizia. I. I delitti contro l’attività giudiziaria,
Padova, 2005, 879 ss.; Id., L’attuazione del giusto processo
con la legge sulla formazione e valutazione della prova (II). Le
modifiche al codice penale, in questa Rivista, 2001, 688 ss.;
D. Pulitanò, Nemo tenetur se detegere: quali i profili di diritto
sostanziale?, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, 1292 ss.
CONCORSO NELL’ESERCIZIO ABUSIVO
DELLA PROFESSIONE DI ODONTOIATRA
Cassazione penale, Sez. VI, 3 gennaio 2013 (u.p. 2 ottobre
176
DELITTI CONTRO LA P.A.
2012), n. 117 - Pres. Agrò - Rel. Di Salvo - P.M. D’Ambrosio
(diff.) - B.A.M. e altro
È configurabile il delitto ex art. 348 c.p. a carico dell’assistente
di poltrona che coadiuvi un mero odontotecnico
in atti riservati all’attività di odontoiatra.
Risponde ex art. 40 cpv. c.p. il direttore sanitario della
struttura titolare di autorizzazione per esercizio di ambulatorio
odontoiatrico, il quale non impedisca, presso
la struttura medesima, l’esercizio abusivo dell’attività
odontoiatrica.
Il caso
La Corte d’appello di Milano confermava la sentenza emessa
dal tribunale meneghino, che aveva condannato i due imputati
in relazione al delitto di cui all’art. 348 c.p., la prima, nella
veste di assistente di poltrona, per aver compiuto, unitamente
a un odontotecnico, giudicato separatamente, atti medici
di pertinenza dell’odontoiatra (riduzione di un’irritazione gengivale,
applicazione di una protesi, otturazioni, ecc.) su una
paziente; il secondo, nella qualità di direttore sanitario della
struttura titolare di autorizzazione per esercizio di ambulatorio
odontoiatrico, per non aver non impedito alla coimputata
e all’odontotecnico l’esercizio abusivo dell’attività di odontoiatra.
Tra i motivi di ricorso, la difesa dell’assistente di poltrona
lamentava la violazione di legge, in quanto l’attività in esame
- per la quale non è richiesta alcuna abilitazione professionale
- non incide sulla terapia e non comporta alcun diretto
contatto con il paziente; la difesa del direttore sanitario, invece,
deduceva, tra i vari motivi, la violazione di legge, in
quanto da un lato era al più prospettabile un atteggiamento
colposo, e non doloso, dall’altro non era rinvenibile alcun obbligo
giuridico di impedire le condotte dolose di soggetti ai
quali non era legato da alcun rapporto contrattuale.
La decisione
Pur respingendo i ricorsi - e quindi confermando le statuizioni
civili della sentenza impugnata - la Corte ha dichiarato
l’estinzione del reato per prescrizione. Quanto alla posizione
dell’assistente di poltrona, la Cassazione ha precisato che
condotta rilevante ex art. 110 c.p. è «qualsiasi comportamento
che fornisca un apprezzabile contributo alla realizzazione
dell’altrui proposito criminoso o che agevoli l’opera dei
concorrenti, in tutte o in alcune delle fasi di ideazione organizzazione
e esecuzione, nelle quali si snoda l’iter criminis».
Per contro, la connivenza non punibile esige che «l’agente
mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo
ad apportare un contributo alla realizzazione del reato», quando
invece «nel concorso è richiesto un contributo partecipativo,
morale o materiale, alla condotta criminosa altrui, caratterizzato,
sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà
di arrecare un apporto concorsuale alla realizzazione dell’evento
illecito». In applicazione di questi principi, nella vicenda
in esame correttamente la Corte territoriale aveva ravvisato
una condotta partecipativa nell’attività di assistenza alla
poltrona svolta dall’imputata, la quale materialmente aiutava
chi abusivamente curava la paziente, porgendo strumenti
ed esplicando tutti i compiti tipici dell’assistente; nel caso
concreto, peraltro, era poi emerso che l’imputata aveva anche
assunto iniziative terapeutiche dirette, partecipando attivamente
alla redazione del piano di cure e al suo aggiornamento,
qualificandosi come medico di fronte alla paziente.
Quanto alla posizione del direttore sanitario, il quale non aveva
mai lavorato come medico della struttura, essendosi limitato
ad espletare in via meramente cartolare le funzioni ine-
Diritto penale e processo 2/2013

enti alla carica, lasciando il presidio medico in completa balia
degli amministratori di fatto, dai quali veniva retribuito, la
Cassazione ha reputato immune da vizi la sentenza impugnata,esendo
inibita alla Corte una “rilettura” degli elementi
di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione
è, in via esclusiva, riservata al giudice di meritoSecondo i giudici
di appello, infatti, l’imputato aveva consentito per anni e
in maniera consapevole che lo studio rimanesse aperto, anche
in sua assenza, così permettendo un esercizio della professione
che doveva necessariamente essere abusivo, dato
che nessun altro medico era accreditato presso quella struttura.
Sotto altro profilo, del tutto correttamente la Corte territoriale
aveva richiamato l’obbligo del direttore sanitario di
pretendere il rigoroso rispetto delle sfere di competenza professionale
dei singoli operatori che agiscono nel presidio,
con particolare riguardo agli atti di esclusiva competenza del
medico, e di adottare provvedimenti in caso di inosservanza,
per ripristinare la legalità violata.
I precedenti
Nel senso che risponde del reato di cui all’art. 348 c.p. l’assistente
di poltrona di uno studio dentistico che esegua attività
riservate ai medici abilitati e agli igienisti dentali, cfr., tra le
più recenti, Cass., Sez. VI, 12 dicembre 2008, in Ced Cass. n.
242690, Melame; Cass., Sez. VI, 7 febbraio 2007, Ventura, in
questa Rivista, 2007, 1140.
Nel senso che risponde a titolo di concorso nel delitto di
esercizio abusivo di una professione chi consenta o agevoli
lo svolgimento da parte di persona non autorizzata di un’attività
professionale, per la quale sia richiesta una speciale abilitazione
dello Stato, cfr., da ultimo, Cass., Sez. VI, 9 aprile
2009, Zuccarelli, in Ced Cass. n. 243657.
La dottrina
E. Bonessi, voce Professione (esercizio abusivo di), in Digesto
pen., 1995, X, 256 ss.; M. Marraffino, Abusivo esercizio di
una professione, in Studium iuris, 2003, 1114 ss.; M. Minnella,
voce Professioni - II) Professioni, arti, mestieri (esercizio
abusivo di), in Enc. giur. Treccani, XXIV, 1991; M. Romano, I
delitti contro la Pubblica Amministrazione. I delitti dei privati.
Le qualifiche soggettive pubblicistiche, Milano, 2008, III ed.,
143 ss.; L. Terrusi, Orientamenti giurisprudenziali in tema di
abusivismo professionale, in Giur. merito, 1990, II, 599 ss.
DELITTI CONTRO LA PERSONA
IL DOLO DEL DELITTO DI DIVULGAZIONE DI MATERIALE
PEDOPORNOGRAFICO
Cassazione penale, Sez. III, 3 dicembre 2012 (u.p. 11 ottobre
2012), n. 46736 - Pres. Lombardi - Rel. Andronio - P.M.
Salzano (conf.) - A.C.
In relazione alla sussistenza del dolo richiesto dal delitto
di cui all’art. 600-ter, comma 3, c.p., occorre provare che
l’agente abbia avuto la volontà non solo di procurarsi
materiale pedopornografico, ma anche di distribuirlo, divulgarlo,
diffonderlo o pubblicizzarlo, desumibile da elementi
specifici e ulteriori rispetto al mero uso di un programma
di file sharing.
Il caso
Il Tribunale di Messina rigettava la richiesta di riesame pro-
Osservatorio
Cassazione - Diritto penale
posta dall’indagato avverso l’ordinanza applicativa della custodia
cautelare in carcere in relazione ai delitti di cui agli artt.
600-ter, comma 3, e 600 quater, comma 2, c.p. per aver divulgato
e detenuto un ingente quantitativo di materiale pedopornografico.
Nel proporre ricorso per cassazione, la difesa
deduceva, tra l’altro, l’assenza di consapevolezza in capo
all’indagato della diffusione dei files contenenti immagini pedopornografiche,
dato che un soggetto con normali cognizioni
informatiche, quale appunto l’indagato, ha difficoltà a rendersi
conto della reale capacità diffusiva di programmi come
Emule e non è perciò in grado di porre limiti alla condivisione
dei files.
La decisione
La Corte ha rigettato il ricorso. La Cassazione ha affermato
che, per la sussistenza del dolo richiesto dal delitto di cui all’art.
600-ter, comma 3, c.p. «occorre che sia provato che il
soggetto abbia avuto, non solo la volontà di procurarsi materiale
pedopornografico, ma anche la specifica volontà di distribuirlo,
divulgarlo, diffonderlo o pubblicizzarlo, desumibile
da elementi specifici e ulteriori rispetto al mero uso di un programma
di file sharing». La prova del dolo, pertanto, può risultare
delicata, perché occorre tener conto delle «effettive
caratteristiche e delle concrete modalità di utilizzo di programmi
del genere da parte della massa degli utenti», evitando
di “coinvolgere soggetti che possono essere in piena
buona fede o che comunque possono non avere avuto nessuna
volontà o addirittura consapevolezza di diffondere materiale
illecito, soltanto perché stanno utilizzando questi (e
non altri) programmi». Del resto, con indagini adeguate «è
possibile accertare chi stia davvero agendo col dolo di diffondere
e non solo con quello di acquisire e con la consapevolezza
del vero contenuto dei file detenuti». La Corte ha respinto
la tesi secondo cui la prova del dolo è di per sé desumibile
dal mero utilizzo di un programma tipo emule o simili -
ossia solo in considerazione delle modalità di funzionamento
del programma e del fatto che questo permette l’upload anche
senza alcun intervento di un soggetto che concretamente
metta il file in condivisione - in assenza di ulteriori elementi
di riscontro; un’interpretazione del genere, infatti, «porterebbe
a configurare una sorta di presunzione iuris et de iure di
volontà di diffusione o una sorta di responsabilità oggettiva,
fondate esclusivamente sul fatto che, per procurarsi il file, il
soggetto sta usando un determinato programma di condivisione
e non un programma o un metodo diversi». Nel caso di
specie, il Tribunale aveva fatto buon governo dei principi poc’anzi
indicati, avendo desunto la volontà dell’indagato di diffondere
il materiale pedopornografico da elementi specifici e
ulteriori rispetto al mero uso di un programma di file sharing,
indicati in maniera puntuale: non tutti i files contenenti gli illeciti
filmati erano posti nella cartella di condivisione del programma
Emule; molti files presenti sul computer dell’indagato
erano stati resi disponibili per il download da parte di altri
utenti ed erano stati effettivamente scaricati; la condivisione
dei files non era occasionale, essendo avvenuta per
periodi compresi tra un minimo di due mesi e un massimo di
un anno e tre mesi e l’indagato aveva operato una selezione
dei files da condividere; i titoli dei files posti in condivisione
rendevano immediatamente comprensibile il loro contenuto
pedopornografico; la diffusione di tale materiale non coincideva,
dunque, con il solo momento del download, ma era avvenuta
più volte nel tempo, con la conseguenza che il programma
non era stato utilizzato solo per procurarsi il materiale
in questione.
Diritto penale e processo 2/2013 177

Osservatorio
Cassazione - Diritto penale
I precedenti
Analogamente, nel senso che, con riguardo al delitto ex art.
600-ter c.p., l’utilizzo, ai fini dell’acquisizione via internet di
materiale pedopornografico, di programmi che comportino
l’automatica condivisione dello stesso con altri utenti (quali
Emule, Kazaa, ecc.) non implica per ciò solo, ed in assenza di
ulteriori specifici elementi, la volontà, nel soggetto agente, di
divulgare detto materiale, cfr. Cass., Sez. III, 10 novembre
2011, in Ced Cass., n. 251401, Pagura; Cass., Sez. 3, 12 gennaio
2010, ivi, n. 246596, Giunta; Cass., Sez. III. 16 ottobre
2008, ivi, n. 242172, p.m. in c. Crimi, la quale ha ritenuto involontaria
la divulgazione e diffusione via internet di files pedopornografici
compiute automaticamente dal programma di
condivisione dati installato sul computer dell’indagato, in
quanto tali files erano stati rinvenuti nella memoria cache e
non all’interno di una cartella.
La dottrina
S. Aprile, I delitti contro la personalità individuale. Schiavitù e
sfruttamento sessuale dei minori, Padova, 2006, 182 ss.; A.
Cadoppi, Art. 3 l. 3 agosto 1998 n. 269, in AA.VV., Commentario
delle norme contro la violenza sessuale e della legge
contro la pedofilia, Padova, 1999, 510 ss.; P. Cordero, Considerazioni
in tema di detenzione di materiale pedo-pornografico,
in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 1166 ss.; F. Novario, Pornografia
minorile e file sharing: l’influenza della tecnologia informatica
sull’asse probatorio, in questa Rivista, 2009, 1290
ss.; P. Pittaro, Le norme contro la pedofilia A. Le norme di diritto
penale sostanziale, ivi, 1998, 1222 ss.; G. Russo, Primi
orientamenti dei giudici di legittimità in materia di pedofilia:
soluzioni compromissorie o aporie interpretative?, in Foro it.,
2000, II, 685 ss.
DELITTI CONTRO LA VITA E L’INCOLUMITÀ INDIVIDUALE
ANCORA SULLA MORTE DI LAVORATORI
PER ESPOSIZIONE ALLE POLVERI DI AMIANTO
Cassazione penale, Sez. IV, 18 dicembre 2012 (u.p. 16 ottobre
2012), n. 49215 - Pres. Marzano - Rel. Grasso - P.M.
Baglione (conf.) - Ric. P.G. in c. G.R.
In relazione al decesso di lavoratori provocata da mesotelioma
pleurico, poiché tale patologia è dose-dipendente,
sono causali, rispetto all’evento morte, tutte le esposizioni
delle vittime alle polveri di amianto successive alla
prima, in quanto il prolungamento all’esposizione incide,
riducendolo, sul periodo di latenza della malattia.
In tema di delitti colposi, ai fini del giudizio di prevedibilità
occorre aver riguardo alla potenziale idoneità della
condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche
alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento
dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la
sua gravità ed estensione.
Il caso
Il riforma della sentenza assolutoria resa dal Tribunale di
Massa, sezione distaccata di Carrara, la Corte d’appello di
Genova mandava assolto l’imputato, per non aver commesso
il fatto, dai delitti di omicidio colposo e di lesioni colpose,
a lui contestati, nella qualità di direttore tecnico di produzione
di un cantiere navale, per aver permesso l’esposizione alle
polveri d’amianto di tre lavoratori dipendenti ed omesso di
178
predisporre l’impiego d’idonei ed efficaci mezzi di protezione
personale e ambientale, così provocando il decesso dei primi
due e lesioni gravissime ai danni del terzo, tutti colpiti da mesotelioma.
Queste, in sintesi, gli argomenti utilizzati dalla
sentenza d’appello per contrastare le risultanze di quella di
primo grado: a) non poteva dirsi provato al di là di ogni ragionevole
dubbio che gli operai si erano ammalati a causa della
condotta colposa dell’imputato, in quanto i tre operai lavoravano
a contatto con l’amianto ben prima che l’imputato assumesse
il ruolo di garanzia e la malattia era stata diagnosticata
in epoca recente, quando ormai l’imputato si era allontanato
dall’azienda; b) non poteva reputarsi provato che l’installazione
di aspiratori più efficienti avrebbero scongiurato la
contrazione della grave patologia neoplastica della pleura. Il
P.G. presso la Corte d’appello di Genova proponeva ricorso
per cassazione avverso l’assoluzione concernente il delitto di
omicidio colposo, denunziando l’inosservanza e l’erronea applicazione
di legge.
La decisione
La Corte ha accolto il ricorso, annullando con rinvio la sentenza
impugnata che, secondo la Cassazione, in maniera
frettolosa era giunta alla conclusione assolutoria. La Suprema
Corte, in primo luogo, ha censurato la parte relativa all’accertamento
del nesso di causalità, che era stato escluso
perché non era stato possibile stabilire con certezza la data
d’innesco della malattia degli operai che da anni, prima che
l’imputato assumesse ruolo di garanzia, si trovavano a contatto
con le polveri di amianto, tanto più che, secondo i giudici
di appello, nel corso del tempo si era avvicendata una
pluralità di garanti. Secondo la Cassazione, invece, non era
decisiva la circostanza che le vittime avessero cominciato a
lavorare a contatto con le polveri d’amianto anche prima dell’assunzione
di responsabilità da parte dell’imputato, dato
che l’esposizione successiva avrebbe potuto avere rilevanza
per lo meno concausale. Parimenti non decisiva era da ritenersi
l’esatta quantificazione di polveri disperse nell’aria,
«stante che le affezioni tumorali che portarono a morte le vittime
debbono reputarsi dipendenti dall’inalazione di fibre
d’amianto, non potendosi affermare l’esistenza di una soglia
quantitativa al di sotto della quale il rischio venga escluso».
La Corte, infatti, ha rigettato la teoria della c.d. “trigger dose”
(o “dose killer”), assumendo, invece, che il mesotelioma è
patologia dose-dipendente. Nel rigettare la tesi secondo cui,
poiché l’insorgenza della patologia oncologica è causata anche
dalla sola iniziale esposizione (appunto, la c.d. “dose killer”),
tutte le esposizioni successive, pur in presenza di concentrazioni
anche elevatissima di fibre cancerogene, dovrebbero
reputarsi ininfluenti, la Cassazione ha evidenziato che
«la molteplicità di alterazioni innestate dall’inalazione delle fibre
tossiche necessita del prolungarsi dell’esposizione e dal
detto prolungamento dipende la durata della latenza e, in definitiva
della vita, essendo ovvio che a configurare il delitto di
omicidio è bastevole l’accelerazione della fine della vita». In
particolare, «l’autonomia dei segnali preposti alla moltiplicazione
cellulare, l’insensibilità, viceversa, ai segnali antiproliferativi,
l’evasione dei processi di logoramento della crescita
cellulare, l’acquisizione di potenziale duplicativo illimitato, lo
sviluppo di capacità angiogenica che assicuri l’arrivo di ossigeno
e dei nutrienti e, infine, la perdita delle coesioni cellulari,
necessarie per i comportamenti invasivi e metastatici, sono
tutti processi che per svilupparsi e, comunque, rafforzarsi
e accelerare il loro corso giammai possono essere indipendenti
dalla quantità della dose». Sulla base dello studio epidemiologico
svolto sui lavoratori della fabbrica Eternit di ce-
Diritto penale e processo 2/2013

mento e amianto di Casale Monferrato, si è constatato che le
esposizioni cui il soggetto è stato sottoposto almeno negli ultimi
dieci anni che precedono la diagnosi della malattia accelerano
il processo maligno; allo tempo stesso tempo, non è
possibile determinare una soglia quantitativa e temporale di
sicurezza, né il tempo massimo d’induzione. Peraltro, le indicazioni
che provengono dalla scienza «debbono trovare conferma
o smentita attraverso la valutazione del vaglio probatorio
in concreto e, se del caso, l’ampliamento dell’area di conoscenza
tecnica, mediante apporto della scienza di settore,
attraverso lo strumento della perizia o la rinnovazione della
stessa, se del caso con apporti multidisciplinari». Questo il
corretto iter logico-argomentativo per appurare il nesso di
causalità: «verificato il fondamento del diffuso convincimento
(nella comunità scientifica) che il processo carcinogenetico
debba considerarsi dose-dipendente, secondo leggi probabilistiche
di tipo statistico, occorrerà accertare, mediante
studio dell’evoluzione clinica delle vittime, se in sintonia con
lo studio di Casale Monferrato, il rischio decresce (anche nel
solo senso che l’insorgenza della malattia si allontana nel
tempo) col trascorrere del tempo dall’ultima esposizione, di
talché è facile concludere che ogni assunzione successiva
aumenta il rischio». Alle luce di tale ricostruzione, è perciò irrilevante
la circostanza, valorizzata dalla Corte territoriale, circa
l’alternarsi di una pluralità di garanti, perché, in ipotesi, tutti
costoro potrebbero essere chiamati a rispondere del verificarsi
dell’evento lesivo. Infine, la Cassazione ha bollato come
«sbrigativa e apodittica» l’affermazione secondo cui, nel caso
in esame, difettava la controprova che la posa in opera di
aspiratori conformi alla normativa avrebbe impedito l’insorgere
del mesotelioma: non solo una conclusione del genere
presupponeva che la Corte territoriale escludesse che la patologia
in esame non è dose-dipendente, ma, quand’anche la
tecnologia non fosse stata in grado di mettere a disposizione
strumenti di protezione collettiva ed individuale idonei ad abbattere
l’assunzione delle microfibre cancerogene, ciò «non
avrebbe esonerato i garanti, dal rimettere il loro mandato,
non potendo assicurare il mantenimento in salute dei lavoratori
alla cui garanzia erano preposti, ove non fosse stato loro
consentito di mutare i procedimenti lavorativi, giungendo fino
a sostituire l’amianto con altro, pur più costoso, materiale».
La Cassazione ha poi censurato come «scarna, superficiale
e intrinsecamente illogica» la motivazione nella parte in
cui i giudici avevano escluso la colpa. Dopo aver ripercorso
gli studi che, a partire dalla conferenza sugli effetti biologici
dell’amianto dell’Accademia delle Scienze, tenutasi a New
York nel 1964, hanno evidenziato la correlazione tra assunzione
di polveri d’amianto e processi cancerogeni, la Cassazione
ha sottolineato che «l’esercizio di attività pericolosa
avrebbe imposto all’imprenditore l’approntamento di ogni
possibile cautela, dalla più semplice ed intuitiva (proteggere
le vie respiratorie con maschere altamente filtranti, imporre
accurati lavaggi alla cessazione dell’orario di lavoro con cambio
degli indumenti da lavoro da sottoporsi, anch’essi, a lavaggio,
alla riduzione al minimo delle polveri, al loro appesantimento
mediante acqua, alla loro aspirazione, ecc), alle più
complesse e sofisticate, secondo quel che la scienza e la
tecnica consigliavano». In ogni caso, anche qualora fosse
stata nota la generica tossicità delle polveri d’amianto, il datore
di lavoro, attenendosi al principio di precauzione, avrebbe
dovuto «trattare con ogni cautela le polveri, che si sapevano
assai sottili (e, quindi, di agevole infiltrazione e fissazione
polmonare) di sostanza comunque tossica». Invero, «in
tema di delitti colposi, nel giudizio di “prevedibilità”, richiesto
per la configurazione della colpa, va considerata anche la so-
Osservatorio
Cassazione - Diritto penale
la possibilità per il soggetto di rappresentarsi una categoria di
danni sia pure indistinta potenzialmente derivante dal suo
agire, tale che avrebbe dovuto convincerlo ad astenersi o ad
adottare più sicure regole di prevenzione; in altri termini, ai fini
del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale
idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di
danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante
dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in
tutta la sua gravità ed estensione». E il giudizio di prevedibilità
deve essere formulato alla stregua dell’agente modello,
ossia del «modello dell’uomo che svolge paradigmaticamente
una determinata attività, che importa l’assunzione di certe
responsabilità, nella comunità, la quale esige che l’operatore
si ispiri a quel modello e faccia tutto ciò che da questo ci si
aspetta». Nel caso di specie, ha concluso la Corte, «il possesso
di elevata competenza di settore, di studi adeguati, di
approfondita conoscenza del concreto contesto lavorativo e
del materiale trattato, la funzione apicale, le dimensioni
aziendali, la possibilità di valersi di specifiche competenze,
tali da far presupporre la sussistenza di condizioni sufficienti
per cogliere la specifica, elevata rischiosità delle lavorazioni
svolte, erano tali da non poter ingenerare dubbi di sorta sulla
circostanza che le microfibre, di cui si impregnava radicalmente
l’aria (risulta accertato l’uso di spruzzatori, utilizzati
per la coibentazione, che creava una nuvola di polvere), fossero
sicuramente nocive, ben oltre il rischio dell’asbestosi».
I precedenti
In senso analogo, da ultimo, cfr. Cass., Sez. IV, 24 maggio
2012, Ramaciotti e altri, in Dir. e prat. lav., 2012, 2426, secondo
cui, in caso di omicidio colposo in danno di lavoratori o
familiari esposti ad amianto e deceduti per tumore asbestocorrelato,
sussiste il nesso di causalità tra l’omessa adozione
da parte del datore di lavoro di idonee misure di protezione e
il decesso del lavoratore in conseguenza della protratta esposizione
alle polveri di amianto, quando, pur non essendo possibile
determinare l’esatto momento di insorgenza della malattia,
deve ritenersi prevedibile che la condotta doverosa
avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul tempo
di latenza, e, dunque, se il gerente avesse tenuto la condotta
lecita prevista dalla legge, operando secondo il noto principio
di controfattualità, guidato sulla base di una generalizzata
regola di esperienza o di una legge scientifica - universale
o statistica - l’evento non si sarebbe verificato ovvero si
sarebbe verificato, ma in epoca significativamente posteriore
o con minore intensità lesiva. In senso parzialmente difforme
cfr. Cass., Sez. IV, 17 settembre 2009, Cozzini, in questa
Rivista, 2011, 1341 ss., con nota di P. Tonini, La Cassazione
accoglie i criteri Daubert sulla prova scientifica. Riflessi
sulla verifica delle massime di esperienza, secondo cui l’affermazione
del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme
antinfortunistiche ascrivibili ai datori di lavoro e l’eventomorte
(dovuta a mesotelioma pleurico) di un lavoratore reiteratamente
esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa
(esplicata in ambito ferroviario), all’amianto, sostanza oggettivamente
nociva, è condizionata all’accertamento: (a) se
presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata,
su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all’effetto
acceleratore della protrazione dell’esposizione dopo
l’iniziazione del processo carcinogenetico; (b) in caso affermativo,
se si sia in presenza di una legge universale o solo
probabilistica in senso statistico; (c) nel caso in cui la generalizzazione
esplicativa sia solo probabilistica, se l’effetto acceleratore
si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite
e significative acquisizioni fattuali; (d) infine, per ciò che
Diritto penale e processo 2/2013 179

Osservatorio
Cassazione - Diritto penale
attiene alle condotte anteriori all’iniziazione e che hanno avuto
durata inferiore all’arco di tempo compreso tra inizio dell’attività
dannosa e l’iniziazione della stessa, se, alla luce del
sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione
condizionalistica rapportata all’innesco del processo
carcinogenetico.
La dottrina
R. Bartoli, Responsabilità penale da amianto: una sentenza
desinata a segnare un punto di svolta?, in Cass. pen., 2011,
1679 ss.: R. Blaiotta, Causalità e neoplasie da amianto, in
Cass. pen., 2003, 3391 ss.; R. Guariniello, Malattie profes-
180
sionali, tumori da amianto, asbestosi, in Foro it., 2000, II, 260
ss.; L. Masera, Esposizione ad amianto e nesso causale:
nuovi spunti di riflessione, in Corr. merito, 2005, 1186; F. Palazzo,
Morti da amianto e colpa penale, in questa Rivista,
2011, 185 ss: C. Perini, Gli stadi della tutela e la spiegazione
causale, in G. Deidda-A. Gargani (a cura di), Reati contro la
salute e la dignità del lavoratore, Torino, 2012, 151 ss.; F.
Stella, L’allergia alle prove della causalità individuale. Le sentenze
sull’amianto successive alla sentenza Franzese, in Riv.
it. dir. e proc. pen., 2004, 397 ss.; S. Zirulia, Causalità e
amianto: l’eterno “duello” tra i consulenti tecnici delle parti,
in Corr. merito, 2012, 275 ss.
Diritto penale e processo 2/2013

Osservatorio
Cassazione - Processo penale
Osservatorio Corte
di cassazione - Processo penale
a cura di Francesco Peroni
ESECUZIONE
LIBERAZIONE ANTICIPATA CONCEDIBILE PER PERIODI
DI DETENZIONE ESPIATI ALL’ESTERO
Cassazione penale, Sez. I, 4 dicembre 2012 (24 ottobre
2012), n. 46805 - Pres. Siotto - Rel. Vecchio - P.m. D’Angelo
(concl. diff.) - Ric. D.A.
L’istituto della liberazione anticipata può trovare applicazione
anche con riferimento al periodo di detenzione
espiato in uno Stato estero per fatti giudicati in quel
Paese, quando l’espiazione venga poi completata nello
Stato italiano (la S.C. ha, inoltre, chiarito che la magistratura
di sorveglianza, avvalendosi degli strumenti
della assistenza e della cooperazione giudiziaria, dovrà
provvedere, sia ad acquisire gli opportuni elementi di
giudizio in ordine alla fattiva partecipazione del condannato
all’opera di rieducazione, sia le necessarie attestazioni
che, durante l’espiazione all’estero, l’interessato
non abbia già fruito di misure alternative con effetto
equivalente a quello della liberazione anticipata, né che
la richiesta di concessione di alcuna delle misure in parola
sia stata sfavorevolmente valutata e respinta dalla
competente autorità dello Stato della condanna).
Il caso
Il tribunale di sorveglianza confermava, in sede di reclamo, il
provvedimento del magistrato monocratico che aveva dichiarato
inammissibile la richiesta di liberazione anticipata avanzata
da un ergastolano in relazione a un periodo ultradecennale
di detenzione, patito in Belgio.
Il collegio si richiamava all’art. 9 della Convenzione di Strasburgo
sul trasferimento delle persone condannate - a mente
del quale «l’esecuzione della condanna è regolata dalla
legge dello Stato di esecuzione e questo Stato è l’unico competente
a prendere ogni decisione al riguardo» - per concludere
che, «in relazione al periodo di esecuzione sofferto nel
paese di condanna, la esecuzione stessa è soggetta soltanto
alle leggi di quest’ultimo ordinamento». Peraltro, con più
specifico riferimento alla liberazione anticipata, il giudice italiano
non potrebbe procedere, in relazione alla pena eseguita
all’estero, all’«osservazione della personalità» e alla «verifica
diretta della partecipazione all’opera di rieducazione» del
condannato, richieste dall’art. 54 ord. penit.
Avverso tali ordini di determinazioni insorgeva il condannato
con ricorso di legittimità.
La decisione
In ordine alla quaestio iuris da dirimere, i precedenti di legittimità
non forniscono soluzioni univoche.
L’indirizzo favorevole alla concessione, infatti, pur affermatosi
in passato, è stato, tuttavia, eclissato da più recenti decisioni
della Suprema Corte, secondo cui, «in tema di esecuzione
in Italia di sentenza straniera, la liberazione anticipata
può trovare applicazione solo con riferimento al periodo di
esecuzione della pena in Italia e non con riguardo al periodo
di esecuzione sofferto nello Stato di condanna».
Era proprio a siffatto arresto che il tribunale di sorveglianza si
era uniformato nel decidere il reclamo nella fattispecie in
esame, con ciò lasciando presagire che il ricorso di legittimità
sarebbe stato respinto.
Sennonché, successivamente all’adozione della decisione
impugnata, la Suprema Corte, anche traendo spunto dalla disposizione
di cui all’art. 16, comma 1, d.lgs. 7 settembre
2010, n. 161 (recante disposizioni per conformare il diritto interno
alla decisione quadro 2008/909/GAI, relativa alla applicazione
del reciproco riconoscimento delle sentenze penali
che irrogano pene detentive, o misure privative della libertà
personale, ai fini della loro esecuzione nella Unione Europea),
ha, criticamente, rivisto l’orientamento più restrittivo e ha,
conclusivamente, enunciato il principio secondo cui i benefici
regolamentati dall’art. 54 ord. penit. a favore del detenuto
che dia prova di partecipazione all’opera di rieducazione sono
applicabili anche ai periodi di detenzione espiati in uno Stato
estero dell’Unione Europea per fatti giudicati in quel Paese,
quando la espiazione venga, poi, completata nello Stato italiano.
In virtù di quest’ultimo approdo giurisprudenziale, la questione
inerente all’ammissibilità della richiesta del condannato di
concessione della liberazione anticipata in relazione ai semestri
di pena espiati all’estero è stata, dunque, nel caso de
quo, risolta positivamente dalla Corte di cassazione, la quale
non ha mancato di fornire altre direttrici ermeneutiche al giudice
del rinvio.
La Suprema Corte ha, invero, chiarito che la magistratura di
sorveglianza, avvalendosi degli strumenti della assistenza e
della cooperazione giudiziaria, dovrà provvedere ad acquisire
- anche in relazione alle allegazioni e alle eventuali produzioni
dell’interessato circa l’espiazione della pena all’estero - gli
opportuni elementi di giudizio in ordine alla partecipazione,
«comunque non esauribile nella mera regolarità della condotta»,
del condannato all’opera di rieducazione, valutando, a
tal fine, pur in difetto della formale adozione di uno specifico
programma di trattamento del detenuto, «il suo comportamento
in istituto, l’osservanza delle prescrizioni e degli obblighi
impostigli, l’eventuale attività lavorativa da lui svolta»,
nonché l’«atteggiamento manifestato nei confronti degli
operatori penitenziari e la qualità dei rapporti intrattenuti con
i compagni di detenzione e con i familiari» e quant’altro consenta
di «desumere, da un lato, la revisione critica della sua
condotta e, dall’altro, l’evoluzione della sua personalità verso
modelli di vita socialmente validi».
Diritto penale e processo 2/2013 181

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Cassazione - Processo penale
Accertata l’integrazione di queste condizioni “positive”, il
giudice dovrà, al contempo, escludere la sussistenza di quelle
“negative”, vale a dire: «a) che, durante l’espiazione all’estero,
l’interessato non abbia fruito di misure alternative
con effetto equivalente a quello della liberazione anticipata;
b) che la richiesta di concessione di alcuna delle misure in parola
non sia stata sfavorevolmente valutata e respinta dalla
competente Autorità dello Stato della condanna. Infatti», ha
chiosato la Suprema Corte, «per un verso, deve escludersi la
possibilità che la espiazione all’estero (di parte) della pena
comporti l’ingiustificata duplicazione dei benefici penitenziari;
per altro verso opera il principio della intangibilità della giurisdizione
dello Stato della condanna che viepiù si valorizza
nella prospettiva della integrazione degli ordinamenti e della
costituzione di uno spazio giuridico comune».
Su questi articolati presupposti concettuali, è sortito l’annullamento
dell’ordinanza impugnata e il rinvio per nuovo esame
al tribunale di sorveglianza.
I precedenti
In senso conforme, Cass., Sez. I, 6 giugno 2012, Paci, in Ced
Cass., 253292.
In senso difforme, v. Cass., Sez. I, 7 luglio 2010, Aita, ivi,
248125.
Per l’orientamento più risalente, comunque favorevole al
condannato, cfr. Cass., Sez. I, 27 febbraio 2001, Fidanzati, ivi,
218745; Cass., Sez. I, 12 novembre 1999, Gstrein, ivi,
214832; Cass., Sez. I, 9 aprile 1996, Ronch, ivi, 204923;
Cass., Sez. I, 15 luglio 1987, Ciaccio, ivi, 176906.
La dottrina
M.G. Coppetta, Commento all’art. 54, in V. Grevi-G. Giostra-F.
Della Casa, Ordinamento penitenziario commentato, IV ed.,
Padova, 2011, 784; F. Della Casa, La l. 19 dicembre 2002, n.
277 in tema di liberazione anticipata: i tributi alle esigenze di
economia processuale e il nonsense dell’affidamento in prova
“riducibile”, in Cass. pen., 2003, 384; E. Esposito, Ordinamento
penitenziario e liberazione anticipata, in Giur. cost.,
2003, 3659; F. Fiorentin, Appunti sulla nuova disciplina della liberazione
anticipata, in Giust. pen., 2003, III, 164; F.P.C. Iovino,
La liberazione anticipata, Padova, 2006, 37.
RAPPORTI TRA LEGGE “SVUOTA CARCERI”
E SOSPENSIONE DELL’ORDINE DI ESECUZIONE
EX ART. 656 C.P.P.
Cassazione penale, Sez. I, 10 dicembre 2012 (3 ottobre
2012), n. 47859 - Pres. Chieffi - Rel. Caiazzo - P.m. Galasso
(concl. conf.) - Ric. p.m. in c. F.A.
L’istituto di cui all’art. 1, l. n. 199 del 2010 non può essere
inteso come una seconda possibilità, aggiuntiva rispetto
a quella prevista dall’art. 656, comma 5, c.p.p., di
beneficiare della sospensione dell’ordine di esecuzione,
al fine di poter scontare la pena detentiva nella forma
“domiciliare”, prevista dalla legge in parola. Pertanto, il
condannato che abbia già beneficiato della sospensione
dell’esecuzione ex art. 656, comma 5, c.p.p. e la cui richiesta
di accesso a una misura alternativa sia stata rigettata
dal tribunale di sorveglianza, non potrà usufruire
di una seconda sospensione della pena ex art. 1, l. n.
199 del 2010 (fattispecie in cui la S.C. ha annullato senza
rinvio l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione aveva
ritenuto ammissibile la richiesta di sospensione - ri-
182
volta dal condannato al p.m. - ex art. 1, l. n. 199 del 2010,
nonostante che il tribunale di sorveglianza avesse in
precedenza negato l’accesso alle misure alternative in
costanza della sospensione ex art. 656, comma 5, c.p.p.).
Il caso
Condannato, ad esito del giudizio di seconde cure, alla pena
di due mesi di reclusione, l’interessato, a fronte della sospensione
dell’ordine di esecuzione ex art. 656 comma 5
c.p.p., chiedeva di essere ammesso a una misura alternativa
alla detenzione. Il tribunale di sorveglianza, tuttavia, rigettava
la richiesta.
Il condannato, dunque, indirizzava al procuratore generale
un’istanza di sospensione dell’ordine di carcerazione a mente
dell’art. 1, l. 26 novembre 2010 n. 199 e, preso atto del relativo
diniego, sollevava incidente di esecuzione davanti alla
corte d’appello.
Quest’ultima riteneva ammissibile l’istanza avanzata ex art.
1, l. n. 199 del 2010, in quanto la previsione di cui all’art. 656,
comma 7, c.p.p., nel vietare la sospensione dell’esecuzione
per più di una volta in relazione alla stessa condanna, non involgerebbe
l’istituto di più recente conio, «essendo l’esecuzione
della pena “presso il domicilio” ex l. n. 199 del 2010
una misura alternativa, oltre che con diversi presupposti dalla
detenzione domiciliare ex art. 47-ter ord. penit., applicabile
solo quando difettano i presupposti per le altre previste dalla
legge». Così, la corte territoriale dichiarava che l’ordine di
esecuzione illo tempore emesso dal pubblico ministero doveva
essere sospeso a norma dell’art. 1, l. n. 199 del 2010.
Avverso l’ordinanza in parola insorgeva il procuratore generale:
con ricorso di legittimità, ne chiedeva l’annullamento, sostenendo
che non è possibile sospendere due volte il medesimo
ordine di esecuzione e che la procedura di cui alla l. n.
199 del 2010 è alternativa a quella di cui all’art. 656 c.p.p. e
rivolta, quindi, solo a coloro che non possono fruire della più
benevola e ampia possibilità di accedere alle misure alternative
offerta dalla procedura di cui all’art. 656, comma 5, c.p.p.
La decisione
La Corte di cassazione ha accolto il ricorso, assumendo che
l’istituto di cui all’art. 1, l. n. 199 del 2010 non può essere inteso
come una seconda possibilità, aggiuntiva rispetto a
quella prevista dall’art. 656, comma 5, c.p.p., di beneficiare
della sospensione dell’ordine di esecuzione, al fine di poter
scontare la pena detentiva nella forma “domiciliare”, prevista
dalla legge in parola. Quest’ultima, invero, «è stata emanata
al fine di ovviare, con una misura temporanea ed emergenziale,
al problema del sovraffollamento delle carceri,
estendendo il beneficio della detenzione domiciliare a categorie
di condannati che, per il disposto dell’art. 656 comma 9
c.p.p., non avrebbero potuto goderne e, in particolare, ai condannati
ai quali è stata applicata la recidiva prevista dall’art.
99 comma 4 c.p.».
Movendo dalla considerazione secondo cui, a’ sensi dell’art.
656, comma 8, c.p.p., ove il tribunale di sorveglianza respinga
la richiesta di una misura alternativa alla detenzione, il
pubblico ministero è tenuto a revocare immediatamente il
decreto di sospensione e a dar corso all’esecuzione della pena
in carcere, la Cassazione ha osservato che l’art. 1, l. n. 199
del 2010 prevede la sospensione dell’ordine di esecuzione
relativo a pene detentive brevi «solo nel caso in cui il condannato
non possa beneficiare di una delle misure alternative
alla detenzione in carcere concedibili attraverso l’indicata
procedura prevista dall’art. 656 c.p.p., in quanto il comma 3
del detto art. 1 stabilisce espressamente che la sospensione
Diritto penale e processo 2/2013

dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione deve essere
emesso dal p.m. nei casi previsti dalla stessa legge “salvo
che debba emettere il decreto di sospensione di cui al comma
5 [dell’]articolo 656 del codice di procedura penale”». Ciò
significa che, se il condannato si trova nelle “ordinarie” condizioni
per essere ammesso alle misure alternative alla detenzione,
ha diritto solo alla sospensione prevista dall’art.
656 c.p.p. e, se il beneficio richiesto gli viene negato dal tribunale
di sorveglianza, l’interessato non potrà usufruire di
una seconda sospensione, a mente dell’art. 1, l. n. 199 del
2010.
Nel caso di specie, dunque, poiché il ricorrente aveva già beneficiato
della sospensione dell’esecuzione della pena ex art.
656 c.p.p. e l’accesso alle misure alternative era stato negato
dal tribunale di sorveglianza, l’interessato non avrebbe potuto
usufruire di una seconda sospensione ex art. 1, l. n. 199
del 2010.
Sicché l’ordinanza impugnata è stata annullata senza rinvio.
I precedenti
In argomento, cfr. Cass., Sez. I, 13 gennaio 2012, Z.R., in
Ced Cass., 253335; Cass., Sez. I, 11 gennaio 2012, p.m. in c.
S.G., ivi, 253333.
La dottrina
L. Degl’Innocenti-F. Faldi, Le nuove disposizioni in materia di
detenzione presso il domicilio, in Cass. pen., 2011, 2816; F.
Della Casa, Approvata la legge c.d. svuota-carceri: un altro
“pannicello caldo” per l’ingravescente piaga del sovraffollamento
carcerario?, in questa Rivista, 2011, 5; Id., Commento
all’art. 656 c.p.p., in V. Grevi-G. Giostra-F. Della Casa, Ordinamento
penitenziario commentato, 4a ed., Padova, 2011,
1055; F. Fiorentin, Solo i “domiciliari” per condanne fino a diciotto
mesi, in Guida dir., 2012, n. 10, 47; C. Fiorio, Detenzione
domiciliare obbligatoria e sovraffollamento carcerario,
in Giur. merito, 2011, 1204; Id., Sovraffollamento carcerario e
tensione detentiva, in questa Rivista, 2012, 410; A. Gargani,
Sicurezza sociale e diritti dei detenuti nell’età del sovraffollamento
carcerario, ibidem, 633; B. Lavarini, L’esecutività della
sentenza penale, Torino, 2004, 107; S. Turchetti, Legge
“svuotacarceri” e esecuzione della pena presso il domicilio:
ancora una variazione sul tema della detenzione domiciliare?,
in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, 1787.
MISURE CAUTELARI
SUI RAPPORTI TRA GIUDICATO AMMINISTRATIVO
E DETERMINAZIONI DEL GIUDICE PENALE
Cassazione penale, Sez. IV, 30 novembre 2012 (20 settembre
2012), n. 46471 - Pres. Brusco - Rel. Dovere - P.m.
Viola (concl. diff.) - Ric. p.m. in V.N. ed a.
Al giudice penale è preclusa la valutazione della legittimità
dei provvedimenti amministrativi che costituiscono
il presupposto dell’illecito penale soltanto qualora,
sul tema, sia intervenuta una sentenza irrevocabile del
giudice amministrativo. Per converso, tale preclusione
non si estende ai profili di illegittimità, fatti valere in sede
penale, che non siano stati dedotti ed effettivamente
decisi nel processo amministrativo (fattispecie in cui la
S.C. ha annullato con rinvio una decisione in tema di sequestro
preventivo a causa del carattere “perplesso”
Osservatorio
Cassazione - Processo penale
della motivazione, addotta dal giudice della cautela, con
riguardo alla legittimità di un provvedimento amministrativo
presupposto).
Il caso
Nell’ambito di un procedimento penale avente ad oggetto alcuni
illeciti in materia edilizia, veniva disposto il sequestro
preventivo di un cantiere edile.
Dopo alterne vicende, che conducevano al dissequestro del
bene, la cautela reale veniva ripristinata, perché ritenuto esistente
il fumus dell’illegittimità dei titoli abilitativi rilasciati dal
comune.
Sennonché, a fronte del passaggio in giudicato della sentenza
del tribunale amministrativo regionale che definiva - rigettando
il ricorso - il giudizio promosso avverso la determina di
un assessore con la quale era stato annullato, in via di autotutela,
un permesso di costruire, veniva richiesto il dissequestro
del cantiere. Il giudice per le indagini preliminari, però, rigettava
l’istanza e gli interessati esperivano appello cautelare
davanti al locale tribunale, lamentando come il giudice per
le indagini preliminari non avesse tenuto conto della pronuncia
del T.A.R., che aveva ritenuto legittimo il permesso di costruire.
Anche l’appello cautelare veniva rigettato, ma la relativa ordinanza
veniva vittoriosamente fatta oggetto di ricorso per cassazione:
il giudice di legittimità annullava il provvedimento
del tribunale per violazione di legge e mancanza di motivazione
o motivazione meramente apparente.
In sede di rinvio, il tribunale disponeva il dissequestro del
cantiere.
In motivazione, il giudice non mancava di ribadire la chiara
enunciazione del proprio convincimento in termini di illegittimità
del permesso di costruire, nonostante il diverso (e ritenuto
errato) arresto del T.A.R. Tale determinazione, tuttavia,
non ostava, in sede di analisi dell’incidenza del giudicato amministrativo
sulla valutazione che il giudice della cautela era
chiamato a volgere, alla conclusione secondo cui «quand’anche
riconosciuta in sede incidentale penale la illegittimità del
permesso a costruire […], rimane pur sempre il giudicato
amministrativo che sancisce, sotto diversi profili, la legittimità
di quell’atto».
Ricorreva, allora, per cassazione il pubblico ministero, denunciando
un’intervenuta violazione di legge: nell’affermarsi vincolato
al giudicato amministrativo formatosi in ordine alla legittimità
del permesso di costruire, il tribunale aveva ignorato o,
comunque, disatteso l’interpretazione giurisprudenziale che
teorizza l’esistenza del vincolo per il giudice penale solo qualora
il giudice amministrativo abbia espressamente affermato la
legittimità dell’atto amministrativo. Nella specie, invece, il
T.A.R. aveva affrontato la questione solo incidenter tantum, atteso
che il giudizio aveva, quale oggetto principale, la determina
di un assessore provinciale, assunta in via di autotutela.
La decisione
La Suprema Corte ha ritenuto utile muovere dall’evocazione
delle statuizioni contenute nella sentenza con la quale lo
stesso giudice di legittimità aveva annullato la precedente ordinanza
del tribunale. Ivi, la Corte aveva puntualizzato che il
giudizio in ordine alla legittimità dell’atto amministrativo è il
medesimo, sia che lo compia incidentalmente il giudice penale,
sia che venga svolto dal giudice amministrativo. Pertanto,
il tribunale, nella decisione illo tempore gravata,
«avrebbe dovuto esaminare e criticare analiticamente i rilievi
difensivi esposti con l’atto di appello»: del pari, a seguito del
primo annullamento, avrebbe dovuto fare in qualità di giudice
Diritto penale e processo 2/2013 183

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Cassazione - Processo penale
del rinvio, che ben poteva esprimersi sulla legittimità del permesso
di costruire alla luce delle circostanze evidenziate dagli
appellanti, in quanto richiesto dall’indagine in ordine al fumus
delicti e al periculum in mora.
Al proposito, la Cassazione ha ricordato che, in tema di rapporti
tra giudizio penale e giudicato amministrativo, l’orientamento
di legittimità si è andato consolidando nel senso di
una solo tendenziale vincolatività del giudicato amministrativo.
Infatti, dopo che, in una decisione ormai risalente, si era
affermato che «l’autorità giudiziaria ordinaria non ha il potere
di valutare la conformità a legge di un arret di un’altra giurisdizione
(nella specie, una sentenza del tribunale amministrativo
regionale coperta da giudicato): ciò in quanto il cittadino
- pena la vanificazione dei suoi diritti civili - non può essere
privato della facoltà di fare affidamento sugli strumenti
della tutela giurisdizionale posti a sua disposizione dall’ordinamento»,
una posizione così netta non è stata condivisa da
alcune pronunce successive. Ivi, è stato affermato che,
«seppure deve riconoscersi […] che il potere del giudice penale
di valutare la legittimità dei provvedimenti amministrativi
che costituiscono il presupposto dell’illecito penale incontri
un limite nei provvedimenti giurisdizionali del giudice amministrativo
passati in giudicato, [deve concludersi] che la
preclusione del cosiddetto giudicato amministrativo non si
estende a tutte le questioni deducibili ma esclusivamente a
quelle che sono state dedotte ed effettivamente decise».
Da tali premesse, applicate alla vertenza inerente al succitato
sequestro cautelare, è seguito che il tribunale, quale giudice
del rinvio, avrebbe potuto e dovuto prendere posizione
in ordine alla legittimità del permesso a costruire e trarre, dal
giudizio sul punto, ogni conseguenza in ordine al fumus e al
periculum.
È da questa angolatura prospettica che la motivazione del
provvedimento gravato è apparsa non sufficientemente chiara,
tanto da rispondere alla figura della motivazione contraddittoria
o perplessa.
Infatti, secondo la Cassazione, «o il giudicato [amministrativo]
viene ritenuto vincolante ancorché non condiviso, ed allora
non ha alcun senso porre il tema della sua influenza nel
giudizio incidentale penale di illegittimità dell’atto; oppure
non lo è, e dal chiaro giudizio di illegittimità dell’atto, formulato
dal medesimo [tribunale], si traggono le debite conseguenze,
in primis sul piano del giudizio di sussistenza del fumus
delicti». Preso atto che, invece, nell’apparato motivo
della decisione impugnata, non era dato capire quale di queste
posizioni il tribunale avesse sposato, atteso che l’evocazione
del tema dell’incidenza del giudicato amministrativo
sull’elemento soggettivo del reato sembrava alludere all’esistenza
del primo dei requisiti necessari al mantenimento del
vincolo reale, la decisione impugnata è stata annullata con
rinvio, in ragione della natura “perplessa” della motivazione.
I precedenti
In senso conforme, Cass., Sez. I, 11 gennaio 2011, p.m. in
proc. Keller, in Ced Cass., 249871; Cass., Sez. I, 3 giugno
2010, Nicolini, ivi, 248319.
Per l’orientamento più risalente, cfr. Cass., Sez. III, 11 gennaio
1996, Ciaburri, ivi, 204622.
La dottrina
M. Bontempelli, L’accertamento amministrativo nel sistema
processuale penale, Milano, 2009, 215; M.L. Busetto, Giudice
penale e sentenza dichiarativa di fallimento, Milano, 2000,
39; P. Corvi, Questioni pregiudiziali e processo penale, Padova,
2007, 307.
184
PROCEDIMENTI SPECIALI
GIUDIZIO DIRETTISSIMO: L’IRRITUALITÀ DELL’AVVISO
AL DIFENSORE DI FIDUCIA È CAUSA DI NULLITÀ
ASSOLUTA
Cassazione penale, Sez. III, 3 dicembre 2012 (11 ottobre
2012), n. 46714 - Pres. Lombardi - Rel. Sarno - P.m. Salzano
(concl. conf.) - Ric. E.F.
In tema di giudizio direttissimo, ai fini dell’integrazione
di un corretto avviso nei confronti del difensore di fiducia
nominato dall’imputato subito dopo l’arresto, non è
necessariamente prescritta l’osservanza delle disposizioni
che regolano la particolare forma di notificazione
prevista dagli artt. 149 c.p.p. e 55 disp. att. c.p.p., dato
che l’avviso può essere dato con mezzi atipici di comunicazione,
a condizione, però, che questi si rivelino adeguati
rispetto al conseguimento della funzione conoscitiva
che ad essi è propria. In caso contrario, risultano integrati
gli estremi di una nullità assoluta e insanabile,
poiché viene irrimediabilmente compromesso il diritto
dell’imputato a farsi assistere dal proprio difensore di fiducia
(fattispecie in cui la S.C. ha annullato con rinvio le
sentenze di primo e di secondo grado, perché il giudice
di appello, pur avendo rilevato l’integrazione del vizio, lo
aveva ricondotto alla species delle nullità intermedie e,
pertanto, lo aveva considerato tardivamente dedotto
dall’appellante).
Il caso
L’imputato vedeva confermare dal giudice di seconde cure la
condanna inflitta dal tribunale ad esito di giudizio direttissimo.
In motivazione, la corte di appello si soffermava su un error
in procedendo lamentato dal prevenuto e, sia pure condividendo
la tesi dell’integrazione del vizio, ne escludeva concrete
ricadute sul piano delle sanzioni processuali, in ragione
della natura del vizio stesso.
Segnatamente, l’imputato lamentava di aver nominato, al
momento dell’arresto in flagranza, un difensore di fiducia,
fornendo agli inquirenti le esatte utenze telefoniche di quest’ultimo,
al quale, tuttavia, non veniva dato rituale avviso
della data in cui si sarebbe tenuta l’udienza di convalida dell’arresto
e il contestuale giudizio. Ex actis risultava pacifico
che la polizia giudiziaria avesse tentato, il giorno dell’arresto,
di comunicare con il difensore indicato dall’imputato, contattando,
ma vanamente, l’utenza telefonica dell’avvocato alle
ore 1:05. A fronte di questa iniziativa, rimasta senza buon esito,
nulla si rilevava dagli atti in ordine alla successiva attività
della polizia giudiziaria, né si dava atto, da parte di quest’ultima,
di avere altrimenti notiziato il difensore dell’udienza di
convalida e del successivo giudizio direttissimo, procedendo,
per esempio, alla registrazione degli avvisi sulla segreteria telefonica
o con altro mezzo.
Secondo la corte di merito, in questa situazione, non si sarebbe
potuto procedere oltre la fase della convalida, in quanto
l’avviso di cui all’art. 558, comma 1, c.p.p. sarebbe diverso
da quello contemplato dall’art. 386 c.p.p. e, mancando il primo,
il giudizio sarebbe invariabilmente nullo.
Su questo fronte, dunque, la tesi dell’appellante veniva accolta,
mentre divergevano le opinioni sul versante della natura
della correlativa sanzione processuale: nullità assoluta, per
l’imputato, nullità intermedia per la corte di appello. La quale,
Diritto penale e processo 2/2013

dunque, escludeva l’annullamento della sentenza di prime
cure in quanto l’error in procedendo risultava tardivamente
dedotto.
L’imputato ricorreva, allora, per cassazione, ribadendo la tesi
dell’integrazione di una nullità assoluta, capace di travolgere,
sia la sentenza di primo grado, sia quella di seconde cure.
La decisione
La Suprema Corte ha richiamato l’insegnamento delle Sezioni
Unite secondo cui la validità dell’avviso eseguito con il
mezzo del telefono al difensore di fiducia deve essere verificata
alla luce della disciplina risultante dal combinato disposto
degli artt. 390 comma 2, 391 comma 2 e 449
c.p.p. poiché, dovendo svolgersi l’udienza di convalida e il
contestuale giudizio direttissimo entro quarantotto ore dall’arresto,
l’avviso al difensore (di fiducia o di ufficio) e la designazione
di un eventuale sostituto ex art. 97 comma 4 c.p.p.
devono essere eseguiti tenendo conto delle peculiarità procedurali
di cui ai summenzionati artt. 390 e 391 c.p.p. Ciò significa
che, in subiecta materia, ai fini dell’integrazione di un
corretto avviso nei confronti del difensore di fiducia, non è
necessariamente prescritta l’osservanza delle disposizioni
che regolano la particolare forma di notificazione prevista dagli
artt. 149 c.p.p. e 55 disp. att. c.p.p., dato che l’avviso può
essere dato con mezzi atipici di comunicazione, a condizione,
però, che questi si rivelino adeguati rispetto al conseguimento
della funzione conoscitiva che ad essi è propria.
In caso contrario, sono state le stesse Sezioni Unite a sussumere
il vizio nella species delle nullità assolute e insanabili, risultando
irrimediabilmente compromesso il diritto dell’imputato
a farsi assistere dal difensore di fiducia.
Pertanto, ha concluso la Suprema Corte, bene aveva fatto il
giudice di seconde cure ad escludere la regolarità dell’avviso
al difensore di fiducia, ma male aveva fatto a ritenere tardivamente
dedotto il vizio, configurato in termini di nullità intermedia:
trattandosi, invece, di nullità assoluta, la Cassazione
ha proceduto all’annullamento di entrambe le sentenze di
merito e alla trasmissione degli atti al giudice di primo grado
ai fini di un nuovo giudizio.
I precedenti
In argomento, ex plurimis, Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2002,
Arrivoli, in Cass. pen., 2002, 114.
La dottrina
S. Allegrezza, La nuova fisionomia del giudizio direttissimo, in
Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica (d.l. 23 maggio
2008, n. 92 conv. in legge 24 luglio 2008, n. 125), a cura di O.
Mazza-F. Viganò, Torino, 2008, 268; F.M. Cortesi, Procedimento
davanti al tribunale in composizione monocratica, in
Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, vol. 4.II,
Giudizio. Procedimento davanti al tribunale in composizione
monocratica, a cura di G. Spangher, Torino, 2009, 747; D. Curtotti
Nappi, Il “nuovo” giudizio direttissimo e l’ambiguità del
“grave pregiudizio per le indagini”, in Le nuove norme sulla sicurezza
pubblica, a cura di S. Lorusso, Padova, 2008, 117; A.
De Caro, La riforma del giudizio direttissimo, in Il decreto sicurezza.
D.l. n. 92/2008 convertito con modifiche in legge n.
125/2008, a cura di A. Scalfati, con la collaborazione di E. Aprile-R.
Bricchetti, Torino, 2008, 152; M. De Giorgio, La nuova disciplina
del giudizio direttissimo e del giudizio immediato, in
La nuova normativa sulla sicurezza pubblica, a cura di F. Giunta-E.
Marzaduri, Milano, 2010, 453; P. Gaeta, Giudizio direttissimo,
in Enc. dir., agg. IV, Milano, 2000, 650; G. Reynaud, Le
modifiche al codice di procedura penale, in Misure urgenti in
Osservatorio
Cassazione - Processo penale
materia di sicurezza pubblica, a cura di G. Amato-C. Santoriello,
Torino, 2009, 28; A.E. Ricci, Giudizio direttissimo e avvertimenti
processuali, in questa Rivista, 2008, 365.
PROVE
CONDIZIONI PROCESSUALI DEL REATO
DI FALSA TESTIMONIANZA
Cassazione penale, Sez. VI, 17 dicembre 2012 (20 novembre
2012), n. 48764 - Pres. Agrò - Rel. Capozzi - P.m.
D’Ambrosio (concl. diff.) - Ric. A.M.
La verifica circa la sussistenza della qualità di indagato o
imputato in procedimento connesso o collegato va condotta
non secondo un criterio formale, qual è l’esistenza
di una notitia criminis iscritta nell’apposito registro o
l’elevazione dell’accusa, ma secondo il criterio sostanziale
della qualità oggettivamente attribuibile al soggetto
in base alla situazione esistente quando le dichiarazioni
sono state rese (fattispecie in cui la S.C., dissentendo
dal criterio formalistico adottato dai giudici di merito,
ha annullato con rinvio una sentenza di condanna
per il reato di falsa testimonianza).
Il caso
Proponeva ricorso per cassazione l’imputato, condannato in
prime e seconde cure per il delitto di falsa testimonianza, lamentando
la violazione del combinato disposto degli artt.
384 c.p. e 210 c.p.p.
Il ricorrente affermava che, quando effettuò le dichiarazioni
successivamente incriminate come false, era già stato destinatario
di accuse che si ponevano in termini di collegamento
ex art. 371, comma 2, c.p.p. con l’addebito ascritto al soggetto
contro cui depose. I giudici di merito, dunque, erroneamente
avevano escluso l’operatività, nel caso di specie, delle
garanzie ex art. 210 c.p.p., facendo leva su una lettura formalistica
di queste ultime, secondo cui esse non opererebbero
qualora il dichiarante non risulti formalmente indagato o
imputato di un reato connesso o collegato, rilevando, a tal fine,
l’iscrizione nel registro ex art. 335 c.p.p. o, rispettivamente,
l’elevazione di un’accusa stricto sensu.
La decisione
La giurisprudenza di legittimità ha, in effetti, fornito in subiecta
materia indicazioni non sempre univoche e coerenti.
Un orientamento di marca più formalistica tende, invero, a
escludere l’assunzione delle dichiarazioni in veste di testimonianza
soltanto qualora risulti, per tabulas, che il dichiarante abbia
acquisito la posizione formale di imputato o di indagato per
gli stessi reati o per reati connessi o collegati con quelli in merito
ai quali debbono acquisirsi le dichiarazioni, fatta salva, naturalmente,
l’ipotesi in cui siano proprio queste ultime a rivelarsi
ex se “indizianti”. Diversamente, un’impostazione esegetica
più attenta al dato sostanziale privilegia la necessità, da
parte del giudice di merito, di una verifica effettiva della posizione
del dichiarante, a prescindere da indici formali di assunzione
dei ruoli di indagato o imputato, intesa a constatare se
costui, in base a tutti gli elementi acquisibili ex actis, risulti o
meno realmente estraneo ad ipotesi criminose concorsuali o
collegate, che impongano di assumerne le dichiarazioni con le
modalità assistite, previste dagli artt. 63, 64 e 210 c.p.p.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha giudicato «inappa-
Diritto penale e processo 2/2013 185

Osservatorio
Cassazione - Processo penale
gante e solo parziale […] una soluzione totalmente impostata
in termini formalistici (esistenza di notizia criminis, iscrizione
nel registro degli indagati), dato che essa lascia ampio
spazio alla buona volontà degli inquirenti circa il far sussistere
o meno il presupposto in esame all’atto delle dichiarazioni,
salvo poi recuperare successivamente per il dichiarante la
qualità di indagato, in un momento processuale ritenuto più
opportuno». Più convincente, in quanto più attenta alla protezione
degli interessi rilevanti in materia, è stata, invece,
giudicata «una considerazione sostanzialistica del caso, nel
senso di non fermarsi solo al dato di quanto storicamente si
è fatto nell’ambito dell’indagine, ma di considerare anche
quanto si sarebbe dovuto fare rispetto alla situazione, quale
appariva al momento in cui le dichiarazioni sono state rese.
Col che», ha aggiunto la Cassazione, «non si interferisce certo
nelle determinazioni del p.m. in ordine all’azione penale, di
cui resta dominus, ma si svolge, ora per allora, quel controllo
di legalità delle acquisizioni probatorie che è compito indefettibile
del giudicante».
Ciò premesso, la Suprema Corte ha censurato il criterio di
giudizio, di stampo formalistico, assunto dai giudici di merito
per valutare lo status dell’imputato al momento in cui rese le
dichiarazioni successivamente incriminate e, pertanto, ha annullato
la sentenza gravata, con rinvio al giudice di seconde
cure per un nuovo esame della fattispecie.
I precedenti
In senso conforme, cfr. Cass., Sez. V, 5 maggio 2009, Costa,
in Ced Cass., 243891; Cass., Sez. Un., 23 aprile 2009, Fruci,
ivi, 243417; Cass., Sez. IV, 1° dicembre 2003, Falzetti, in
Arch. n. proc. pen., 2005, 732; Cass., Sez. Un., 9 ottobre
1996, Carpanelli, in questa Rivista, 1997, 600.
Per l’indirizzo di marca più formalistica, cfr. Cass., Sez. II, 21
settembre 2007, Boscolo, in Ced Cass., 238218; Cass., Sez.
VI, 20 giugno 2007, Amodeo, in Riv. pen., 2008, 820; Cass.,
Sez. V, 28 gennaio 2003, Bernya, in Ced Cass., 224151.
La dottrina
R. Aprati, Riflessioni intorno all’art. 63 comma 2 c.p.p.: accertamento
dello status di persona già indiziata e ripercussioni
in tema di elusione dell’iscrizione nel registro delle notizie
di reato, in Cass. pen., 2004, 3668; S. Ciampi, L’informazione
dell’indagato nel procedimento penale, Milano, 2010,
238; C. Conti, Il testimone assistito: incertezze legislative e
soluzioni giurisprudenziali, in questa Rivista, 2009, 11; Id.,
L’imputato nel procedimento connesso. Diritto al silenzio e
obbligo di verità, Padova, 2003, 252; Id., Profili penalistici della
testimonianza assistita: l’esimente dell’art. 384 c.p. tra diritto
al silenzio e diritto a confrontarsi con l’accusatore, in Riv.
it. dir. proc. pen., 2002, 840; A. Sanna, L’interrogatorio e
l’esame dell’imputato nei procedimenti connessi alla luce del
giusto processo, Milano, 2007, 12; Id., Ristretto l’uso delle
dichiarazioni autoindizianti, in questa Rivista, 1997, 603; P.
Tonini, Diritto al silenzio e tipologia di dichiaranti, in Giusto
processo e prove penali, Milano, 2001, 71.
ANCORA SU IMPUTAZIONE GENERICA E ABNORMITÀ
DEL PROVVEDIMENTO DI RESTITUZIONE DEGLI ATTI
AL PUBBLICO MINISTERO
Cassazione penale, Sez. II, 20 dicembre 2012 (14 dicem-
186
UDIENZA PRELIMINARE
bre 2012), n. 49442 - Pres. Esposito - Rel. Macchia - Ric.
p.m. in c. M.F.
È abnorme e, quindi, ricorribile per cassazione il provvedimento
con cui il giudice dell’udienza preliminare disponga
la restituzione degli atti al pubblico ministero
per genericità o indeterminatezza dell’imputazione, senza
avergli previamente richiesto di precisarla. È, invece,
rituale il provvedimento con cui il medesimo giudice, dopo
aver sollecitato il pubblico ministero nel corso dell’udienza
preliminare ad integrare l’atto imputativo senza
che quest’ultimo abbia adempiuto al dovere di provvedervi,
determini la regressione del procedimento, onde
consentire il nuovo esercizio dell’azione penale in
modo aderente alle effettive risultanze d’indagine (fattispecie
nella quale la S.C. ha annullato l’ordinanza del
giudice che aveva disposto la regressione del procedimento,
nonostante il pubblico ministero avesse provveduto,
per due volte, a perfezionare i termini dell’addebito
e le parti avessero già formalizzato richiesta di patteggiamento).
Il caso
A seguito di richiesta di rinvio a giudizio, il giudice dell’udienza
preliminare, nel corso di quest’ultima, invitava preliminarmente
il pubblico ministero «a specificare il capo d’imputazione,
precisando l’epoca di commissione dei singoli episodi
in relazione a ciascuna delle persone offese con specificazione
del danno patrimoniale».
Dando seguito all’invito, il pubblico ministero provvedeva, a’
sensi dell’art. 423 c.p.p., all’integrazione dell’imputazione.
Alla successiva udienza, i difensori dell’imputato formulavano
richiesta di applicazione della pena, in ordine alla quale il
pubblico ministero prestava il consenso. Ciononostante, il
giudice chiedeva una nuova modifica dell’imputazione e il
magistrato d’accusa si atteneva alle indicazioni impartite,
precisando ulteriormente gli estremi dell’addebito.
Ritenendo, però, insoddisfacente l’operato del magistrato
d’accusa, il giudice emetteva ordinanza con cui disponeva la
«restituzione degli atti al p.m. affinché provveda a specificare
l’imputazione […] e ad individuare l’epoca di commissione
[dei] reati contestati».
Ricorreva, allora, per cassazione il pubblico ministero, lamentando
l’abnormità del provvedimento da ultimo citato.
La decisione
La Suprema Corte ha preso le mosse dallo scrutinio di legittimità
costituzionale che, in tempi ormai non più recenti, ha
interessato l’art. 424 c.p.p., nella parte in cui non prevede
che il giudice possa, all’esito della udienza preliminare, trasmettere
gli atti al pubblico ministero affinché il fatto venga
descritto in termini più chiari, univoci e precisi. Al proposito,
com’è noto, la Corte costituzionale escluse la fondatezza della
questione, poiché nulla vieta che, alle modifiche dell’imputazione
ritenute opportune dal giudice, il pubblico ministero
possa essere expressis verbis sollecitato da quest’ultimo, il
quale lo inviti a tali adempimenti, anche dopo la chiusura della
discussione, purché prima della pronuncia di uno dei provvedimenti
previsti, sul merito della regiudicanda, dall’art. 424
c.p.p.
Il tema è stato scandagliato anche dalle Sezioni Unite della
Corte di cassazione, le quali, collocandosi sulla medesima
frequenza d’onda, hanno giudicato affetto da abnormità il
provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare di-
Diritto penale e processo 2/2013

sponga la restituzione degli atti al pubblico ministero per genericità
o indeterminatezza della imputazione, senza avergli
previamente richiesto di precisarla. Secondo l’Alto Consesso,
l’udienza preliminare rappresenta proprio la sede destinata
alla stabilizzazione dell’imputazione; sicché, ove il giudice
ravvisasse nell’atto d’imputazione «l’assenza del contenuto
minimo indispensabile o la sua imperfezione e inadeguatezza
per difetto di chiarezza e precisione dei fatti storici contestati,
[avrebbe] il ‘potere-dovere’ di attivare i meccanismi correttivi
nel corso della attività fisiologica della medesima
udienza, rappresentando, con ordinanza motivata ed interlocutoria,
gli elementi di fatto e le ragioni giuridiche del vizio
d’imputazione e richiedendo espressamente al pubblico ministero
di provvedere, di conseguenza, alle opportune precisazioni
e integrazioni, secondo il paradigma contestativo dettato
dall’art. 423 comma 1 c.p.p.».
In tale quadro di riferimento, dunque, la soluzione restitutoria
che comporta la regressione del procedimento finisce per atteggiarsi
alla stregua di extrema ratio, che assegna al giudice
il potere di trasmettere gli atti al pubblico ministero solo ove
questi, serbando condotta antidoverosa, sia rimasto inerte a
fronte delle indicazioni impartite dall’organo giudicante.
Ebbene, tornando al caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato
che il pubblico ministero aveva puntualmente adempiuto
all’invito “endofasico” del giudice di procedere alla
precisazione dell’imputazione nei termini richiesti, procedendo,
altresì, a dettagliare ulteriormente l’accusa nella fase
introduttiva del rito patteggiato. Con «l’ovvia conseguenza»,
ha chiosato la Corte, «di rendere ‘privo di potere’ il giudice
agli effetti di un ulteriore sindacato sul punto, ferme restando,
ovviamente, le attribuzioni al medesimo spettanti in punto
di verifica della correttezza della qualificazione giuridica
dei fatti».
Non solo. Nella fattispecie in parola, ciò che ha orientato la
Cassazione nel senso della «palese abnormità del procedimento»,
è stata anche la peculiare sedes nella quale era stato
esercitato il sindacato del giudice in ordine alla sufficiente
specificazione dell’accusa. Il giudice, infatti, aveva pronunciato
l’ordinanza impugnata dopo che i difensori dell’imputato
avevano formulato richiesta di applicazione della pena e
che il pubblico ministero aveva prestato il proprio consenso.
Secondo la Cassazione, «formulata la concorde richiesta di
applicazione della pena, […] la puntualizzazione della accusa
e la relativa ‘sufficienza’ ai fini difensivi e della scelta del rito,
risultavano ormai definitivamente ‘accettate’ dalle parti, che
sul punto avevano manifestato un nolo contendere»: il rito
patteggiato, dunque, aveva determinato una sorta di “cristallizzazione”
dell’imputazione, «rispetto alla quale il giudice
adito poteva esercitare soltanto i controlli, tipici e nominati,
previsti dall’art. 444 c.p.p.».
Ne è conseguito che il provvedimento che ha determinato
l’epilogo regressivo è stato giudicato dalla Suprema Corte
«decisamente abnorme» anche per quest’ultimo motivo, vale
a dire perché esorbitante dai poteri spettanti al giudice
chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di patteggiamento in
sede di udienza preliminare.
I precedenti
Quanto alla giurisprudenza di legittimità, cfr., ex plurimis,
Cass., Sez. VI, 17 febbraio 2011, p.m. in c. B.E., in Ced
Cass., 250494; Cass., Sez. Un., 20 dicembre 2007, p.m. in c.
Battistella, ivi, 238239.
Quanto alla giurisprudenza costituzionale, cfr. Corte cost., 14
aprile 1995, n. 131, in Giur. cost., 1995, 1045; Corte cost., 15
marzo 1994, n. 88, ivi, 1994, 846.
Osservatorio
Cassazione - Processo penale
La dottrina
S. Azzolin, Imputazione generica o indeterminata: art. 423 vs.
nullità, in questa Rivista, 2009, 182; F. Casasole, Davvero abnorme
il provvedimento con il quale il giudice dell’udienza
preliminare restituisce gli atti al pubblico ministero a causa
della genericità dell’imputazione?, in Riv. dir. proc., 2009,
1061; F. Cassibba, L’udienza preliminare. Struttura e funzioni,
Milano, 2007, 138; F.M. Grifantini, Attività preparatorie del
contraddittorio dibattimentale, 2a ed., Torino, 2009, 85; G.
Leo, Sulla nullità della richiesta di rinvio a giudizio con imputazione
non sufficientemente determinata, in questa Rivista,
2006, 1085; O. Mazza, Imputazione e “nuovi” poteri del giudice
dell’udienza preliminare, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008,
1372.
Diritto penale e processo 2/2013 187

Osservatorio
Contrasti giurisprudenziali
Osservatorio
Contrasti giurisprudenziali
a cura di Guglielmo Leo
ANCORA SULL’OBBLIGO DI TRADUZIONE
DELL’ORDINANZA CAUTELARE RIGUARDANTE
LO STRANIERO ALLOGLOTTA
Cassazione penale, Sez. I, 19 settembre 2012 (c.c. 19 giugno
2012), n. 35878 - Pres. Giordano - Rel. Santalucia -
P.M. Galasso (concl. conf.) - Ric. Bindac
Se il giudice che emette un provvedimento cautelare
personale, nel caso già risulti che il destinatario non
comprende la lingua italiana, sia tenuto a disporre la traduzione
dell’ordinanza in una lingua conosciuta dall’interessato.
Il problema della lingua degli atti processuali resta di forte
attualità. Gli arresti della giurisprudenza costituzionale e di
quella ordinaria, evidentemente, non sono valsi a stabilizzare
una soluzione univoca per le varie situazioni che si presentano
nella pratica giudiziaria. E le ragioni sono evidenti.
Da un lato sussistono esigenze di economia delle risorse, e
talvolta ragioni di urgenza (come tipicamente avviene nelle
questioni cautelari), che impongono di attivare un meccanismo
di garanzia laborioso e costoso, qual è quello della traduzione,
solo quando lo stesso risulti imprescindibile per assicurare
l’effettività del diritto di difesa.
Per altro verso, le Carte internazionali di protezione dei diritti
dell’uomo privilegiano ed impongono discipline che rendano
immediatamente comprensibili, per chiunque sia privato
della libertà personale, il tenore dell’accusa ed il quadro delle
prove raccolte. Basti qui ricordare l’art. 5 della Convenzione
edu, ove si stabilisce espressamente, nel par. 2, che «ogni
persona arrestata deve essere informata al più presto e in una
lingua a lei comprensibile dei motivi dell’arresto e di ogni accusa
elevata a suo carico». Il diritto alla comprensione dell’addebito
e dei «motivi di questo» costituisce più in generale
presupposto indispensabile del fair trial, con il corollario della
necessaria assistenza di un interprete per l’imputato che non
comprenda la lingua impiegata nelle udienze a suo carico (art.
6 della stessa Cedu). Va poi menzionato almeno il Patto internazionale
sui diritti civili e politici del 1966 (cd. Patto di
New York), secondo cui «ogni individuo accusato di un reato
ha diritto […] ad essere informato sollecitamente e in modo
circostanziato, in una lingua a lui comprensibile, della natura e
dei motivi dell’accusa a lui rivolta [...] a farsi assistere gratuitamente
da un interprete, nel caso egli non comprenda o non
parli la lingua usata in udienza» (par. 3 dell’art. 14, ma si veda
anche il par. 2 dell’art. 9). Concetti anche testualmente ripresi
nel testo novellato dell’art. 111 Cost., il cui terzo comma prevede
al tempo stesso il diritto generalizzato all’informazione
188
ATTI
concernente l’accusa nel più breve tempo possibile, ed il diritto
all’assistenza di un interprete per chi non comprenda o
non parli la lingua utilizzata nel processo.
Tali garanzie sono così essenziali per l’esercizio della difesa
che la riforma dell’art. 111 Cost. non ha privato di rilevanza la
precedente sentenza della Corte costituzionale sul diritto
alla assistenza di un interprete, tutta costruita sull’art. 24
Cost. e sui parametri internazionali poco sopra citati. La Consulta
aveva individuato nel comma 1 dell’art. 143 c.p.p. («Nomina
dell’interprete») una «clausola generale, di ampia applicazione,
destinata ad espandersi e a specificarsi, nell’ambito
dei fini normativamente riconosciuti, di fronte al verificarsi
delle varie esigenze concrete che lo richiedano, quali
il tipo di atto cui la persona sottoposta al procedimento deve
partecipare ovvero il genere di ausilio di cui la stessa abbisogna».
Un «diritto soggettivo perfetto», specificamente riferito
dalla Corte a tutti gli atti riguardanti l’accusato, «sia
scritti che orali» (Corte cost., 12 gennaio 1993, n. 10).
È noto come, nel decennio successivo alla sentenza della
Consulta, incertezze e contrasti avessero segnato la giurisprudenza
concernente l’obbligo di traduzione degli atti
scritti per lo straniero alloglotta. Pronunce difformi erano intervenute,
tra l’altro, riguardo alla traduzione delle ordinanze
cautelari, con riferimento sia ai provvedimenti adottati «a
sorpresa», sia alle ordinanze deliberate in esito all’udienza di
convalida del fermo o dell’arresto. Inutile, ormai, una disamina
analitica. Basti qui ricordare che sui contrasti in discorso
erano intervenute le Sezioni unite della Corte suprema, con
una decisione complessa ed anche molto criticata (Cass.,
Sez. un., 9 febbraio 2004, n. 5052, Zalagaitis, in Giust. pen.
2004, III, 615). In estrema sintesi, la Cassazione aveva stabilito
che il destinatario alloglotta di una ordinanza cautelare ha
diritto alla traduzione della medesima in una lingua per lui
comprensibile, a partire però dal momento in cui risulti la
sua incapacità di comprendere o parlare la lingua italiana.
L’implicazione più ovvia e rilevante del principio è che, nell’assenza
di informazioni sulle competenze linguistiche
dell’interessato (assai ricorrente quando si tratti di procedere
«a sorpresa»), la traduzione non è dovuta, fermo restando
uno slittamento dei termini per l’impugnazione quando risulti,
ex post, che l’indagato non comprende la lingua dell’atto.
In tale ultimo caso, il giudice deve necessariamente procedere
alla nomina di un interprete, anche al fine di far comprendere
all’accusato il tenore del provvedimento restrittivo.
In alternativa, le Sezioni unite avevano ritenuto utile l’attività
di accertamento e di eventuale traduzione demandata al direttore
dello stabilimento penitenziario dal comma 1-bis
dell’art. 94 disp. att. c.p.p. Infine, la Corte aveva affermato la
necessità della traduzione, in caso di verificata incompetenza
linguistica dell’accusato, anche per le ordinanze adottate
dopo l’udienza di convalida (e dunque dopo le contestazioni
effettuate con l’assistenza di un interprete), sussistendo
Diritto penale e processo 2/2013

uno specifico interesse del destinatario alla conoscenza degli
argomenti utilizzati dal giudice per la motivazione del provvedimento
restrittivo.
Ora, anche in forza delle propensioni «ergonomiche» evocate
in apertura (e della necessità di evitare possibili abusi della
garanzia), la giurisprudenza successiva all’arresto delle Sezioni
unite risulta tutt’altro che univoca.
Proprio riguardo alle ordinanze ex art. 391, comma 5,
c.p.p. è in atto da tempo un contrasto. Alcune decisioni di legittimità
hanno ribadito la necessità della traduzione (Cass.,
Sez. V, 29 aprile 2005, n. 16185, Ced. Cass., n. 233642,
Fusha; Cass., Sez. III, 9 maggio 2005, n. 17438, Lin Ge, ivi, n.
231387; Cass., Sez. IV, 7 marzo 2008, n. 10481, ivi, n.
238960, Parasko; Cass., Sez. I, 26 gennaio 2011, n. 2735, ivi,
n. 249382, P.m. in c. Alliu). Altre sentenze, invece, hanno negato
tale necessità, valorizzando tra l’altro l’accesso alle informazioni
che viene garantito all’accusato, mediante la presenza
necessaria di un interprete, nel corso dell’udienza di
convalida (Cass., Sez. IV, 17 febbraio 2006, n. 6270, ivi, n.
233397, Delic; Cass., Sez. II, 29 novembre 2007, n. 44599,
ivi, n. 238808, Asoltani; si veda anche Cass., sez. IV, 26 gennaio
2011, n. 2625, ivi, n. 249330, Perez Carmona, relativa
però ad un provvedimento coercitivo adottato in udienza, trascritto
nel relativo verbale e dunque contestualmente tradotto
in presenza dell’interessato).
Una prima divisione si è quindi determinata a proposito della
rilevanza (o non) di una cognizione «antecedente», da parte
dell’accusato, riguardo ai termini della contestazione cautelare
ed ai relativi elementi di prova. Entrambe le opzioni
esprimono una logica compatibile con l’enunciato generale
delle Sezioni unite: se al giudice è già nota l’incapacità dell’indagato
di comprendere la lingua italiana, come tipicamente
avviene nel caso sia stata celebrata l’udienza di convalida,
va garantita la traduzione dell’ordinanza, e solo resta da discutere
del possibile valore surrogatorio delle contestazioni
già operate in sede di convalida.
Si è poi manifestata, di recente, una soluzione che collide
frontalmente con l’assunto del massimo Collegio. Si è asserita,
in particolare, l’irrilevanza della cognizione giudiziale
circa l’incompetenza linguistica dell’accusato, con il corollario
della inesistenza di un obbligo di traduzione immediata
dell’ordinanza cautelare.
L’indirizzo è maturato, ancora una volta, sul terreno delle ordinanze
deliberate ex art. 391, comma 5, c.p.p., e tuttavia risulta
chiaro che il principio varrebbe, questa volta, anche per
i provvedimenti «a sorpresa», cioè per i casi in cui la cognizione
giudiziale non derivi dalla pregressa celebrazione
dell’udienza di convalida.
Non si tratta di una tendenza incontrastata. Una parte della
giurisprudenza continua infatti ad affermare la necessità della
traduzione, sia pur preoccupandosi di escludere che la
stessa debba essere compiuta e resa nota all’interessato
contestualmente all’ordinanza in lingua italiana. La nozione di
«immediatezza» viene resa compatibile con i «tempi tecnici»
necessari alla nomina dell’interprete ed alla conclusione
del suo lavoro, purché il ritardo sia «ragionevole». L’indirizzo
è chiaramente condizionato dall’urgenza che caratterizza il
provvedimento cautelare connesso alla convalida dell’arresto
o del fermo, e non risulta abbia trovato conferma, per ora, riguardo
a casi diversi (Cass., Sez. VI, 15 marzo 2006, n. 9041,
ivi, n. 233916, El Khamlichi; Cass., Sez. VI, 30 dicembre
2008, n. 48469, ivi, n. 242147, Abdalla).
Tuttavia, e come accennato, è stato recentemente sostenuto
che la conoscenza giudiziale antecedente circa l’incapacità
dell’incolpato di comprendere la lingua italiana non im-
Osservatorio
Contrasti giurisprudenziali
plicherebbe un obbligo di disporre la traduzione del provvedimento
restrittivo.
In un primo caso, il principio secondo cui «il giudice che
emetta ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti
di imputato che ignori la lingua italiana non è tenuto alla
traduzione della stessa nella lingua a quest’ultimo nota» è
stato enunciato senza prendere in alcuna considerazione il
noto arresto delle Sezioni unite, ed anzi citando, in misura
prevalente, pronunce antecedenti alla relativa sentenza
(Cass., sez. I, 2 settembre 2011, n. 33058, ivi, n. 250830,
Ben Nasr). Diverso il caso di un provvedimento più recente,
ove lo scostamento dal dictum del massimo Collegio è stato
riconosciuto e motivato (Cass., Sez. I, 19 settembre 2012, n.
35878, ivi, n. 253283, Bindac).
La Corte ha ripreso, nella specie, l’argomento per il quale, anche
alla luce delle prescrizioni del diritto sovranazionale, l’obbligo
giudiziale di traduzione non sussiste, in quanto la legge
prevede, attraverso l’art. 94 (comma 1-bis) disp. att. c.p.p.,
che il direttore dell’istituto penitenziario ove la misura coercitiva
trova esecuzione si accerti, anche mediante l’ausilio
di un interprete, che l’arrestato abbia piena cognizione dell’accusa
e degli elementi di prova a suo carico. Nella sentenza
si ricorda, esattamente, che la valenza dell’adempimento
era stata ritenuta e confermata dalle stesse Sezioni unite,
contro gli argomenti di coloro che lo giudicavano irrilevante
perché condotto in sede amministrativa, fuori dalla giurisdizione
e con carattere sommario. Al tempo stesso, la sentenza
non nasconde che le Sezioni unite avevano apprezzato
l’intervento dell’Amministrazione penitenziaria quale «rimedio»
nei casi di constatazione «tardiva» dell’incompetenza
linguistica dell’accusato, affermando però, nel contempo, la
necessità della traduzione giudiziale, quando tale incompetenza
già risultasse a monte del provvedimento restrittivo e
della relativa esecuzione.
L’argomento sviluppato per giustificare lo scostamento dall’autorevole
precedente attiene al diritto sovranazionale, ed
in particolare alla direttiva 2010/ 64/ UE del Parlamento europeo
e del Consiglio, sul «diritto all’interpretazione e alla
traduzione nei procedimenti penali», per la cui trasposizione
è fissato il termine del 27 ottobre 2013. Nella direttiva,
all’art. 3, è prescritto che gli Stati membri assicurino agli accusati
che non comprendono la lingua in uso nel procedimento
penale una «traduzione scritta di tutti i documenti
che sono fondamentali per garantire che siano in grado di
esercitare i loro diritti della difesa e per tutelare l’equità del
procedimento». Si specifica, altresì, che dovranno considerarsi
atti fondamentali le «decisioni che privano una persona
della propria libertà».
Ebbene - osserva la Corte - il diritto eurounitario non prescrive
che la traduzione sia immediata, ma solo che venga offerta
all’incolpato «entro un periodo di tempo ragionevole».
Nel contempo, non è richiesto che la traduzione sia direttamente
assicurata dall’Autorità giudiziaria. Dunque - si
conclude - può essere oggi ritenuta «la sufficienza del meccanismo
di garanzia previsto dall’art. 94 disp. att. c.p.p., perché
quel che rileva è che lo Stato, e quindi l’apparato pubblico,
si adoperi per assicurare la traduzione dell’atto e non che
a tale incombente provveda proprio il giudice che ha emesso
il provvedimento».
Non è dato comprendere se, nel pensiero della Corte, la conclusione
implichi per il direttore del penitenziario la necessità
di affidare al detenuto una traccia «scritta» dell’informazione
fornitagli, con l’eventuale ausilio di un interprete, circa i contenuti
del provvedimento restrittivo emesso nei suoi confronti.
Diritto penale e processo 2/2013 189

Osservatorio
Contrasti giurisprudenziali
SULLA INOSSERVANZA DOLOSA DEI PROVVEDIMENTI
DEL GIUDICE
DELITTI CONTRO L’AMMINISTRAZIONE
DELLA GIUSTIZIA
Cassazione penale, Sez. VI, 20 settembre 2012 (u.p. 29
febbraio 2012), n. 36010 - Pres. Di Virginio - Rel. Milo -
P.M. Riello (concl. conf.) - Ric. Cimò
Se sia sufficiente o non, per l’integrazione del delitto di
mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del
giudice, che l’agente abbia cognizione solo informale del
provvedimento medesimo.
Non è molto copiosa la produzione della giurisprudenza che
riguarda - nell’ambito dei fatti di mancata esecuzione dolosa
di un provvedimento del giudice (e segnatamente dei
fatti previsti dai primi due commi dell’art. 388 c.p.) - un «presupposto»
della condotta tipica (variamente definito), e cioè
la modalità in base alla quale il soggetto attivo deve essere
posto a conoscenza dell’esistenza e dei contenuti del provvedimento.
Il problema si pone in modo affatto diverso nelle due fattispecie
«generali» di inosservanza. La previsione del primo
comma dell’art. 388, infatti, richiede che vi sia stata la «ingiunzione
di eseguire il provvedimento», e dunque un quid
in aggiunta all’adozione del provvedimento medesimo.
Resta da discutere, poi, cosa debba intendersi per «ingiunzione»,
e la giurisprudenza sul punto, per quanto scarna,
sembra segnata da sensibili differenze di tono.
In particolare, ai tempi in cui l’ingiunzione veniva definita
«condizione di punibilità» (Cass., Sez. VI, 31 dicembre 1969,
n. 1831, C.e.d. Cass., n. 113573, Aliperti), si riteneva trattarsi
della «intimazione di eseguire la sentenza, effettuata in forma
legalmente valida», pur non essendo richiesto l’intervenuto
avvio della esecuzione forzata (nella specie, era stata ritenuta
idonea la notifica della sentenza di condanna, in forma
esecutiva, con pedissequo atto di precetto: Cass., Sez. III,
31 ottobre 1972, n. 7283, ivi, n. 122222, Renzetti). In seguito
si è invece affermato (stando, di nuovo, alla sola massima ufficiale)
che non solo non è necessario l’avvio del procedimento
esecutivo, ma è sufficiente che l’interessato «abbia richiesto,
anche in modo informale, di adempiere», principio applicabile
in generale e pure, di conseguenza, nei casi previsti
dal primo comma dell’art. 388 c.p. (Cass., Sez. VI, 30 gennaio
1991, n. 1139, ivi, n. 186411, Danzica; secondo Cass., Sez.
VI, 27 ottobre 1993, n. 2559, ivi, n. 196022, Masi, è «sufficiente
anche un’informale messa in mora, purché si tratti di
intimazione che sia precisa e non univoca (recte: equivoca), rigorosamente
provata e non semplicemente supposta»).
Il contrasto è ancor più netto quanto alla fattispecie del secondo
comma dell’art. 388 c.p., ove, al fianco delle decisioni
concernenti l’affidamento dei minori o di altre persone incapaci,
trovano tutela i provvedimenti cautelari assunti dal giudice
a difesa delle proprietà, del possesso o del credito.
Nell’economia della previsione - ed in chiara connessione
con la natura degli atti considerati - non è compreso alcun riferimento
ad ingiunzioni o ad altre forme di intimazione ad
opera del soggetto nel cui interesse i provvedimenti sono
stati assunti. La natura cautelare di questi ultimi, del resto,
implica ragioni di urgenza che concorrono, come spesso si è
osservato, ad imporre una tutela più diretta ed immediata
della effettività delle prescrizioni giudiziali.
190
Nondimeno, una parte della giurisprudenza ha sostenuto,
nel corso del tempo, la necessità di adempimenti formali
per la comunicazione all’obbligato del provvedimento cui deve
prestare osservanza. Nelle massime estratte da alcune
sentenze (non disponibili nella motivazione) si legge che il
reato sarebbe integrato per la condotta tenuta da chi abbia
avuto «legale conoscenza» della misura adottata dal giudice,
pur essendo specificato, nel contempo, che non è necessaria
l’attivazione di procedure esecutive da parte del
soggetto nel cui interesse la misura stessa è stata deliberata
(Cass., Sez. Sez. III, 14 luglio 1976, n. 7812, ivi, n.
134074, Cavaliere; Cass., Sez. III, 12 giugno 1982, n. 5886,
ivi, n. 154215, D’Introno).
Più recentemente il concetto di «legale conoscenza» è stato
articolato come segue: «la misura cautelare [è] portata a
conoscenza del destinatario dell’obbligo di ottemperarvi secondo
le regole proprie del processo civile, non rilevando
a tal fine che quest’ultimo ne abbia avuto altrimenti cognizione».
Si è dunque precisato che la condotta non integra il
reato quando «il destinatario [del provvedimento] non abbia
avuto notizia legale di esso attraverso la comunicazione
della relativa ordinanza, emessa fuori udienza, ai sensi degli
artt. 134 c. 2 e 176 c. 2 c.p.c., a nulla rilevando che l’ordinanza
stessa, munita di formula esecutiva, sia portata altrimenti
a sua conoscenza, neppure attraverso l’esibizione e
la lettura da parte della polizia giudiziaria». Inoltre, realizzata
la fattispecie di conoscenza «legale», e pur non essendo necessarie
azioni esecutive, sarebbe imprescindibile «una richiesta
di adempimento dell’avente diritto […] consistente
in una messa in mora precisa, la cui comunicazione, seppur
eseguita informalmente, sia comunque rigorosamente
provata» (Cass., Sez. VI, 9 gennaio 2004, n. 314, Borghi, ivi,
n. 229940).
La necessità di una intimazione dell’interessato, per quanto
informale, si trova affermata in ulteriori pronunce, ma
quale unica condizione per l’integrazione del reato, senza riferimenti,
appunto, a modalità legali di comunicazione del
provvedimento giudiziale (Cass., Sez. VI, 30 gennaio 1991, n.
1139, cit.; Cass., Sez. VI, 13 giugno 1996, n. 6042, ivi, n.
205078, Sapienza; Cass., Sez. VI, 20 ottobre 1997, n. 9441,
ivi, n. 209279, Perri).
Alcune decisioni hanno poi positivamente esclusa la necessità
di notifica del provvedimento cui l’agente deve prestare
osservanza (Cass., Sez. VI, 31 dicembre 1969, n. 1831, cit.;
Cass., Sez. VI, 21 aprile 1999, n. 5129, P.c. in c. Nossing, ivi,
n. 213678, relativa a fattispecie nella quale il reo aveva ricevuto
solo copia informale, ad opera della polizia giudiziaria,
dell’ordinanza di sospensione dei lavori emessa a seguito
della denuncia di nuova opera).
Nello stesso senso la decisione più recente sul tema, che ha
valorizzato le ragioni di urgenza tipiche dell’esecuzione di
provvedimenti cautelari: «il delitto di elusione dolosa di un
provvedimento del giudice (nella specie, di natura cautelare)
non presuppone, come condizione di punibilità, la previa notifica
del medesimo provvedimento alla persona che deve
osservarlo, essendo sufficiente la mera conoscenza di fatto
della decisione giudiziale» (Cass., Sez. VI, 20 settembre
2012, n. 36010, ivi, n. 253370).
Diritto penale e processo 2/2013

…Omissis...
Considerato in diritto
…Omissis…
Il giudice di appello non ha sostituito all’analisi compiuta
dal primo giudice una sua analisi e non ha svolto, per
motivare il dissenso rispetto alla sentenza di primo grado,
nessuna considerazione, se non quella, in verità assai laconica,
secondo la quale l’opportunità di adottare tale diversa
metodologia anestesiologica era una semplice “raccomandazione”
contenuta nelle linee guida, considerate
comunque tali da non assumere comunque carattere di
“protocollo”. La sentenza impugnata introduce, pertanto,
l’esame della tematica relativa al valore delle linee guida
ed alle conseguenze derivanti dalla eventuale violazione
delle stesse. È utile, pertanto, per i confronti sul tema indicato,
e per trame le relative conclusioni, esaminare le
sentenze di questa Corte più significative che hanno trattato
il tema delle linee guida, tutte pronunciate dalla IV
Sezione, affrontando sotto diversi aspetti la questione.
La sentenza 2 marzo 2007, n. 19354, Duce ed altri, ha riguardato
un procedimento per il reato di omicidio colposo
instaurato a carico di alcuni medici per il decesso di
Giurisprudenza
Diritto penale
Responsabilità medica
Le linee guida e i nuovi confini
della responsabilità medicochirurgica:
un problema irrisolto
Cassazione penale, Sez. IV, 19 settembre 2012 (c.c. 11 luglio 2012), n. 35922 - Pres. Brusco - Rel.
Piccialli
Può ritenersi conclusione condivisa (…) che l’adeguamento o il non adeguamento del medico alle linee guida
(...) non escluda né determini automaticamente la colpa.
È evidente, infatti, che le linee guida contengono valide indicazioni generali riferibili al caso astratto, ma è
altrettanto evidente che il medico è sempre tenuto ad esercitare le proprie scelte considerando le circostanze
peculiari che caratterizzano il caso concreto e la specifica situazione del paziente, nel rispetto della volontà di
quest’ultimo, al di là delle regole cristallizzate nei protocolli medici.
La verifica circa il rispetto delle linee guida va, pertanto, sempre affiancata ad un’analisi - svolta eventualmente
attraverso perizia - della correttezza delle scelte terapeutiche alla luce della concreta situazione in cui il medico
si è trovato ad intervenire.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme Cass., Sez. IV, 23 novembre 2011, n. 8254, Grassini, in www.penalecontemporaneo.it; Cass., Sez. IV,
27 aprile 2011; Cass., 2 marzo 2011, n. 14526, in dejure.giuffre.it; Cass., Sez. IV, 18 febbraio 2010, n.
10454, in DeJure/Juris Data.
Difforme Cass., Sez. IV, 2 marzo 2007, n. 19354, Duce e altri, in DeJure/Juris Data; Cass., Sez. IV, 8 giugno
2006, Cardillo e altri, in DeJure/Juris Data.
una paziente avvenuto per trombosi sopraggiunta a livello
della protesi mitralica in conseguenza di un intervento
per colecistectomia. Ai medici era stato contestato di
aver prolungato oltre i tempi necessari la sospensione
della terapia anticoagulante ordinariamente somministrata.
La S.C. ha ritenuto che non presentasse profili di
legittimità l’esclusione della colpa sancita da entrambi i
giudizi di merito a favore dei componenti della équipe medica,
che, secondo quanto attestato da periti e consulenti,
avevano proceduto in maniera conforme alle linee
guida dettate dal trattato di cardiologia di E. Braunwald,
riconosciuto come la Bibbia dei cardiologi mondiali, secondo
il quale in pazienti a rischio era sconsigliata la terapia
eparinica in dosi anticoagulanti nel periodo perioperatorio,
essendo minimo il rischio di eventi trombotici
a causa della sospensione della TAO, a condizione che la
stessa fosse limitata a 1-3 giorni prima e dopo l’intervento.
In tal senso i giudici di legittimità hanno affermato
l’ineccepibilità della decisione che, ricostruendo la regola
cautelare attraverso le linee guida desumibili dal citato
tracciato di cardiologia (in assenza di specifiche linee guida
redatte da società scientifiche), aveva ritenuto sfornita
di riscontro probatorio l’impostazione accusatoria se-
Diritto penale e processo 2/2013 191

Giurisprudenza
Diritto penale
condo la quale era stato fatale il settimo giorno di sospensione
della TAO: ciò tenuto anche conto che dall’ultimo
elettrocardiogramma non era emerso un elevato
rischio trombo embolico e che la perdita di sangue dalla
ferita aveva legittimato una particolare attenzione al rischio
emorragico.
Con la sentenza 8 giugno 2006, n. 24400, Cardillo ed altri,
la Cassazione ha, invece, annullato con rinvio la decisione
di secondo grado, che, in riforma di quella di primo
grado, aveva ritenuto responsabile l’imputato del reato
di omicidio colposo per non avere predisposto i necessari
esami neurologici (ed in particolare la TAC) su un
paziente trasportato al pronto soccorso in seguito a trauma
cranico. Il profilo di colpa a carico del sanitario era
stato argomentato sulla doverosità della TAC in quanto
imposta dalle condizioni del paziente, che avrebbero reso
evidente la necessità di detto esame, la cui omissione
aveva impedito l’accertamento tempestivo dell’ematoma
subdurale e, conseguentemente, l’istituzione di idonea terapia.
Dopo aver rivalutato l’importanza probatoria del
contenuto delle linee guida, sulle quali era stata incentrata
la difesa dell’imputato, qualificate come “suggerimenti
atti ad orientare i sanitari nei comportamenti che
devono porre in essere in relazione ai casi concreti”, la
S.C. ha censurato la sentenza di appello sostenendo che
essa avrebbe dovuto motivare la decisione di considerare
le conclusioni dei consulenti di parte - fondate su linea
guida autorevoli - soccombenti rispetto a quelle del consulente
del PM. I giudici di legittimità, premesso che sulla
base delle dette linee guida, era suggerita solo l’osservazione
clinica del paziente di grado zero (cioè quello con
trauma cranico minore, che appare orientato nel tempo e
nello spazio senza reale perdita di coscienza...), nella specie
avvenuta, hanno affermato che la Corte territoriale
avrebbe dovuto spiegare se vi fosse stato un controllo delle
condizioni del paziente adeguato alla situazione che si
presentava ovvero se quest’ultima avesse cominciato con
progressività nel corso del ricovero a presentare i sintomi
di carattere neurologico che avevano poi determinato il
trasferimento all’ospedale per effettuare una TAC oppure
se il manifestarsi di segni di sofferenza cerebrale fosse sopravvenuto
con repentinità, senza che alcun elemento
prima lo evidenziasse.
Anche la sentenza 14 novembre 2007, n. 10795, Pozzi,
nel confermare il giudizio di responsabilità del medico
per omicidio colposo ha sottolineato l’innegabile valenza
probatoria delle linee guida. Il caso esaminato riguardava
una vicenda verificatasi all’interno di una comunità terapeutica,
nella quale era ricoverato un paziente psicotico,
che aveva aggredito con un coltello l’operatore cagionandone
la morte.
I giudici di legittimità hanno confermato il giudizio di responsabilità
del medico psichiatra incaricato prevalentemente
della gestione della terapia psicofarmacologica,
per avere erroneamente prima ridotto e poi sospeso la terapia
farmacologica di contenimento degli scompensi
schizofrenici. In quel caso la S.C. ha fatto espresso riferimento
al parere dei periti, condiviso da entrambi i giudici
di merito e fondato su autorevoli studi svolti anche a li-
192
vello internazionale (le linee guida dell’American Psychiatric
Association sulla prevenzione del rischio suicidiario),
secondo i quali la riduzione del farmaco neurolettico
non si doveva effettuare per percentuali superiori al
venti per cento ogni volta e gli intervalli tra queste progressive
riduzioni avrebbero dovuto durare tra i tre e i sei
mesi, traendo la conclusione che tali regole di cautela
erano state macroscopicamente violate dal sanitario.
In epoca più recente, la sentenza 23 novembre 2010, n.
8254/2011, Proc. gen. App. Milano ed altri in proc. Grassini,
la S.C. ha annullato con rinvio una sentenza assolutoria
nei confronti di un medico accusato di omicidio
colposo.
L’imputato era stato chiamato a rispondere di omicidio
colposo in relazione alla morte di un paziente, da questi
dimesso dal reparto di cardiologia. La vittima era stata ricoverata
in ospedale in seguito ad un infarto; dopo l’esecuzione
di un’operazione di angioplastica, era stato trasferito
dal reparto di terapia intensiva a quello di cardiologia
e, dopo nove giorni, dimesso, decedendo per un attacco
cardiaco, poche ore dopo la dimissione. Nella specie,
si era addebitato al medico addetto alle cure ed alle
terapie postoperatorie del malato di avere agito con negligenza,
imprudenza e imperizia, per avere disposto la dimissione
del paziente dall’ospedale a soli nove giorni di
distanza dall’intervento, senza considerare adeguatamente
le circostanze fattuali che avrebbero sconsigliato la dimissione
[paziente a rischio specifico; gravità dell’infarto
subito con esiti rilevanti e con una funzione del cuore
compromessa; elevata mortalità dei pazienti con infarti
del tipo di interesse]. La Corte di appello, ribaltando la
decisione di primo grado, aveva mandato assolto il medico,
evocando, con il conforto delle indicazioni del perito,
il rispetto da parte di questi delle “linee guida” che prevedevano
la dimissione del paziente in caso di stabilizzazione
del quadro clinico. La Cassazione, in accoglimento
del ricorso del procuratore generale e delle parti civili, ha
annullato con rinvio la decisione, per un migliore approfondimento
e una più corretta motivazione in ordine alla
valenza da attribuire alle linee guida ai fini dell’addebito
di responsabilità: risultava contraddittoriamente e insufficientemente
spiegato quale fosse il contenuto di tali linee
guida e come le indicazioni a favore della dimissione
potessero conciliarsi con la pur apprezzata gravità della
patologia e degli esiti derivati. Al riguardo, la Corte di legittimità
ha affermato che, nel praticare la professione, il
medico deve, con scienza e coscienza, perseguire l’unico
fine della cura del malato utilizzando i presidi diagnostici
e terapeutici di cui al tempo dispone la scienza medica,
senza farsi condizionare da disposizioni o direttive che
non siano pertinenti ai compiti affidatigli dalla legge ed
alle conseguenti relative responsabilità. Ciò vale, in particolare,
per le “linee guida” dettate dall’amministrazione
sanitaria per garantire l’economicità della struttura ospedaliera
(in ipotesi, per accelerare le dimissioni dall’ospedale
non appena si raggiunga la stabilizzazione del quadro
clinico del paziente), onde il medico, che ha il dovere anche
deontologico di anteporre la salute del malato a qualsiasi
altra diversa esigenza, e si pone rispetto a questo in
Diritto penale e processo 2/2013

una posizione di garanzia, non sarebbe tenuto al rispetto
di tali direttive, laddove risultino in contrasto con le esigenze
di cura del paziente, e non potrebbe andare esente
da colpa ove se ne lasci condizionare, senza adottare le
decisioni più opportune a tutela della salute del paziente.
Nello stesso senso, la sentenza 29 settembre 2009, n.
38154, R.C. in proc. Ronzoni ha confermato il giudizio di
responsabilità per omicidio colposo a carico del cardiologo,
che attesti l’idoneità alla pratica sportiva agonistica
di un atleta, in seguito deceduto nel corso di un incontro
ufficiale di calcio a causa di una patologia cardiologica
(nella specie, “cardiomiopatia ipertrofica”), non diagnosticata
dal sanitario per l’omessa effettuazione di esami
strumentali di secondo livello che, ancorché non richiesti
dai protocolli medici, dovevano ritenersi necessari in
presenza di anomalie del tracciato elettrocardiografico
desumibili dagli esami di primo livello. In riferimento a
tale punto i giudici di legittimità, premessa la conformità
al principio della esigibilità, nell’opera professionale del
medico, della media diligenza e perizia, hanno affermato
la logicità della motivazione laddove i giudici di merito
avevano valutato incongruente il richiamo, a mo’ di giustificazione,
al rispetto dei protocolli, posto che questi
danno al medico un’indicazione di base sulla quale deve,
tuttavia, innestarsi un comportamento che sia corretto
secondo scienza e coscienza, così legittimando la conclusione
che, in presenza di tracciati elettrocardiografici sospetti,
era doveroso ed esigibile che il medico cardiologo
approfondisse la verifica dell’integrità psico - fisica dell’atleta,
per prevenire eventi nefasti che gli stessi protocolli,
invocati dalla difesa, prevedono, classificando il
giuoco del calcio, al cui esercizio la parte lesa chiedeva di
essere autorizzato, quale sport “ad alto rischio”.
Anche la sentenza 18 febbraio 2010, n. 10454, Cordone
ed altro, nel confermare il giudizio di responsabilità per il
reato di omicidio colposo, a carico di un medico anestesista,
ha affermato che in una situazione di particolare difficoltà
(nella specie erano stati effettuati inutilmente tre
tentativi di intubazione del paziente, in presenza di edema
della laringe, che impediva l’evidenziazione della
glottide), non esenta da responsabilità il fatto che siano
state seguite linee guida o siano stati osservati protocolli
per una scelta alternativa all’unica scelta che in concreto
si rendeva, nell’evidenza delle descritte manifestazioni
conseguenti allo shock anafilattico, chiaramente risolutiva
(la tracheotomia).
Nella specie il medico, anziché procedere all’immediata
tracheotomia, pur disponendo della presenza in sala operatoria
di un medico chirurgo, aveva optato per attendere
l’arrivo di un otorino, con ciò mostrando tuttavia di
osservare linee guide e protocolli in maniera eccessivamente
rigida.
Il riferimento alle linee guida, sia pure in termini più generali,
è contenuto anche nella sentenza 22 novembre
2011, n. 4391/2012, p.c. Grasso ed altro in proc. Di Lella,
che ha confermato la condanna del direttore sanitario
di una comunità protetta, al quale era stato contestato il
delitto di omicidio colposo in danno di un degente affetto
da schizofrenia di tipo paranoide, che veniva rinvenu-
Giurisprudenza
Diritto penale
to al suolo con gravi lesioni personali e ricoverato in un
ospedale presso il quale decedeva a causa di affezione polmonare.
Secondo i giudici di merito le lesioni erano state determinate
da caduta da una finestra dell’edificio, a seguito di
defenestrazione o altra condotta incongrua, comunque
riconducibile alla grave affezione da cui era colpito il degente.
All’imputato, in concorso con altri, poi assolti in
appello, erano stai mossi diversi addebiti: l’omissione di
adeguata vigilanza da parte del personale, di terapia farmacologica
appropriata e di accorgimenti atti ad impedire
l’accesso dei pazienti alle finestre dei locali cui erano
ospitati; nonché il mancato trasferimento in un presidio
sanitario in grado di apprestare un’adeguata terapia. La
difesa era stata incentrata sull’imprevedibilità delle condotte
di pazienti affetti da patologie del genere di quella
da cui era colpita la vittima e sulla impossibilità di segregare
ed immobilizzare permanentemente tali pazienti. La
S. C. ha inquadrato la questione nel tema più generale
del rischio consentito (in cui rientrano tutte quelle attività
che comportano una misura di pericolosità in tutto o
in parte ineliminabile e che tuttavia si accetta che vengano
esercitate perché afferenti ad importanti ambiti
produttivi, scientifici, medici) ed ha evidenziato la difficoltà
in questi casi di stabilire quale sia il punto di equilibrio,
la linea di confine che segna il passaggio dal lecito
all’illecito giacché le normative precauzionistiche sono
spesso inadeguate. Da tale incertezza il giudice di legittimità
ha tratto la conclusione che l’arbitro, il quale stabilisce
il punto di confine tra il lecito e l’illecito finisce per
essere proprio il giudice, con l’aiuto, nella maggior parte
dei casi, degli esperti. Muovendo da tali considerazioni,
perfettamente applicabili al caso in esame in cui il tema
va inquadrato nell’ambito della psichiatria, caratterizzata
da patologie non di rado difficilmente controllabili, la
S.C. affronta la seguente difficile questione: a quali condizioni
il rischio può e deve essere accettato, anche a protezione
del sanitario cui è demandato il difficile compito
di governare quel rischio? Il nucleo del problema, hanno
affermato i giudici di legittimità, è la valutazione della diligenza
e del rispetto delle regole di prudenza che l’ordinamento
impone, filtrata avverso il raffronto con le prassi
virtuose, tenendo altresì conto che le linee guida sono
frutto di scelte totalmente economicistiche e che non
possono essere considerate un punto di approdo definitivo.
In tale prospettiva la citata sentenza ha evidenziato,
ed è utile sottolinearlo in questa sede, la problematicità
dell’utilizzo delle linee guida in questa materia, pur riconoscendo
che le stesse ed i protocolli sono, in talune situazioni,
in grado di offrire delle indicazioni e dei punti di
riferimento. I giudici di legittimità richiamano l’attenzione
dell’interprete sulla necessità di comprendere “qual è
la logica nella quale si è formata una prassi di comportamento,
perché spesso le linee guida sono frutto di scelte
totalmente economicistiche, sono ciniche o pigre; e dunque
non è detto che una linea guida sia un punto di approdo
definitivo”, sottolineando altresì che “alcune volte
le linee guida sono obsolete o inefficaci e, dunque, anche
sulle linee guida occorre posare uno sguardo speciale, oc-
Diritto penale e processo 2/2013 193

Giurisprudenza
Diritto penale
corre attenzione e cautela; le linee guida non sono - da
sole - la soluzione dei problemi”.
In proposito si è richiamata la dottrina che, a proposito
delle prassi applicative, ha condivisibilmente manifestato
il timore che esse possano «fornire indebiti cappelli
protettivi a comportamenti sciatti, disattenti: un comportamento
non è lecito perché è consentito, ma è consentito
perché diligente». Alla luce di tali precedenti ed
in conformità agli stessi, possono, pertanto, trarsi i seguenti
principi.
È innegabile, come emerge dalle pronunce sopra indicate,
la rilevanza processuale delle linee guida, siccome parametro
rilevante per affermare o escludere profili di colpa
nella condotta del sanitario. Va chiarito, però, che la
diligenza del medico non si misura esclusivamente attraverso
la pedissequa osservanza delle stesse. Le linee guida
non possono fornire, infatti, indicazioni di valore assoluto
ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale responsabilità
del sanitario, sia per la libertà di cura, che caratterizza
l’attività del medico, in nome della quale deve prevalere
l’attenzione al caso clinico particolare e non si può pregiudizialmente
escludere la scelta consapevole del medico
che ritenga causa cognita di coltivare una soluzione
terapeutica non contemplata nelle linee guida, sia perché,
come già evidenziato da alcuna delle sentenze citate,
in taluni casi, le linee guida possono essere indubbiamente
influenzate da preoccupazioni legate al contenimento
dei costi sanitari oppure si palesano obiettivamente controverse,
non unanimemente condivise oppure non più
rispondenti ai progressi nelle more verificatisi nella cura
della patologia.
Può ritenersi conclusione condivisa, alla luce dei precedenti
sopra indicati, che l’adeguamento o il non adeguamento
del medico alle linee guida, quindi, non escluda
né determini automaticamente la colpa. È evidente, infatti,
che le linee guida contengono valide indicazioni generali
riferibili al caso astratto, ma è altrettanto evidente
che il medico è sempre tenuto ad esercitare le proprie
scelte considerando le circostanze peculiari che caratterizzano
il caso concreto e la specifica situazione del paziente,
nel rispetto della volontà di quest’ultimo, al di là
delle regole cristallizzate nei protocolli medici.
La verifica circa il rispetto delle linee guida va, pertanto,
sempre affiancata ad un’analisi - svolta eventualmente
attraverso perizia - della correttezza delle scelte terapeutiche
alla luce della concreta situazione in cui il medico si
è trovato ad intervenire.
Come afferma la sentenza PG in proc. Grassini, sopra citata,
il medico, nella pratica della professione, deve con
scienza e coscienza perseguire un unico fine: la cura del
malato utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui
dispone al tempo la scienza medica, senza farsi condizionare
da esigenze di diversa natura, da disposizioni, considerazioni,
valutazioni, direttive che non siano pertinenti
rispetto ai compiti affidatigli dalla legge ed alle conseguenti
relative responsabilità.
È opportuno rimarcare che la posizione di garanzia che il
medico assume nei confronti del paziente gli impone
l’obbligo di non rispettare quelle direttive [ergo, per
194
quanto interessa, le linee guida] laddove esse siano in
contrasto con le esigenze di cura del paziente.
In definitiva, non vi potrà essere esenzione da responsabilità
per il fatto che siano state seguite linee guida o siano
stati seguiti protocolli ove il medico non abbia compiuto
colposamente la scelta che in concreto si rendeva
necessaria. Ciò soprattutto allorquando le linee guide asseritamente
seguite siano obiettivamente ispirate a soddisfare
solo esigenze di “economia gestionale” ovvero allorquando
queste si palesino obiettivamente vetuste, inattuali,
finanche controverse. Rimane, pertanto, la possibilità
per il giudice penale di valutare la condotta del medico
alla luce del parametro dell’agente modello e di censurarne
l’appiattimento alle linee guida qualora la particolarità
della fattispecie concreta sottoposta al suo esame
avrebbe potuto imporre o consigliare un percorso diagnostico
diverso. Al contrario, sempre nel caso di condotte
conformi alle linee guida, queste potranno rilevare in
chiave difensiva in assenza di particolarità specifiche del
caso concreto idonee a configurare un quadro diverso e
più grave rispetto a quello considerato dalle direttive ivi
contenute. Va, altresì, precisato che le linee guida per
avere rilevanza nell’accertamento della responsabilità del
medico devono indicare standard diagnostico-terapeutici
conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica
a garanzia della salute del paziente e [come detto] non
devono essere ispirate ad esclusive logiche di economicità
della gestione, sotto il profilo del contenimento delle
spese, in contrasto con le esigenze di cura del paziente [va
ovviamente precisato che anche le aziende sanitarie devono,
a maggior ragione in un contesto di difficoltà economica,
ispirare il proprio agire anche al contenimento
dei costi ed al miglioramento dei conti, ma tali scelte non
possono in alcun modo interferire con la cura del paziente:
l’efficienza di bilancio può e deve essere perseguita
sempre garantendo il miglior livello di cura, con la conseguenza
del dovere del sanitario di disattendere indicazioni
stringenti dal punto di vista economico che si risolvano
in un pregiudizio per il paziente].
Solo nel caso di linee guida conformi alle regole della migliore
scienza medica sarà poi possibile utilizzarle come
parametro per l’accertamento dei profili di colpa ravvisabili
nella condotta del medico ed attraverso le indicazioni
dalle stesse fornite sarà possibile per il giudicante - anche,
se necessario, attraverso l’ausilio di consulenze rivolte
a verificare eventuali particolarità specifiche del caso
concreto, che avrebbero potuto imporre o consigliare un
percorso diagnostico - terapeutico alternativo - individuare
eventuali condotte censurabili.
In conclusione, nel tentativo di inquadrare dal punto di
vista normativo le linee guida, può certamente affermarsi
che le stesse, pur rappresentando un importante ausilio
scientifico, con il quale il medico è tenuto a confrontarsi,
non eliminano l’autonomia del medico nelle scelte terapeutiche,
poiché, come bene evidenziato dalla sentenza 8
febbraio 2001, Bizzarri, di questa Sezione, sempre attuale,
nonostante il tempo trascorso, «l’arte medica, mancando
per sua stessa natura di protocolli scientifici a base matematica...
[...] spesso prospetta diverse pratiche o soluzioni
Diritto penale e processo 2/2013

che l’esperienza ha dimostrato efficaci, da scegliere oculatamente
in relazione ad una cospicua serie di varianti
che, legate al caso specifico, solo il medico nella contingenza
della terapia, può apprezzare. Questo concetto, di
libertà nelle scelte terapeutiche del medico, è un valore
che non può essere compromesso a nessun livello né disperso
per nessuna ragione, pena la degradazione del medico
a livello di semplice burocrate, con gravi rischi per la
salute di tutti».
Può altresì affermarsi che le linee guida non eliminano
neanche la discrezionalità insita nel giudizio di colpa; il
giudice resta, infatti, libero di valutare se le circostanze
concrete esigessero una condotta diversa da quella prescritta
dalle linea guida stesse.
Le stesse rappresentano per il giudice uno strumento per
valutare la condotta del sanitario, sia pure indiretto, in
quanto nella maggior parte dei casi utilizzate direttamente
dal consulente, con il conseguente vantaggio di limitare
la discrezionalità del giudicante in merito alla individuazione
della diligenza doverosa.
Muovendo da tali considerazioni, alle raccomandazioni
cliniche scritte, provenienti da fonti autorevoli e caratterizzate
da un adeguato livello di scientificità, non può
non attribuirsi un ruolo importante quale atto di indirizzo
per il medico e quale punto di partenza per il giudice,
chiamato a “misurare” la diligenza [ma anche la perizia]
del medico.
Deve essere allora solo ribadito che le linee guida e i protocolli,
proprio in ragione delle peculiarità dell’attività
del medico, che sfugge a regole rigorose e predeterminate,
non possono assumere il rango di fonti di regole cautelari
codificate, rientranti nel paradigma normativo dell’articolo
43 c.p. [“leggi, regolamenti, ordini o discipline”].
Ciò risulta evidente dal carattere non tassativo (in quanto
è la situazione individuale del paziente il punto di par-
Il commento
di Lucia Risicato (*)
Giurisprudenza
Diritto penale
tenza della valutazione clinica) e non vincolante (in
quanto non possono prevalere sulla libertà del medico
nelle scelte terapeutiche) sia delle linee guida che dei
protocolli. Ciò è confermato dal rilevato rapporto tra il
medico e gli stessi, laddove il medico è sempre tenuto a
prescegliere la migliore soluzione curativa per il paziente.
Ciò che rileva, pertanto, ai fini della valutazione giudiziale
è sempre il rispetto delle regole di prudenza che l’ordinamento
impone, la cui inosservanza può ragionevolmente
collocarsi nell’ambito della colpa generica.
Alla luce dei principi sopra enunciati è evidente il vizio
di motivazione della sentenza impugnata, che, a fronte di
una analitica argomentazione del giudice di primo grado,
che aveva fondato la responsabilità dell’imputata sulla
violazione delle linee guida, nel dare ragione delle difformi
conclusioni raggiunte, si è limitata ad osservare che la
situazione di particolare difficoltà nella quale l’anestesista
era venuta a trovarsi, non era stata confutata dalle
semplici raccomandazioni contenute nelle linee guida,
“che non assumono comunque carattere di protocollo”.
Di qui l’esigenza di approfondimento al fine di verificare
l’eventuale sussistenza di profili di colpa a carico dell’imputata,
la cui condotta (con particolare riferimento alla
manovra di intubazione naso tracheale posta “alla cieca”)
dovrà essere valutata con riguardo alla sua conformità alle
richiamate linee guida, al fine di verificare se sia stata
determinante nella causazione dell’evento lesivo o se
questo, tenuto conto della complessiva condizione del
paziente, era comunque in ogni caso inevitabile e, come
tale rientrante nel caso fortuito. In conclusione, la sentenza
va annullata con rinvio ex art. 622 c.p.p. al giudice
civile competente per valore in grado di appello, cui rimette
anche il regolamento delle spese tra le parti del
presente giudizio.
…Omissis...
L’orientamento più recente della Cassazione sul ruolo delle linee guida nella valutazione della responsabilità
colposa del medico è di cauta diffidenza: vero è che esse contengono attendibili indicazioni generali riferibili
al caso astratto, ma il medico è sempre tenuto a esercitare le proprie scelte considerando le circostanze
peculiari della vicenda concreta, discostandosi - se necessario - da regole cristallizzate in protocolli volti talora
solo a contenere le spese sanitarie. Questo principio di diritto deve però integrarsi con la definizione normativa
della colpa medica fornita dall’art. 3, comma 1, l. 8 novembre 2012, n. 189, che sembra attribuire alle
linee guida un ruolo fondante e tuttavia non vincolante nell’attribuzione della responsabilità penale del sanitario.
In base alla nuova disposizione, «l’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria
attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente
per colpa lieve». Al di là della problematica distinzione, sinora inedita nel nostro sistema penale,
tra colpa “lieve” e “grave” del sanitario, la norma non chiarisce se la condotta del medico che abbia agito
senza rispettare le linee guida sia per ciò solo colposa, e nemmeno in che termini possa sussistere una colpa
“grave” del medico nonostante l’osservanza delle linee guida.
Nota:
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
Diritto penale e processo 2/2013 195

Giurisprudenza
Diritto penale
Il caso affrontato dalla Corte
La sentenza in esame prende le mosse da un’errata
manovra anestesiologica di intubazione naso-tracheale,
che ha cagionato la morte del paziente per
lesione del pilastro anteriore oro-faringeo e conseguente
inondazione ematica delle vie respiratorie.
L’intervento, ritenuto a ragione urgente dall’èquipe
chirurgica (la diagnosi parla di occlusione intestinale
da ernia inguinale strozzata), è stato nondimeno
eseguito in tempi tecnici a dir poco flemmatici, saltando
a piè pari un’opportuna visita pre-anestesiologica.
Tuttavia, le caratteristiche anatomiche del paziente
- collo tozzo e bocca piccola - rendevano già
prima facie prevedibili le difficoltà di intubazione.
Per tali casi le linee guida della S.I.A.A.R.T.I. (Società
Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione
e Terapia Intensiva) sconsigliano l’intubazione “alla
cieca”, raccomandando l’introduzione del tubo per
via oro-tracheale con l’ausilio di un presidio alternativo
(c.d. mandrino): questa tecnica, del resto, era
stata correttamente ma tardivamente eseguita dal
secondo anestesista subentrato all’autore della maldestra
manovra.
Condannato in primo grado dal Tribunale di Catania
per omicidio colposo, l’imputato - stante l’intervenuta
prescrizione del reato - è stato assolto in appello
per insussistenza del fatto: assente la colpa, essendo
insindacabile la scelta del percorso anestesiologico
eseguito in condizioni di urgenza, interrotto il
nesso causale tra condotta asseritamente imperita ed
evento lesivo per via di un’anomalia anatomica sul
retro-faringe del paziente, accertata durante l’autopsia
e considerata del tutto imprevedibile. Proprio la
malformazione congenita dell’impalcato retro-faringeo
avrebbe determinato, secondo i giudici di seconde
cure, una situazione concreta di particolare difficoltà
non contemplata dalle “raccomandazioni”
contenute nelle linee guida, che comunque «non assumono
carattere di protocollo».
Contro la sentenza d’appello le parti civili hanno
presentato ricorso per Cassazione. Tre i motivi salienti:
1) manifesta illogicità della motivazione in merito
alla presunta interruzione del nesso causale da caso
fortuito. L’anomalia della faringe sarebbe stata agevolmente
diagnosticata se solo fosse stata eseguita -
nelle more di un intervento “urgente” ritardato di
circa tre ore - la visita pre-anestesiologica;
2) mancata argomentazione della perizia della condotta
non protocollare tenuta dall’imputato in condizioni
di difficoltà e di urgenza, atteso tra l’altro che
la successiva manovra d’intubazione, effettuata se-
196
condo i puntuali dettami delle linee guida, era stata
portata a termine con successo;
3) erronea applicazione dell’art. 589 c.p. per omessa
motivazione dell’assenza di colpa: il giudice di primo
grado non aveva incentrato il rimprovero di colpa
sull’errore tecnico dell’intubazione, ma piuttosto sull’inidoneità
della scelta tecnica compiuta in difformità
dalle linee guida. In sintonia con parte significativa
della giurisprudenza in materia, la Corte d’Appello
di Catania ha liquidato le linee guida come non
esaustive né tassative, ma senza spiegare le ragioni
specifiche della loro parziale inattendibilità. Eppure
esse designano, in via di principio, «un percorso terapeutico
ideale, suggerito dalla migliore scienza ed
esperienza di un dato contesto storico da società
scientifiche di prestigio internazionale» (1).
La Cassazione, annullando con rinvio la sentenza
d’appello, ha ripercorso con lucidità lo stato dell’arte
delle linee guida nella responsabilità medico-chirurgica,
chiarendo la natura elastica di regole cautelari
“procedimentali” sospese tra letteratura scientifica,
burocrazia e spending review sanitaria: regole
che tuttavia, poche settimane dopo la pronuncia in
commento, sono diventate - grazie all’art. 3, comma
1, l. 189/2012 - il presupposto normativo dell’accertamento
della colpa penale del sanitario.
Le linee guida come regole cautelari
“ciniche e pigre” o come strumento
di procedimentalizzazione dell’attività
medica?
Le linee guida nell’attività medico-chirurgica esprimono
in verità una particolarissima tensione tra
ideale e reale: le loro potenzialità sono bilanciate da
una nota forse ineliminabile di ambiguità, contribuendo
ad alimentare le incertezze su ruolo e limiti
di un istituto in piena espansione. In via ideale le
guidelines potrebbero arricchire di sfumature più specifiche
la figura dell’homo eiusdem professionis et condicionis
in campo medico, nell’ambito di una crescente
tendenza alla positivizzazione e alla procedimentalizzazione
delle regole cautelari specialistiche:
secondo recenti studi qualificati, esse potrebbero -
beninteso, se usate oculatamente - contribuire a superare
il tradizionale deficit di tassatività della colpa
di fonte tecnico-sociale, bilanciare il difficile equilibrio
tra esigenze di garanzia dell’imputato ed istanze
di difesa sociale, semplificare la dinamica probato-
Note:
(1) Così P. Piras - A. Carboni, Linee guida e colpa specifica del
medico, in AA.VV. Medicina e diritto penale, a cura di S. Canestrari,
F. Giunta, R. Guerrini, T. Padovani, Pisa, 2009, 286.
Diritto penale e processo 2/2013

ia, ridurre la medicina difensiva, razionalizzare i costi
delle cure e della malpractice ed apportare maggiore
chiarezza nella distinzione tra misura oggettiva
e soggettiva della colpa (2).
La realtà è molto più complessa per la coesistenza, all’interno
del medesimo istituto, di obiettivi teleologicamente
antinomici. Nell’esperienza statunitense,
per una maliziosa eterogenesi dei fini, le linee guida
hanno perseguito principalmente l’obiettivo di risparmiare
sulle cure mediche e di prevenire contenziosi
legali, più che quello di migliorare la salute e la
qualità della vita del paziente (3). È quindi del tutto
comprensibile la diffidenza maturata nel nostro sistema
penale nei confronti di disposizioni che si collocano
«a mezza via fra regole etiche, direttive deontologiche
e prescrizioni giuridiche» (4), definite in alcune
pronunzie “ciniche e pigre” (5) non solo per la loro
presunta estraneità a finalità terapeutiche, ma soprattutto
per la tentazione dei facili automatismi nella valutazione
- o più spesso nell’esclusione - della responsabilità.
In questa intricata materia grava sull’interprete
l’ulteriore compito di distinguere le linee guida
“buone”, dettate dalla necessità di tipizzare le metodologie
terapeutiche più corrette, da quelle “cattive”,
mirate al contenimento della spesa sanitaria (6): solo
le prime potrebbero fungere da paradigma idealtipico
della condotta del sanitario, mentre le seconde risulterebbero
per definizione inaffidabili.
La giurisprudenza di legittimità, condannando sia
nel caso in cui il medico abbia osservato pedissequamente
le linee guida sia in quello in cui se ne sia colpevolmente
discostato, ha spesso paventato il rischio
di una cristallizzazione asfittica delle norme
cautelari in protocolli “blindati” delle regole dell’arte
medica e di una loro (impossibile) categorizzazione
astratta, avulsa dalle caratteristiche uniche del
caso individuale. Si discute tuttora in modo vivace
della fisionomia “rigida” o “flessibile” delle linee
guida, dei loro rapporti con l’accertamento concreto
della colpa e persino della loro natura giuridica: la
pronuncia qui annotata dubita che esse possano inserirsi,
nell’ambito delle “discipline”, tra le categorie
normative indicate a proposito della colpa specifica
dall’art. 43 c.p. (7). In tal senso tuttavia pare depor-
Note:
(2) A.R. Di Landro, Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione
della colpa penale nel settore sanitario. Misura oggettiva
e soggettiva della malpractice, Torino, 2012, 177 ss. In argomento
v. anche R. Blaiotta, La responsabilità medica. Nuove prospettive
per la colpa, in Diritto penale contemporaneo, 23 marzo
2012; M. Caputo, “Filo d’Arianna” o “Flauto magico”? Linee guida
e checklist nel sistema della responsabilità per colpa medica,
in Diritto penale contemporaneo, 16 luglio 2012; P. Piras - A. Car-
Giurisprudenza
Diritto penale
boni, Linee guida e colpa specifica del medico, in AA.VV. Medicina
e diritto penale, cit., 286; D. Micheletti, La normatività della
colpa medica nella giurisprudenza della Cassazione, in
AA.VV., Medicina e di diritto penale, cit., 274 ss.; M. Portigliatti
Barbos, Le linee guida nell’esercizio della pratica clinica, in Dir.
pen. proc., 1996, 891; M. Bilancetti, La responsabilità civile e
penale del medico, Padova, 2010, 744; E. Terrosi Vagnoli, Le linee
guida per la pratica clinica: problemi e valenze medico-legali,
in Riv. it. med. leg., 1999, 223.
(3) P. Veneziani, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale. I
delitti colposi, Padova, 2003, 176.
(4) M. Portigliatti Barbos, loc. ult. cit.
(5) Così, testualmente, Cass., Sez. IV, ud. 22 novembre 2011, n.
4391, in dejure.giuffre.it: «spesso le linee guida sono frutto di
scelte totalmente economicistiche, sono ciniche o pigre; e dunque
non è detto che una linea guida sia un punto di approdo definitivo.
Alcune volte le linee guida sono obsolete o inefficaci e,
dunque, anche sulle linee guida occorre posare uno sguardo
speciale, occorre attenzione e cautela; le linee guida non sono -
da sole - la soluzione dei problemi. Del resto in dottrina, a proposito
delle prassi applicative, si è condivisibilmente manifestato
il timore che esse possano fornire indebiti cappelli protettivi a
comportamenti sciatti, disattenti: un comportamento non è lecito
perché è consentito, ma è consentito perché diligente». Nello
stesso senso già Sez. IV, 23 novembre 2011, n. 8254, in
Cass. pen., 2012, 557, con nota di G. Marra, L’osservanza delle
c.d. “linee guida” non esclude di per sé la colpa del medico (secondo
cui lo scopo delle linee guida è fondamentalmente estraneo
alla valutazione in sede giudiziaria dell’operato del medico).
(6) In dottrina non manca chi evidenzia che lo scopo principale
delle linee guida sarebbe appunto quello di economizzare la spesa
sanitaria corrente, “contenendo” ad es. i tempi di degenza
secondo criteri standard non sempre compatibili con le reali
condizioni del paziente. In una prospettiva siffatta le linee guida
non solo non arrecherebbero benefici alla metodologia clinica,
ma non potrebbero a maggior ragione essere utilizzate dai giudici
- che pure se ne avvalgono ormai da anni, tramite le perizie
medico-legali - per ricostruire la condotta idealtipica esigibile dal
singolo medico. Esse, oltretutto, incoraggerebbero di fatto la
medicina difensiva e avrebbero un effetto deresponsabilizzante
nei confronti degli operatori sanitari, i quali potrebbero (trovare
un pretesto burocratico per) astenersi dall’adottare accorgimenti
non consigliati dalle linee guida, la cui inosservanza sarebbe
però suscettibile di accertamento giurisdizionale. Cfr., tra gli altri,
A. Cartabellotta, Medicina basata sulle evidenze o sulle linee
guida?, in Ricerca e sanità, 2000, 1, 2, 41; V. Fineschi - P. Frati,
Linee guida, a double edge sword; riflessioni medico legali sulle
esperienze statunitensi, in Riv. it. med. leg., 1998, 665. Favorevole
all’uso delle guidelines come strumento di positivizzazione
degli obblighi di condotta e di semplificazione nell’accertamento
giudiziale della colpa medica è invece D. Micheletti, La
normatività della colpa medica nella giurisprudenza della Cassazione,
cit., 276. Sul problema della medicina difensiva, v. da ultimo
l’ampia ricognizione monografica di A. Roiati, Medicina difensiva
e colpa professionale medica in diritto penale. Tra teoria
e prassi giurisprudenziale, Milano, 2012.
(7) Già prima del c.d. decreto Balduzzi, nella normativa sanitaria i
riferimenti al concetto di linee guida erano sempre più frequenti.
Si pensi, ad es., al d.P.R. 23 luglio 1998 (di Approvazione del piano
sanitario nazionale per il triennio 1998-2000), il cui art. 3 prevede
che «è obiettivo del Piano sanitario nazionale 1998-2000 avviare
un Programma nazionale per l’elaborazione, la diffusione e la
valutazione di Linee guida e percorsi diagnostici». Sul punto, v.
ampiamente P. Veneziani, I delitti contro la vita, 186 ss. Valuta problematicamente
l’inclusione delle linee guida tra le “discipline”
ex art. 43 c.p., nell’ambito delle inevitabili tensioni tra riserva di
legge e privatizzazione delle regole cautelari A.R. Di Landro, Dalle
linee guida e dai protocolli, cit., 25 ss. Sui rapporti tra colpa generica
e specifica v., da ultimo, M. Grotto, Principio di colpevolezza,
rimproverabilità soggettiva e colpa specifica, Torino, 2012, 61 ss.
Diritto penale e processo 2/2013 197

Giurisprudenza
Diritto penale
re il recentissimo art. 3, comma 1, l. 8 novembre
2012, n. 189 (8), secondo cui «l’esercente le professioni
sanitarie che nello svolgimento della propria
attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate
dalla comunità scientifica non risponde penalmente
per colpa lieve».
Questa singolare disposizione, i cui esiti applicativi
sono ancora da verificare, configura una colpa grave
nel caso in cui il sanitario abbia rispettato le linee
guida, senza però valutare correttamente il quadro
terapeutico effettivo del paziente. Le guidelines restano
così un parametro di valutazione non totalizzante
e nemmeno vincolante, in un quadro in cui la
colpa può essere configurata… anche in apparente
assenza di colpa. Di tale fattispecie sarà necessario
occuparsi in un secondo momento: alla luce degli
orientamenti recenti della prassi applicativa sulle linee
guida, riassunti con efficacia dalla sentenza in
commento, alcune delle innovazioni apportate dalla
l. 189/2012 sono probabilmente più apparenti che
reali. Per contro, come vedremo più tardi, la nuova
norma potrebbe creare all’interprete nuovi problemi
di definizione della soglia minima di colpa del sanitario,
col rischio di automatismi uguali e contrari rispetto
a quelli che la disposizione appena introdotta
cerca di contrastare.
L’ambiguità delle linee guida
nei precedenti giurisprudenziali
Il valore da attribuire alle linee guida e alle conseguenze
della loro inosservanza è sempre stato controverso,
con oscillazioni ermeneutiche dotate però,
in tempi recenti, di un elemento costante: la misura
della colpa del medico è sempre fornita all’interprete
da un’attenta analisi delle caratteristiche del caso
concreto.
L’orientamento più risalente ha attribuito senza riserve
alle linee guida il ruolo di metro scientifico
della perizia del sanitario (o, per contro, della sua
imperizia). In una delle prime pronunzie sull’argomento
(9) la Cassazione ha ribadito l’importanza
probatoria del contenuto delle linee guida (10),
qualificandole come «suggerimenti atti a orientare i
sanitari nei comportamenti che devono porre in essere
in relazione ai casi concreti» (11). Su questa linea,
in altra sentenza di poco successiva, la Suprema
Corte ha confermato l’assoluzione di alcuni cardiologi
dall’accusa di omicidio colposo (12), per sopraggiunta
trombosi a seguito di colecistectomia, poiché
«il trattamento a cui era stata sottoposta la paziente
era perfettamente rispondente alle indicazioni generali
dei protocolli medici» (13). In un contesto del genere
«non può certo ritenersi illogica la valutazione dei
198
giudici di merito, i quali hanno escluso che i medici
abbiano seguito una procedura eterodossa rispetto
alle linee guida sostenute da importanti istituzioni
scientifiche e da autorevoli contributi della letteratura
medica internazionale».
Emerge invece, da pronunzie più recenti, una diffi-
Note:
(8) Si riporta, per comodità del lettore, il testo della disposizione
citata: «L’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento
della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente
per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui
all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione
del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della
condotta di cui al primo periodo».
(9) Cass., Sez. IV, 8 giugno 2006, Cardillo e altri, in DeJure/Juris
Data.
(10) Sul punto v. le osservazioni di D. Micheletti, La normatività
della colpa medica nella giurisprudenza della Cassazione, cit.,
275: la pronuncia Cardillo ha ribaltato la sentenza di condanna
del giudice di merito in ragione dell’assoluta conformità dell’attività
medica prestata dagli imputati rispetto alle linee guida per la
gestione dei traumi cranici edite dalla Società Italiana di Neurochirurgia.
In particolare, si trattava di valutare la liceità dell’omessa
prescrizione di una TAC a beneficio di un paziente implicato
in un incidente stradale il giorno di Natale del 1998 e deceduto
tre giorni dopo a causa di un ematoma subdurale. Tuttavia
la vittima era giunta al pronto soccorso senza perdita di coscienza
né amnesie, cefalea diffusa o vomito, ed era stata classificata
- in base ai criteri definiti dalle suddette linee guida - come
affetta da trauma cranico “minore”. Nello stesso senso
Cass., Sez. IV, 24 febbraio 2000, Minnella, in Cass. pen., 2001,
2696, in cui la condotta del medico (poi assolto sotto il distinto
profilo del mancato accertamento del nesso causale) è stata ritenuta
colposa per aver egli omesso «di praticare accertamenti
diagnostici imposti dai protocolli professionali (esami istologici
su noduli asportati)».
(11) Cass., Sez. IV, 14 novembre 2007, Pozzi, citata da P. Piras -
A. Carboni, Linee guida e colpa specifica del medico, cit., 295 e,
da ultimo, da A.R. Di Landro, Dalle linee guida e dai protocolli,
cit., 12. La pronuncia riguarda un caso di omesso impedimento
colposo dell’omicidio commesso da un paziente: il Supremo Collegio
individua gli estremi della responsabilità colposa dell’imputato
nella decisione di sospendere il trattamento con farmaci antipsicotici,
raccomandato invece dalle più autorevoli linee guida
internazionali almeno per cinque anni dall’ultimo episodio patologico.
(12) Cass., Sez. IV, 2 marzo 2007, n. 19354, Duce e altri, in in De-
Jure/Juris Data.
(13) Frequente, nella prassi giurisprudenziale, è la sovrapposizione
terminologica tra linee guida e protocolli: eppure i due termini
non sono sinonimi, riferendosi anzi a forme assai diverse di
procedimentalizzazione delle regole cautelari specialistiche. Sul
punto, v. A.R. Di Landro, Dalle linee guida e dai protocolli, cit., 9:
«le linee-guida, in particolare, sono definite dall’autorevole Institute
of Medicine (IOM) statunitense quali “statements (lett. “dichiarazioni”,
oppure “rapporti”) sviluppati in modo sistematico
allo scopo di aiutare le decisioni del medico e del paziente riguardo
alle cure sanitarie più adatte nelle specifiche circostanze
cliniche”». I protocolli prevedono invece «rigidi schemi di comportamento
diagnostico e terapeutico, tipici di un programma di
ricerca clinica sperimentale elaborato per assicurarne la riproducibilità
e quindi l’attendibilità scientifica». La peculiarità dei percorsi
(pathways) è la caratterizzazione delle cure in senso multidisciplinare,
mentre gli standard creano valori massimi e minimi
di riferimento (c.d. valori-soglia).
Diritto penale e processo 2/2013

denza manifesta nei confronti delle linee guida ispirate
(anche?) a criteri di spending review, ove esse
portino alla dimissione precoce del paziente non appena
si raggiunga una stabilizzazione del suo quadro
clinico, ma senza aver verificato le sue reali condizioni
di salute (14): «nel praticare la professione, il
medico deve, con scienza e coscienza, perseguire
l’unico fine della cura del malato utilizzando i presidi
diagnostici e terapeutici di cui al tempo dispone
la scienza medica, senza farsi condizionare da disposizioni
o direttive che non siano pertinenti ai compiti affidatigli
dalla legge ed alle conseguenti relative responsabilità».
Tra la tutela della salute e le logiche di economicità
gestionale, dotate oltretutto di opinabile livello
di scientificità, la Cassazione non pone alcun
bilanciamento possibile: è la prima a dover prevalere
nettamente sulle seconde in base alla gerarchia
costituzionale dei valori (15).
Merita particolare attenzione, tra le altre, una sentenza
che ha inquadrato le linee guida nell’ambito
del più generale tema del rischio consentito, cioè
del limite ontologico generale della tipicità colposa
di attività “pericolosamente lecite” perché afferenti
ad ambiti fondamentali della vita sociale. La Corte
affronta qui il tema - invero delicatissimo, perché
collegato alla responsabilità per omesso impedimento
del suicidio del paziente - delle condizioni alla cui
stregua il rischio possa essere accettato, anche nell’interesse
del medico cui sia demandato il compito
di governarlo. Secondo i giudici di legittimità, il nucleo
del problema «è la valutazione della diligenza e
del rispetto delle regole di prudenza che l’ordinamento
impone, filtrata avverso il raffronto con le
prassi virtuose, tenendo altresì conto che le linee
guida sono frutto di scelte totalmente economicistiche
e che non possono essere considerate un punto
di approdo definitivo». Difficilmente le linee guida,
in una prospettiva del genere, possono essere considerate
“approdo”, né definitivo né intermedio. Semmai
si tratta dell’esatto contrario: di disposizioni “ciniche
o pigre”, “obsolete o inefficaci” e comunque
non risolutive, se non spregiudicate. Si richiama, in
proposito, autorevole dottrina assai timorosa, a ragione,
che le prassi applicative «possano fornire cappelli
protettivi a comportamenti sciatti, disattenti:
un comportamento non è lecito perché è consentito,
ma è lecito perché è diligente» (16).
In effetti, pare che l’art. 3, comma 1, l. 189/2012, abbia
trasformato le linee guida in una sorta di limite
“negativo” della tipicità colposa: la loro inosservanza
implica (certamente?) la colpa, mentre la loro osservanza
non la esclude, fatta eccezione per i casi di
colpa lieve. Non potrebbe d’altronde essere diversa-
Giurisprudenza
Diritto penale
mente, come bene la Cassazione evidenzia nella
sentenza in commento: identificare la colpa medica
con lo scrupoloso rispetto delle linee guida significherebbe
far dipendere le sorti individuali dei malati
non più dal rapporto paziente-medico, ma da studi
compiuti su campioni di individui (17), proprio in
quanto tali dotati di valenza meramente indicativa.
Stando così le cose, sarà però indispensabile almeno
una più coerente individuazione delle loro fonti e
dei loro obiettivi, per escludere indesiderabili interferenze
tra finalità terapeutiche ed economiche:
quelle che da sempre stanno alla base della diffidenza
della Cassazione verso questa nuova specie di colpa
per imperizia.
Le argomentazioni della sentenza
in commento: le linee guida non hanno
carattere tassativo né vincolante
Secondo la pronunzia in esame, i giudici d’appello
hanno omesso di affrontare la questione cruciale
della valutazione delle linee guida, pur ampiamente
affrontata da quelli di primo grado: la Corte territo-
Diritto penale e processo 2/2013 199
Note:
(14) Ci riferiamo alla discussa Cass., Sez. IV, 23 novembre 2010,
n. 8254, Grassini, in www.penalecontemporaneo.it, 27 aprile
2011 (con nota in senso adesivo di P. Piras, La colpa medica: non
solo linee guida), su cui v. ampiamente A.R. Di Landro, Dalle linee
guida e dai protocolli, cit., 16 ss. Il caso è noto: il paziente,
dimesso nove giorni dopo l’infarto in base a linee guida che ne
prevedono la dimissione non appena si raggiunga la stabilizzazione
del quadro clinico, moriva poche ore dopo a causa di un
nuovo attacco cardiaco. Come rileva Di Landro, correttamente la
Suprema Corte richiama ad una maggiore chiarezza sulle linee
guida, relative alla patologia cardiaca, alle quali fanno riferimento
sia la difesa del medico imputato, sia la precedente sentenza assolutoria
di questi: «nulla […] si conosce dei contenuti di tali “linee
guida”, né dell’autorità dalla quale provengono, né del loro
livello di scientificità, né delle finalità che con esse si intende
perseguire, né è dato conoscere se le stesse rappresentino
un’ulteriore garanzia per il paziente ovvero, come sembra di capire
dalla lettura delle sentenze in atti, altro non siano che uno
strumento per garantire l’economicità della gestione della struttura
ospedaliera. In ogni caso, non risulta acquisito in atti alcun
documento che le riproduca». Non è quindi dato comprendere in
base a quali parametri il quadro clinico del paziente (obeso, iperteso,
ipercolesterolemico e ipertrigliceridemico) fosse da ritenersi
“stabilizzato”.
(15) Conformi Sez. IV, 18 febbraio 2010, n. 10454, in DeJure/Juris
Data (in cui si precisa che l’osservanza formale delle linee
guida non esenta da responsabilità ove sia stata omessa
l’unica scelta terapeutica - nel caso di specie, la tracheotomia -
imposta dalla gravità delle condizioni del paziente) e, di più di recente,
Sez. IV, 2 marzo 2011, n. 14526, in dejure.giuffre.it, in cui
il comportamento del ricorrente risulta pienamente colposo nonostante
la formale osservanza delle linee guida per la diagnosi
e il trattamento del trauma cranico lieve dell’adulto secondo
l’AUSL di Romagna.
(16) Il riferimento è chiaramente a M. Romano, Commentario sistematico
del codice penale, I, III ed., Milano, 2004, 461.
(17) In tal senso v. le riflessioni di M. Caputo, “Filo d’Arianna” o
“Flauto magico”?, cit.

Giurisprudenza
Diritto penale
riale si è limitata ad affermare che le guidelines assumono,
al più, il valore di mere “raccomandazioni”
non protocollari, da cui sarebbe impossibile trarre
validi argomenti per confutare la condotta di un medico
in condizioni di urgenza. A questo proposito il
Supremo Collegio rileva che, quando la Corte d’appello
ritenga di doversi discostare dalla struttura argomentativa
della decisione di primo grado, non
può limitarsi a esprimere un semplice dissenso «in
una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed argomentazioni
fra loro dissonanti».
L’immagine del montaggio di valutazioni e argomentazioni
eterogenee si presta benissimo a descrivere,
nei termini già illustrati, l’ondivaga rilevanza
delle linee guida nella valutazione complessiva della
responsabilità medico-chirurgica. Vero è che l’analisi
della giurisprudenza conferma l’indiscussa rilevanza
processuale delle linee guida come nuovo indice
“scientifico” della colpa del sanitario. Tuttavia «la
diligenza del medico non si misura esclusivamente
attraverso la pedissequa osservanza delle stesse». Le
linee guida non possono fornire indicazioni di valore
assoluto: il principio di libertà di cura, tipico dell’attività
medica, e le preoccupazioni legate al contenimento
della spesa sanitaria impongono all’interprete
di far uso del suo potere discrezionale. La Corte,
nella sentenza in esame, esclude in modo chiarissimo
deduzioni simili a presunzioni giuridiche di
colpa o di diligenza: l’adeguamento - o la “disobbedienza”
- del medico alle linee guida non esclude né
implica ipso facto la colpa. Indispensabile è quindi
una verifica parallela, da compiere se necessario tramite
perizia, della correttezza delle scelte terapeutiche
in concreto: la posizione di garanzia assunta dal
medico nei confronti del paziente gli impone, per di
più, di non rispettare disposizioni, considerazioni,
valutazioni o direttive calate dall’alto che si pongano
in qualunque modo in contrasto con le esigenze
di cura del malato.
Solo le linee guida «conformi alle regole della migliore
scienza medica» possono essere un attendibile
parametro di valutazione della condotta del sanitario,
pur tenendo presente che l’attività medico-chirurgica
è per definizione priva di protocolli scientifici
a base matematica, ponendo il medico come unico
vero arbitro - o quanto meno principale arbitro -
dell’efficacia della terapia. La libertà terapeutica del
medico è un principio non negoziabile: «è un valore
che non può essere compromesso a nessun livello né
disperso per nessuna ragione, pena la degradazione
del medico a semplice burocrate, con gravi rischi per
la salute di tutti» (18).
La sentenza annotata si occupa di una vicenda che
200
ci consente di commentare “a caldo” il disposto dell’art.
3, comma 1, l. 189/2012: abbiamo un medico
che non rispetta le linee guida, la cui condotta - in
differenti gradi di giudizio - è stata valutata in modo
diametralmente opposto. Si tratta quindi di stabilire
se, alla luce della nuova disposizione normativa, ci
sia colpa non solo “oltre”, ma anche “al di sotto”
delle linee guida. Se, nel primo caso, sembra da
escludere ogni pavloviano automatismo, in piena
coerenza con gli orientamenti della Suprema Corte,
nel secondo si paventa immediatamente il rischio
della presunzione (assoluta o relativa?) di colpa: la
libertà terapeutica del medico è posta, in ogni caso,
in seria discussione.
L’inclusione delle linee guida tra
le “discipline” di cui all’art. 43, comma 1,
terzo alinea, c.p.: l’orientamento negativo
della Cassazione e il recentissimo art. 3,
comma 1, l. 8 novembre 2012, n. 189.
La colpa “lieve” del sanitario
L’impatto con la nuova norma pone già prima facie
alcuni problemi interpretativi di rilievo. La prima
questione da risolvere riguarda il rango da attribuire
alle linee guida nella genesi della responsabilità colposa
del sanitario. Secondo la sentenza qui annotata
non siamo di fronte a un’integrazione delle “discipline”
di cui all’art. 43, comma 1, terzo alinea, c.p., sia
in ragione delle peculiarità dell’attività medica, che
sfugge a regole rigorose e predeterminate, sia in considerazione
della natura non vincolante delle guidelines.
A conclusioni diverse deve però ora giungersi
in base all’art. 3, comma 1, l. 189/2012, che ridefinisce
i contenuti normativi della colpa penale: esso è
stato a ragione definito “un art. 43-bis” a dispetto
della sua inconsueta collocazione sistematica nel decretone
sanità (19). In verità, anche prima della recente
modifica legislativa le linee guida si presentavano
ontologicamente come discipline: tali sono,
nella materia della colpa, gli atti emanati da autorità
private preposte allo svolgimento di attività pericolose.
Caratteristica di tali atti è il fatto di essere
destinati a una cerchia selezionata di destinatari,
che è ben possibile immaginare dotata di competenze
tecniche peculiari. Beninteso, l’inquadramento
delle linee guida all’interno delle discipline non implica
di per sé un irrigidimento dello spettro preventivo
delle regole cautelari invocabili nel caso con-
Note:
(18) Cass., Sez. IV, 8 febbraio 2001 (dep. 25 gennaio 2002), n.
2865, Bizzarri, in DeJure/Iuris Data.
(19) Così P. Piras, In culpa sine culpa, cit.
Diritto penale e processo 2/2013

creto: lungi dall’escludersi a vicenda, più che mai in
ambito medico colpa specifica e generica devono integrarsi
per personalizzare il rimprovero di colpevolezza,
altrimenti condannato a subire logiche ancora
affini a quella (mai del tutto superata) del versari in
re illicita. Il problema, allora, non è tanto l’inclusione
esplicita delle linee guida tra le fonti di produzione
della colpa penale del sanitario, ma il pericolo latente
di trasformare col tempo i protocolli terapeutici
in disposizioni “blindate” in bonam o in malam
partem. Certo, il recepimento espresso delle linee
guida tra le discipline potrebbe anche contribuire in
modo decisivo a sfrondare le linee guida dai noti
profili di ambiguità opportunamente segnalati dalla
Cassazione, valutando come fonti di produzione di
regole cautelari solo protocolli scientifici di alto
profilo e non anche norme dettate da esigenze di
spending review.
La seconda questione cruciale riguarda poi la portata
non chiarissima della disposizione di nuovo conio:
se il medico non valuta correttamente il caso
clinico e non si discosta dalle linee guida, la sua responsabilità
andrà esclusa se l’errore tecnico sia dovuto
a colpa lieve. La norma introduce, per la prima
volta, la distinzione - sinora inedita nel nostro ambito
penalistico - tra colpa lieve e colpa grave. Tuttavia,
in assenza di una definizione normativa della
colpa “grave” e, soprattutto, di consolidati orientamenti
ermeneutici a riguardo, è lecito domandarsi
quali saranno i criteri di identificazione di una colpa
“lieve” del sanitario.
Da qualche tempo alcuni Studiosi propongono di
delimitare la responsabilità del sanitario ai soli casi
di colpa grave, per tentare di arginare la proliferazione
incontrollata dei processi penali per colpa medica
(20). In tal senso si distingue, tra le altre, la Proposta
di riforma in materia di responsabilità penale nell’ambito
dell’attività sanitaria e gestione del contenzioso
legato al rischio clinico elaborata dal Centro studi “Federico
Stella” sulla giustizia penale e la politica criminale
(21). L’articolato della Proposta cristallizza,
all’art. 1, la nozione di trattamento medico-chirurgico
(22) e propone, all’art. 2, l’inserimento di un art.
590-ter del codice penale. La norma in questione introdurrebbe
la nuova fattispecie incriminatrice di
morte o lesioni come conseguenza dell’esercizio di
una professione sanitaria, punibile solo per colpa grave
del medico, e si caratterizzerebbe, appunto, per la
presenza, nel secondo comma, di una definizione di
colpa grave calibrata su parametri squisitamente penalistici.
Nella versione più recente dell’articolato,
la colpa sarebbe “grave” «quando l’azione o l’omissione
dell’esercente una professione sanitaria, gran-
Giurisprudenza
Diritto penale
demente inosservante di regole dell’arte, ha creato
un rischio irragionevole per la salute del paziente,
concretizzatosi nell’evento».
L’opportunità di una definizione penalistica autonoma
della colpa grave, già tracciata tra le righe della
sentenza interpretativa n. 166/1973 della Corte costituzionale
(23), nascerebbe dal carattere estremamente
problematico dell’individuazione delle “prestazioni
di speciale difficoltà” di cui si parla nell’art.
2236 c.c., specie ove si tenga conto delle interpretazioni
restrittive che di tale concetto sono state fornite
dalla giurisprudenza (24). L’attitudine della colpa
a divenire il centro di un possibile intervento riformatore
discenderebbe, per contro, dall’origine e
dal fondamento delle stesse regole cautelari della cui
violazione si discute. Esse, infatti, altro non sono
che il precipitato tecnico del bilanciamento del
«valore o l’utilità dell’attività esercitata da una parte
con il tipo e le dimensioni del possibile danno
dall’altra, con un peso decisivo assegnato al grado di
probabilità del verificarsi della lesione (e, sia pur in
parte, altresì al grado di probabilità di raggiungere lo
scopo proprio dell’attività)» (25).
Diritto penale e processo 2/2013 201
Note:
(20) Cfr. la dettagliata ricognizione di A.R. Di Landro, La colpa
medica negli Stati Uniti e in Italia. Il ruolo del diritto penale e il
confronto col sistema civile, Torino, 2009, 18 ss.
(21) L’elaborato del Progetto, nelle sue due diverse stesure, è
commentato in AA.VV., Il problema della medicina difensiva.
Una proposta di riforma in materia di responsabilità penale nell’ambito
dell’attività sanitaria e gestione del rischio clinico, a cura
di G. Forti, M. Catino, F. D’Alessandro, C. Mazzucato, G. Varraso,
Pisa, 2010.
(22) Si riporta, per comodità del lettore, il testo dell’art. 1 del Progetto:
«I trattamenti medico-chirurgici adeguati alle finalità terapeutiche
ed eseguiti secondo le regole dell’arte da un esercente
una professione medico-chirurgica o da altra persona legalmente
autorizzata allo scopo di prevenire, diagnosticare, guarire o alleviare
una malattia del corpo o della mente, non si considerano
offese all’integrità fisica». Il testo della norma non ha subito variazioni
di sorta tra la prima e la seconda stesura dell’articolato.
(23) Corte cost., 28 novembre 1973, n. 166, in www.giurcost.org.
La sentenza ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 589 e 42 del codice penale, nella parte in
cui consentono che nella valutazione della colpa professionale il
giudice attribuisca rilevanza penale soltanto a gradi di colpa di tipo
particolare.
Secondo la Consulta, «siffatta esenzione o limitazione di responsabilità
… non conduce a dover ammettere che, accanto al minimo
di perizia richiesta, basti pure un minimo di prudenza o di diligenza.
Anzi, c’è da riconoscere che, mentre nella prima l’indulgenza
del giudizio del magistrato è direttamente proporzionata alle
difficoltà del compito, per le altre due forme di colpa ogni giudizio
non può che essere improntato a criteri di normale severità».
(24) Relazione di presentazione del progetto, in AA.VV., Il problema
della medicina difensiva, cit., 76.
(25) Così G. Forti, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano,
1990, 255 ss, citato nella Relazione di presentazione del progetto,
in AA.VV., Il problema della medicina difensiva, cit., 74.

Giurisprudenza
Diritto penale
Nella materia della colpa medica, tale considerazione
condurrebbe a selezionare precipuamente i comportamenti
caratterizzati da un elevato coefficiente
di rimproverabilità, tale da far ritenere irrimediabilmente
compromessa - e, per taluni aspetti, “tradita”
- l’alleanza medico-paziente. In questa direzione, del
resto, si era già orientato il progetto Pisapia di riforma
della parte generale del codice penale, laddove si
faceva espresso riferimento ad una possibile normativizzazione,
in via generale, della colpa grave - la
Leichtfertigkeit dell’ordinamento tedesco (26) - stabilendo
che «la colpa sia grave quando, tenendo conto
della concreta situazione anche psicologica dell’agente,
sia particolarmente rilevante l’inosservanza
delle regole ovvero la pericolosità della condotta,
sempre che tali circostanze oggettive siano immediatamente
riconoscibili» (27).
Tuttavia, a parte le perplessità sull’idealtipo (troppo)
selettivo della Leichtfertigkeit, più simile al dolo
che alla colpa, una possibile definizione legislativa
di colpa grave del sanitario potrebbe risultare inopportuna
sia per i margini di identificazione con la sola
colpa cosciente del medico (28), sia per l’eccessiva
restrizione della risposta sanzionatoria (29), sia infine
perché una norma definitoria di questo tenore
non sarebbe in sé incompatibile con la successiva
creazione di autonome linee guida volte a ridefinire
i limiti tipologici di una colpa “grave” (o, per contro,
di una colpa “lieve”) (30).
Coglie poi nel segno l’opinione di chi ritiene che la
delimitazione della responsabilità penale del medico
alle ipotesi di colpa grave sia in atto discutibile, tendenzialmente
lesiva del principio di uguaglianza e,
per certi versi, poco coraggiosa: è dubbio, infatti,
«che il significato sociale dell’attività medica sia a
tal punto peculiare, rispetto ad altre, da legittimare,
in tema di responsabilità per colpa, questa sola eccezione»
(31). Con l’art. 3, comma 1, l. 189/2012 il legislatore
pilatescamente si limita in modo generico
a escludere la colpa “lieve”: la colpa “grave” del medico
- la cui determinazione sarà affidata alla prassi
applicativa - incombe come un convitato di pietra
con tutto il suo carico di perplessità, tanto più se si
pensa che essa può non essere esclusa dall’osservanza
delle linee guida.
L’osservanza delle linee guida come nuovo
limite del dovere di diligenza del medico?
Possibili scenari applicativi e prospettive
di evoluzione normativa
Non semplice, a una prima lettura della norma, è
appunto il ruolo delle linee guida nella valutazione
normativa della responsabilità. Esse, insieme alle
202
“buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”,
non escludono una colpa (grave) del sanitario
nel caso in cui il medico vi si attenga: il sanitario è
dunque in culpa sine culpa? (32) In realtà, sotto questo
punto di vista la nuova norma si pone - almeno
in astratto - in continuità rispetto all’orientamento
giurisprudenziale che attribuisce natura non vincolante
alle linee guida nella determinazione della responsabilità
medica, non escludendo il potere discrezionale
del medico nella scelta della terapia. Il
vero problema, però, nasce dall’ossimoro sopra evidenziato:
l’esercente una professione sanitaria potrà
attendibilmente considerarsi in colpa grave, nonostante
la sua condotta osservante, solo in presenza di
un caso clinico “cantato”, di solare evidenza, che
imponga al medico non di attenersi alle linee guida
bensì di discostarsene (33). È sin troppo facile immaginare
una ricostruzione giurisprudenziale della
colpa grave che, in coerenza con gli orientamenti
Note:
(26) La Leichtfertigkeit ha parecchi punti di contatto con la culpa lata
del diritto romano, avvicinandosi al dolo tanto dal punto di vista
dell’atteggiamento psicologico dell’agente che da quello del trattamento
sanzionatorio. In argomento v., per tutti, C. Roxin, Strafrecht.
Allgemeiner Teil, IV ed., München, 2006, 1077 e 1094.
(27) Così la Relazione della Commissione ministeriale per la riforma
del codice penale (c.d. Commissione Pisapia, istituita con
D.M. 31 luglio 2006), citata nella Relazione di presentazione del
progetto, in AA.VV., Il problema della medicina difensiva, cit.,
pag. 79 e nt. 24: «in proposito si è constatato come la colpa cosciente
(o con previsione) non rappresenta necessariamente
una forma più grave di colpa, potendo la colpa incosciente risultare,
a seconda delle circostanze, comparativamente più grave
della colpa cosciente (è ben plausibile infatti considerare il fatto
di chi, per sconsideratezza, negligenza o indifferenza, ignora le
più elementari cautele in una situazione di evidente pericolosità,
rispetto a quello di chi si rappresenta una remota possibilità di
verificazione dell’evento lesivo). Si è dunque incentrato il nucleo
di maggiore gravità della colpa nella “particolare rilevanza” dell’inosservanza
delle regole cautelari o della pericolosità della
condotta (sul presupposto di una sua misurabilità): dati che, nella
loro evidenza, si sono riflessi nella sfera dell’agente e che, comunque,
costui avrebbe dovuto agevolmente percepire, sicché
è elevato anche il loro grado di colpevolezza».
(28) Così S. Canestrari, in Tavola rotonda di presentazione e discussione
del Progetto, in AA.VV., Il problema della medicina difensiva,
cit., 143.
(29) F. Giunta, in Tavola rotonda di presentazione e discussione
del Progetto, in AA.VV., Il problema della medicina difensiva, cit.,
155-156.
(30) C.E. Paliero, in Tavola rotonda di presentazione e discussione
del Progetto, in AA.VV., Il problema della medicina difensiva,
cit., 142. Sui perduranti problemi di determinatezza di una definizione
normativa di colpa grave v. Fiandaca, in Tavola rotonda,
cit., 134.
(31) Così, testualmente, M. Romano, in Tavola rotonda di presentazione
e discussione del Progetto, in AA.VV., Il problema
della medicina difensiva, cit., 123.
(32) P. Piras, loc. ult. cit.
(33) Così ancora P. Piras, loc. ult. cit.
Diritto penale e processo 2/2013

della dottrina prima illustrati, si identifichi con la
violazione macroscopica delle regole elementari dell’arte
medica: una condotta in sé incompatibile con
lo scrupoloso rispetto di norme cautelari specialistiche
quali i protocolli terapeutici!
Un’ulteriore perplessità sorge spontanea: la delimitazione
della rilevanza ai casi di colpa “non lieve”
non può che riguardare, nell’ottica della disposizione,
le ipotesi di colpa per imperizia. Per i casi di negligenza
e imprudenza del medico, in assenza di statuizioni
di riferimento, dovrebbero dunque valere i
principi generali in materia di colpa, con prevedibile
confluenza del contenzioso giudiziario prossimo
venturo verso le due qualifiche normative non soggette
al limite della colpa grave. Sotto questo punto
di vista, è lecito allora ipotizzare per la disposizione
di nuovo conio esiti applicativi relativamente modesti
(34).
Un’ultima questione merita un cenno, in attesa dei
primi fondamentali riscontri giurisprudenziali. Non
è chiaro, infatti, come debba per l’avvenire qualificarsi
la condotta del medico che non abbia osservato
le linee guida, discostandosene - come nel caso
oggetto della sentenza qui annotata - per ragioni di
urgenza o per una precisa scelta clinica, che d’ora in
poi appare in verità abbastanza improbabile. In base
a una prima lettura della norma, sembra che l’operato
del medico che abbia ignorato le linee guida sia
per ciò solo colposo: in culpa sine linea guida? La nuova
norma qualifica l’osservanza delle linee guida come
nuovo limite della tipicità colposa dell’attività
medico-chirurgica: il rischio della presunzione di
colpa (grave) del medico “disobbediente” è dietro
l’angolo, con evidente pregiudizio del principio di libertà
terapeutica giustamente valorizzato dalla migliore
giurisprudenza di legittimità.
Più che mai necessario è allora qualificare fonti e
obiettivi delle linee guida nell’attività medico-chirurgica,
per evitare che in futuro esse possano diventare
abile strumento di medicina difensiva legittimando
ex post condotte mediche diligenti eppure
superficiali o criminalizzando ex ante, per contro,
condotte inosservanti eppure diligenti (35).
In materia di responsabilità medica, il nostro Paese
sembra avviato a battere un duplice primato, non
solo statistico: da un lato, quello relativo alla malasanità
e agli errori medici; dall’altro quello dei procedimenti
penali e civili per colpa medica. Dal punto
di vista civilistico, l’attività medica tende sempre
più spesso ad esser vista come obbligazione di risultato
e non di mezzi; da quello penalistico, invece, la
proliferazione di errori sistemici e di obblighi di controllo
sull’altrui operato, insieme al tentativo di pro-
Giurisprudenza
Diritto penale
cedimentalizzare le regole cautelari imbrigliandole
in protocolli di natura non sempre limpida, hanno
comportato una sorta di iper-responsabilizzazione
della classe medica. Le cause di questo fenomeno,
come è stato acutamente sottolineato, vanno rintracciate
anche nella «trepida aspettativa della società
(iper-medicalizzata, o dis-umanizzata?) nei confronti
del progresso biomedico, il quale alimenta
sempre nuove attese, di carattere a volte “miracolistico”»
(36): sorge quindi la necessità di contemperare
le istanze di giustizia col sereno svolgimento
della professione medica.
Certo è che al giudice non può essere affidato un
compito di «profilassi di gravi fenomeni degenerativi»
(37): la colpa medica richiede un’actio finium regundorum
per arginare l’invadenza dello strumento
penale. Le perplessità riguardano, tuttavia, il modo
dell’argine: linee guida e colpa grave del medico, in
assenza di ulteriori e fondamentali interventi legislativi,
rischiano di “semplificare” eccessivamente -
in un senso o in un altro - l’accertamento della responsabilità,
senza peraltro arginare a monte il rischio
dell’instaurazione di processi penali tendenzialmente
evitabili e spesso destinati a prescrizione
(come nel caso affrontato dalla pronuncia in commento).
Una via più praticabile, invece, è quella della ricerca
di strumenti extrapenali di gestione e composizione
dell’errore medico, con ampi spazi per l’istituzionalizzazione
di forme di giustizia mediativa e riparativa
(38), come ad es. prospettato dagli artt. 5, 6, 7 e
8 della Proposta sopra illustrata. L’applicazione dei
cardini della restorative justice al vasto ambito della
responsabilità medica, individuale e di équipe, potrebbe
«col tempo assumere nel nostro sistema una
portata culturale dirompente» (39): l’inefficienza
Diritto penale e processo 2/2013 203
Note:
(34) Sempre P. Piras, loc. ult. cit.
(35) P. Piras, loc. ult. cit.: «l’evidente sforzo legislativo di dare un
parametro più certo nell’accertamento della colpa, deve essere
completato indicando in altra fonte quali linee guida valgano allo
scopo. Una via potrebbe essere quella del recepimento di tali linee
guida nei decreti del Ministero della Salute, che è attività
normativa che già per altri versi avviene».
(36) A.R. Di Landro, La colpa medica negli Stati Uniti e in Italia,
cit., 8.
(37) G. Fiandaca, La legalità penale negli equilibri del sistema politico-costituzionale,
in Foro it., 2000, 143.
(38) In argomento, v. tra gli altri G. Mannozzi, La giustizia senza
spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione
penale, Milano, 2003.
(39) M. Romano, in Tavola rotonda di presentazione e discussione
del Progetto, in AA.VV., Il problema della medicina difensiva,
cit., 125.

Giurisprudenza
Diritto penale
dimostrata, nella materia de qua, dalla giustizia penale
tradizionale giustificherebbe di per sé sola, oltretutto,
la creazione di “meticciati” processuali postmoderni
(40). Sono senz’altro da valutare in modo
positivo, allora, la ventilata istituzione di una Commissione
per la giustizia riparativa presso ogni distretto
di Corte d’appello e, soprattutto, la scelta di
non limitare la “riparazione” al solo risarcimento del
danno nei confronti della vittima, per non esaurire
la vicenda di malpractice in un semplice rapporto privatistico
conservando il senso di una disapprovazione
dai riflessi pubblici (41). Tale soluzione, sull’onda
di un approccio “sociologico” al tema della responsabilità
medica, rifletterebbe l’importante consapevolezza
dell’impossibilità (sopravvenuta) di considerare
isolatamente il problema della responsabilità
del personale sanitario: esso deve invece oggi essere
inserito in una prospettiva d’intervento ben più ampia,
«che rimanda al complessivo assetto organizzativo
gestionale del rischio clinico all’interno delle
strutture sanitarie» (42).
Non è comunque auspicabile de iure condendo, né
tanto meno desiderabile dal punto di vista esisten-
204
ziale, una standardizzazione della medicina in protocolli
calati dall’alto, che si occupino della malattia e
non del malato, della cura e non delle capacità individuali
di chi cura: sotto questo punto di vista, le lucide
parole della Cassazione sull’umanità del medico
e del paziente sono rimaste inascoltate.
Note:
(40) G. Fiandaca, in Tavola rotonda di presentazione e discussione
del Progetto, in AA.VV., Il problema della medicina difensiva,
cit., 132.
(41) Ancora M. Romano, in Tavola rotonda di presentazione e discussione
del Progetto, in AA.VV., Il problema della medicina difensiva,
cit., 125. «Informati a tale criterio, del resto, sono i rapporti
tra la querela, l’apertura della fase di riparazione e l’eventuale
successiva remissione e relativa accettazione: remissione
che può essere ma anche non essere lo sbocco del programma
riparativo. Decisiva, infine, è la sottolineatura del ruolo delle attività
conformative, con l’impegno da parte del sanitario a intraprendere
condotte correttive e il contributo al miglioramento della
gestione del rischio clinico per l’avvenire».
(42) G. Fiandaca, in Tavola rotonda di presentazione e discussione
del Progetto, in AA.VV., Il problema della medicina difensiva,
cit., 132.
Diritto penale e processo 2/2013

Giudizio
Regola del B.A.R.D.
nel giudizio d’appello
e riforma «contra reum»
della sentenza assolutoria
Il commento
di Alessio Scarcella (*)
Giurisprudenza
Procedura penale
Cassazione penale, Sez. VI, 9 febbraio 2012 (u.p. 26 ottobre 2011), n. 4996, Pres. Agrò - Ric. A. e altro
È illegittima la sentenza d’appello che, in riforma di quella assolutoria, condanni l’imputato sulla base di una alternativa,
e non maggiormente persuasiva, interpretazione del medesimo compendio probatorio utilizzato nel primo
grado di giudizio, in quanto tale inidonea a far cadere ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato.
@Il testo integrale della sentenza è disponibile su: www.ipsoa.it\dirittopenaleeprocesso
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Cass., Sez. VI, 3 novembre 2011, n. 40159, G., in Ced Cass. 251066.
Difformi Cass., Sez. I, 3 marzo 2010, n. 17921, G., in Ced Cass. 247449; Sez. IV, 12 novembre 2009, n. 48320,
D., ivi, 245879; Sez. I, 8 maggio 2009, n. 23813, P.G. in proc. M., ivi, 243801; Sez. I, 21 maggio 2008,
n. 31456, F., in Cass. pen. 2009, II, 1840; Sez. II, 2 aprile 2008, n. 16357, C., in Ced Cass. 239795; Sez.
I, 28 giugno 2006, n. 30402, V., in questa Rivista 2007, 927; Sez. I, 11 maggio 2006, n. 20371, G. e
altro, in Ced Cass. 234111; Sez. II, 21 aprile 2006, n. 19575, S. e altro, ivi, 233785.
La Sesta Sezione penale della Corte di cassazione si occupa, con la sentenza in commento, di una questione
non ancora abbastanza approfondita nella giurisprudenza di legittimità in quanto sostanzialmente nuova nel panorama
esegetico. Il tema è quello della valutazione della regola del B.a.r.d. (Beyond Any Reasonable Doubt),
oggi fissata dall’art. 533, comma 1, c.p.p., nel giudizio d’appello. Qual è, infatti, il “metro” di giudizio che dev’essere
utilizzato dal giudice di secondo grado che si trovi di fronte ad una sentenza assolutoria? Quali sono i
parametri valutativi cui il giudice d’appello deve richiamarsi ove, a seguito di impugnazione del P.M., quegli stessi
elementi probatori che hanno condotto all’esito assolutorio del giudizio abbiano, diversamente, l’opposta capacità
dimostrativa della reità dell’imputato? La questione non è di poco conto, soprattutto laddove si consideri
che mentre la condanna deve presupporre la certezza della colpevolezza, l’assoluzione non presuppone la
certezza dell’innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza. Nel fornire una risposta al quesito, la Corte
afferma un principio certamente condivisibile, precisando che, per la riforma di una decisione assolutoria non
è sufficiente una diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata
dal primo giudice, ma occorre che la sentenza di appello abbia una forza persuasiva superiore, tale da far
cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. Ne consegue,
pertanto, che ove quest’ultima si riveli inidonea a far cadere ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato,
s’impone l’annullamento senza rinvio della decisione di condanna per insussistenza del fatto.
Note:
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee.
Diritto penale e processo 2/2013 205

Giurisprudenza
Procedura penale
La regola del B.A.R.D. nel giudizio penale:
evoluzione storico-normativa
Secondo una corrente di pensiero - che attraversa
classici e moderni - gli esiti di colpevolezza del processo
penale sono affetti da insanabile relatività, come
tali meritevoli di tendenziale sfiducia e predisposti
ad essere oggetto di critica e di revisione. Sfiducia
che, secondo questa lettura, dipenderebbe dal quantum
probatorio occorrente per una pronuncia di condanna,
ovvero dalla previsione di criteri razionali deboli
per la sua giustificazione. In particolare gli artt.
530, comma 2, c.p.p. (che stabilisce l’assoluzione
«quando la prova è insufficiente o contraddittoria»,
facendo dunque intendere che basti una prova meramente
sufficiente e non contraddittoria a condannare)
e 546, lett. e) c.p.p. (da cui si evince che il giudice
può condannare anche in presenza di prove contrarie
ritenute inattendibili) starebbero a testimoniare
l’ontologica fallibilità delle decisioni processuali,
affidate al libero convincimento del giudice (art. 192
c.p.p.). In tempi più recenti un argine a tale rischio
sarebbe stato posto dalla espansione della c.d. prova
scientifica, che nella prassi, però, piuttosto che risolvere
l’incertezza la alimenta, per il cattivo uso che ne
viene fatto. Peraltro la prova scientifica è la tecnica
dell’accertamento penale, mentre ad essere in discussione
è il modello epistemologico. L’impostazione relativista
sconta lo stesso equivoco da cui intende
prendere le distanze: che la conoscenza delle azioni
umane sia connotata dalla certezza. In tal senso il vigente
codice di procedura penale smantella la finzione,
delineando il percorso più accettabile per risolvere
il dilemma della colpevolezza. Già sul finire del novecento
la dottrina più attenta si richiamava all’ordinamento
statunitense (dove, come è noto, taluni ordinamenti
federati prevedono la pena di morte e,
dunque, la parola fine al dilemma) (1). In quel sistema,
da almeno due secoli, il giudizio sulla responsabilità
penale è espresso in maniera assai efficace nella
formula «colpevole oltre ogni ragionevole dubbio»;
dunque, può essere ritenuto colpevole (e finanche subire
la pena di morte) colui a carico del quale residuino
dubbi, purché si tratti di dubbi non ragionevoli
(2). Il dubbio, oltre ad essere insito in ogni procedura
psicologica di decisione, è nel processo penale un
quid di inevitabile ed anzi imposto: ogniqualvolta il
decidente non partecipa al fatto che deve giudicare
non potrà esibire certezza; tuttavia, se vi partecipasse,
non potrebbe giudicarlo. Egli, proprio perché giudice,
deve essere in una posizione di dubbio razionale. Tutto
quello che occorre capire è, allora, quando il dubbio
che accompagnerà o potrebbe accompagnare il
206
giudice alla fine del processo sia non ragionevole.
L’art. 5 della l. n. 46 del 2006 ha sostituito il comma
1 dell’art. 533 c.p.p., il quale oggi recita: «Il giudice
pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta
colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole
dubbio. Con la sentenza il giudice applica
la pena e le eventuali misure di sicurezza». La norma
processuale ricalca fedelmente la formula anglosassone,
riassunta nel noto acronimo B.A.R.D. (Beyond
Any Reasonable Doubt), il che suggerisce per la sua
comprensione di fare riferimento ai Paesi che la utilizzano.
Nella giurisprudenza della Corte Suprema
degli U.S.A. la ratio del principio è incontroversa, e
rappresenta l’altra faccia della presunzione di innocenza:
al riconoscimento dell’enorme portata dei valori
messi in gioco nel diritto penale (da cui la celebre
affermazione che è molto peggio condannare un
innocente che lasciare libero un colpevole) (3) ed al
rischio di errore giudiziario, fa da corollario l’asserzione
che nel processo penale deve operare la regola «al
di là del ragionevole dubbio» (4). Regola dimostrata
Note:
(1) Nella dottrina anglosassone: cfr. L.J. Cohen, The probable and
the provable, Oxford 1977, 83, 272; D.A. Schum, Evidential foundations
of probabilistic reasoning, New York 1994, p. 131; Whitman,
The Origins of Reasonable Doubt, Yale University Press
New Haven & London, Orwigsburg 2008; B.J. Shapiro, Beyond
reasonable doubt and probable cause: historical perspectives on
the anglo-american law of evidence, Berkeley 1991, 7.
(2) I più significativi riferimenti giurisprudenziali e normativi nel sistema
processuale nordamericano sono, da un lato, la storica
sentenza della Corte Suprema in re Winship del 1970 (397 U.S.
358) e, dall’altro, l’art. 1096 del codice penale della California, che
definisce ragionevole dubbio «quella situazione che, dopo tutte le
comparazioni e considerazioni delle prove, lascia le menti dei giudici
nella condizione in cui non possono dire di provare una incrollabile
convinzione nella verità dell’accusa» (v. Dershowitz,
Dubbi ragionevoli. Il sistema della giustizia penale e il caso O.J.
Simpson, ed. it., Milano 2007, 63). La regola presenta in quel sistema
una duplice valenza, oggettiva (tesa a favorire la legittimazione
del potere giudiziario innanzi alla collettività, la quale in tal
modo riconosce come “giuste” le sentenze penali di condanna)
e soggettiva (in quanto si salda con la presunzione d’innocenza,
ritenuta conseguenza automatica e ineludibile del due process of
law) (Conti, Al di là del ragionevole dubbio, in Scalfati, Novità su
impugnazioni penali e regole di giudizio, Milano 2006, 88).
(3) Sentenza Winship, 1970. Il processo penale costituisce di per
sé un’aggressione dei diritti individuali (il nome, la reputazione, la
libertà, la serenità dell’esistenza quotidiana), che una società civile
accetta solo se esso garantisce che nessun innocente possa
essere condannato, il che implica la possibilità che un colpevole
possa essere assolto. In questa prospettiva la regola b.a.r.d.
costituisce un contrappeso al potere statuale di dare attuazione
al precetto penale, accusando un soggetto di averlo trasgredito.
L’origine della frase risale quanto meno all’epoca romana. Nelle
fonti di common law, peraltro, la proporzione è variabile (ora cinque,
ora, dieci, ora venti colpevoli).
(4) Diversamente dal processo civile, dove vale la regola del “più
probabile che non”. La ragione della differenza è scolpita nell’interpretazione,
ormai consolidata della giurisprudenza, secondo
(segue)
Diritto penale e processo 2/2013

anche in sede di analisi scientifica, dalle teorie che
applicano metodi matematici alle discipline sociali
(5). La giurisprudenza successiva a Winship, oltre a
riaffermare il rapporto strettissimo tra valori in gioco
e rischio di errore da un lato e regola b.a.r.d. dall’altro
(6), si è concentrata sull’identificazione della
prova necessaria per condannare, che deve riferirsi a
tutti gli elementi rilevanti per la responsabilità penale
(7). Le difficoltà sono sorte nell’individuare l’esatta
portata del paradigma b.a.r.d - cioè il rischio “irragionevole”
-, che è irriducibile a una definizione sintetica,
sia dal punto di vista quantitativo, che qualitativo.
Sotto la prima angolazione, rapidamente superate le
opinioni che pretendevano di fissarla in una scala da
zero a dieci su livelli di probabilità algebrica, la giurisprudenza
delle Corti inferiori ha ritenuto di poter
fissare lo standard richiesto dal B.A.R.D. in una probabilità
convenzionale prossima al 100%, ma la
Corte Suprema ha respinto questo criterio, sulla base
dei rilievi di un matematico, Laurence Tribe, in
particolare di quello per cui il rischio di condanna di
un innocente non può essere accettabile a nessun livello
di quantificazione statistica (una percentuale
apparentemente molto elevata di prova, come il
95%, implicherebbe che in un caso su venti venga
condannato un innocente) (8). Sotto la seconda angolazione
possono dirsi falliti i tentativi di identificare
il concetto di “dubbio ragionevole” in quello di
«grave», «serio», «sostanziale», tutte espressioni che
alterano il significato razionale della formula, il cui
senso è quello di dover prosciogliere l’imputato
quando il giudizio sulla prova lasci aperta una plausibile
alternativa alla tesi dell’accusa. La definizione
comunemente accolta nel sistema U.S.A. è efficacemente
descritta nel caso Simpson (che si rifà al paragrafo
1096 del Codice penale della California), laddove
nelle istruzioni alla giuria si dice che «il ragionevole
dubbio non è un mero dubbio possibile, perché
qualsiasi cosa si riferisca agli affari umani è aperta
a qualche dubbio possibile o immaginario. È quella
situazione che, dopo tutte le considerazioni, dopo
tutti i rapporti sulle prove, lascia la mente dei giurati
nella condizione in cui non possono dire di provare
una convinzione incrollabile sulla verità dell’accusa».
Tuttavia, chi abbia l’ambizione di studiare il
sistema penale anche alla luce del principio b.a.r.d.
quale regola di implementazione delle categorie logico-scientifiche
nel diritto sostanziale non può accontentarsi
di tale definizione. Il problema sarà pertanto
ripreso dopo aver delineato il cammino che il
b.a.r.d. ha percorso nel nostro ordinamento. Tale
principio, infatti, non è estraneo alla nostra tradizio-
Giurisprudenza
Procedura penale
ne giuridica. Carrara, massimo esponente della
Scuola classica, si proponeva, attraverso una visione
Diritto penale e processo 2/2013 207
Note:
(continua nota 4)
cui «in una causa civile tra due parti, per motivi di risarcimento
monetario del danno, una sentenza errata a favore del convenuto
non ci sembra che sia più grave di una sentenza errata a favore
dell’attore, perciò la formula della preponderanza dell’evidenza
sembra particolarmente adatta perché […] richiede semplicemente
che il giudice sia convinto che l’esistenza di un fatto sia
più probabile della sua non esistenza. In un caso penale, invece,
la regola della prova “al di là del ragionevole dubbio” è radicata
nel profondo di una determinazione fondamentale di valore della
nostra società, per la quale è molto peggio condannare un innocente
che lasciare libero il colpevole». Ancor più chiaramente:
«lo standard della prova influenza la frequenza relativa dei due tipi
di risultato erroneo: se, per esempio, lo standard della prova in
un processo penale fosse la preponderanza dell’evidenza, invece
della prova “al di là del ragionevole dubbio”, ci sarebbe un rischio
minore di errori nell’assoluzione del colpevole, ma un rischio
molto più elevato di condanna degli innocenti. Poiché lo
standard della prova incide sulla frequenza con cui si verificano
queste due possibilità di errore, la scelta del tipo di prova da applicare,
in un particolare tipo di causa, dovrebbe, in un mondo razionale,
riflettere una valutazione di disutilità sociale comparata
di ognuna delle due erronee possibilità. La verità è che il giusto
processo richiede, per le cause penali, come espressione di una
fondamentale equità, uno standard di prova più rigoroso di quello
delle cause civili» (v., per tutte: Cass. civ., Sez. III, 16 ottobre
2007, n. 21619, C. c/ P. ed altri, in Corr. Giur. 2008, 35 con nota
di Bona Causalità civile: il decalogo della Cassazione a due “dimensioni
di analisi” ed in Danno e resp. 2008, 43; v., nella giurisprudenza
più recente: Cass. civ., Sez. III, 26 luglio 2012, n.
13214, T. ed altro c. B. S.p.a., in Ced Cass. 623565).
(5) È il caso della teoria di Rawls delle decisioni in condizioni d’incertezza
(Introvigne, I due principi di giustizia nella teoria di
Rawls, Milano 1983), che ha elaborato il principio maximin (detto
del maximum minimorum o miglioramento della situazione
peggiore), per il quale le decisioni che riguardano la collettività
devono sempre tener conto della gravità delle conseguenze: se
la probabilità del verificarsi di un evento è molto bassa, ma le
conseguenze sono gravi, la decisione deve essere di rifiuto del
rischio del verificarsi dell’evento. Più precisamente si deve seguire
«la regola che ci dice di classificare le alternative secondo
il peggior risultato possibile, e decidere sulla base dell’alternativa
il cui peggior risultato è superiore ai peggiori risultati delle altre».
(6) Tra le tante Albright v. Oliver, 1994; Victor v. Nebraska, 1994;
Spencer v. Kemna, 1998 con riferimento ai valori in gioco nel
processo penale (identificati anche nella libertà di pianificazione
delle scelte future e di condurre l’esistenza più confacente, nonché,
soprattutto, nella dignità di essere umano); Hankerson v.
North Carolina, 1977; Addington v. Texas, 1979; Arizona v. Fulminante,
1991 con riferimento alla gravità del rischio di errore
nel processo penale.
(7) Pacifico che la regola concerne tutti gli elementi essenziali
del reato, la Corte Suprema l’ha applicata anche alla scriminanti
(Moran v. Ohio, 1984) ed agli elementi che influiscono sulla pena
(Almendarez-Torres v. U.S, 1998; Jones v. United States,
1999), superando la distinzione tra responsabilità e pena, altrimenti
una scelta discrezionale del legislatore nella qualificazione
dei fatti che incidono sulla punibilità rischierebbe di eludere l’applicazione
del principio. Tale evoluzione ha portato sotto la regola
b.a.r.d. anche le circostanze (Apprendi v. New Jersey, 530
U.S. 466 2000).
(8) I saperi del giudice: la causalità e il ragionevole dubbio, a cura di
F. Stella, saggi di F. Stella, R. W. Wright, L. H. Tribe, Milano 2004.

Giurisprudenza
Procedura penale
ideale, che la presunzione di innocenza fosse implicita
nella scienza penale. La tesi di Carrara fu seguita
da altri autori della Scuola classica, in particolare
Lucchini (9), il quale richiama esplicitamente il
principio in dubio pro reo come regola di giudizio. Il
pensiero liberale venne preservato anche durante il
periodo autoritario (10) e, con il passaggio alla Repubblica
democratica, fu cristallizzato nell’enunciazione
di cui all’art. 27, comma 2, Cost. («L’imputato
non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva»)
(11). C’è chi ha tratto dal testo - che fissa
la presunzione di non colpevolezza - un segno di prudenza
del Costituente nell’affermare il primato della
libertà sulle esigenze della repressione, come sarebbe
dimostrato dalla diversa locuzione impiegata nell’art.
6, comma 2, Conv. eur. dir. umani («Ogni persona
accusata di un reato è presunta innocente fino
a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente
accertata»). La tesi non persuade, perché sul piano
concettuale non colpevolezza equivale ad innocenza.
Anzi, per il contesto in cui il principio si inserisce,
che è quello dell’imputato sottoposto a giudizio,
cioè ad un’accusa di reità rispetto alla quale
deve essere stabilito se è colpevole o meno, la disposizione
costituzionale appare più precisa. D’altra parte
la stessa formula «oltre ogni ragionevole dubbio»
è logicamente strutturata sulla colpevolezza, non già
sull’innocenza. L’elaborazione dottrinale del principio
di non colpevolezza inizia tardi, ma approda ben
presto a coglierne non solo e non tanto la valenza di
regola del trattamento della libertà dell’imputato,
quanto quella di regola probatoria e di giudizio (12).
A partire dall’entrata in vigore del nuovo codice di
procedura penale in dottrina si consolida (13) l’idea
che la presunzione di non colpevolezza si traduca
nella regola secondo cui la responsabilità dell’imputato
debba essere provata «al di là di ogni ragionevole
dubbio», benché tale regola non sia esplicata
nel codice. A tale momento storico appartiene la ratifica,
avvenuta con la l. n. 232 del 1999, dello Statuto
istitutivo della Corte penale internazionale, il
cui art. 66, oltre a fissare la presunzione di innocenza
e porre l’onere della prova a carico dell’accusa,
stabilisce che «per condannare l’imputato la Corte
deve accertarne la colpevolezza oltre ogni ragionevole
dubbio» (14). Al B.A.R.D. non possono dirsi
estranei neppure i principi sul giusto processo, pure
Note:
(9) Ad avviso del quale un ordinamento che non consideri prioritario
l’obiettivo della protezione dell’innocente è antigiuridico,
nonché antisociale e incivile. Questo pensiero forte, come viene
denominato, permette di definire la protezione dell’innocente
«fondamento granitico, elementare ed assiomatico» di una so-
208
cietà di uomini liberi, perché fa tornare alla ragion d’essere del
processo: privando una società della protezione dell’innocente
vengono a mancare rispetto e fiducia della comunità nella legge
penale, perdendosi quindi le funzioni di uno stato liberale (Lucchini,
Elementi di procedura penale, 2ª ed., G. Barbera, 1899, 15).
(10) Carnelutti riprende il principio in dubio pro reo, esaltandone
non solo la valenza garantistica, ma anche la funzione ordinatrice
della società. L’Autore considera inevitabile l’errore giudiziario,
e ciò anche quando il processo si concluda con l’assoluzione,
giacché è nel suo stesso sorgere che si materializza un’accusa
nei confronti dell’innocente: «in altre parole l’accertamento
negativo del reato è la constatazione ufficiale della fallibilità del
processo penale e perciò lo scarto tra il suo risultato ed il suo
scopo» (Carnelutti, Prove civili e prove penali, in Studi di diritto
processuale, Cedam, 1925, p. 212). Saraceno vede nella presunzione
di innocenza il riflesso processuale del principio nullum
crimen sine culpa, e in taluni passaggi le sue riflessioni anticipano
la regola b.a.r.d.: «fra le due possibilità di errore giudiziario -
assoluzione di un reo, condanna di un innocente - lo Stato preferisce
la prima. E questa preferenza è tale che prevale anche se
fra le due ipotesi, reità e innocenza, la prima appare più probabile
della seconda»; «la protezione degli interessi dell’innocente
trova un limite nella certezza del giudicante sulla reità dell’imputato.
Ciò non significa che entro questo limite il rischio della condanna
di un innocente sia completamente evitato; ma che al di
là di questo limite il prezzo per evitarlo sarebbe sproporzionato e
insopportabile per il bene della società. […] Lo Stato fa tutto
quanto può fare per restringere il rischio, allorché pone come
presupposto della condanna non già una semplice opinione di
probabilità, ma la certezza sulla reità» (Saraceno, La decisione
sul fatto incerto nel processo penale, Cedam, 1940, 332).
(11) Sull’evoluzione storica del principio dell’ogni oltre ragionevole
dubbio nell’esperienza italiana, si rinvia al contributo di Pisani
Riflessioni sul tema del “ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir.
e proc. pen. 2007, 1243. Nel senso che l’art. 27, comma 2, Cost.
assegna all’imputato una posizione di vantaggio, in quanto mentre
al pubblico ministero spetta l’onere di provare con elevata
probabilità logica gli elementi costitutivi del reato, alla persona
accusata basta insinuare il dubbio circa l’effettiva esistenza degli
stessi per andare assolto, sicché dal principio costituzionale si
giunge alle regole processuali coniate negli artt. 530, comma 2,
e 533 c.p.p., imponendo, per la condanna, una ricostruzione
“fermamente credibile” dell’ipotesi accusatoria: V. Garofoli, Dalla
non considerazione di colpevolezza alla regola dell’oltre il ragionevole
dubbio, in questa Rivista 2010, 1029.
(12) Così Pisani (Sulla presunzione di non colpevolezza, in Foro
pen. 1965), secondo cui «per giungere alla condanna occorre
provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, il contrario di quanto
è garantito dalla presunzione costituzionale, la quale pertanto
impone, anzi sollecita, un bisogno di certezza»; ancora, Illuminati
(La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, 1979,
80), secondo cui «la presunzione d’innocenza come regola di
giudizio va […] collegata alla struttura del processo e, in particolare,
alla tecnica di accertamento del fatto. La sua completa realizzazione
imporrebbe un sistema di tipo accusatorio, nel quale
sia escluso che l’imputato debba dimostrare la propria innocenza,
essendo l’organo dell’accusa tenuto a fornire la piena prova
della colpevolezza. In caso di dubbio il giudice potrà solo prosciogliere,
senza che a carico del prosciolto residuino conseguenze
negative di alcun genere».
(13) V., tra le più autorevoli voci dottrinarie: Amodio, Commentario
del nuovo codice di procedura penale, Milano, 1989; Malinverni,
Il nuovo processo penale, in Giust. Pen. 1992; Paulesu,
Presunzione di non colpevolezza, in Digesto disc. pen., vol. IX,
Torino 1995.
(14) L. 12 luglio 1999, n. 232, recante Ratifica ed esecuzione dello
statuto istitutivo della Corte penale internazionale, con atto finale
ed allegati, adottato dalla Conferenza diplomatica delle Nazioni
Unite a Roma il 17 luglio 1998 (G.U. n. 167 del 19 luglio
1999, S.O. n. 135).
Diritto penale e processo 2/2013

enunciati nel predetto Statuto, in particolare all’art.
67, secondo cui l’imputato ha, fra l’altro, diritto a
«non essere costretto a testimoniare contro se stesso
o a confessare la propria colpevolezza, e a rimanere
in silenzio, senza che il silenzio venga valutato nel
determinare la colpevolezza o l’innocenza», nonché
il diritto a «non subire l’imposizione dell’inversione
dell’onere della prova o dell’onere della confutazione
della prova». A tale riguardo ancora più significativi
i dettami introdotti nell’art. 111 Cost. ad opera
della l. cost. n. 2 del 1999, ed i corollari applicativi
che la stessa disposizione esplicita, con particolare
riferimento al principio del contraddittorio (15).
La norma accredita l’equazione giustizia = verità, sia
sul piano testuale (16), sia su quello sistematico
(17). È proprio sul piano del rapporto con il concetto
di verità che si coglie l’essenza del principio
B.A.R.D., come regola di giudizio del sistema penale
(18). Premesso che tale concetto è diversamente
articolato con riferimento al diritto e al fatto, non
appare sostenibile che il processo possa prescinderne,
accontentandosi di quella che è denominata
“verità formale” (19). La certezza del diritto, in specie
quella del diritto penale, non è compatibile con
una dimensione puramente estetica della verità,
quale è la verosimiglianza, o con una visione meramente
formale, quale è la conformità alle regole.
Ciò che il processo ricerca non è la verosimiglianza,
ma è la verità. Solo che tra il fatto e la sua conoscenza
c’è sempre uno scarto. Il processo intende eliminare
quello scarto, riducendolo alla pura differenza
di nozione tra la realtà e la sua conoscenza (20).
La regola del B.A.R.D. nel giudizio penale:
evoluzione giurisprudenziale
Già nel 2000 la Suprema Corte, nell’affrontare il tema
della prova del nesso di causalità nei reati omissivi
aveva sancito la regola in base a cui le leggi di
copertura della relazione causale devono possedere
un valore percentuale vicino a cento (21), rafforzando
poi tale intendimento con l’affermazione che
un margine di dubbio anche minimo, nella percentuale
del dieci per cento, implica giocoforza l’assoluzione
dell’imputato (22). Pietra miliare nella giurisprudenza
di legittimità sul tema è, però, senza alcun
dubbio, la celeberrima sentenza delle Sezioni Unite
Franzese (23) secondo cui l’insufficienza, la contraddittorietà
e l’incertezza del nesso causale tra condot-
Note:
(15) L. cost. 23 novembre 1999, n. 2, recante Inserimento dei
principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione
(in G.U. n. 300 del 23 dicembre 1999).
Giurisprudenza
Procedura penale
(16) “Giusto” è, per comune accezione, ciò che risponde a verità
In tal senso la scelta lessicale del legislatore costituzionale nazionale
appare più avanzata della fonte europea, dove il processo
viene denominato “equo”.
(17) Le disposizioni concernenti il processo penale sono volte a
favorire l’emersione della verità attraverso un meccanismo virtuoso:
il rafforzamento delle garanzie - formali e sostanziali - della
difesa, da un lato, impedisce all’accusa di scaricare il costo
della propria inefficienza sull’imputato, dall’altro la obbliga (assai
più della generica norma relativa alla fase delle indagini preliminari)
a valutare anche le alternative favorevoli alla difesa, essendo
altrimenti la sua tesi destinata a franare nel giudizio. In altre
parole, colmando la disparità delle posizioni tra le parti si ottiene
che la ricerca processuale sia la migliore possibile. In tale prospettiva
la regola b.a.r.d. costituisce un logico corollario dell’idea
che se l’accusa è fondata potrà essere provata oltre ogni ragionevole
dubbio, altrimenti andrà abbandonata o respinta.
(18) Interessanti, a tale proposito, le riflessioni di D. Chinnici
L’«oltre ogni ragionevole dubbio»: nuovo criterio del giudizio di
condanna?, in questa Rivista 2006, 1553, la quale si interroga
sulla reale portata applicativa della formula di nuovo conio inserita
nel corpo dell’art. 533 c.p.p. dalla l. n. 46 del 2006.
(19) Identificata nella mera conformità alle regole della giurisdizione,
ovvero - in uno sforzo di bilanciamento con l’opposta concezione
della verità reale - nella verosimiglianza della decisione
giurisdizionale (v., sul punto: Cass., Sez. Un., 17 ottobre 2006, n.
10251/07, Michaeler, in Gdir 2007, 19, 79 - con nota di V. Santoro.
È prevalsa una sostanziale mediazione fra i tre diversi indirizzi
interpretativi - in cui si afferma che «Nella valutazione probatoria
- così come, secondo la più moderna epistemologia, in ogni
procedimento di accertamento (scientifico, storico etc.) - è corretto
e legittimo fare ricorso alla verosimiglianza ed alle massime
di esperienza, ma, affinché il giudizio di verosimiglianza conferisca
al dato preso in esame valore di prova, è necessario che si
possa escludere plausibilmente ogni alternativa spiegazione che
invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile; ove così non sia, il
suddetto dato si pone semplicemente come indizio da valutare
insieme a tutti gli altri elementi risultanti dagli atti (Sez. I penale,
21 ottobre 2004, Sala)».
(20) Fortemente critica sull’operazione legislativa condotta dalla
novella del 2006 sul comma 1 dell’art. 533 c.p.p. è Catalano Il
concetto di ragionevolezza tra lessico e cultura del processo penale,
in questa Rivista 2011, 85, secondo cui suscita non poche
perplessità l’inserimento, nel testo del codice, del criterio, di matrice
nordamericana, dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”, la quale
ritiene che un criterio risolutore del fatto incerto nel sistema
della legge processuale penale italiana esiste da tempo ed è
contenuto nell’art. 530 c.p.p., che ben potrebbe trovare una specifica
base normativa in un principio che consacrasse il canone
del ragionevole dubbio. La stessa A. ritiene dunque incongruo
l’inserimento di una disposizione di principio - il canone del ragionevole
dubbio - nello stesso contesto in cui già esiste una
norma operativa: il testo novellato dell’art. 533 c.p.p., dunque,
non varrebbe a costituire in capo al giudice doveri decisori diversi
o ulteriori rispetto all’assetto previgente.
(21) In tal senso: Cass., sez. IV, 29 novembre 2000, n. 9793/01,
M., in Riv. it. dir. proc. pen. 2001, 277; Id., Sez. IV, 28 novembre
2000, n. 14006, D.C., in Ced Cass. 218727; Id., Sez. IV, 28 settembre
2000, n. 9780/01, B., in Ced Cass. 218777.
(22) Cass., Sez. IV, 25 settembre 2001, C., in Riv. it. dir. proc.
pen. 2002, 737, con nota di D’Alessandro, La certezza del nesso
causale: la lezione “antica” di Carrara e la lezione “moderna”
della Corte di cassazione sull’“oltre ogni ragionevole dubbio”;
Id., Sez. IV, 25 settembre 2001, n. 1585/02, S. e altro, in Riv. it.
dir. proc. pen. 2002, 737.
(23) Cass., Sez. Un., 10 luglio 2002, n. 30328, Franzese, in questa
Rivista 2003, 50 con nota di Di Martino Il nesso causale attivato
da condotte omissive tra probabilità, certezza e accertamento.
Diritto penale e processo 2/2013 209

Giurisprudenza
Procedura penale
ta ed evento (e cioè il ragionevole dubbio, in base
all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante
dell’omissione dell’agente rispetto ad altri
fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo)
comportano l’esito assolutorio del giudizio.
Sempre secondo tale decisione, il giudice ha tuttavia
la possibilità di accertare l’esistenza del rapporto
di causalità anche in presenza di una legge scientifica
a medio-bassa frequenza, quando le risultanze
processuali consentono di affermare, mediante il ricorso
al procedimento per esclusione, la colpevolezza
“al di la di ogni ragionevole dubbio” (24).
Se questo è il retroterra giurisprudenziale (e culturale)
su cui affonda le proprie radici la regola del
B.A.R.D., si comprendono quindi le ragioni per le
quali fossero maturati i tempi per la codificazione di
tale principio nel nostro diritto positivo, codificazione
avvenuta con la nota modifica dell’art. 533,
comma 1, c.p.p. La norma, nella nuova formulazione
successiva alla modifica normativa apportata
dalla l. 20 febbraio 2006, n. 46, codifica infatti la
regola dell’al di là di ogni ragionevole dubbio (beyond
a reasonable doubt), favorevolmente valutata
da parte della dottrina che qualifica la scelta del legislatore
come un scelta di civiltà dell’ordinamento
italiano (25), una sorta di “rivoluzione copernicana
nell’accertamento del fatto” (26), in particolare
ravvisando nella sua introduzione un quid pluris rispetto
a quanto già nell’ordinamento, così apprezzandone
gli elementi di novità (27). Contra, tuttavia,
autorevole dottrina (28), che invece si esprime
criticamente, parlando di “verità ovvia”, ritenendo
enfatica la formula, non potendo essere codificabile
il grado di probabilità sufficiente alla condanna né
tanto meno riducibile ad entità numeriche, sottolineando
altresì come sia velleitaria l’illusione di una
regola legale che predetermini ogni passo dell’iter
decisorio. Altri, invece, sostiene che compito estremamente
arduo per l’interprete è quello di riempire
di contenuti tale criterio, ossia definire con maggiore
precisione lo standard probatorio coincidente
con la probabilità “molto elevata” della colpevolezza
dell’imputato: a renderlo tale, si precisa, è l’indeterminatezza
del parametro normativo di riferimento
(il carattere “ragionevole” o “irragionevole” dei
dubbi coltivati dal giudice), talmente ambiguo ed
evanescente da accreditare l’opinione che non esistano,
di fatto, strumenti razionali in grado di decodificarlo
(29). Detta regola fa da pendant alla presunzione
di non colpevolezza, costituzionalmente
sancita dall’art. 27, comma 2, Cost., con l’intento
di circoscrivere l’intime conviction dell’organo giudicante
(30).
210
La giurisprudenza successiva si è orientata in maniera
sostanzialmente univoca sulla questione, affermando
il principio secondo cui la modifica dell’art.
533 c.p.p., ad opera dell’art. 5, l. n. 46 del
2006, con la previsione che il giudice pronuncia
sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole
al di là di ogni ragionevole dubbio, ha carattere
meramente descrittivo, più che sostanziale, dato
che anche in precedenza il “ragionevole dubbio“ sul-
Note:
(24) La decisione è stata, peraltro, aspramente criticata in relazione
a tale ultimo approccio. In particolare, si è manifestato il timore
(Stella, Fallacie e anarchia metodologica in tema di causalità.
La sentenza Orlando, la sentenza Loi, la sentenza Ubbiali
(Cass. sez. IV pen. ), in Riv. it. dir. proc. pen. 2004, 27; v., anche,
dello stesso Autore, L’allergia alle prove della causalità individuale.
Le sentenze sull’amianto successive alla sentenza Franzese
(Cass. IV sez. pen. ), ivi, 2004, 429), che, in tal modo, si realizzi
un ritorno all’intime conviction del giudice, in una prospettiva intuizionistica
che è proprio quella che si è inteso storicamente superare
con il ricorso al parametro della verità scientifica. A sostegno,
invece, di tale approccio, si è affermato che un adeguato
baluardo contro il rischio temuto di un ritorno al primato della
intima convinzione è rappresentato dalla motivazione razionale
della decisione (Conti, Al di là del ragionevole dubbio, Scalfati (a
cura di), Novità su impugnazioni penali e regole di giudizio: Legge
20 febbraio 2006, n. 46 Legge Pecorella, Milano 2006, 96),
secondo cui il sistema vigente deve tener conto del modello normativo
delineato dagli artt. 192, 546, comma 1, lett. e) e 606,
comma 1, lett. e), c.p.p.), v., anche, nello stesso senso, Canzio,
Prova scientifica, ricerca della “verità” e decisione giudiziaria nel
processo penale, in Aa.Vv., Decisione giudiziaria e verità scientifica,
Milano 2005, 68.
(25) Così, D’Alessandro, La certezza del nesso causale: la lezione
“antica” di Carrara e la lezione “moderna” della Corte di cassazione
sull’“oltre ogni ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir. proc.
pen. 2002, 743; in senso conforme, Lorusso, La regola “del ragionevole
dubbio” e la riforma delle impugnazioni, in La sentenza
della Corte costituzionale 6 febbraio 2007 n. 26: un energico
richiamo al metodo della giurisdizione, a cura di Garofoli, Atti del
Convegno, Trani, 2-3 febbraio 2007, Milano 2007, 95.
(26) L’espressione è di Paliero, Il “ragionevole dubbio” diventa
criterio, in Gdir 2006, 10, 73.
(27) In quest’ottica, per tutti, Tonini, Manuale di procedura penale,
Milano 2009, 232, il quale, peraltro, acutamente rileva la duplice
valenza della regola del b.a.r.d. quale “regola probatoria e di
giudizio”, in particolare, precisando come «Sotto il primo profilo,
il ragionevole dubbio nella sua veste di regola probatoria disciplina
nel quantum l’onere della prova che è a carico del pubblico
ministero (art. 533, comma 1). Sotto il secondo profilo, il ragionevole
dubbio prescrive la regola di giudizio che il giudice deve
applicare: egli deve ritenere come non provata la reità e, conseguentemente,
assolvere l’imputato (art. 530, comma 2)».
(28) Cordero, Procedura penale, 8^ ed., Milano 2006, 1001.
(29) Così, Caprioli, L’accertamento della responsabilità penale “oltre
ogni ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2009, 51.
(30) Nel senso che, con la novella del 2006, si sarebbe così creata
una curiosa e incomprensibile sovrapposizione tra la norma
che disciplina la regola di giudizio e vieta di condannare in caso
di dubbio (art. 530 c.p.p.) e la disposizione di principio mutuata
dal common law (art. 533, comma 1, c.p.p.) che esprime l’identico
precetto ma in forma generica e indefinita: Amodio, Vitalità
della codificazione nell’esperienza penale postmoderna, in Cass.
pen. 2011, 1976.
Diritto penale e processo 2/2013

la colpevolezza dell’imputato ne comportava il proscioglimento
a norma dell’art. 530, comma 2, c.p.p.
(31) Le prime pronunce della Corte sono, infatti,
orientate nel senso di ritenere che con la previsione
della regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole
dubbio, il legislatore non avrebbe introdotto un diverso
e più rigoroso criterio di valutazione della
prova rispetto a quello precedentemente adottato
dal codice, ma avrebbe semplicemente formalizzato
un principio già acquisito dalla giurisprudenza, secondo
cui la condanna è possibile soltanto quando
vi sia la certezza processuale della responsabilità
dell’imputato (32).
L’attenzione della giurisprudenza si è, poi, spostata
sul versante della “nuova” metodologia valutativa
imposta dalla novella del 2006. Ed invero, quanto
all’oggetto della prova «al di là di ogni ragionevole
dubbio», si è affermato che essa deve riguardare
l’accertamento del fatto, delle eventuali circostanze
e della responsabilità dell’imputato, realizzato
attraverso il metodo popperiano della verificazione-falsificazione
dell’ipotesi. Trattasi, ad ogni modo,
di un parametro che necessita indubbiamente
di un’attività interpretativa di specificazione, tesa
all’adeguamento alle differenti fattispecie di natura
sostanziale (33), che solo il diritto vivente può realizzare,
consapevoli del carattere ambiguo e sfuggente
di detta formula (34), ricorrendo (o comunque
ispirandosi) ai frutti della consolidata esperienza
applicativa della regola nel sistema processuale
nordamericano, dove il parametro non viene
utilizzato in maniera univoca bensì calibrato in ragione
della gravità del reato e dei singoli elementi
della fattispecie da provare. Si comprende quindi
la ragione per la quale, in presenza di un quadro
probatorio incompleto, non si può addivenire ad
una sentenza di condanna, dovendo la condotta
addebitata all’imputato essere provata per intero
senza che si possa fondare la pronuncia sull’assunto
che i fatti provati consentano di immaginare con
sufficiente approssimazione i fatti non provati, poiché
in questo caso si impone una sentenza di assoluzione
ex art. 530, comma 2, c.p.p. (35). Diversamente,
l’accertamento della responsabilità «al di là
di ogni ragionevole dubbio» potrà dirsi realizzato
quando il dato probatorio acquisito lascia fuori solo
eventualità remote, pur astrattamente formulabili
e prospettabili come possibili in rerum natura
ma la cui realizzazione nella fattispecie concreta
non trova il benché minimo riscontro nelle emergenze
processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine
naturale delle cose e della normale razionalità
umana (36).
Giurisprudenza
Procedura penale
La regola del B.A.R.D. e l’ipotesi alternativa:
possibile contrasto giurisprudenziale?
Nello sviluppo esegetico dell’applicazione giurisprudenziale
della regola dell’oltre ogni ragionevole
dubbio, deve tuttavia registrarsi un possibile contrasto
nella giurisprudenza di legittimità che, a nostro
sommesso avviso, merita un seppur breve approfondimento.
Il tema è delicato ed investe non
solo il procedimento valutativo ma la stessa natura
giuridica del vizio che, in astratto, può inficiare la
decisione giudiziale che non tenga conto dell’ipotesi
alternativa, dotata di razionalità e plausibilità
pratica, che ricostruisca diversamente i fatti, così
insinuando nel giudice il “dubbio” sulla colpevolezza
dell’imputato. Sulla questione, secondo una parte
della giurisprudenza, si afferma che il giudice, per
dichiarare colpevole «al di là di ogni ragionevole
dubbio» l’imputato che sia rimasto contumace o si
sia avvalso del diritto al silenzio, rinunciando così a
prospettare una sua versione dei fatti, non avrebbe
l’obbligo di verificare le ipotesi alternative alla ricostruzione
dei fatti quale emergente dalle risultanze
probatorie (37). Secondo altro orientamento
Diritto penale e processo 2/2013 211
Note:
(31) Cass., Sez. II, 21 aprile 2006, n. 19575, S. ed altro, in Ced
Cass. 233785.
(32) Cass., Sez. I, 11 maggio 2006, n. 20371, G. e altro, in Ced
Cass. 234111; Id., Sez. I, 28 giugno 2006, n. 30402, V., in questa
Rivista 2007, 927 con nota di Eramo Il divieto di perizie psicologiche
nel processo penale: una nuova conferma dalla Cassazione;
Id., Sez. II, 2 aprile 2008, n. 16357, C., in Ced Cass. 239795.
(33) Lorusso, La regola “del ragionevole dubbio” e la riforma delle
impugnazioni, cit., 98.
(34) Daniele, Regole di esclusione e regole di valutazione della
prova, Torino 2009, 168; si veda anche, dello stesso A., Una prima
applicazione giurisprudenziale della regola dell’al di là di ogni
ragionevole dubbio, in questa Rivista 2007, 253.
(35) Cass., Sez. VI, 21 aprile 1997, n. 9006, A., in Ced Cass.
209112.
(36) Così, Cass., Sez. I, 21 maggio 2008, n. 31456, F. in Gdir
2008, 33, 97 con nota di Beltrani Imputabilità della Franzoni desunta
anche da filmati Tv, in Giust. pen. 2009, III, 459, con nota
di Ventura Prove penali e leggi scientifiche ed in Cass. pen.
2009, II, 1840, con nota di Caprioli Scientific evidence e logiche
del probabile nel processo per il “delitto di Cogne”. In senso
conforme a tale decisione: Cass., Sez. I, 8 maggio 2009, n.
23813, P.G. in proc. M., in Ced Cass. 243801; Id., Sez. I, 3 marzo
2010, n. 17921, G., ivi, 247449 (secondo cui, inoltre, il procedimento
logico deve condurre alla conclusione caratterizzata da
un alto grado di credibilità razionale, quindi alla “certezza processuale”
che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la
condotta sia attribuibile all’agente come fatto proprio); Id., Sez.
IV, 17 giugno 2011, n. 30862, G. e altri, in Ced Cass. 250903.
(37) Così: Cass., Sez. III, 15 luglio 2011, n. 30251, A., in Ced
Cass. 251313 (in motivazione la Corte ha precisato che il giudice
non è tenuto a tale verifica in quanto l’imputato, con tale condotta
processuale, non ha offerto al contraddittorio dibattimentale,
dichiarandola, la sua verità dei fatti stessi).

Giurisprudenza
Procedura penale
giurisprudenziale, invece, la regola dell’«al di là di
ogni ragionevole dubbio» introdotta dalla l. n. 46
del 2006, imporrebbe al giudice un metodo dialettico
di verifica dell’ipotesi accusatoria secondo il
criterio del «dubbio», con la conseguenza che il
giudicante è chiamato ad effettuare detta verifica
in maniera da scongiurare la sussistenza di dubbi interni
(ovvero la autocontraddittorietà o la sua incapacità
esplicativa) o esterni alla stessa (ovvero
l’esistenza di una ipotesi alternativa dotata di razionalità
e plausibilità pratica) (38). La differenza tra i
due orientamenti è evidente. L’innovazione normativa
operata dall’art. 533, comma 1, c.p.p. si salda
infatti con la modifica operata dalla l. n. 46/2006
all’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p. in ordine ai
confini del controllo sulla motivazione, la cui presenza
negli ordinamenti di civil law consente di soppesare
la consistenza del ‘ragionevole dubbio’ impedendo
ogni elusione della presunzione non colpevolezza
derivante da una inappropriata applicazione
della regola probatoria e di giudizio dettata
per la condanna (39). Deve tuttavia escludersi, a
nostro avviso, che la violazione del metodo dialettico
di verifica dell’ipotesi accusatoria, ossia del cosiddetto
criterio del dubbio, possa essere idonea a trasformare
il vizio di motivazione della sentenza (art.
606, lett. e), c.p.p.) in vizio di violazione di legge
processuale (art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p. in relazione
al disposto dell’art. 125, comma 3, prima
parte, stesso codice) o, addirittura, in vizio di violazione
della legge sostanziale ai sensi della lett. b)
dell’art. 606 c.p.p. (40). Sul punto si richiama il
tradizionale orientamento giurisprudenziale di legittimità
che ritiene che le ipotesi contemplate
dalla lett. b) dell’art. 606 c.p.p. «inosservanza o erronea
applicazione della legge penale o di altre norme
giuridiche» configurano tipici errores in iudicando
in iure, nel senso che l’inosservanza va intesa come
mancata applicazione, mentre l’erronea applicazione
va riferita all’applicazione inficiata da errore
(41). Sotto tale profilo, infatti, si è sempre discusso
se sia possibile censurare, ai sensi della lett.
b) dell’art. 606 c.p.p., l’inosservanza o l’erronea applicazione
della norma processuale. In senso favorevole,
parte della dottrina ritiene che dovrebbero
ritenersi deducibili in Cassazione anche gli errores
in iudicando che si riferiscono a una norma processuale,
posto che l’interesse all’uniforme interpretazione
giurisprudenziale sussiste anche per il diritto
processuale (42). Purtuttavia si ritiene che il tenore
letterale della disposizione in commento sembrerebbe
escludere alla radice tale soluzione ermeneutica:
la norma si riferisce infatti alla «inosservanza
212
o falsa applicazione di legge penale e di norme giuridiche
di cui si deve tener conto nell’applicazione
della legge penale». L’esegesi letterale della norma
induce a ritenere, quindi, deducibile in cassazione
il solo errore di diritto caduto su una norma sostanziale.
In questo senso è orientata pacificamente la
giurisprudenza della Corte di cassazione (v. infra),
anche se, in un remoto precedente rimasto sostanzialmente
isolato, la Cassazione ha affermato che
anche la violazione di una norma processuale può
realizzare un vero e proprio error in iudicando, deducibile
ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b),
c.p.p., quando la stessa venga ad incidere sulla valutazione
del merito del giudizio, per la qualificazione
giuridica del reato e per la ricostruzione del
fatto (43). Parte della dottrina aveva inoltre suggerito
di ricondurre alla fattispecie in esame anche la
violazione dell’art. 192, comma 2, c.p.p. (nella parte
in cui richiede che l’esistenza di un fatto sia desunta
da indizi gravi, precisi e concordanti) (44).
Tale lettura “estensiva” è stata però avversata dalla
dottrina dominante, secondo cui non solo - almeno
in ambito penale - essa riposa su una forzatura letterale,
ma condurrebbe a vanificare il limite della
denunciabilità in cassazione della violazione di
norme processuali nei soli casi in cui ne sia deriva-
Note:
(38) Cass., Sez. I, 24 ottobre 2011, n. 41110, Pg in proc. J., in
Ced Cass. 251507; in senso conforme, in precedenza: Cass.,
Sez. IV, 12 novembre 2009, n. 48320, D., in Ced Cass. 245879.
(39) Lorusso, La regola “del ragionevole dubbio” e la riforma delle
impugnazioni, cit., 102.
(40) Ed invero, v’è chi, in dottrina, sostiene che la regola b.a.r.d.,
pur formalmente inserita nel contesto di una regola di natura
processuale (art. 533 c.p.p.) e carica del suo significato di limite
al principio del libero convincimento del giudice, mostra chiaramente
la sua «valenza sostanziale, in quanto contribuisce - sul
piano metodologico - alla tipizzazione della regola sostanziale»
(Regina, La regola b.a.r.d. nel diritto penale sostanziale. Interferenze
con la struttura del reato, in Giur. merito 2008, 3032).
(41) Bargi, Il ricorso per cassazione, in Gaito (a cura di), Le impugnazioni
penali, II, Torino 1998, 495.
(42) Calamandrei-Furno,voce Cassazione civile, NsD, II, Torino
1974, 1076.
(43) Cass., Sez. VI, 16 giugno 1992, n. 9373, P.M. in proc. H., in
Ced Cass. 191706, relativa ad un caso in cui, essendo stati proposti
avverso la stessa sentenza, appello da una delle parti e ricorso
per cassazione dall’altra, e non essendosi fatto luogo a
conversione del ricorso in appello ai sensi dell’art. 580 c.p.p., si
sia giudicato del solo appello proposto. La Corte ha ritenuto che
l’esame parziale della “res iudicanda“ da parte del giudice di appello,
per aver trascurato del tutto l’esame di una delle impugnazioni
proposte, realizzi non solo e non tanto un “error in procedendo“,
deducibile ai sensi dell’art. 606, lett. c), c.p.p., quanto
un vero e proprio “error in iudicando“, deducibile ai sensi dell’art.
606, lett. b) e lett. e), c.p.p.
(44) Aricò, Impugnazioni, in Dalia (a cura di), Gli altri gradi di giurisdizione,
Padova 1991, 22.
Diritto penale e processo 2/2013

ta l’invalidità (45). La tesi dell’estensibilità alla
norma processuale del vizio indicato dalla lett. b)
dell’art. 606 c.p.p., è avversata dalla giurisprudenza
di legittimità maggioritaria che, infatti, afferma che
il vizio contemplato nella lett. b) dell’art. 606
c.p.p. attiene a disposizioni di diritto sostanziale e
non processuale, anche laddove menziona le “altre
norme giuridiche” (46). Per quanto qui d’interesse,
inoltre, con riferimento alla questione della violazione
del “criterio del dubbio”, si tratterebbe apparentemente
di violazione dei criteri di valutazione
della prova, donde sembrerebbe scontata la soluzione
del dilemma esegetico alla luce dell’unanime
giurisprudenza che esclude che la stessa possa essere
fatta valere ai sensi della lett. b) dell’art. 606
c.p.p., in quanto norma processuale, concludendo
dunque che essa possa essere denunciata in Cassazione
unicamente come vizio della motivazione ai
sensi della lett. e) dell’art. 606 c.p.p. (47). Tale soluzione,
sicuramente agevole e, per dipiù, fondata
su un orientamento giurisprudenziale consolidato,
non può essere sottoposta a rivisitazione, nemmeno
se riferita al “vizio” che può inficiare la decisione
assunta da un giudice, ormai obbligato, a norma
dell’art. 533, comma 1, c.p.p., ad adottare un metodo
dialettico di verifica dell’ipotesi accusatoria, secondo
il richiamato “criterio del dubbio”. In particolare,
non potrebbe legittimamente sostenersi che
l’errore compiuto dal giudice nella predetta operazione
di verifica sia idoneo a trasformare il vizio
della decisione da vizio di motivazione in vizio di
violazione di legge, quantomeno sotto il profilo
dell’art. 606, lett. c), c.p.p., inteso come inosservanza
di norma processuale (appunto, l’art. 533,
comma 1, c.p.p.) stabilita a pena di nullità, espressamente
prevista, com’è noto, dall’art. 125, comma
3, prima parte, c.p.p. («le sentenze…sono motivate
a pena di nullità»). Già in passato, invero, si era
prospettata la possibilità di ricondurre al motivo di
cui alla lett. c) dell’art. 606 c.p.p. la mancanza della
motivazione, giacché siffatto error in procedendo
determina la nullità ai sensi degli artt. 125 e 546
c.p.p. La soluzione, com’è noto, era stata suggerita,
da un lato, con riferimento alle ipotesi di mancanza
in senso grafico e materiale (48) e, dall’altro, con
riguardo alle lacune della motivazione e, più specificamente,
all’omessa valutazione di una prova
(49). Sul punto, però, fatta qualche debita (e remota)
eccezione (50), la giurisprudenza prevalente è
orientata in senso opposto, poiché ritiene che tutti
i vizi attinenti alla motivazione vadano dedotti
esclusivamente a norma dell’art. 606, comma 1,
lett. e), c.p.p., atteso il carattere di specificità di ta-
Giurisprudenza
Procedura penale
le previsione rispetto a quella della lett. c) del predetto
art. 606 (51). Ciò, del resto, appare conforta-
Diritto penale e processo 2/2013 213
Note:
(45) In tal senso, v. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili
e penali di cassazione, Torino 2006, 54, secondo cui non
avrebbe ragione la previsione che la violazione delle norme processuali
può essere denunciata solo quando ne derivi un’invalidità,
se poi se ne ammettesse comunque la censura come errores
in iudicando; v. anche, in senso conforme, Canzio, Il ricorso
per cassazione, in Aimonetto, Le impugnazioni, Torino 2005,
316.
(46) Cass., Sez. III, 20 novembre 1998, n. 215/99, F., in Ced
Cass. 212091; Id., Sez. III, 3 luglio 1997, n. 8962, R., in Ced
Cass. 208446.
(47) Cass., Sez. I, 21 maggio 1993, n. 9392, G., in Ced Cass.
195306; Id., Sez. I, 26 novembre 1998, n. 1088, C. e altri, in Ced
Cass. 212248; Id., Sez. VI, 8 gennaio 2004, n. 7336, M. ed altro,
in Ced Cass. 229159; in dottrina, Dubolino-Baglione-Bartolini, Il
nuovo Codice di procedura penale: illustrato per articolo con il
commento, la relazione ministeriale e la giurisprudenza, vigente
nel nuovo, del vecchio rito: le leggi complementari, 2^ ed., Piacenza,
1990, 417; Iacoviello, Motivazione della sentenza penale
(controllo della), in EdD, IV Agg, Milano 2000, 799; Marandola,
Sulla deducibilità in cassazione della violazione dell’art. 192, c. 2,
in Cass. pen. 1995, 661; ancora, sull’applicazione della regola del
b.a.r.d. nel processo indiziario, v. Salimbeni Ragionevole dubbio
e motivazione sulla prova indiziaria, in questa Rivista 2011, 203;
Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione,
cit., 170, secondo il quale la lett. b) dell’art. 606 c.p.p. si
riferisce unicamente a errori di decisione, mentre l’inosservanza
dei criteri di valutazione della prova si traduce in un errore di giustificazione.
(48) In particolare sulla scia della Rel. prog. prel., 200; in tal senso,
in dottrina, Carcano, Funzioni di legittimità e sindacato sulla
motivazione, in Cass. pen. 1992, 3013; Lattanzi, Il controllo del
diritto e del fatto da parte della Cassazione nel giudizio penale, in
Mannuzzu-Sestini (a cura di), Il giudizio di cassazione nel sistema
delle impugnazioni, Tritone 1992, 79; Scella, Prove penali e inutilizzabilità,
Torino 2000, 201; Voena, Atti, in Commentario breve
al codice di procedura penale, Conso-Grevi (a cura di), Padova
1994, 190.
(49) In dottrina, v.: Bargi, Il ricorso per cassazione, cit., 533; Capone,
Diritto alla prova e obbligo di motivazione, in Ind. pen.
2002, 45; Cordero, Codice di procedura penale, Torino 1992,
650; Galati-Zappalà, Le impugnazioni, in Diritto processuale penale
di Siracusano-Galati-Tranchina-Zappalà, Milano 2004, 525;
Sgromo, Sulla deducibilità del travisamento del fatto nei motivi
di cassazione, in Giur. it. 1994, II, 174; Zucconi Galli Fonseca, Le
nuove norme sul giudizio penale di cassazione e la crisi della Corte
Suprema, in Cass. pen. 1990, 526.
(50) Cass., Sez. I, 28 aprile 1998, n. 2383, M. ed altro, in Ced
Cass. 210670; Id., Sez. II, 23 ottobre 1996, n. 4064/97, P.M. in
proc. E. ed altri, in Ced Cass. 207314; Id., Sez. II, 2 giugno 1994,
n. 7266, P.M. in proc. L. ed altri, in Ced Cass. 198324; Id., Sez. I,
19 marzo 1991, n. 1351, C., in Ced Cass. 186905.
(51) V., per tutte: Cass., Sez. Un., 25 ottobre 1994, n. 19, De Lorenzo,
in Ced Cass. 199391, che si richiama anche ad un argomento
di natura sistematica fondato sull’art. 569 c.p.p.; Id., Sez.
Un., 26 febbraio 1991, n. 5, Bruno e altri, in Ced Cass. 186998.
V., nella dottrina, Ceccaroni, Travisamento del fatto ed error in
procedendo, in questa Rivista 2001, 996; Di Benedetto, Considerazioni
in merito alle innovazioni introdotte dal nuovo codice di
procedura penale in materia di impugnazioni, in Cass. pen. 1989,
2316; Ferrua, Il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione
nel nuovo codice di procedura penale, in Id., Studi sul processo
(segue)

Giurisprudenza
Procedura penale
to anche dallo stesso orientamento delle Sezioni
Unite della Cassazione circa i limiti di sindacabilità
del vizio di motivazione nel giudizio di legittimità
(52). Ed allora, ricondotta l’eventuale violazione
della regola dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio»
alla categoria dei vizi della motivazione (art.
606, lett. e), c.p.p.), può legittimamente affermarsi
che la verifica dell’ipotesi accusatoria debba essere
svolta dal giudice in maniera da scongiurare la sussistenza
di dubbi interni (intendendo per tali la autocontraddittorietà
o la sua incapacità esplicativa)
ovvero esterni alla stessa (ossia l’esistenza di
un’ipotesi alternativa dotata di razionalità e plausibilità
pratica) (53). Il criterio del dubbio, in quanto
tale, deve infatti guidare il giudice nell’opera di
interpretazione degli elementi probatori e, per definizione,
l’esegesi della prova non è sindacabile in
sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità
e logicità della motivazione (54). Di fronte, dunque,
ad una possibile ipotesi alternativa alla ricostruzione
dei fatti, quale emergente dalle risultanze
probatorie, il giudice ha l’obbligo di individuare gli
elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta,
in modo da far risultare la non razionalità del
dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa,
non potendo detto dubbio fondarsi su un’ipotesi del
tutto congetturale, seppure plausibile (55).
La regola del B.A.R.D. e l’appello: l’ipotesi
alternativa dev’essere “anche” persuasiva
Operate, dunque, le riflessioni che precedono sul tema
della metodologia applicativa della regola del
b.a.r.d., può quindi agevolmente individuarsi la soluzione
alla questione dell’approccio logico che dev’essere
seguito dal giudice d’appello quando, a fronte
di una sentenza assolutoria, rivaluti i medesimi
elementi probatori del primo giudice, sovvertendo
l’esito del giudizio di prime cure con l’affermazione
della condanna dell’imputato. La questione, che costituisce
l’oggetto centrale del presente lavoro, è ben
riassunta dalla decisione in commento, di cui va richiamato,
seppure sommariamente, il procedimento
di valutazione impiegato dai giudici d’appello per
sovvertire l’esito assolutorio del giudizio di primo
grado. Nel caso in esame, i giudici d’appello, a fronte
di un’imputazione di cessione di stupefacenti,
avevano considerato che il cedente avesse consegnato,
seppur gratuitamente, un quantitativo di sostanza
stupefacente di tipo hashish al cessionario e
che quest’ultimo lo avesse voluto aiutare ad eludere
le indagini a suo carico, negando che vi fosse stata la
cessione. Invero, la Corte di merito aveva rilevato
una contraddizione nelle giustificazioni dei due im-
214
putati, in quanto mentre il cessionario aveva dichiarato
ai Carabinieri, che avevano assistito al passaggio
dello stupefacente, che l’hashish era il suo e che
lo aveva solo mostrato al cedente per fargli constatare
la qualità, quest’ultimo aveva, invece, riferito
che la droga era stata acquistata per il consumo personale
di entrambi. La rilevata contraddizione delle
dichiarazioni e il rinvenimento presso l’abitazione
del cedente di altro quantitativo di stupefacente
aveva convinto i giudici che la sostanza appartenesse
unicamente al cedente e che vi fosse stata la cessione
riferita dai verbalizzanti. A base della sentenza
Note:
(continua nota 51)
penale, Torino 1990, 126; Lozzi, Carenza o manifesta illogicità
della motivazione e sindacato del giudice di legittimità, in Riv. it.
dir. proc. pen. 1992, 767; Morgigni, La cassazione nel nuovo codice
di procedura penale, in Cass. pen. 1989, 2316; Renon,
Spunti per una riconsiderazione del travisamento del fatto come
motivo di ricorso in cassazione, ivi, 1996, 559; Smeriglio, In tema
di sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione, in Giur.
it. 1996, II, 476.
(52) V., sul tema: Cass., Sez. Un., 13 dicembre 1995, n. 930/96,
Clarke, in Ced Cass. 203428; Id., Sez. Un., 19 giugno 1996, n.
16, Di Francesco, in Ced Cass. 205621; Id., Sez. Un., 30 aprile
1997, n. 6402, Dessimone e altri, in Ced Cass. 207944, che, in
particolare, esclude la possibilità del giudice di legittimità di procedere
ad una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento
della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata
al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di
legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente
più adeguata, valutazione delle risultanze processuali; Id.,
Sez. Un., 24 novembre 1999, n. 24, Spina, in Ced Cass. 214794;
Id., Sez. Un., 31 maggio 2000, n. 12, Jakani, in Ced Cass.
216260 che, significativamente, preclude alla Cassazione la possibilità
non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze
processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche
di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua
cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo
che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati
dall’esterno; Id., Sez. Un., 28 maggio 2003, n. 25080, Pellegrino,
in Ced Cass. 224611, che opportunamente equipara alla
violazione di legge, ai fini della deducibilità, la mancanza o la mera
apparenza della motivazione, atteso che in tal caso si prospetta
la violazione della norma che impone l’obbligo della motivazione
nei provvedimenti giurisdizionali, ossia dell’art. 124, comma
3, c.p.p., con esclusione del vizio di illogicità manifesta, la
quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite
lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art.
606 stesso codice (per tale ultimo rilievo, Cass., Sez. Un.,
28 gennaio 2004, n. 5876, P.C. Ferazzi in proc.Bevilacqua, in Ced
Cass. 226710); Id., Sez. Un., 24 settembre 2003, n. 47289, Petrella,
in Ced Cass. 226074.
(53) Così, la già citata Cass., sez. I, 24 ottobre 2011, n. 41110.
(54) V., ex multis: Cass., Sez. II, 5 maggio 2011, n. 20806, T., in
Ced Cass. 250362, secondo cui spetta al giudice la valutazione
sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti
testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei
fatti; in precedenza, in senso conforme, sotto la vigenza del
C.p.p. 1930, Cass., Sez. IV, 25 maggio 1981, n. 8090, A., in Ced
Cass. 150282.
(55) V., sul punto, quanto affermato da Cass., Sez. IV, 17 giugno
2011, n. 30862, cit.
Diritto penale e processo 2/2013

di riforma risultavano, però, addotte semplici valutazioni
alternative, fondate sulla presunta contraddittorietà
delle dichiarazioni rese dagli imputati, valutazioni
corroborate da elementi di natura congetturale,
che - per il giudice di legittimità - si rivelano
inadeguate a superare la ricostruzione dei fatti come
contenuti nella prima decisione. Inoltre, i giudici di
appello avrebbero omesso di valutare la circostanza
del “doppio passaggio” di “qualcosa” tra i due imputati,
circostanza ritenuta rilevante per escludere la
responsabilità in ordine allo spaccio. Alla luce delle
considerazioni che precedono, dunque, ben si spiega
(e si condivide) l’esegesi fornita dalla Corte del
principio introdotto nell’art. 533, comma 1, c.p.p.
secondo cui la sentenza di condanna deve essere
pronunciata solo se l’imputato «risulta colpevole del
reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio».
Tale regola, invero, presuppone per la Corte di
legittimità che, in mancanza di elementi sopravvenuti,
l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo
da parte del giudice d’appello sullo stesso materiale
probatorio acquisito in primo grado e ritenuto inidoneo
a giustificare una pronuncia di colpevolezza,
«sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare
oggettive carenze o insufficienza della decisione
assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte
di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure
nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli
dubbi sull’affermazione di colpevolezza» (56). Ciò,
dunque, significa che, per la riforma di una decisione
assolutoria, non è sufficiente una diversa valutazione
caratterizzata da pari o addirittura minore
plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice,
ma occorre che la sentenza di appello abbia «una
forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole
dubbio, in qualche modo intrinseco alla
stessa situazione di contrasto». La regola del b.a.r.d.,
dunque, nel caso del giudizio d’appello, impone al
giudice uno sforzo valutativo superiore rispetto a
quello sostenuto dal giudice di primo grado proprio
perché, ove l’esegesi sia condotta - come di regola,
salve le ipotesi di rinnovazione dibattimentale ex
art. 603 c.p.p. - sulla scorta del medesimo materiale
probatorio, oggetto di valutazione da parte del giudice
di prime cure, l’eventuale sovvertimento dell’esito
assolutorio di tale giudizio non potrà fondarsi, per
il giudice d’appello, solo sull’impiego del richiamato
metodo dialettico di verifica dell’ipotesi alternativa
in virtù del cosiddetto “criterio del dubbio”, in
quanto la sussistenza di un dubbio “esterno” circa
l’esistenza dell’ipotesi alternativa dotata di razionalità
e plausibilità pratica - di per sé, sufficiente, per il
giudice, ad escludere la colpevolezza dell’imputato ai
Giurisprudenza
Procedura penale
sensi del comma 1 dell’art. 533 c.p.p. - imporrà al
giudice d’appello, al fine dell’eventuale riforma
«contra reum» della sentenza assolutoria, l’obbligo di
una più penetrante esegesi del compendio probatorio
apparentemente idoneo, in chiave valutativa, a
ribaltare l’esito assolutorio del giudizio già svoltosi.
In mancanza di elementi sopravvenuti, quindi,
l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta
in appello sullo stesso materiale probatorio già
acquisito in primo grado (e ivi ritenuto inidoneo a
giustificare una pronuncia di colpevolezza), dovrà
essere sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare
oggettive carenze o insufficienze della decisione
assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte
di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure
nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli
dubbi sull’affermazione di colpevolezza. Inutile dire
che, ove la verifica dell’interpretazione alternativa
del medesimo materiale probatorio si risolva in giudizio
valutativo di “maggiore persuasività”, potrà
senza alcun “dubbio” ritenersi pienamente rispettato
l’obbligo motivazionale del giudice d’appello, atteso
che la maggiore persuasività si tradurrà in migliore
coerenza interna dell’apparato argomentativo, ponendo
al riparo la decisione dal vizio motivazionale
deducibile, sub specie d’illogicità o contraddittorietà
della motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1,
lett. e), c.p.p.
Nota:
(56) V., in tal senso, la conforme Cass., Sez. VI, 3 novembre
2011, n. 40159, G., in Ced Cass. 251066.
Diritto penale e processo 2/2013 215

Opinioni
Diritto penale
Responsabilità medica
Linee guida, buone pratiche
e colpa grave: vera riforma
o mero placebo?
di Alessandro Roiati (*)
La legge di conversione del c.d. decreto Balduzzi statuisce all’art. 3, comma 1, che «l’esercente le professioni
sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate
dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve». Il lavoro si propone di indagare la portata
applicativa della norma, la cui principale valenza innovativa viene individuata, non tanto nell’effettiva restrizione
della responsabilità, quanto piuttosto nell’espressa indicazione di specifici parametri di valutazione
della condotta del sanitario.
Il peculiare iter legislativo che ha portato
all’approvazione dell’art. 3, comma 1,
l. 8 novembre 2012 n. 189
Il d.l. 13 settembre 2012, n. 158, recante disposizioni
«per promuovere lo sviluppo del Paese mediante
un più alto livello di tutela della salute», è stato
emanato in considerazione della «straordinaria necessità
ed urgenza di procedere al riassetto dell’organizzazione
sanitaria, tenuto conto della contrazione
delle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario
nazionale a seguito delle varie manovre di contenimento
della spesa pubblica, attraverso la riorganizzazione
ed il miglioramento dell’efficienza di alcuni
fondamentali elementi del Servizio stesso».
Tra le finalità ispiratici del coacervo di disposizioni
previste dal citato decreto, un rilevo preminente è
stato attribuito all’obiettivo di contenere il contenzioso
giudiziario ed «il fenomeno della cosiddetta
medicina difensiva (1), che determina la prescrizione
di esami diagnostici inappropriati, con gravi conseguenze
sia sulla salute dei cittadini, sia sull’aumento
delle liste di attesa e dei costi a carico delle aziende
sanitarie» (2).
In questa direzione l’art. 3, comma 1, rubricato come
“Responsabilità professionale dell’esercente le
professioni sanitarie”, nella sua originaria versione
statuiva che «fermo restando il disposto dell’articolo
2236 del codice civile, nell’accertamento della colpa
lieve nell’attività dell’esercente le professioni sanitarie
il giudice, ai sensi dell’articolo 1176 del codice
civile, tiene conto in particolare dell’osservanza,
216
nel caso concreto, delle linee guida e delle buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale
e internazionale».
Con questa disposizione il Legislatore si riproponeva
di determinare casi di esclusione dalla responsabilità
per i danni derivanti dall’esercizio della professione
sanitaria, andando ad incidere sul piano
prettamente civilistico anche in combinato disposto
con i restanti commi, volti ad agevolare l’accesso
dei sanitari alle polizze assicurative attraverso
una serie di previsioni in grado di determinare il
contenimento dei relativi costi (3), nonché a pre-
Note:
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione
di un referee.
(1) Sulla portata e sulle implicazioni penalistiche della defensive
medicine cfr. in particolare Centro Studi Federico Stella, Il problema
della medicina difensiva, a cura di G. Forti - M. Catino - F.
D’Alessandro - C. Mazzucato - G. Varraso, Pisa, 2010; L. Eusebi,
Medicina difensiva e diritto penale «criminogeno» in Riv. it.
med. leg., 2011, 1085; R. Bartoli, I costi «economico-penalistici»
della medicina difensiva, in Riv. it. med. leg., 2011, 1107 ss.; G.
Rotolo, «Medicina difensiva» e giurisprudenza in campo penale:
un rapporto controverso, in questa Rivista, 2012, 1259 ss. Si
consenta inoltre il rinvio ad A. Roiati, Medicina difensiva e colpa
professionale medica in diritto penale, Milano, 2012.
(2) Così testualmente il disegno di legge consultabile sul sito
www.nuovo.camera.it. Il carattere di urgenza - si legge nella relazione
- è legato alla considerazione che la richiamata situazione
di forte restrizione delle risorse finanziarie disponibili per il
Servizio sanitario nazionale, unitamente al mancato controllo di
questo crescente fattore di spesa inappropriata, genererà insopportabili
difficoltà per le regioni e le aziende sanitarie.
(3) Al riguardo si evince dal disegno di legge che «nel settore sa-
(segue)
Diritto penale e processo 2/2013

vedere la determinazione del danno biologico per
medical malpractice mediante il rinvio alle tabelle
del codice delle assicurazioni per danni derivanti da
circolazione stradale.
A seguito dell’emanazione del decreto legge in questione
però la Commissione Giustizia rilevava che,
in relazione al comma 1 dell’art. 3, «la limitazione
della responsabilità civile per danni ai soli casi di
dolo e colpa grave nel caso in cui l’esercente la professione
sanitaria si sia attenuto, nello svolgimento
della propria attività, a linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica nazionale e
internazionale, appare essere in contrasto con il
principio costituzionale di ragionevolezza, in quanto
per un medesimo fatto un soggetto potrebbe essere
penalmente responsabile ma non civilmente rispetto
ai danni derivanti dal reato commesso».
Sulla scorta di tali rilevi, accolti in sede di conversione
dalla Camera dei Deputati ed in lettura conforme
al Senato, veniva approvata la l. 8 novembre
2012, n. 189, la quale, all’art. 3, comma 1, stabilisce
che «l’esercente le professioni sanitarie che nello
svolgimento della propria attività si attiene a linee
guida e buone pratiche accreditate dalla comunità
scientifica non risponde penalmente per colpa lieve.
In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art.
2043 del codice civile. Il giudice, anche nella
determinazione del risarcimento del danno, tiene
debitamente conto della condotta di cui al primo
periodo».
L’intervento di riforma tra tendenza
alla positivizzazione delle regole cautelari
e limite della colpa grave
Il breve excursus tracciato in merito alle fasi che hanno
portato all’attuale formulazione dell’art. 3, comma
1, l. 8 novembre 2012, n. 189 in tema di colpa
professionale medica, testimonia come la norma sia
transitata quasi accidentalmente dall’ambito civilistico
a quello penale, là dove la sua genesi, lungi dal
costituire il frutto di un meditato intervento, si inserisce
in un più ampio contesto ispirato da finalità
eterogenee ma accomunate dall’ambizioso obiettivo
di promuovere, riducendo i costi, «un più alto livello
di tutela della salute». Nonostante questo carattere
di estemporaneità, la disposizione in questione si innesta
nell’alveo di un dibattito da tempo avviato, da
un lato in relazione al processo di formalizzazione e
positivizzazione delle regole cautelari che ha riguardato
anche il settore del diritto penale della medicina
(4), per definizione regno della colpa generica,
dall’altro in riferimento alla possibilità di circoscrivere
l’ambito di rilevanza penale nello svolgimento
Opinioni
Diritto penale
dell’attività sanitaria mediante il limite della colpa
grave, vero e proprio leit motiv attorno a cui ruotano
la maggior parte delle questioni de jure condito e de jure
condendo (5). Basti pensare, al riguardo, all’ampia
discussione sviluppatasi attorno alla possibilità di
estendere alla colpa penale il dettato di cui all’art.
2236 c.c., il quale costituisce il «riflesso di una normativa
dettata a fronte di due opposte esigenze: quella
di non mortificare troppo l’iniziativa del professionista
e quella inversa di non indulgere verso non
ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista
stesso» (6). In particolare l’introduzione di
detta limitazione relativamente a taluni ambiti troverebbe
giustificazione sostanziale nella loro peculiare
dimensione del rischio, là dove quest’ultimo viene
generato, ed in certa parte giustificato, dallo svolgimento
di un’attività posta in essere dal soggetto
agente, non per finalità proprie, ma a beneficio di altri
soggetti, i quali di frequente rappresentano le stesse
vittime potenziali di quei rischi (7).
Diritto penale e processo 2/2013 217
Note:
(continua nota 3)
nitario, attualmente interessato da un forte incremento del contenzioso
giudiziario e da un conseguente innalzamento dei premi
delle polizze assicurative, basate sul calcolo dei rischi derivanti
dall’esercizio dell’attività professionale, il suddetto obbligo
potrebbe penalizzare alcune categorie di professionisti, particolarmente
esposte a tali rischi in ragione dell’occupazione e dell’attività
svolta». Per tali soggetti la difficoltà di accesso alle polizze
assicurative «è suscettibile di causare notevoli criticità, che
potrebbero sfociare in un ulteriore ampliamento delle pratiche
della medicina difensiva».
(4) Cfr. in particolare D. Castronuovo, L’evoluzione teorica della
colpa penale tra dottrina e giurisprudenza, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2011, 1606 ss.; G. Fiandaca, Appunti su causalità e colpa
nella responsabilità medica, in Responsabilità penale e rischio
nelle attività mediche e d’impresa, a cura di R. Bartoli, Firenze,
2010, 183 ss.; A.R. Di Landro, Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione
della colpa penale nel settore sanitario, Torino,
2012, 6 ss.; F. Giunta, La legalità della colpa, in Criminalia,
2008, 154; D. Micheletti, La colpa del medico. Prima lettura di
una recente ricerca «sul campo», in Criminalia, 2008, 203.
(5) Basti pensare che l’opportunità di limitare la responsabilità
penale alla colpa grave è già espressa in F. Carrara, Programma
del corso di diritto criminale. Parte speciale, Firenze, 1909, par.
89-90. In una prospettiva anche comparatistica A. R. Di Landro,
La colpa medica negli Stati Uniti e in Italia, Torino, 2009, 274,
sottolinea che «nel persistente dubbio sulla necessità (anche solo
mera opportunità) di punire la negligente in generale, ed in
particolare la medical negligence, la prospettiva che sembra oggi
riscuotere più successo (a livello di ius conditum, nei paesi anglosassoni,
e di ius condendum in Italia) è quella di un diritto penale
“comunque ridotto”, che punisce solo la colpa grave». In
un’ottica de lege ferenda favorevole all’introduzione del limite
della colpa grave, cfr., da ultimo, Centro Studi Federico Stella, Il
problema della medicina difensiva, cit., 76 ss.
(6) Così, Corte Cost., 28 novembre 1973, n. 166, in Foro it.,
1974, I, c. 19.
(7) L. Eusebi, Tavola rotonda di presentazione e discussione del
Progetto, in Il Problema della medicina difensiva, cit., 167.

Opinioni
Diritto penale
A fronte delle altisonanti questioni evocate dalla
norma in esame, occorre però sin d’ora sottolineare
che la sua effettiva portata applicativa si mostra
piuttosto ridotta, soprattutto se si considera la rilevanza
di quanto implicitamente residua, ovvero: 1)
che in ipotesi di inosservanza di linee guida e prassi
scientificamente accreditate l’operatore sanitario
potrà essere sempre ritenuto responsabile secondo
gli usuali parametri e dunque anche per colpa lieve;
2) che anche in caso di osservanza di linee guida e
prassi consolidate possono residuare ipotesi di responsabilità,
sebbene circoscritte al ricorrere di una
non meglio definita “colpa grave”; 3) che il riferimento
a questi parametri di giudizio maggiormente
“oggettivizzati” viene comunque sottoposto al preventivo
vaglio interpretativo giurisprudenziale,
chiamato a selezionare le sole linee guida e prassi
scientificamente accreditate.
La principale valenza innovativa dell’art. 3, comma
1, l. 8 novembre 2012, n. 189, sembra dunque doversi
cogliere, non tanto nell’effettiva restrizione
della responsabilità, quanto piuttosto nell’espressa
indicazione di criteri di valutazione medico-legale
della condotta sanitaria che vincolano giudice e
consulenti tecnici al confronto con i parametri di
giudizio propri dell’agire medico (8). In questa direzione
si consideri anche il comma 5 del medesimo
art. 3, a norma del quale, «gli albi dei consulenti tecnici
d’ufficio devono essere aggiornati con cadenza
almeno quinquennale, al fine di garantire, oltre a
quella medico legale, una idonea e qualificata rappresentanza
di esperti delle discipline specialistiche
dell’area sanitaria anche con il coinvolgimento delle
società scientifiche, tra i quali scegliere per la nomina
tenendo conto della disciplina interessata nel
procedimento» (9).
Al di là di questi aspetti però l’art. 3, comma 1, l. 8
novembre 2012 n. 189, in quanto circoscritto alle
non frequenti ipotesi di responsabilità colposa nonostante
l’osservanza di linee guida e prassi scientificamente
accreditate, finisce per assumere in concreto
un significato per lo più simbolico (10), ferma
restando la necessità di confrontarsi con un dettato
normativo che tocca temi già oggetto di ampie trattazioni,
sia in sede dottrinale che giurisprudenziale,
sebbene con esclusivo riferimento alla definizione
generale del delitto colposo di cui all’art. 43 c.p.
Alla ricerca di una nozione di colpa penale
maggiormente selettiva
Nonostante i già evidenziati limiti applicativi dell’art.
3, comma 1, l. 8 novembre 2012, n. 189, è opportuno
rilevare due aspetti che rivestono un indub-
218
bio significato sul versante penalistico e che, almeno
nelle intenzioni, possono essere oggetto di sicuro
apprezzamento: la constatazione di uno sforzo del legislatore
teso a configurare il crimen culposum in termini
maggiormente autonomi e soprattutto più selettivi
rispetto alla colpa civile; l’esplicito riconoscimento
del ruolo che le linee guida e le prassi possono
rivestire nell’individuazione della regola cautelare
e nell’imputazione dell’evento lesivo.
Il primo aspetto è stato anche recentemente evocato
a più riprese dalla dottrina (11) e, nello specifico
ambito sanitario, ha trovato fertile humus nel dibattito
aperto sulla portata ed i costi della medicina difensiva
(12), nonché in relazione alla sottesa necessità
di ridurre il contenzioso per medical malpractice.
Al riguardo, un autorevole indirizzo interpretativo
ha invocato l’adozione di una prospettiva “intrasistematica”
(13), posto che l’eccessiva estensione
della responsabilità penale risulta di frequente riconducibile
ad un utilizzo troppo disinvolto delle
categorie giuridiche di riferimento (14) e, di conse-
Note:
(8) In merito ai profili di carattere intertemporale derivanti dall’intervento
di riforma cfr. Cass., Sez. IV, 29 gennaio 2013, Cantore,
con un primo commento, in attesa del deposito delle motivazioni,
di G. Gatta, Colpa medica e art. 3, co. 1 d.l. n. 158/2012: affermata
dalla Cassazione l’abolitio criminis (parziale) per i reati commessi
con colpa lieve, in www.penale contemporaneo.it.
(9) Un intervento specifico in materia era già stato prospettato
dal Progetto di riforma presentato dal Centro Studi Federico
Stella, il quale prevedeva l’obbligo di affidare l’espletamento della
perizia ad un «collegio composto da uno specialista in medicina
legale ed uno o più specialisti nelle singole materie oggetto
del procedimento, da selezionare attraverso appositi elenchi».
Cfr. in merito la Relazione di presentazione del Progetto, in Il problema
della medicina difensiva, cit., 82.
(10) Cfr., P. Piras, In culpa sine culpa, in www.penalecontemporaneo.it,
1 ss., che, nel conferire particolare rilievo al paradosso sotteso
alla norma di configurare una culpa sine culpa, ritiene «di difficile
ipotizzabilità una colpa grave sorta per linee guida rispettate»,
posto che, tra l’altro, «le linee guida sono specialistiche, quindi
attenersi ad esse presuppone il rispetto delle più elementari regole
dell’arte medica, nella cui violazione consiste invece la colpa
grave».
(11) Cfr. in particolare, D. Castronuovo, La colpa penale, Milano,
2009, 341 ss.; A. Canepa, L’imputazione soggettiva della colpa,
Torino, 2011, 186 ss.; A. R. Di Landro, Dalle linee guida e dai protocolli
all’individualizzazione della colpa penale nel settore sanitario,
cit., 101 ss.; M. Grotto, Principio di colpevolezza, rimproverabilità
soggettiva e colpa specifica, Torino, 2012, 305 ss.
(12) Per tutti, Centro Studi Federico Stella, Il problema della medicina
difensiva, cit., 17 ss.
(13) Cfr. F. Palazzo, Causalità e colpa, in Cass. pen., 2010, 1230,
il quale sottolinea che «la via dell’intervento legislativo si rivela
ardua per le difficoltà sia tecniche che politiche che essa presenta,
a causa della capacità di resistenza delle categorie dogmatiche;
più realistica è invece la strada dell’adeguamento in via
giurisprudenziale».
(14) G. De Francesco, Dolo eventuale, dolo di pericolo, colpa co-
(segue)
Diritto penale e processo 2/2013

guenza, possono auspicarsi rielaborazioni di quest’ultime,
nella prospettiva di una tutela che involga sia
il paziente, sia gli esercenti la professione sanitaria.
A tal fine, ovvero per ricondurre la colpa medica ad
una dimensione realmente penale, si è sostenuto come
potesse essere sufficiente recuperare la “colpevolezza
della colpa”, cioè il profilo di rimproverabilità
soggettiva della violazione della regola cautelare,
nonché incrementare l’attenzione per la colpa che
alligna nel contesto organizzativo, in cui sempre più
spesso e necessariamente si svolge l’attività medica
(15). L’ambito del penalmente rilevante andrebbe
quindi riservato esclusivamente alle ipotesi di evento
avverso prodottosi in conseguenza di una colpa
caratterizzata da un quid pluris oltre la violazione
obiettiva della lex artis.
L’esigenza di valorizzare il piano della cd. colpevolezza
della colpa è stata poi ulteriormente ribadita
mettendo in luce i possibili rimedi, sul piano della
individualizzazione e concretizzazione del giudizio,
agli esiti delle dominati concezioni normative, che
producono nella prassi applicativa moduli di accertamento
eminentemente astratti e oggettivi (16).
Di recente invece l’obiettivo di ridurre il contenzioso
giudiziario, ed almeno in certa parte il fenomeno
della medicina difensiva, è stato perseguito proponendo
un ampio articolato normativo che, tra l’altro,
prevede l’introduzione di una fattispecie autonoma
di reato dal titolo “Morte o lesioni come conseguenza
di condotta colposa in ambito sanitario”
(17), secondo la quale «l’esercente di una professione
sanitaria che, in presenza di esigenza terapeutiche,
avendo eseguito od omesso un trattamento, cagioni
la morte o una lesione personale del paziente è
punibile ai sensi degli artt. 589 e 590 solo in caso di
colpa grave»; il secondo comma individua poi i profili
che connotano la gravità della colpa, statuendo
che «ai sensi del presente articolo la colpa è grave
quando l’azione o l’omissione dell’esercente una
professione sanitaria, grandemente inosservante di
regole dell’arte, ha creato un rischio irragionevole
per la salute del paziente, concretizzatosi nell’evento».
Pur prestando il fianco a taluni rilievi critici
ben noti, soprattutto in tema di rispetto dei principi
di uguaglianza e tassatività (18), la proposta normativa
avanzata da Centro Studi Federico Stella ha
l’indubbio pregio di prevedere espressamente il limite
della colpa grave nella sfera del penalmente rilevante
e di esplicitarne il contenuto in un’apposita
definizione, la quale invece è del tutto assente nel
dettato normativo di cui all’art. 3, comma 1, l. 8 novembre
2012, n. 189.
A fronte dell’ampio panorama di prospettive avan-
Opinioni
Diritto penale
zate dalla nostra dottrina per offrire un concetto di
colpa penalmente rilevante maggiormente autonomo
e selettivo, la disposizione in esame offre quindi
una soluzione affetta da scarsa determinatezza ed eccessivamente
circoscritta nella sua effettiva sfera di
operatività, pur costituendo un primo timido segnale
verso quell’istanza di extrema ratio che dovrebbe
sempre contraddistinguere l’intervento sanzionatorio
rimesso al diritto penale.
Alla ricerca di una nozione di colpa penale
maggiormente determinata
Tra le numerose istanze che la classe medica solleva
in riferimento alle incertezze interpretative che con-
Diritto penale e processo 2/2013 219
Note:
(continua nota 14)
sciente e «colpa grave», alla luce dei diversi modelli di incriminazione,
in Cass. pen., 2009, 5015, sottolinea l’esigenza di salvaguardare
determinati modelli sul piano dogmatico ed interpretativo
atti a guidare il giudice nelle singole vicende concrete, in
modo da evitare che le spinte riformatrici possano suonare come
una legittimazione a superare confini che quei modelli prospettano,
e a privilegiare quelle logiche di gestione del rischio
nelle quali l’individuo rimane sullo sfondo, quasi integralmente
asservito ad un meccanico bilanciamento tra costi e benefici del
tutto incurante del suo personale contributo alla realizzazione
dell’offesa.
(15) F. Palazzo, Responsabilità medica, «disagio» professionale e
riforme penali, in questa Rivista, 2009, 1064, rileva altresì che
«troppi processi sono tutti “giocati” sul piano della causalità e
della lex artis, mentre il vero nodo problematico è quello della
rimproverabilità colposa».
(16) Così D. Castronuovo, La colpa penale, cit., 462-470, che riafferma
una «nozione normativa di colpa che può dirsi «bifunzionale»,
secondo la distinzione strutturale e sistematica tra un momento
oggettivo e soggettivo, che definisce infatti l’illecito colposo
come fatto involontario posto in essere mediante violazione
di regole precauzionali (un momento al quale, dunque, non
sono estranei anche i fattori psicologici), e un giudizio soggettivo-individualizzante
di colpevolezza colposa, in cui tutti quei fattori
soggettivi e psicologici che definiscono il singolo fatto illecito
dovranno essere valutati in rapporto all’autore e alla situazione
concreta in cui si è trovato ad agire». I rischi di accentuare il
carattere presuntivo del giudizio, ricorrendo ad una qualificazione
colposa in senso obiettivo-generalizzante, sono stati messi in
luce in particolare da G.V. De Francesco. Il «modello analitico»
tra dottrina e giurisprudenza: dommativa e garantismo nella collocazione
sistematica dell’elemento psicologico del reato,inRiv.
it. dir. proc. pen., 1991, 132.
(17) Titolo così modificato nella sua versione definitiva rispetto al
precedente «Morte o lesioni come conseguenza dell’esercizio di
una professione sanitaria», riportato in Centro Studi Federico
Stella, Il problema della medicina difensiva, cit., 47 ss. Un primo
tentativo di prevedere un’autonoma fattispecie di trattamento
medico colposo accanto ai reati comuni di omicidio e lesioni personali
colpose risale a A. Manna, Profili penalistici del trattamento
medico-chirurgico, Milano, 1984, 168. Norme specificamente
rivolte alla professione medica sono contenute inoltre, ad esempio,
nei codici penali spagnoli e portoghesi. Sul punto cfr. A. R.
Di Landro, La colpa medica negli Stati Uniti e in Italia, cit., 252.
(18) In tal senso cfr. l’ampia discussione sviluppatasi nella Tavola
Rotonda, integralmente riportata in Centro Studi Federico
Stella, Il problema della medicina difensiva, cit., 11 ss.

Opinioni
Diritto penale
traddistinguono l’accertamento della responsabilità,
un posto preminente è senz’altro attribuibile alla necessità
di una maggiore tipicizzazione dell’illecito, a
cui corrisponde l’esigenza di discernere in anticipo il
comportamento vietato rispetto a quello consentito.
Si tratta, come a tutti noto, del tema centrale sotteso
al carattere aperto delle fattispecie colpose (19),
che involge in primo luogo il rispetto dei principi di
legalità e sufficiente determinatezza ex art. 25, comma
2, Cost. (20).
In questa direzione può considerarsi almeno in certa
parte apprezzabile lo sforzo profuso dell’art. 3, comma
1, l. 8 novembre 2012, n. 189, per conferire maggiore
afferrabilità al precetto colposo, ed in particolare
al procedimento di individuazione della regola
cautelare, là dove il giudice, nella valutazione dell’attività
riguardante l’esercente la professione sanitaria,
è espressamente tenuto a confrontarsi con
l’eventuale esistenza di “linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica”, la cui
osservanza comporta un’esenzione della responsabilità
penale “per colpa lieve”. In tal modo il Legislatore,
in relazione al piano strettamente giuridico, ha
conferito esplicita rilevanza a strumenti di codificazione
del sapere medico di non agevole classificazione
e collocazione (21) e, in riferimento all’ambito
medico-scientifico, è implicitamente intervenuto
sul ben noto dibattito sviluppatosi in merito alla
portata da attribuire alla cd. Evidence Based Medicine
(22).
Nella nostra dottrina l’istanza volta ad individuare
parametri di giudizio maggiormente oggettivizzati
trae origine dai crescenti limiti evidenziati dal prevalente
indirizzo teorico, che individua il dovere oggettivo
di diligenza posto a fondamento della fattispecie
colposa sulla scorta del parametro relativistico
dell’homo eiusdem professionis et condicionis (23),
se non anche in riferimento alla migliore scienza ed
esperienza del momento storico (24). Al riguardo si
sottolinea in particolare come le insidie dei cd. rischi
della modernità abbiano reso sempre meno afferrabile
l’illuministica figura dell’agente modello,
“condensato di umane virtù” (25), che rischia di trasformarsi
sempre più «nell’uomo senza qualità, preda
di un’intelligenza affascinata dall’esattezza scientifica,
in eterno conflitto con l’infinita indeterminatezza
del reale» (26).
La ricerca di criteri di giudizio in grado di spersonalizzare
il piano oggettivo-ricognitivo della fattispecie
tipica, senza riferimenti ad un sapere teorico ed
assoluto, e di ovviare così all’approccio tradizionale
ricostruttivo della tipicità colposa in termini non
già descrittivi, ma puramente ascrittivi, si è svilup-
220
pata, da una parte attraverso il riferimento alle regole
prasseologiche di esperienza generalmente riconosciute
e condivise (27), dall’altra, con specifico
Note:
(19) Secondo la nota definizione di H. Welzel, Fahrlässigkeit und
Verkehrsdelikte. Zur Dogmatik der fahrlässigen Delikte, Karlsruhe,
1961, 14. Sul punto cfr. inoltre G. Stratenwerth, L’individuazione
della misura di diligenza nel delitto colposo, t.i. A. Castaldo,
in Riv. it. dir. proc. pen., 1986, 635 ss.
(20) F. Palazzo, Corso di diritto penale, Torino, 2011, 331, rileva
come la fattispecie del reato colposo dia luogo ad una caduta
della legalità. E ciò non solo perché il richiamo espresso o implicito
alle norme cautelari abbraccia solitamente anche regole di
fonte non legislativa, ma anche perché l’ineliminabile processo
di concretizzazione presenta margini di incertezza entro i quali si
muove il giudice.
(21) In merito parte della dottrina sottolinea come il nostro codice,
nel definire il delitto colposo, abbia attribuito rilievo anche a
fonti subnormative, per cui le linee guida, ove largamente impiegate,
costituiscono pratiche normative aventi il rango di «discipline»,
le quali però «possono al più contribuire all’individuazione
delle regole di diligenza caratterizzanti il singolo caso, non potendosi
stabilire alcun automatismo di sorta tra la loro violazione
e la responsabilità professionale del sanitario». Cfr. G. Iadecola,
Il valore «dell’opinione» dell’ordine professionale e delle società
scientifiche nel contenzioso penale, in Riv. it. med. leg., 2001, 11
ss.; P. Piras - A. Carboni, Linee guida e colpa specifica del medico,
in Medicina e diritto penale, a cura di S. Canestrari - F. Giunta
- R. Guerrini - T. Padovani, 2009, Pisa, 289.
(22) G. Corbellini, Breve storia delle idee di salute e di malattia,
Roma, 2005, 123, sottolinea che la medicina di oggi è caratterizzata,
per quanto riguarda le sue basi scientifiche, da due diverse
filosofie della conoscenza medica, come si evince chiaramente
dal dibattito in corso sul significato dell’Evidence Based Medicine:
«l’EBM, ovvero la medicina basata sulle prove di efficacia,
che nell’ultimo decennio è stata proposta come un nuovo paradigma,
fa riferimento alla filosofia degli approcci epidemiologici,
e assume come metodologia fondamentale per le scelte mediche
le prove empiriche ricavate da trial clinici e dalle metanalisi.
Rispetto al vecchio paradigma, che considerava sufficiente per
un buon esercizio della pratica medica l’esperienza personale del
medico e le conoscenze della fisiopatologia applicata ai problemi
clinici, l’EBM ritiene necessaria anche la standardizzazione delle
scelte sulla base di uno sforzo metodologico volto a rendere riproducibili
le osservazioni e, soprattutto, non considera né necessarie
né sufficienti le conoscenze fisiopatologiche per avere
indicazioni da seguire nella pratica clinica».
(23) Per tutti G. Marinucci, La colpa per inosservanza, Milano,
1965, 194 ss. Nella manualistica in particolare G. Fiandaca - E.
Musco, Diritto penale, Bologna, 2009, 554 ss.
(24) Si tratta della ben nota tesi proposta da F. Mantovani, Colpa,
in Digesto delle discipline penalistiche, II, Torino, 1988, 205 ss.,
il quale sottolinea anche la necessità di integrare la qualificazione
della condotta come incauta secondo la miglior scienza ed
esperienza del momento storico con il requisito dell’attribuibilità
in concreto dell’inosservanza all’agente.
(25) Cfr. F. Giunta, I tormentati rapporti tra colpa e regola cautelare,
in questa Rivista, 1999, 1296.
(26) Così, in riferimento alla celebre opera di Musil, V. Attili,
L’agente modello nell’era della complessità: tramonto, eclissi o
trasfigurazione?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 1240.
(27) In tal senso, F. Giunta, La legalità della colpa, cit., 165, il quale
sottolinea come il concetto di dovere di diligenza non sia
esclusivamente penalistico e come «il riferimento alle prassi
cautelari laicizza la nozione di diligenza, conferendole un caratte-
(segue)
Diritto penale e processo 2/2013

iferimento all’attività medica, mediante il rinvio a
linee guida elaborate da società scientifiche di prestigio
internazionale (28).
Orbene di certo il nuovo art. 3, comma 1, l. 8 novembre
2012, n. 189, riferendosi espressamente a linee
guida e buone pratiche quali criteri di giudizio
del procedimento di individuazione della regola
cautelare, potrebbe agevolare la descrizione in termini
tendenzialmente generali del comportamento
vietato, rendendolo maggiormente riconoscibile ex
ante anziché incentrato sull’agente hic et nunc (29),
così come potrebbe contribuire a ridurre il rischio di
incorrere in un giudizio impari, fondato sul mero accertamento
causale e sulla logica del post hoc ergo
propter hoc (30), per l’evidente differenza di prospettiva
che contraddistingue chi giudica e chi è giudicato:
«quest’ultimo ha agito in un contesto di polisemia,
senza poter contare su una compiuta percezione
del decorso causale; il primo, invece, conosce
già l’esito e tende a calibrare la sua ricostruzione su
questa previa, importante acquisizione» (31).
L’apprezzabile sforzo compiuto in direzione della tassatività/predeterminabilità
della condotta doverosa
sconta però inevitabilmente i limiti intrinseci che
contraddistinguono sia le linee guida che le buone
pratiche, al punto che lo stesso Legislatore sottintende
un duplice filtro valutativo: da un lato richiedendo
- in termini invero assai generici - che linee
guida e buone pratiche siano “accreditate dalla comunità
scientifica” e, di conseguenza, di comprovata
attendibilità epistemologica o statistica; dall’altro
facendo residuare, anche in ipotesi di comportamento
conforme a tali parametri valutativi, la possibilità
di incorrere in responsabilità per colpa “non
lieve”, da valutare alla stregua degli usuali parametri
della prevedibilità ed evitabilità dell’evento. In tal
modo si finisce implicitamente per riconoscere al
giudice quel margine di discrezionalità che si sarebbe
voluto eliminare o quantomeno ridurre e che però,
in taluni casi, si rivela imprescindibile, per non
correre l’elevato rischio di scambiare il mezzo per il
fine, sostituendo alla valutazione circa l’effettiva salvaguardia
della salute del paziente quella relativa alla
prassi o alla direttiva più accreditata e/o consolidata
(32).
Anche il ricorso a parametri di giudizio maggiormente
oggettivizzati non risolve quindi, una volta
per tutte, il problema della individuazione della regola
cautelare da applicare alla fattispecie concreta,
posto che, per sua natura, la medicina cura singoli
organismi, l’unicità delle cui risposte sfugge a qualsiasi
astrazione categoriale e le cui situazioni di rischio
variano in relazione ad innumerevoli fattori,
Opinioni
Diritto penale
riproducendosi raramente in maniera costante ed
indistinta (33). Si tratta di una conclusione a cui segue
l’inevitabile ridimensionamento del piano valutativo
costituito dalle linee guida e dalle buone pratiche,
le quali possono sì guidare l’interprete nella
ricostruzione del tipo (34), ma non vincolarlo in
termini di stretta applicazione nella decisione della
Diritto penale e processo 2/2013 221
Note:
(continua nota 27)
re empirico e contrastandone l’immanente tensione etica: diversamente,
l’accezione deontologica dell’agente modello, apparendo
sempre più il ritratto dell’uomo con troppe qualità, esercita
una spinta costante verso livelli di eccellenza, anche a discapito
della certezza e della riconoscibilità della regola cautelare.
Non si dimentichi infatti che la colpa, come tutti i parametri normativi,
non sta nella testa di chi agisce, ma in quella di chi giudica».;
D. Micheletti, La colpa del medico, cit., 195.
(28) Sul possibile ruolo delle linee guida in ambito penalistico
cfr., tra gli altri, M. Caputo, «Filo d’Arianna» o «flauto magico»?
Linee guida e checklist nel sistema della responsabilità per colpa
medica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 885 ss.; A.R. Di Landro,
Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione della colpa
penale nel settore sanitario, cit., 8 ss.; P. Piras - A. Carboni, Linee
guida e colpa specifica del medico, cit., 285 ss.; A. Farnetti,
Problemi di responsabilità sanitaria, Milano, 2007, 124; M. Portigliatti
Barbos, Le linee guida nell’esercizio della pratica clinica, in
questa Rivista, 1996, 861; E. Terrosi Vagnoli, Le linee guida per
la pratica clinica, problemi e valenze medico-legali, in Riv. it.
med. leg., 1999, 223.
(29) Così F. Giunta, La legalità della colpa, cit., 150 ss.; A. Fiori -
D. Marchetti, Medicina legale della responsabilità medica. Nuovi
profili, Milano, 2009, 305, sottolineano la mancanza di parametri
sulla base dei quali valutare la «violazione di regole doverose di
condotta di un’attività caratterizzata da procedure, di per se stesse
spesso rischiose, rivolte a persone a rischio, la quale nonostante
poggi su basi scientifiche, pur sempre si avvale inevitabilmente
di un empirismo modulato su ogni singolo caso».
(30) In questi termini F. Introna, Un paradosso: con il progresso
della medicina aumentano i processi contro i medici, in Riv. it.
med. leg., 2001, 884 ss.
(31) Così C. Piergallini, La regola dell’oltre ragionevole dubbio, in
Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 636. Più in generale, sui rischi insiti
in una ricostruzione ex post del tipo colposo, cfr. H.-H. Jescheck
- T. Weigend, Lehrbuch des Strafrechts, Berlin, 1996, 564 ss.
(32) Sul punto G. Marinucci, Innovazioni tecnologiche e scoperte
scientifiche: costi e tempi di adeguamento delle regole di diligenza,
in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 1 ss.; D. Pulitanò, Diritto
penale, Torino, 2009, 508.
(33) In ambito filosofico cfr. H. JONAS, Technik, Medizin und
ethik. Zur Praxis des Prinzips Verantwortung, Frankfurt am Main,
1985, t.i., Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità,
Torino, 1997, 109, secondo cui «il medico si confronta
di volta in volta con il singolo caso, con l’individuale in tutta
la sua unicità e complessità che nessun inventario analitico
può spiegare fino in fondo».
(34) L. Cornacchia, Concorso di colpe e principio di responsabilità
per fatto proprio, Torino, 2004, 504, ritiene che gli usi cautelari
e le prassi di settore «costituiscono un imprescindibile strumento
ad adiuvandum, ma non possono assolvere a quella axiologica
esigenza imposta dal principio di legalità più del riferimento
all’homo eiusdem professionis et condicionis o a giudizi equitativi
di rischio consentito: si tratta appunto solamente di ausilii,
particolarmente qualificati, ma che non bastano ad esaurire la dimensione
cautelare della situazione oggetto di valutazione».

Opinioni
Diritto penale
singola fattispecie, pena, tra l’altro, il disconoscimento
del principio di libertà di cura in capo al medico
(35). A ciò si aggiunga che l’esplicito riferimento
alle linee guida o alle buone pratiche, giustificato
in riferimento alla necessità di contrastare il
fenomeno della medicina difensiva, porterebbe ad
una singolare “eterogenesi dei fini” là dove inteso in
termini di allineamento acritico, con il sanitario
preoccupato in primo luogo di allontanare da sé -
tramite la loro osservanza - il rischio di contenzioso
giudiziario (36), anche a scapito della effettiva tutela
del diritto alla salute del paziente (37).
Sul ruolo delle linee guida
e sul loro grado di vincolatività
per il sanitario e per il giudice
Il dibattito sulla valenza che le linee guida possono
rivestire nel procedimento di genesi e di individuazione
della regola cautelare su cui si incentra la fattispecie
colposa ha trovato ampio sviluppo sia in sede
dottrinale che in sede giurisprudenziale (38).
Secondo una ben nota definizione le linee guida costituiscono
«raccomandazioni di comportamento
clinico, elaborate mediante un processo di revisione
sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche,
al fine di aiutare medici e pazienti a decidere
le modalità assistenziali più appropriate in specifiche
situazioni cliniche» (39). Di conseguenza la
funzione precipua di tali strumenti di codificazione
del sapere medico risiede nella loro capacità di sintesi
dell’esperienza diffusa in ambito sanitario e delle
migliori evidenze scientifiche disponili (40), per
assicurare il massimo grado di appropriatezza dell’intervento
e ridurre al minimo quella parte di variabilità
delle scelte cliniche legate alla carenza di conoscenza
ed alla soggettività dei criteri di scelta della
strategia assistenziale (41). Si tratta di indici valutativi
tendenzialmente oggettivi e soprattutto idonei a
guidare il compito di periti e giudici, i primi incaricati
dell’apprezzamento tecnico-scientifico riguardante
la fattispecie concreta (42), i secondo chiamati
ad effettuare, sulla scorta degli stessi elaborati
peritali, il delicato procedimento di individuazione
e di ricognizione della regola cautelare alla base della
fattispecie tipica colposa (43).
Il carattere di scientificità, generalità e predeterminatezza
che - almeno teoricamente - contraddistingue
le linee guida catalizza dunque l’attenzione della
scienza medica così come di quella giuridica, pur dovendosi
attentamente considerare taluni limiti intrinsecamente
connaturati a tali prodotti della ricerca
clinica, sinteticamente rinvenibili: 1) nel possibile
contrasto tra evidenze scientifiche generalizzanti
222
e di carattere prevalentemente statistico ed esigenze
peculiari del singolo caso concreto, che richiama
l’attenzione sulla necessità di curare la singola persona
e non l’astratta patologia; 2) nel conflitto di interessi
che legano ricercatori, editori e industrie e
che può dar luogo a raccomandazioni incentrate
prevalentemente su criteri di economicità e convenienza,
piuttosto che di effettivo soddisfacimento
delle esigenze diagnostiche e curative (44); 3) nella
molteplicità/eterogeneità delle linee guida, di frequente
elaborate da enti, istituzioni, società scientifiche
che non sono riconosciute da alcuna autorità
pubblica, la quale rimane tendenzialmente estranea
ai procedimenti sottesi alla loro adozione (45).
Note:
(35) M. Barni, La prescrizione dei farmaci: libertà terapeutica e
responsabilità del medico, in Riv. it. med. leg., 1994, 555 ss.
(36) Cfr. P. Piras, In culpa sine culpa, cit., 4.
(37) Cfr. ancora H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica, cit., 11, secondo
cui «un tratto essenziale dell’arte medica è dunque che il
medico ha ogni volta a che fare con il suo simile e ogni volta tipicamente
al singolare. Il paziente si aspetta e deve confidare
sul fatto che la cura sia finalizzata a lui solo (..). Sin dal primo passo,
già nella diagnosi, intesa come sussunzione del particolare
sotto il generale, è necessario un sapere del tutto diverso rispetto
a quello teorico. Kant definì questo genere di conoscenza
“giudizio”, che non si acquisisce insieme al sapere generale,
bensì collega quest’ultimo al prender visione di un che di unico
e della totalità che lo contiene, rendendo solo così possibile l’applicazione
dell’astratto al concreto».
(38) Per la dottrina cfr. gli Autori citati sub nota n. 27; in giurisprudenza,
tra le altre, cfr. Cass., Sez. IV, 14 novembre 2007,
Pozzi, in Riv, it. dir. proc. pen., 2009, 440 ss.; Cass., Sez. IV, 5 dicembre
2003, Ligresti ed altri, in C.e.d. Cass. n. 229669; Cass.,
Sez. IV, 23 novembre 2010, Grassini, in Cass. pen., 2012, 542
ss., con nota di T. Campana, La correlazione tra inosservanza e/o
applicazione delle «linee guida» e responsabilità penale del
medico e di G. Marra, L’inosservanza delle cd. «linee guida» non
esclude di per sé la colpa del medico.
(39) M. J. Field - K. N. Lohr, Guideline for Clinical Practice: from
development to use, Washington, Institute of Medicine, National
Academy Press, 1992, 35.
(40) D.L. Sackett, W.M. Rosemberg, J.A. Gray, Evidence-Based
Medicine. What is and what isn’t, in BMJ, 1996, 312.
(41) A. M. Bonanno, Protocolli, linee guida e colpa specifica, in
Ind. pen., 2006, 441 ss.; P. Piras - A. Carboni, Linee guida e colpa
specifica del medico, cit., 286.
(42) Sui limiti insiti nel ricorso a valutazioni soggettive cfr. G. Marinucci,
La responsabilità colposa: teoria e prassi, in Riv. it. dir.
proc. pen., 2012, 3.
(43) F. Giunta, La legalità della colpa, cit., 150 ss.; D. Micheletti,
La colpa del medico, cit., 192.
(44) Cfr. M. Caputo, «Filo d’Arianna» o «flauto magico»?, cit.,
878 ss.
(45) P. Piras - A. Carboni, Linee guida e colpa specifica del medico,
cit., 286. Inoltre cfr. ancora M. Caputo, «Filo d’Arianna» o
«flauto magico»?, cit., 883 ss., che rileva l’esistenza di due distinte
questioni, «da un lato l’opportunità o meno di individuare
un’autorità sovraordinata alle altre - quale potrebbe essere il Mi-
(segue)
Diritto penale e processo 2/2013

Il riconoscimento di tali limiti intrinseci alla valenza
delle linee guida, così come attualmente concepite,
si ripercuote sulla questione afferente al loro grado
di vincolatività nei confronti dei singoli medici,
in quanto si tende generalmente ad escludere la sussistenza
di una reale efficacia prescrittiva, posto che,
in virtù del principio di libertà di cura, il sanitario è
sempre tenuto a conoscere le insopprimibili peculiarità
del singolo caso concreto (46). A fortiori la
vincolativià delle Guidelines è solo relativa anche
nello specifico ambito penalistico, dovendosi vagliare
e discernere, caso per caso, la ragion d’essere
sottesa all’indicazione proveniente dalle linee guida,
posto che questa non necessariamente coincide
con la ratio spiccatamente cautelare che deve invece
contraddistinguere il dovere oggettivo di diligenza
- di carattere strettamente modale - su cui si impernea
il fatto tipico colposo e su cui si innesta la
valutazione riguardante il cd. nesso di rischio tra regola
precauzionale ed evento lesivo (47). In questa
direzione sembra doversi interpretare il dato emergente
dalla nuova disposizione - di per sé paradossale
- di una responsabilità residuale, circoscritta ad
ipotesi di colpa non lieve, in cui l’esercente la professione
sanitaria può incorrere pur avendo osservato
linee guida o buone pratiche accreditate dalla comunità
scientifica.
In realtà si tratta di una previsione per certi versi
pleonastica, posto che ad un’affermazione “macroscopica”
di responsabilità, pur in presenza dell’osservanza
di linee guida o buone pratiche, si potrà giungere
solo attraverso due vie interpretative: o ritenendo
non del tutto adeguato al caso concreto il richiamo
al sapere medico consolidato, ma in tale
evenienza l’osservanza di linee guida o protocolli sarà
stata solo formale (perché ad esempio il trattamento
del caso concreto non rientrava tra quelli
espressamente presi in considerazione); oppure ritenendo
linee guida o procedure protocollari non ispirate
ad esigenze di effettiva tutela del paziente, bensì
da esigenze di carattere marcatamente aziendalistico/economicistico,
ed in queste fattispecie mancherà
il requisito, pur richiesto, del riconoscimento
presso la comunità scientifica. In altri termini il vaglio
giurisprudenziale sulla pertinenza o meno di
questi strumenti di codificazione rispetto al caso
concreto è già implicitamente affermato dall’art. 3,
comma 1, l. 8 novembre 2012 n. 189, anche a prescindere
dall’espresso richiamo alla residuale ipotesi
di colpa non lieve, destinato ad avere una portata
applicativa piuttosto ridotta.
Nonostante ciò resta l’indicazione valoriale sottesa
alla norma per cui, in ipotesi di osservanza degli
Opinioni
Diritto penale
strumenti di codificazione del sapere medico scientificamente
accreditati, l’affermazione di responsabilità
andrà di norma esclusa anche laddove, nell’interpretazione
del contenuto di linee guida e prassi, si
registri la compresenza di valutazioni medico-scientifiche
e di valutazioni volte all’ottimizzazione delle
risorse (48) o comunque non possa considerarsi del
tutto azzerato - ma solo ragionevolmente contenuto
- il rischio del verificarsi di eventi lesivi (49). In detti
casi infatti il legislatore, nel delicato bilanciamento
di interessi contrapposti, ha esplicitamente inteso
privilegiare le esigenze di tassatività e certezza rispetto
a quelle del soddisfacimento di istanze di tutela,
con ciò restituendo alla sanzione penale il suo
carattere di sussidiarietà e di extrema ratio (conclusione
ulteriormente comprovata dal residuale rinvio
al profilo risarcitorio della responsabilità aquiliana
ex art. 2043 c.c.).
Diritto penale e processo 2/2013 223
Note:
(continua nota 45)
nistero della Salute - cui riconoscere un superiore potere di convalida
istituzionale, onde mettere ordine al profluvio di raccomandazioni
e segnalare in via ufficiale quelle cui prestare maggiore
attenzione; dall’altro la metodologia di formazione delle linee
guida». Da ultimo favorevole al recepimento delle linee guida
più qualificate in decreti del Ministero della Salute, per conferire
alle stesse un riconoscimento espresso, P. Piras, In culpa sine
culpa, cit.
(46) M. Bilancetti, La responsabilità civile e penale del medico,
Padova, 2006, 744 ss.; E. Terrosi Vagnoli, Le linee guida per la
pratica clinica, problemi e valenze medico-legali, cit., 223.
(47) Cfr. L. Ramponi, in D. Castonuovo - L. Ramponi, Dolo e Colpa
nel trattamento medico sanitario, in La responsabilità in medicina,
a cura di A. Belvedere e S. Riondato, Milano, 2011, 973
ss.; M. Caputo, «Filo d’Arianna» o «flauto magico»?, cit., 88 ss,
secondo cui «l’esistenza di una raccomandazione funge da ratio
cognoscendi della colpa, funzionale alla selezione della cautela,
non già da ratio essendi, anche perché altrimenti il giudizio sulla
difformità del comportamento medico dalle indicazioni contenute
nelle linee guida rischia di aprire varchi alla responsabilità oggettiva,
con tramutazione del fatto colposo in un reato di condotta
a pericolo astratto e connessa amputazione dell’evento,
degradato a mera condizione di punibilità». In relazione all’intervento
di riforma da ultimo G. Civello, Responsabilità medica e rispetto
delle “linee-guida”, tra colpa grave e colpa lieve, in
www.archiviopenale.it, 13 ss.
(48) Cfr. D. Micheletti, La colpa del medico, cit., 205, il sottolinea
che «un bilanciamento costi-benefici nel campo della sanità, là
dove non sia perseguita da protocolli standard, finisce comunque
per imporsi sugli operatori anche in ragione di tacite raccomandazioni
degli organi amministrativi».
(49) Al riguardo si consideri il precedente costituito da Cass.,
Sez. IV, 23 novembre 2010, cit., in cui il medico addetto alle cure
post-operatorie, conformemente alle indicazioni provenienti
dalle linee guida in ipotesi di stabilizzazione del quadro clinico,
aveva deciso di dimettere un paziente ricoverato d’urgenza per
un infarto al miocardo e per un edema polmonare acuto; in seguito
alla dimissione il medesimo paziente, colto da insufficienza
respiratoria, era deceduto.

Opinioni
Diritto penale
Buone prassi accreditate scientificamente
e “colpa protocollare”
Linee guida e buone pratiche, pur accomunate da
una significativa affinità funzionale, non possono
essere considerate come un’endiadi, in quanto rispettivamente
contraddistinte da precipui aspetti
contenutistici. In particolare l’indeterminato concetto
di “buone pratiche” o standards - cresciuto all’ombra
delle ben più celebrate linee guida - viene
per lo più ricondotto nella categoria dei protocolli,
schemi rigidi e predefiniti di comportamento diagnostico-terapeutico
che descrivono le procedure
alle quali l’operatore sanitario deve strettamente attenersi
in una situazione specifica (50). Da questa
peculiarità strutturale discende, quale rilevante conseguenza,
la tendenziale tassatività della sua applicazione,
posto che solo il corretto e sistematico adempimento
della sequenza comportamentale indicata
garantisce l’operatore dal rischio del verificarsi di
esiti avversi.
Non a caso attenta dottrina fa riferimento, al riguardo,
al concetto di colpa protocollare o procedurale,
legato alla sempre più invalsa tendenza alla procedimentalizzazione
della prevenzione dell’esito avverso
che, da una parte ha il pregio di consentire una limitazione
predeterminata di rischi qualificati e sperimentati
nell’ambito di un’affidabile cornice nomologica
o esperienziale, dall’altra sconta il pericolo di
facili automatismi improntati alla logica del versari
in re illecita (51). Al riguardo, è proprio il carattere
imperativo di protocolli e buone pratiche a facilitare
il raggiungimento di un giudizio di tendenziale
coincidenza tra le regole di condotta ivi indicate e le
regole precauzionali che possono essere poste a fondamento
dell’imputazione colposa (52), anche in
considerazione della loro portata spiccatamente
cautelare e per lo più scevra di profili attinenti ad
esigenze diverse, quali il contenimento dei costi e
l’ottimizzazione delle risorse (che invece ben possono
incidere nella stesura delle linee guida).
Già questa succinta ricognizione riguardante lo
schema delle “buone pratiche” consente di inferire
che, in riferimento ad esse, ed in misura ben maggiore
rispetto a quanto affermato in relazione alle linee
guida, l’ipotesi di una residuale “colpa non lieve”
prevista dall’art. 3, comma 1, l. 8 novembre
2012 n. 189, finisce per limitarsi ad una funzione di
mera “clausola di stile”. A fronte della scrupolosa osservanza
di buone pratiche riconosciute dalla comunità
scientifica, nonché pertinenti rispetto alla fattispecie
concreta e strutturate mediante l’enucleazione
di rigidi passaggi procedurali, appare infatti dav-
224
vero difficile ipotizzare la sussistenza di una colpa
macroscopica e - come tale - penalmente rilevante.
La distinzione esistente tra linee guida e buone prassi
scientificamente accreditate ridonda anche in riferimento
al concetto di “regole prasseologiche”,
che possono divenire fonti di produzione e di ricognizione
della lex artis allorquando siano ampiamente
diffuse e ritenute dall’agente valide ed efficaci
(53). Le Guidelines descrivono infatti modelli di
condotta ideali che, come tali, non necessariamente
coincidono con le regole prasseologiche più diffuse e
che, stante la loro sostanziale eterogeneità, possono
essere già consolidate o innovative, così come limitarsi
ad individuare un livello minimo di diligenza
richiesta o, al contrario, tendere al raggiungimento
dello standard cautelare più elevato (54); inoltre gli
orientamenti scientifici più avanzati «non producono
automaticamente l’obsolescenza di precedenti
prassi, ma con esse convivono, spesso a lungo, fino
ad una completa sostituzione» (55).
Al contrario le “buone pratiche”, indicando modelli
comportamentali condivisi e destinati ad un’applicazione
rigida - in quanto strutturata su evidenze
scientifiche ed esperienziali di carattere pressoché
definitivo - finiranno per lo più con il coincidere
con gli usi cautelari diffusi in un determinato contesto
spazio-temporale (56). Questa maggiore convergenza
contenutistica non può però essere assolutizzata,
posto che comunque i protocolli, modellandosi
su specifiche realtà ospedaliere, mantengono
un’impronta deontica e prescrittiva che deriva dall’osservazione
e dalla sperimentazione di cautele do-
Note:
(50) Per un’approfondita analisi del fenomeno, anche in un’ottica
comparatistica, A. R. Di Landro, Dalle linee guida e dai protocolli
all’individuazione della colpa penale nel settore sanitario, cit.,
10 ss.; M. Caputo, «Filo d’Arianna» o «flauto magico»?, cit., 26
ss.
(51) Per tutti D. Castronuovo, La colpa penale, cit., 305 ss.; nello
specifico settore medico L. Ramponi, Dolo e colpa nel trattamento
medico sanitario, cit., 977 ss.
(52) In questa direzione F. Giunta, Medico (responsabilità penale
del), in Dizionari sistematici di diritto penale, a cura di F. Giunta,
Milano, 2008, 881.
(53) F. Giunta, La legalità della colpa, cit., 165 ss.
(54) A.R. Di Landro, Dalle linee guida e dai protocolli all’individuazione
della colpa penale nel settore sanitario, cit., 63
(55) A. Fiori - D. Marchetti, Medicina legale della responsabilità
medica, cit. 515.
(56) F. Giunta, Medico (responsabilità penale del), cit., 881, rileva
che «le linee guida, al di là della variabilità dei nominalismi, vanno
distinte dai protocolli: le prime infatti hanno valore tendenziale,
mentre i secondi sono ben più precisi e vincolanti. Ne consegue
che un autentico contrasto di regole cautelari si può delineare
solo tra norme prasseologiche e regole protocollari, in
quanto dotate entrambe di sufficiente determinatezza».
Diritto penale e processo 2/2013

verose non necessariamente consolidate o stabilmente
acquisite e dunque differente rispetto a quella
che si auto-determina negli usi terapeutici già diffusi
e ritenuti doverosi nella specifica cerchia professionale
dell’agente (57).
Da un lato perciò la positivizzazione dei protocolli
terapeutici «non può che essere valutata in modo
positivo, vuoi perché ne rafforza la conoscenza tra
gli operatori, vuoi perché semplifica la ricognizione
giudiziale del modello cautelare doveroso (58)»;
dall’altro però occorre riconoscere che, anche alla
luce dell’intervento di riforma, sembra persistere
una certa contrapposizione assiologia tra esigenze
garantistiche di riconoscibilità e sufficiente determinatezza
del precetto colposo ed esigenze di tutela
(59). Lo specifico riferimento a linee guida o buone
pratiche “scientificamente accreditate”, unitamente
all’esplicita previsione di una responsabilità residuale,
pur a fronte della loro osservanza, consente infatti
il controllo e l’invalidazione giudiziale delle prassi
ritenute scorrette o inadeguate alla luce del progresso
scientifico o delle innovazioni tecnologiche.
L’art. 3, comma 1, l. 8 novembre 2012
n. 189, tra scarsa determinatezza
e principio di uguaglianza sostanziale
L’art. 3, comma 1, l. 8 novembre 2012 n. 189, oltre a
scontare rilevanti limiti applicativi, presenta almeno
due aspetti di criticità tali da sostanziare anche
possibili profili di incostituzionalità.
In primo luogo la sfera operativa dell’intervento di
riforma è circoscritta alla categoria degli operatori
sanitari, per cui la limitazione di responsabilità per
l’ipotesi di colpa lieve ivi prevista è destinata ad
operare in via esclusiva nei loro confronti. Al riguardo
balza subito agli occhi la differenza sostanziale
con il limite della colpa grave previsto dall’art.
2236 c.c. in ipotesi di prestazioni implicanti la soluzione
di problemi tecnici di speciale difficoltà, il
quale si riferisce, senza distinzione alcuna, al “prestatore
d’opera”.
Viene in rilievo dunque l’ineludibile questione del
rispetto del principio di uguaglianza sostanziale
(60), posto che il significato sociale e la peculiarità
dell’attività medica non sembrano costituire un unicum
in grado di legittimare, di per sé, questa sola eccezione
in tema di responsabilità colposa. Si pensi al
riguardo alle altre attività intrinsecamente pericolose,
ma parimenti utili, il cui svolgimento comporta
rischi altrettanto gravi per la vita o l’incolumità delle
persone (l’attività di vigilanza sugli schermi radar
di una torre di controllo, la progettazione e l’edificazione
di grattacieli, ponti, gallerie, etc.) (61). Inol-
Opinioni
Diritto penale
tre l’intervento di riforma subordina l’esonero di responsabilità
per colpa lieve all’osservanza di linee
guida e buone pratiche, e queste ultime possono limitarsi
a codificare regole di diligenza e/o prudenza -
non necessariamente di perizia - per cui, in assenza
di peculiari difficoltà di carattere tecnico-operativo,
aumenta il rischio di configurare un’area di privilegio
di difficile giustificazione (62). A motivazione
almeno parziale della settorialità che contraddistingue
la norma in esame potrebbe essere addotto il carattere
precipuo del riferimento a linee guida e buon
pratiche, quali strumenti di consolidamento del sapere
scientifico non rinvenibili in riferimento alle
altre attività socialmente utili ma pericolose.
In realtà l’attuale formulazione della norma inevitabilmente
risente del carattere di estemporaneità ed
urgenza che ne ha caratterizzato l’adozione, là dove,
a fronte della scelta di introdurre il limite della colpa
grave, sarebbe stato di certo più opportuno giungere
ad un’estensione di detto limite a tutte le attività
contraddistinte dalla presenza di rischi consen-
Diritto penale e processo 2/2013 225
Note:
(57) Così F. Giunta, op. ult. cit., 880; D. Micheletti, La colpa del
medico, cit., 196.
(58) D. Micheletti, op. ult. cit., 205.
(59) In questa direzione anche A. R. Di Landro, Dalle linee guida
e dai protocolli all’individuazione della colpa penale nel settore
sanitario, cit., 10
(60) In particolare cfr. M. Donini, La causalità omissiva e l’imputazione
per l’aumento del rischio, cit., 62, secondo cui occorre
prendere atto del fatto che il medico «se non viene chiamato a
rispondere dell’evento, non sarà soggetto a nessuna responsabilità
per la condotta colposa: a differenza, ad esempio, dell’imprenditore
che è soggetto a numerose sanzioni penali per contravvenzioni
o delitti che sanzionano illeciti di mera condotta, soltanto
aggravati in caso di evento conseguente»; G. Canzio, Trattamenti
terapeutici e responsabilità penale, cit., 665, sottolinea
la necessità di realizzare un equilibrato bilanciamento dei valori e
degli interessi in gioco, senza peraltro creare aree di ingiustificato
privilegio, sostanziale o processuale, per coloro che esercitano
la professione medico-chirurgica rispetto alla generalità dei
cittadini.
(61) Così M. Romano in La Tavola rotonda di presentazione e discussione
del Progetto, in Il Problema della medicina difensiva,
cit., 124, il quale invita a porre la soluzione su un terreno più solido,
accogliendo il limite della colpa grave in termini di maggior
dettaglio, che includano anche altre prestazioni d’opera, le cui leges
artis richiedano quanto l’arte medica, a seconda dei casi, doti
di particolare manualità, di prontezza, di rapidità di decisione e
di esecuzione, oltre a cognizioni tecniche raffinate, aggiornamento
scientifico permanente, etc.
(62) Sul punto si considerino anche le riflessioni di M. Bertolino
in La Tavola rotonda di presentazione e discussione del Progetto,
in Il Problema della medicina difensiva, cit., 149, secondo cui
il riferimento generico all’esercente una professione sanitaria
rende legittimo «interrogarsi sull’opportunità di estendere questa
presunta area di privilegio anche ad altre categorie di soggetti,
non caratterizzati da quella discrezionalità tecnica che connota
invece in termini propri coloro che svolgono l’attività medico-chirurgica».

Opinioni
Diritto penale
titi in virtù della loro spiccata e riconosciuta utilità
sociale.
In secondo luogo si consideri l’elevato tasso di indeterminatezza
della norma che, per un verso, non fornisce
i parametri di giudizio alla stregua dei quali valutare
i crismi di “scientificità” di linee guida e buone
pratiche (63), per l’altro, non indica nemmeno i
criteri valutativi secondo cui ricostruire il concetto
di colpa grave, il quale rimane del tutto indefinito e,
come tale, in condizioni di oscillare tra dimensione
oggettiva e dimensione soggettiva, nonché tra negligenza,
imprudenza ed imperizia (64). Si profila inoltre
parimenti problematica la questione riguardante
il rapporto esistente tra questa norma e l’art. 2236
c.c., così come il loro eventuale coordinamento
contenutistico e sistematico, posto che la giurisprudenza
più recente, con talune affermazioni di principio
non prive di una certa ambiguità, ha tentato di
restituire una valenza anche penale alla limitazione
di responsabilità prevista nell’ambito del codice civile
per il prestatore d’opera (65).
Infine l’intervento di riforma non contiene riferimenti
espliciti alla cd. colpevolezza della colpa, ovvero
alla dimensione soggettiva e personalistica del
disvalore della condotta oggetto di imputazione; si
tratta di una tematica tanto centrale quanto poco
esplorata dalla nostra giurisprudenza, per cui, in una
previsione normativa innovativa, sarebbe di certo
stata opportuna un’esplicita presa di posizione (66).
Ulteriori nodi insoluti: prestazioni
plurisoggettive e responsabilità per
carenze di struttura e di organizzazione
L’intervento di riforma, ispirato dalla necessità di ridurre
il contenzioso giudiziario ed il ricorso a prassi
difensive, sconta in ultimo i limiti sottesi all’adozione
di una prospettiva prevalentemente incentrata
sul rapporto individuale medico-paziente, là dove la
regola è ormai costituita dalla plurisoggettività e
multidisciplinarietà dell’intervento sanitario, soprattutto
in riferimento alle prestazioni erogate all’interno
delle aziende ospedaliere. Solo taluni protocolli
- tra tutti le cd. checklist (67) - sono infatti destinati
ad un’applicazione specificatamente rivolta
all’ambito plurisoggettivo e funzionale alla riduzione
dei peculiari rischi derivanti dal ricorso alla divisione
del lavoro, che da un lato costituisce un fattore di
sicurezza, poiché garantisce la possibilità di avvalersi
di conoscenze specialistiche tra loro complementari
e funzionalmente collegate, dall’altro introduce
nuovi ed ulteriori fattori di rischio (68).
La responsabilità del singolo medico tende sempre
più a traslare verso forme complesse di “responsabi-
226
lità sanitaria” (69), soprattutto in riferimento al tema
delle carenze di struttura e/o di organizzazione
del contesto lavorativo in cui viene in concreto
esercitata la professione sanitaria (70). Accade di
Note:
(63) Al riguardo cfr. A.R. Di Landro, Dalle linee guida e dai protocolli
all’individuazione della colpa penale nel settore sanitario,
cit., 150, che, tra l’altro, opportunamente evidenzia le differenze
esistenti tra linee guida coperte da evidenze scientifiche esaustive
e formatesi attraverso clinical trials e linee guida fondate
sul consenso di gruppi di esperti, maggiormente aperte a possibili
distorsioni nel risultato finale sebbene ampiamente adoperate
all’atto pratico.
(64) P. Piras, In culpa sine culpa, cit., 3,ritiene invece che la disposizione
in esame non possa involgere l’ipotesi di colpa per
negligenza o imprudenza, perché le linee guida contengono essenzialmente
regole di perizia. In realtà occorre sottolineare che,
soprattutto in relazione alle buone pratiche, non di rado vengono
in considerazione regole procedurali volte in primo luogo ad evitare
che l’evento lesivo si verifichi a causa di negligenza o impudenza,
basti pensare alla diffusione delle cd. check list.
(65) Cfr. Cass., Sez. IV, 5 aprile 2011, Montalto; Cass., Sez. IV, 22
novembre 2011, Di Lella; Cass., Sez. IV, 21 giugno 2007, Buggè.
In particolare si sostiene che l’art. 2236 c.c. potrebbe trovare riscontro
anche in ambito penale, non per effetto di diretta applicazione,
ma come regola di esperienza cui il giudice possa attenersi
nel valutare l’addebito di imperizia. In merito cfr. R. Blaiotta,
La responsabilità medica:nuove prospettive per la colpa, in
www.penalecontemporaneo.it; C. Cupelli, La responsabilità colposa
dello psichiatra tra ingovernabilità del rischio e misura soggettiva,
in questa Rivista, 2012, 1104 ss.
(66) In questa direzione cfr. invece la definizione di colpa grave
proposta dal Progetto Pisapia, che sarebbe sussistente quando,
«tenendo conto della concreta situazione anche psicologica dell’agente,
sia particolarmente rilevante l’inosservanza delle regole
ovvero la pericolosità della condotta, sempre che tali circostanza
oggettive siano manifestamente riconoscibili». Si tratta di
una nozione che si segnala all’attenzione dell’interprete per il
particolare rilievo conferito al piano della colpevolezza, attraverso
l’esplicito riferimento alla concreta situazione anche psicologica
dell’agente ed alla “manifesta riconoscibilità” dei requisiti
normativi dell’inosservanza della regola cautelare ovvero della
pericolosità della condotta.
(67) Cfr. M. Caputo, «Filo d’Arianna» o «flauto magico»?, cit.,
907, sia per la nozione di checklist che per la loro possibile funzione
in relazione alle attività svolte in équipe.
(68) In ambito penalistico, con specifico riferimento al settore
medico, già G. Marinucci - G. Marrubini, Profili penalistici del lavoro
medico-chirurgico in équipe, in Temi, 1968, 217; più di recente
P. Veneziani, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale,
vol. III, tomo II, I delitti colposi, in Trattato dir. pen., Parte
spec., a cura di G. Marinucci - M. Dolcini, Padova, 2009, 204,
sottolinea la natura «ancipite» della divisione del lavoro nel settore
medico, quale fattore di sicurezza e, al tempo stesso, di rischio
nuovo e diverso rispetto a quello proprio dell’attività medica
“monosoggettiva”. In giurisprudenza, tra le altre, cfr. Cass.,
Sez. IV, 11 ottobre 2007, Raso ed altri, in C.e.d. Cass. n. 237891.
(69)In tal senso G. Alpa, La responsabilità medica, in Riv. it. med.
leg., 1999, 15 ss.; F. Introna, Responsabilità professionale medica
e gestione del rischio, cit., 645; P. Della Sala, La responsabilità
professionale, in Medicina e diritto. Prospettive e responsabilità
della professione medica oggi, a cura di M. Barni - A. Santosuosso,
Milano, 1995, 6.
(70) Cfr. A. Merry - A. McCall Smith, Errors, Medicine and the
Law, t.i. L’errore, la medicina e la legge, Milano, 2004, 7 ss.
Diritto penale e processo 2/2013

frequente che a determinare l’esito infausto siano in
primo luogo l’insufficienza delle risorse a disposizione,
presidi terapeutici mancanti, obsoleti o non adeguatamente
sottoposti a controllo, così come il sussistere
di carenze organizzative in relazione al personale
impiegato o alla turnazione (71); nonostante
ciò, si registra una perdurante ritrosia nell’ampliare
gli ambiti di rilevanza penale riconducibili alla sfera
gestoria e/o amministrativa - definita come “secondo
livello operativo” (72) - tanto che le imputazioni
rimangono tendenzialmente polarizzate sul singolo
operatore a contatto diretto con il paziente (73),
mediante l’utilizzo delle fattispecie caratterizzate da
carenze di struttura in chiave incriminatrice (e non
scusante), sotto il profilo dell’omesso controllo e
della omessa segnalazione.
La valutazione del fattore strutturale ed organizzativo
nei casi di medical malpractice solleva quindi delicate
questioni interpretative in tema di individuazione
dei soggetti penalmente responsabili nell’ambito
di strutture sanitarie articolate e complesse
(74); soprattutto viene in rilievo la necessità di differenziare
le responsabilità dei singoli in considerazione
del diverso contesto in cui questi operano,
non potendosi privilegiare l’iniqua prospettiva dell’uguaglianza
formale, a fronte di un’eterogeneità di
situazioni che riduce gli effettivi margini di scelta
del sanitario, le cui decisioni e le cui responsabilità
costituiscono «il frutto di una mediazione tra il volere
e il potere, tra l’impatto della cura sulla salute in
generale ed il rapporto costo-efficacia della cura
stessa, sulla scorta delle possibilità strutturali ed organizzative
che l’azienda può mettere a disposizione
in funzione degli obiettivi predefiniti e delle risorse
umane ed economiche» (75).
Non sorprende a questo punto che la rilevanza acquisita
dal tema della responsabilità medica per difetti
di struttura, unitamente alle aporie interpretative
a cui giunge il processo di individuazione del
singolo responsabile all’interno delle organizzazioni
complesse, porti a considerare - de jure condito (76) e
de jure condendo (77) - la possibilità di estendere al
settore sanitario una responsabilità dell’ente di riferimento
ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001, anche in
considerazione dell’inarrestabile tendenza espansiva
della sfera applicativa della responsabilità amministrativa
da fatto di reato (78).
Non può negarsi però che l’eventuale estensione
dell’ambito operativo del d.lgs. n. 231 del 2001 ad
Aziende Sanitarie Locali ed Aziende Sanitarie
Ospedaliere, di per sé, non risolverebbe le complesse
questioni sottese al problema della responsabilità
per difetto di struttura o di organizzazione, dovendo-
Opinioni
Diritto penale
Diritto penale e processo 2/2013 227
Note:
(71) In merito, Cass., Sez IV, 20 settembre 1995, Gazzarra.
(72) In tal senso P. Pisa - G. Longo, La responsabilità penale per
carenze strutturali e organizzative, in Responsabilità penale e rischio
nelle attività mediche e di impresa, cit., 9 ss. Gli Autori,
nell’ambito della responsabilità in campo sanitario per carenze di
struttura, sviluppano il problema della responsabilità per carenze
organizzative e strutturali in due livelli, il primo dei quali è rappresentato
dalla responsabilità del singolo medico, il secondo
dalla dirigenza non medica. Si accenna infine alla possibilità di
configurare un terzo livello di responsabilità costituito dagli organi
politici regionali o nazionali.
(73) Cfr. P. Veneziani, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale,
cit., 203, che ritiene «ancora sporadica, ma non del tutto
ignota» l’affermazione della responsabilità penale per fattispecie
di evento nei confronti del personale dirigenziale non direttamente
impegnato nell’attività diagnostico-terapeutica, ma con
funzioni amministrative.
(74) Al riguardo, tra gli altri, A. Centonze, L’accertamento della
responsabilità penale nell’esercizio della professione medicochirurgica,
in La responsabilità penale del medico, a cura di S.
Aleo - E. Lanza - A. Centonze, Milano 2007, 278; P. Pisa - G.
Longo, La responsabilità penale per carenze strutturali e organizzative,
cit., 21 ss.; A. De donno - A. Lopez - V. Santoro - P.
DE Donno - F. Introna, La responsabilità penale degli organi apicali
delle strutture sanitarie, cit., 625 ss.; G. Vitale, Responsabilità
e rischi professionali del chirurgo, ivi, 2000, 1866 ss.; D. Potetti,
Individuazione del soggetto penalmente responsabile all’interno
delle strutture complesse, con particolare considerazione
per le strutture sanitarie, in Cass. pen., 2004, 2403; A. M. Princigalli,
La responsabilità del medico, Napoli, 1983, 17 ss.
(75) Così D. Carusi, Responsabilità del medico, diligenza professionale,
inadeguata dotazione della struttura ospedaliera, in Giur.
It., 1996, 1991 ss.
(76) Cfr. Cass., Sez. II, 9 luglio 2010, n. 28699, in Cass. pen., 2011,
1888, con nota di O. Di Giovine, Sanità e ambito applicativo della
disciplina sulla responsabilità degli enti: alcune riflessioni sui confini
tra pubblico e privato, chiamata a pronunciarsi relativamente
ad un ospedale costituito in forma di s.p.a. e partecipato dal capitale
privato al 49% e da quello pubblico per il restante 51%, la quale
ha espressamente stabilito che «la natura pubblicistica di un ente
è condizione necessaria, ma non sufficiente, all’esonero dalla
disciplina in discorso, dovendo altresì concorrere la condizione
che l’ente medesimo non svolga attività economica».
(77) In questa direzione non sarebbe necessario ricorrere a particolari
stravolgimenti normativi, potendosi ritenere sufficiente un
ritorno all’originaria formulazione dell’art. 11, comma 2, della legge
delega, la quale faceva riferimento agli «enti forniti di personalità
giuridica ad eccezione dello Stato e degli altri enti pubblici
che esercitano pubblici poteri», con ciò includendo anche gli enti
pubblici che erogano un pubblico servizio quali le Aziende
ospedaliere, le Asl e le Università pubbliche. Sul punto si consenta
un rinvio ad A. Roiati, Medicina difensiva e colpa professionale
medica in diritto penale, cit., 358 ss.
(78) Cfr. O. Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito
punitivo, in Reati e responsabilità degli enti, a cura di G. Lattanzi,
Milano, 2010, 44, la quale sottolinea che il d. lgs. n. 81/2008 si applica,
a norma dell’art. 3, a “tutti i settori di attività, privati e pubblici”,
per cui l’impunità degli enti pubblici in questione da luogo
ad un’evidente disparità di disciplina, difficilmente giustificabile.
Quanto alla diffusa obiezione secondo cui, ricomprendendo gli
enti che perseguono finalità pubbliche nel novero dei destinatari
della responsabilità ex d.lgs. n. 231 del 2001, si correrebbe il rischio
di giungere all’interdizione dell’attività dell’ente, a tutto detrimento
dell’utenza che fruisce dei servizi svolti, si consideri la
possibilità di ricorrere all’art. 15, che espressamente prevede il
commissariamento giudiziale quale sanzione sostitutiva da applicare
in luogo di quella interdittiva.

Opinioni
Diritto penale
si considerare il precipuo legame soggettivo richiesto
per il configurarsi della responsabilità, che nelle
fattispecie colpose consente - non senza vivaci discussioni
- di configurare “un interesse o un vantaggio
dell’ente” solo in ipotesi di deliberata violazione
delle regole cautelari finalizzata all’arricchimento,
ad esempio attraverso la riduzione dei costi (79).
Rimarrebbe esclusa quindi la responsabilità dell’ente
ogniqualvolta il reato sia conseguenza di mere negligenze
o inefficienze che non producano significativi
vantaggi per la persona giuridica, mentre si ritiene
opportuno che le Asl e le Aso prendano in
specifica considerazione anche la prevenzione del rischio
del verificarsi di eventi lesivi in conseguenza
di un’inadeguata e/o insufficiente organizzazione
della struttura, includendo queste ipotesi nel paradigma
preventivo sotteso al modello di organizzazione
(80).
In questa direzione sarebbe auspicabile un intervento
del legislatore sull’art. 5 del d.lgs. n. 231/2001
volto a distinguere nettamente tra criteri di imputazione
relativi al dolo (interesse o vantaggio) e criteri
relativi alla colpa (81) e, al contempo, a configurare
un «paradigma differenziato di imputazione soggettiva
ritagliato ab origine sulle caratteristiche strutturali
della persona giuridica» (82), nonché capace
di abbracciare le fattispecie colpose lesive della vita
e dell’integrità psico-fisica che si verifichino nell’ambito
di strutture complesse ed a causa di un’organizzazione
inadeguata (83). La colpa di organizzazione
quindi, secondo una prospettazione che in
questa sede può essere solo accennata, potrebbe fungere
anche da presupposto oggettivo del sorgere della
responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001, qualificando
e circoscrivendo la lesione dei beni vita-integrità fisica
al verificarsi di un evento lesivo a causa di carenze
strutturali o organizzative dell’ente (84).
Questo tipo di responsabilità risulterebbe perfettamente
idoneo a ricomprendere le ipotesi nelle quali
il reato costituisca la conseguenza dell’inadeguata
organizzazione dell’ente (magari in virtù della mancanza
di controlli interni o di un’inefficiente circolazione
delle risorse e dei flussi informativi), per cui
la persona giuridica potrebbe essere ritenuta responsabile
- anche in via diretta ed autonoma (85) - lad-
Note:
(79) Sulla necessità di riferire il criterio di imputazione di cui all’art.
5 del d.lgs. 231/2001 alla sola violazione della regola cautelare
e sulle relative obiezioni, cfr. in dottrina, tra gli altri, A. Alessandri,
Impresa e giustizia penale: tra passato e futuro. Un’introduzione,
in Impresa e giustizia penale: tra passato e futuro, Milano,
2009, 34 ss.; D. Castronuovo, La colpa penale, cit., 428 ss.;
A. Gargani, Delitti colposi commessi con violazione delle norme
sulla tutela della sicurezza sul lavoro: responsabile «per defini-
228
zione» la persona giuridica?, in Studi in onore di Mario Romano,
III, Napoli, 2011, 1942 ss.; N. Pisani, Profili penalistici del Testo
unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, in questa Rivista,
2008, 834. Al riguardo, la prevalente giurisprudenza (Trib.
Trani, sez. Molfetta, 11 gennaio 2010; G.i.p. Trib. Novara, 26 ottobre
2010; G.i.p. Trib. Pinerolo, 23 settembre 2010; G.u.p. Tribunale
di Cagliari, 4 luglio 2011), come noto, rileva che la disposizione
di cui all’art. 5, comma 1, d.lgs. 231/2001, se riferita all’evento,
sarebbe incompatibile con la natura della responsabilità
colposa, in quanto «se la morte o le lesioni subite dal lavoratore
potessero corrispondere all’interesse della società o provocare
alla medesima un vantaggio la finalizzazione della condotta
in tale direzione escluderebbe la natura colposa del reato».
(80) Sulla possibilità di ovviare alle aporie interpretative a cui è
sottoposto il paradigma classico della responsabilità colposa
nell’imputazione degli eventi lesivi che si verificano nell’ambito
delle organizzazioni complesse, cfr. in particolare F. Centonze,
La normalità dei disastri tecnologici, cit. 421 ss.. La prospettiva
è di recente ripresa, in termini parzialmente critici, da D. Castronuovo,
La colpa penale, cit., 422 ss.; nella medesima direzione
cfr. inoltre G. Forti, Sulla definizione della colpa nel progetto di riforma
del codice penale, in C. De Maglie - S. Seminara, La riforma
del codice penale. La parte generale, Milano, 2002, 100
ss., il quale identifica proprio nel sistema della responsabilità penale-amministrativa
dell’ente un tertium genus di responsabilità
che, in quanto fondato sulla mancata adozione di modelli preventivi
adeguati, sembrerebbe suggerire una sorta di «culpa generalis»,
priva delle caratteristiche rigorose proprie dell’accertamento
dell’imputazione penale.
(81) G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche,
in Trattato di diritto penale, diretto da C. F. Grosso, T. Padovani
e A. Pagliaro, Milano, 2008, 64, rileva che il deficit organizzativo
evoca con maggiore puntualità il concetto di colpa e di
colpevolezza preventiva (preventive fault), con ricadute positive
sul tasso di determinatezza e sulle possibilità di accertamento
del collegamento soggettivo così ipotizzato.
(82) Così ancora G. De Vero, op. ult. cit., 59, il quale sottolinea
che «a tal fine lo strumento concettuale più consolidato, a livello
comparatistico, è rivenibile nella colpevolezza d’impresa o di
organizzazione (corporate culpability o Organisationsverschulden),
capace di prescindere dall’atteggiamento doloso o colposo
di una determinata persona fisica in rapporto organico con la
persona giuridica».
(83) G. Amarelli, Morti sul lavoro: arriva la prima condanna alla
società, in questa Rivista, 2010, 855, ritiene che l’attuale formulazione
dell’art. 5 del d.lgs. n. 231/2001, nella parte in cui non
prevede per i reati colposi di evento dei criteri di imputazione del
fatto all’ente diversi da quelli dettati per i delitti dolosi «sembra
porsi in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3
Cost. e, più in particolare, con il canone della ragionevolezza in
esso contenuto, se si utilizza come tertium comparationis
l’omologa disciplina in materia di criteri di imputazione prevista
per le persone fisiche nell’art. 43 c.p.».
(84) L’inciso normativo potrebbe suonare così: l’ente è altresì responsabile
per i reati colposi quando l’evento si verifica a causa
di carenze di struttura o di organizzazione; allo stesso tempo
l’art. 25 septies andrebbe a ricomprendere indistintamente tutte
le ipotesi di omicidio e lesioni colpose gravi o gravissime. Più
in generale, sull’effettiva natura della colpa di organizzazione
quale «vera colpevolezza» o «fatto» e dunque oggetto più che
criterio del rimprovero, cfr. G. De Simone, Societates e responsabilità
da reato, in Studi in onore di Mario Romano, III, Napoli,
2011, 1917 ss.
(85) Di particolare interesse al riguardo la soluzione accolta nel
Regno Unito, con il Corporate Manslaughter and Corporate Homicide
Act 2007, che prevede un’autonoma imputazione per
omicidio dell’ente collettivo, del tutto svincolata dalla responsabilità
individuale ed incentrata sulla sussistenza di un nesso tra
(segue)
Diritto penale e processo 2/2013

dove si accerti che, attraverso la corretta adozione
ed attuazione di modelli organizzativi, sarebbe stato
possibile evitare il prodursi dell’evento lesivo (86).
Note:
(continua nota 85)
reato e “carenza organizzativa”. In merito cfr. in particolare G.
De Simone, Societates e responsabilità da reato, cit., 1905; G.
Gentile, L’illecito colposo dell’ente collettivo, Torino, 2009, 111
ss.; N. Pisani, Profili penalistici del Testo unico sulla salute e sicurezza
sui luoghi di lavoro, cit., 834 e D. Castronuovo, La colpa
penale, cit., 426 ss.; da ultima, favorevole a configurare un’auto-
Opinioni
Diritto penale
noma responsabilità dell’ente, mediante la ricerca di una diversa
logica di imputazione colposa del fatto-reato all’autore individuale
e collettivo, M.N. Masullo, Colpa penale e precauzione nel segno
della complessità, Napoli, 2012, 153 ss.
(86) Cfr. G.u.p. Trib. Milano, 17 novembre 2009, n. 2242, secondo
cui, anche nel giudicare la responsabilità degli enti, occorre
verificare l’efficacia del modello ex ante e non ex post rispetto
agli illeciti commessi dagli amministratori. Circa il livello di diligenza
richiesto all’ente cfr. C.E. Paliero - C. Piergallini, La colpa
di organizzazione, in Resp. amm. soc. e enti, 2006, 183, secondo
i quali emerge la necessità «di plasmare una figura di “agente
modello collettivo”, verso la quale indirizzare una rosa di doveri
di informazione e di adeguamento che tenga conto delle capacità
superiori che il modello collettivo naturalmente possiede
rispetto all’“agente modello individuale”».
Diritto penale e processo 2/2013 229

Giustizia sovranazionale
Diritto penale
Pirateria marittima
Stato di diritto e lotta
alla pirateria nelle acque somale
di Matteo Tondini (*)
La lotta alla pirateria marittima nelle acque somale è divenuta nel tempo un fenomeno di assoluto rilievo nello
scenario politico internazionale. Sebbene la caccia ai pirati si risolva nella repressione di un reato a giurisdizione
universale e, come tale, non ponga particolari problemi quanto alla legittimità dell’intervento degli
Stati nazionali, un attento esame della normativa di riferimento internazionale ed interna evidenzia talune
questioni di non poco conto per l’interprete. Esse riguardano, ad esempio, l’uso della forza da parte delle
Unità italiane inviate in loco, la disciplina del fermo e dell’arresto dei sospetti pirati, il loro trasferimento in patria
o in un Paese terzo, le comunicazioni con l’Autorità giudiziaria nazionale e le possibili ‘interferenze’ tra gli
obblighi posti in capo ai Comandanti di Unità navali dalla legge penale e le disposizioni del Comando militare
internazionale di afferenza. L’analisi rivela un quadro giuridico lacunoso ed incerto, talvolta censurabile,
composto in larga parte da norme speciali bisognose di una sostanziale riforma, anche e soprattutto nell’interesse
dello stesso personale militare impiegato nelle operazioni anti-pirateria.
Introduzione: la pirateria marittima
tra reato e conflitto armato
Come noto, la pirateria marittima nelle acque somale
rimane a tutt’oggi un fenomeno assai preoccupante
(1). Per far fronte al problema, Stati e organizzazioni
internazionali hanno da tempo inviato in loco
squadre di navi da guerra con lo scopo di scortare i
mercantili in transito nell’area ed assicurare la libertà
delle vie di comunicazione marittime internazionali.
Basi logistiche avanzate sono state nel contempo
aperte negli Stati costieri adiacenti la Somalia
(2), allo scopo di assicurare un più puntuale ed efficace
intervento delle forze aeronavali presenti in zona.
In tale quadro, il presente scritto tenterà di mettere
in luce taluni aspetti penalistici connessi alla
repressione della pirateria marittima da parte delle
Unità militari italiane impegnate nella caccia ai pirati.
Ciò premesso, giova da subito precisare che, anche
a causa dell’ampiezza e della natura militare o paramilitare
dei dispositivi impiegati, il contrasto alla
pirateria marittima viene essenzialmente inteso dagli
Stati che intervengono nel bacino somalo, alternativamente,
quale un’operazione militare tout
court, implicante l’utilizzo di veri e propri mezzi e
metodi di combattimento, ovvero quale operazione
di polizia marittima, seppure realizzata da contingenti
militari. Il discrimine tra il piano squisitamente
militare e quello penale non è di poco conto
230
e la scelta di fondo tra i due approcci in questione
finisce inesorabilmente per influenzare a cascata
l’applicazione o meno del diritto dei conflitti armati
(3) e dei diritti dell’uomo, il che rispettivamente
comporta, sul piano penale, l’applicazione di disposizioni
amministrative o delle norme ordinarie di
procedura penale, con ovvie conseguenze sulla di-
Note:
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione
di un referee. I giudizi e le opinioni espressi nello
scritto sono da attribuire esclusivamente all’Autore.
(1) Secondo l’International Maritime Bureau - Piracy Reporting
Centre, sebbene nel 2012 vi sia stato un significativo decremento
degli incidenti rispetto allo scorso anno, da gennaio alla
fine di ottobre 2012 sono stati segnalati nelle acque somale
71 attacchi, risultanti nel sequestro di 13 navi e 212 ostaggi.
Ad oggi, rimangono nelle mani dei pirati somali 9 navi e 154 individui
(dati disponibili online all’indirizzo: http://www.iccccs.org.uk/piracy-reporting-centre/piracynewsafigures).
(2) Ad esempio, risultano attualmente aperte a Gibuti una base
statunitense, una francese ed una giapponese, utilizzate
tuttavia da un buon numero di altri Paesi. La Missione UE utilizza
infatti quella francese. L’Italia è in procinto di costruire
una propria base sul suolo gibutino, adiacente alle altre.
(3) La Risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU 1851
(2008), § 6, nell’autorizzare operazioni a terra, dispone infatti
che: «any measures undertaken pursuant to the authority of
this paragraph shall be undertaken consistent with applicable
international humanitarian and human rights law». Da notarsi
tuttavia che l’applicazione eventuale del diritto umanitario viene
citata solamente a proposito delle operazioni a terra e non
in mare e viene comunque affiancata dall’applicazione dei diritti
dell’uomo.
Diritto penale e processo 2/2013

sciplina del fermo/arresto e custodia dei soggetti
catturati (4).
In conformità al principio di legalità formale che caratterizza
l’ordinamento italiano (5), e sulla base
dell’approccio “pan-penalistico” utilizzato in tutte le
missioni militari nazionali all’estero, l’Italia non poteva
non scegliere di considerare il contrasto alla pirateria
somala quale mera repressione di un reato a
giurisdizione universale, previsto dal Codice della
navigazione e dal diritto internazionale consuetudinario
e pattizio. Giova ricordare che la scelta italiana
viene peraltro largamente condivisa dagli altri
Stati partecipanti alle operazioni anti-pirateria (6).
L’effetto immediato di un tale inquadramento è
quello dell’applicazione, al personale militare italiano
impiegato in tali missioni, del Codice penale militare
di pace e della predisposizione di tutta una serie
di tutele che assicurano ai soggetti catturati un
trattamento in linea con le garanzie previste dal codice
di procedura penale.
L’approccio in questione non ha tuttavia prodotto
conseguenze solamente sul piano interno, ma anche
sul piano dei rapporti del nostro paese con altri Stati
e organizzazioni internazionali. Se infatti la lotta
alla pirateria marittima viene ad inquadrarsi quale
mera repressione di un reato, anche quando effettuata
nell’ambito di forze navali afferenti ad organizzazioni
internazionali o coalizioni, la disciplina giuridica
riguardante l’uso della forza da parte del personale
italiano, l’arresto/fermo dei sospetti pirati, la
loro custodia a bordo, l’eventuale trasferimento in
patria o all’estero, nonché il loro rilascio, non potrà
discostarsi dalle norme previste dal sistema penale
procedurale interno. Non solo: sulla scorta del principio
di legalità, occorrerà che ogni condotta posta
in essere dal personale italiano in materia penale
trovi riscontro in leggi vigenti, e ciò anche a prescindere
da quanto ordinato o autorizzato dal Comando
internazionale di cui l’Unità o il personale
interessati fanno parte. È pertanto evidente come
possano nascere delicati problemi di coordinamento
tra le decisioni prese dai competenti organi inquirenti
nazionali e le autorità militari o sopranazionali
che dirigono le operazioni.
Pertanto, nonostante gli interventi anti-pirateria
intrapresi dal nostro paese siano, ad oggi, materialmente
posti in essere da forze militari che operano
sulla base di una pianificazione e di direttive emanate
da Autorità politico/militari e sebbene utilizzino
armamento da guerra, gli stessi rimangono mere
operazioni di polizia, volte alla repressione di un reato
e non alla partecipazione ad un conflitto armato.
L’accostamento tra il piano militare e quello penale
Giustizia sovranazionale
Diritto penale
può alle volte trarre in inganno e generare confusione
riguardo alla scelta delle norme applicabili. In tale
contesto, è tuttavia fuori di dubbio che le Forze
impegnate nelle operazioni anti-pirateria soggiacciono,
mutatis mutandis, agli stessi limiti sull’uso della
coazione da parte delle Forze di polizia nazionali.
Per ovviare a possibili discrasie, il Legislatore è intervenuto
con una legislazione ad hoc, che però non
ha mancato di sollevare dubbi e perplessità, sia dal
punto di vista costituzionale che più squisitamente
operativo (7). Prima di soffermarci su tali criticità
occorrerà nondimeno analizzare il quadro giuridico
di riferimento, operando una suddivisione tra piano
internazionale e piano nazionale.
Il piano internazionale e le “autorizzazioni”
di ONU, UE e NATO
Come premesso, il quadro normativo di riferimento
delle operazioni navali anti-pirateria nel bacino somalo
si compone di due dimensioni: internazionale
e nazionale. Sul piano internazionale, vengono in
rilievo le norme di diritto consuetudinario e pattizio
(es. Convenzione di Montego Bay del 1982 (8)), le
risoluzioni del Consiglio di sicurezza ONU in materia
(9), le azioni comuni e le decisioni adottate dal-
Diritto penale e processo 2/2013 231
Note:
(4) Cfr. sull’argomento R. Geiss, A. Petrig, Piracy and Armed
Robbery at Sea: The Legal Framework for Counter-piracy Operations
in Somalia and the Gulf of Aden (New York: Oxford
University Press, 2011), p. 132 ss.
(5) Secondo Ferrajoli, il principio di legalità (assieme ad altri,
quali, ad es. la separazione dei poteri e la rappresentanza politica)
è implicito nella struttura dell’ordinamento giuridico. Solo in
un secondo momento la teoria del diritto provvede ad esplicitarlo
e svilupparlo in via normativa (L. Ferrajoli, La pragmatica
della teoria del diritto, in P. Comanducci, R. Guastini (a cura di),
Analisi e diritto 2002-2003, Torino, 2004, 351-375, a p. 371).
(6) Cfr. D. Guilfoyle, The Laws of War and the Fight Against
Somali Piracy: Combatants or Criminals?, Melbourne Journal
of International Law, Vol. 11, No. 1, pp. 1-13. Secondo Guilfoyle,
poiché nell’autorizzare gli Stati membri a prendere
“ogni misura necessaria” sul suolo somalo per combattere la
pirateria, la Risoluzione 1851 dispone che tale azione andrà
presa in forza del “diritto internazionale umanitario applicabile”,
l’applicazione di tale branca del diritto rimane puramente
eventuale e limitata ai casi in cui i pirati si mischino con gruppi
di insorti. In tale ipotesi le Forze militari impegnate a terra
si troveranno coinvolte nel conflitto armato in corso in Somalia
e verranno qualificate quali contingenti alleati del Governo
di transizione somalo, intervenuti su richiesta di questo (p. 7).
(7) Sulle problematiche sollevate dalla legislazione speciale in
materia di missioni delle Forze armate italiane all’estero, si
rinvia al nostro M. Tondini, Sulla nuova disciplina giuridica delle
missioni militari italiane all’estero,inQuaderni costituzionali,
Vol. 30, 2010, 2, 401-404.
(8) Artt. 100-105.
(9) Ris. nn. 1816 (2008); 1838 (2008); 1846 (2008); 1851
(2008); 1897 (2009); 1918 (2010); 1950 (2010); 1976 (2011);
2020 (2011); 2036 (2012); 2067 (2012); 2077 (2012).

Giustizia sovranazionale
Diritto penale
l’Unione Europea per la costituzione di Atalanta, la
missione navale anti-pirateria dell’UE (10), e le decisioni
del North Atlantic Council (NAC) della NA-
TO (11). Appare opportuno precisare preliminarmente
che le risoluzioni del Consiglio di sicurezza e
gli atti europei o NATO non attribuiscono ai Paesi
che intervengono nelle acque antistanti il Corno
d’Africa alcun ulteriore potere repressivo o coattivo
rispetto a quelli che già essi possiedono in virtù del
diritto internazionale ed interno. In altre parole, la
disciplina dell’attività di repressione della pirateria è
già contenuta in norme internazionali ed interne,
talché né il Consiglio di sicurezza, né tantomeno
l’UE o la NATO possono, da soli, conferire poteri
ulteriori alle navi o ai contingenti nazionali impegnati
nelle operazioni anti-pirateria. Allorquando
ordini, decisioni ed autorizzazioni UE, NATO o di
“Coalizioni dei volenterosi” (12) ricadono nell’ambito
dell’esercizio dell’azione penale, ossia riguardano
aspetti inerenti l’uso della forza, l’arresto/fermo
dei presunti pirati e gli adempimenti successivi, essi
vanno intesi quali atti da cui scaturiscono obblighi
meramente “politici”. Mediante tali atti, il mittente
si limita ad “ordinare” o “autorizzare” politicamente
i Comandi sotto il proprio controllo, ovvero gli Stati
partecipanti, ad intraprendere specifiche misure di
contrasto. Queste ultime, quando inerenti l’esercizio
dell’azione penale, in assenza di corrispondenti poteri
attribuiti alle Autorità nazionali da norme internazionali
o interne, non potranno pertanto trovare
diretta applicazione. In definitiva, le risoluzioni
ONU e gli atti UE hanno quindi il mero scopo di
conferire una forma di riconoscimento internazionale
ad un intervento che i Paesi membri sarebbero
stati comunque legittimati a compiere anche uti singuli.
Non a caso, la NATO ha finora considerato
l’esercizio dell’azione penale come un compito precipuo
degli Stati membri, che esula dalle funzioni e
dalle finalità dell’Alleanza. Gli Stati che partecipano
alla missione NATO Ocean Shield, difatti, disciplinano
la custodia dei sospetti pirati e procedono
alla prosecution degli stessi in forma del tutto autonoma.
Al momento della cattura di sospetti pirati, la
nave da guerra abbandona temporaneamente il controllo
NATO per tornare sotto il controllo nazionale
e ogni successiva decisione sulla sorte degli individui
catturati viene presa dallo Stato di bandiera
della nave in questione, senza alcun intervento del
Comando internazionale (13).
L’inquadramento generale sopra descritto viene confermato
proprio dall’esame delle risoluzioni del Consiglio
di sicurezza in materia. Quest’ultime, nel conferire
alle Forze navali dei Paesi membri il potere di
232
intervenire nelle acque somale o a terra, fondano tale
“autorizzazione” sul preventivo consenso prestato
dal Governo transitorio somalo (14). Secondo il
Consiglio di sicurezza, inoltre, l’arresto e incriminazione
dei sospetti pirati dovrà essere «consistent with
applicable international […] human rights law» (15), ossia
in sostanza, con le basilari garanzie offerte dal
“giusto processo” e quindi, nel caso italiano, dal nostro
codice di rito. In altre parole, il Consiglio, nonostante
riconosca che gli attacchi dei pirati somali
rappresentino una minaccia alla pace e alla sicurezza,
e accordi l’uso di “all necessary means” per fronteggiare
i pirati (16), non autorizza deroghe all’applicazione
ordinaria dei diritti dell’uomo, ivi compresi il diritto
alla libertà, alla vita, il diritto ad un equo processo,
il diritto ad un ricorso effettivo (17), ecc.
Il piano interno e la disciplina “ordinaria”
della lotta anti-pirateria
Le norme generali di rinvio
sull’esercizio della giurisdizione italiana
nei casi di pirateria
Volendo passare al piano interno, va innanzitutto
Note:
(10) Azione Comune 2008/851/PESC del Consiglio del 10 novembre
2008, come modificata dalla Decisione
2009/907/PESC del Consiglio dell’8 dicembre 2009, dalla Decisione
2010/437/PESC del Consiglio del 30 luglio 2010, dalla
Decisione 2010/766/PESC del Consiglio del 7 dicembre 2010
e dalla Decisione 2012/174/PESC del Consiglio del 23 marzo
2012.
(11) Decisione NAC adottata il 17 agosto 2009. Il mandato di
Ocean Shield è stato rinnovato il 19 marzo 2012 con ulteriore
decisione del NAC. L’Alleanza è presente nell’area con l’Operazione
Ocean Shield sin dall’agosto 2009. In precedenza, la
NATO aveva condotto due brevi missioni di scorta alle navi
del Programma alimentare mondiale dell’ONU, iniziate nell’ottobre
2008.
(12) Oltre alle flotte NATO, UE e di diversi Stati nazionali, è
presente nell’area una forza navale multinazionale a guida statunitense
denominata Combined Task Force (CTF) 151. Nata
nel gennaio 2009, essa ha preso il posto della precedente
CTF-150.
(13) D. Guilfoyle, Counter-Piracy Law Enforcement and Human
Rights, International and Comparative Law Quarterly,
Vol. 59, No. 1, 2010, 141-169, 151.
(14) Ris. nn. 1816 (2008), § 9; 1851 (2008), § 6; 1897 (2009),
§ 7; 1950 (2010), § 7; 2020 (2011), § 9; 2077 (2012), § 12. Sulla
validità del consenso prestato dal Governo di transizione
somalo all’intervento nelle acque territoriali della Somalia cfr.
A. Tancredi, Di pirati e stati «falliti»: Il Consiglio di sicurezza
autorizza il ricorso alla forza nelle acque territoriali della Somalia,
inRiv. Dir. Intern., Vol. 91, 2008, 8, 937-966.
(15) Da ultimo, cfr. Ris. 2020 (2011), § 13. Cfr anche Ris. 2077
(2012), preambolo, § 16-18.
(16) Cfr. Ris. 1816 (2008), preambolo e § 7(b).
(17) Artt. 2, 5, 6 e 13 CEDU.
Diritto penale e processo 2/2013

premesso che, in via generale, il reato di pirateria
viene previsto dagli artt. 1135-1136 c.n. Tali norme
puniscono condotte poste in essere, oltre che in acque
internazionali, anche in quelle territoriali italiane
o straniere (c.d. “pirateria per analogia” (18)) ed
introducono una sorta di presunzione relativa di colpevolezza
nel caso una nave viaggi con armi a bordo
e senza alcuna documentazione. L’esercizio della giurisdizione
italiana sugli atti di pirateria strictu sensu,
ossia commessi in acque internazionali, viene in
principio assicurata dall’art. 7, comma 5, c.p. (reati
commessi all’estero dal cittadino o dallo straniero),
in virtù del richiamo operato dalla norma alla punibilità
secondo la legge italiana di «ogni […] reato
per il quale […] convenzioni internazionali stabiliscono
l’applicabilità della legge penale italiana»; a
questo proposito rileva quanto disposto dall’art. 105
della Convenzione di Montego Bay (19).
In realtà, la questione non è del tutto pacifica in
dottrina (20). In primo luogo potrebbe ipotizzarsi
che l’art. 7, n. 5, c.p. sia in principio invocabile solo
quando le “convenzioni internazionali” ivi citate
non si limitino ad autorizzare, ma impongano l’esercizio
dell’azione penale da parte degli Stati firmatari,
come, ad esempio, nel caso della Convenzione
ONU sulla tortura (21). L’art. 105 della Convenzione
di Montego Bay, difatti, autorizza l’arresto/fermo
dei sospetti pirati, nonché il sequestro delle navi
coinvolte nell’attacco. Rimarrebbe in tal caso invocabile
l’art. 10 c.p. (delitto comune dello straniero
all’estero), che tuttavia richiede, tra l’altro, quali
condizioni di procedibilità, la presenza dei pirati
sulla nave da guerra italiana (parificata al suolo italiano
ex art. 4 c.p. e art. 4 c.n. ) e la richiesta del Ministro
della giustizia. Oltre a portare a un disconoscimento,
di fatto, della giurisdizione universale sul
crimine di pirateria, una simile impostazione non
spiega come giustificare il fermo ovvero l’uso della
forza nei confronti di una presunta nave pirata, la
quale sia nell’atto di attaccare una nave battente
bandiera di uno Stato terzo, o sia stata semplicemente
incrociata in alto mare. In tale evenienza, difatti,
secondo la ricostruzione interpretativa in esame,
la nave italiana userebbe la forza a prescindere
dalla giurisdizione italiana sul caso, evidentemente
non ancora esistente al momento dell’azione. Simili
osservazioni risultano tuttavia superate da una lettura
più attenta della norma di riferimento. Invero,
l’art. 105 della Convenzione di Montego Bay prevede,
seppure in forma eventuale, l’applicabilità della
legge penale italiana e pertanto risulta la norma più
adatta a fondare la giurisdizione italiana sugli atti di
pirateria.
Giustizia sovranazionale
Diritto penale
Un’ulteriore interpretazione, seppur minoritaria,
fonda l’esercizio della giurisdizione italiana sul riferimento
alle “speciali disposizioni di legge”, che l’art.
7, n. 5, c.p. pone accanto alle sopracitate convenzioni
internazionali. Secondo tale lettura, gli artt.
1135-1136 c.n. costituirebbero quelle norme speciali
oggetto del rinvio di cui sopra, prevedendo espressamente
la punibilità di cittadini stranieri, in “deroga”
al comma 2 dell’art. 1080 c.n.; quest’ultimo recita:
«Le disposizioni penali di questo codice non si
applicano ai componenti dell’equipaggio e ai passeggeri
di nave o di aeromobile stranieri, salvo che sia
diversamente stabilito».
Le disposizioni “ordinarie” sull’esercizio
dell’azione penale nei confronti dei sospetti
pirati e sulle propedeutiche attività
di polizia giudiziaria
Se quindi la sussistenza della giurisdizione italiana
sugli atti di pirateria non è, in ultima analisi, posta
in discussione, occorre nondimeno esaminare in che
modo gran parte degli atti di polizia giudiziaria funzionali
all’eventuale esercizio dell’azione penale
vengano compiuti al di fuori del territorio dello Stato.
Orbene, sulla scorta dell’art. 1235, comma 1, n.
4, c.n., ai Comandanti delle navi da guerra nazionali
è conferita la qualifica di Ufficiali di P.G. Ne deriva
che, una volta fermata una sospetta nave pirata,
il Comandante della nave da guerra italiana può fermare/arrestare
i sospetti pirati (22) e sequestrare la
Diritto penale e processo 2/2013 233
Note:
(18) Il reato di pirateria, a rigore, occorre solamente in acque
internazionali. Non a caso, le risoluzioni del Consiglio di sicurezza
ONU parlano di “armed robbery” quando devono riferirsi
a condotte violente e predatorie poste in essere nelle acque
territoriali somale.
(19) Convenzione ratificata dall’Italia con l. n. 689, del 2 dicembre
1994. Art. 105: «Nell’alto mare o in qualunque altro
luogo fuori della giurisdizione di qualunque Stato, ogni Stato
può sequestrare una nave o aeromobile pirata o una nave o
aeromobile catturati con atti di pirateria e tenuti sotto il controllo
dei pirati; può arrestare le persone a bordo e requisirne
i beni. Gli organi giurisdizionali dello Stato che ha disposto il
sequestro hanno il potere di decidere la pena da infliggere
nonché le misure da adottare nei confronti delle navi, aeromobili
o beni, nel rispetto dei diritti dei terzi in buona fede».
(20) Per un’attenta disamina teorica sull’esercizio della giurisdizione
italiana su casi di pirateria, cfr. J.P. Pierini, L’aspetto
giuridico nazionale (diritto marittimo e penale), in M. Annati, F.
Caffio (a cura di), Pirati di ieri e di oggi, Suppl. a Rivista Marittima,
Vol. 142, 2009, 12, 70-83, a p. 75 ss.
(21) Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti
crudeli, disumani o degradanti, firmata a New York il 10 dicembre
1984, art. 4. Convenzione ratificata con l. 3 novembre
1988, n. 498. Il relativo reato non è stato tuttavia ancora introdotto
nell’ordinamento italiano.
(22) Artt. 380, 381 e 384 c.p.p.

Giustizia sovranazionale
Diritto penale
nave medesima (23), fermo restando gli obblighi di
comunicazione al P.M. (24). I militari dipendenti
dal Comandante-Ufficiale di P.G., i quali materialmente
danno luogo all’arresto/fermo dei sospetti pirati
mediante abbordaggio, possono considerarsi
quali “ausiliari” di P.G. - in senso tecnico (25) o de
facto (26).
Nonostante il quadro giuridico fin qui descritto appaia
prima facie sufficientemente coerente, sorgono
obiettive difficoltà con riguardo, ad esempio, all’individuazione
dell’Autorità giudiziaria - ordinaria -
competente (27), anche in relazione alla qualificazione
sostanziale degli atti posti in essere, atteso
che, ad esempio, il reato di pirateria, secondo il Codice
della navigazione, non include di per sé la condotta
del sequestro di persona. Proprio in relazione
a ciò, qualora si intenda privilegiare l’interpretazione
che vede l’atto di violenza finalizzato alla riscossione
di un riscatto, dovrà ritenersi integrata (in via
esclusiva o in concorso con il reato di pirateria) la
fattispecie di sequestro di persona a fini di estorsione
(art. 630 c.p.) con contestuale interessamento,
per le indagini preliminari, dei magistrati del Pubblico
Ministero in servizio presso la Procura distrettuale
antimafia (28). La prassi delle operazioni, tuttavia,
mostra casi in cui si è optato per la contestazione
di reati qualificati dall’aggravante o dalla finalità
di terrorismo (es. art. 289-bis c.p.), essendo intervenuto
un magistrato inquirente specializzato in
indagini in materia. Nondimeno, le aggravanti e le
finalità di terrorismo inizialmente contestate dalla
Procura sono state ritenute successivamente infondate
dal giudice di merito (29). A ben vedere, inoltre,
nel caso della contestazione di altri reati in luogo
della pirateria (e in assenza della legislazione speciale
di cui tratteremo a breve), la giurisdizione italiana
va valutata caso per caso, sulla scorta delle ordinarie
norme del Codice penale, non essendo, ad
esempio, il sequestro di persona un reato a giurisdizione
universale.
Ulteriori obiettive difficoltà riguardano: a) la possibilità
di stabilire comunicazioni con il P.M. e con i
difensori; b) il reperimento di un interprete che
comprenda la lingua degli arrestati o una lingua veicolare
comune; c) la nomina dei difensori; d) l’effettuazione
dell’interrogatorio degli arrestati da parte
del P.M.; e) la conduzione degli arrestati in patria
per poter essere processati - operazione che potrebbe
interferire con l’assolvimento della missione; f) la
custodia degli arrestati/fermati all’interno della nave
militare - non disponendosi di celle o camere di
sicurezza adeguatamente allestite; g) la necessità di
comunicare le circostanze dell’avvenuto fermo, ar-
234
resto e sequestro alla catena di comando/controllo
senza che ciò interferisca con gli obblighi di riservatezza
sulle comunicazioni tra Comandante-Ufficiale
di P.G. e la Procura competente.
La legislazione speciale sull’esercizio
della giurisdizione italiana e l’interrogatorio
dei sospetti pirati catturati a largo
della Somalia
A parziale soluzione delle problematiche sopra elencate
è stata recentemente emanata un’apposita legislazione
speciale, applicabile a tutte le missioni internazionali
delle Forze armate italiane. Essa, nella
sostanza, si compone di tre norme chiave, richiamate
in tutti i successivi decreti legge di proroga delle
missioni stesse (30). Cionondimeno, la vocazione
“terrestre” della disciplina de quo, da applicarsi inoltre
ad operazioni aventi caratteristiche e mandato
del tutto diversi, rende sovente l’opera dell’interprete
particolarmente malagevole.
Note:
(23) Artt. 348-357 c.p.p.
(24) Art. 386 c.p.p.
(25) Art. 348, comma 4 c.p.p.: «La polizia giudiziaria, quando,
di propria iniziativa o a seguito di delega del pubblico ministero,
compie atti od operazioni che richiedono specifiche competenze
tecniche, può avvalersi di persone idonee le quali
non possono rifiutare la propria opera».
(26) Si veda anche l’art. 732, comma 4 del Testo unico delle
disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare
(D.P.R. 15 marzo 2010, n. 90): «Il militare […] [d]eve prestare
il proprio concorso agli appartenenti alla polizia giudiziaria, anche
quando gli è richiesto verbalmente». Art. 53, comma 2
c.p.: «La stessa disposizione [ossia la scriminante sull’uso legittimo
delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica -
n.d.a.] si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta
dal pubblico ufficiale gli presti assistenza».
(27) In ipotesi potrebbe seguirsi la stessa ratio della norma
che attribuisce la competenza in materia di reati militari. Secondo
l’art. 273 c.p.m.p.: «[p]er i reati commessi all’estero
è competente il Tribunale militare di Roma. La cognizione
dei reati commessi in corso di navigazione, su navi o aeromobili
militari, è di competenza del Tribunale militare del
luogo di stanza dell’unità militare alla quale appartiene l’imputato».
(28) Art. 51, comma 3-bis c.p.p. e art. 70-bis ord. giud.
(29) Ad esempio, nel caso del sequestro della portacontainer
Montecristo, i tredici imputati sono stati tutti inizialmente accusati
di pirateria, sequestro di persona, detenzione-possesso
di armi da guerra e danneggiamento, commessi tutti con
l’aggravante o per finalità di terrorismo. Almeno per ciò che
concerne gli imputati minorenni, tale finalità/aggravante è stata
in seguito correttamente esclusa dai giudici di merito per
difetto dell’elemento psicologico (Trib. Min. Roma, del 16-28
giugno 2012, n. 352; C. App. Roma, Sez. min., 6-31 ottobre
2012, n. 171, Mahamoud et al.)
(30) Da ultimo, art. 3, d.l. 28 dicembre 2012, n. 227, in attesa
di conversione in legge.
Diritto penale e processo 2/2013

La punibilità di condotte in danno
dei militari italiani in missione
La prima disposizione è costituita dall’art. 5, d.l. 30
dicembre 2008, n. 209 (31). Il secondo comma dell’articolo
in questione concerne la perseguibilità
del cittadino straniero che attenti all’incolumità
dei militari italiani, a prescindere dall’avere attaccato
alcun mercantile. La citata disposizione, analogamente
a quanto previsto dall’art. 10 c.p., introduce
difatti una speciale condizione di procedibilità
per l’esercizio dell’azione penale sui reati commessi
da cittadini stranieri (quali dovrebbero essere, almeno
nell’immaginario del Legislatore, i pirati somali
e ogni altra banda di criminali che solcano le
acque del Corno d’Africa) “nei territori” ove ha
luogo la missione anti-pirateria (ossia le acque o i
territori costieri della Somalia), ovvero “nell’alto
mare”, qualora detti reati siano stati commessi in
danno dei militari o dei civili italiani partecipanti
alla missione stessa. La condizione di procedibilità
alla quale ci si riferisce è quella dell’esplicita richiesta
del Ministro della Giustizia, sentito il Ministro
della Difesa nel caso in cui il soggetto passivo sia un
militare. Competente territorialmente per tali reati,
come per ogni altro reato non militare commesso
dal cittadino italiano (militare o civile) e occorso
«nel territorio e per il periodo in cui si svolgono»
le missioni anti-pirateria è il Tribunale di Roma
(comma 3).
Le norme speciali sull’esercizio
della giurisdizione italiana sui casi
di pirateria nelle acque somale
Il successivo comma 4 precisa meglio il radicamento
della giurisdizione italiana sui casi di pirateria nelle
acque somale. Esso prevede infatti che la repressione
dei reati ex artt. 1135-1136 c.n. e dei reati connessi,
come, ad esempio, il sequestro di quanti si trovino a
bordo della nave attaccata, siano puniti ai sensi dell’art.
7 c.p. (e quindi senza alcuna condizione di procedibilità)
solo allorquando tali crimini vengono
«commessi a danno dello Stato o di cittadini o beni
italiani [quindi in pratica navi o merci], in alto mare
o in acque territoriali altrui e accertati nelle aree
in cui si svolge» la Missione UE Atalanta (32). La
competenza sui casi in questione è ancora una volta
affidata al Tribunale di Roma. Il comma in parola,
tuttavia, non menziona a quale parte dell’art. 7 c.p.
si rinvii. Se, com’è facile intuire, il riferimento è all’art.
7, comma 5 c.p., la disposizione inserita nella
norma pare superflua e al massimo ricognitiva della
situazione esistente, poiché, come s’è detto poc’anzi,
Giustizia sovranazionale
Diritto penale
l’applicazione della legge penale italiana sugli atti di
pirateria da chiunque e ai danni di chiunque commessi
è comunque stabilita proprio dall’art. 7, comma
5 c.p., a prescindere da che ciò sia scritto in una
legge speciale, adottata in riferimento al solo caso
somalo. Importante invece il richiamo operato dal
quarto comma ai reati connessi, poiché ciò consente
di procedere penalmente per reati comuni in assenza
delle condizioni di procedibilità previste dal
Codice penale per i crimini commessi all’estero (tale
è difatti da ritenersi l’alto mare (33)).
Da ultimo va sottolineato che il riferimento esplicito
alle aree in cui si svolge la Missione Atalanta, rappresenta,
nella sostanza, un criterio alquanto vago.
Da un lato, difatti, non può sostenersi che le aree de
quo siano quelle effettivamente battute dalla squadra
navale UE, con esclusione di quei tratti di mare
attorno al Corno d’Africa fuori dal raggio d’azione
delle navi da guerra europee; dall’altro non può accettarsi,
a pena di incorrere nella sostanziale indeterminatezza
del dettato normativo, un criterio geografico
indistinto che abbracci l’intero bacino somalo
o l’intero Oceano indiano, non potendosi con
Diritto penale e processo 2/2013 235
Note:
(31) Convertito con modifiche dalla l. 24 febbraio 2009, n. 12,
e ulteriormente modificato dal d.l. 15 giugno 2009, n. 61, convertito,
con modifiche dalla l. 22 luglio 2009 n. 100.
(32) In realtà, l’art. 4, comma 4, parla di «aree in cui si svolge
la missione di cui all’articolo 3, comma 14» del medesimo d.l.
209/2008, ossia la Missione Atalanta. Tale articolo è stato tuttavia
abrogato dal nuovo Codice dell’Ordinamento Militare
(d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66, art. 2268, comma 1, n. 1076),
per cui, a rigore, sarebbe opportuno per il Legislatore operare
un rinvio esplicito alla Missione nei prossimi Decreti di finanziamento,
onde non incorrere in lacune normative.
(33) Interessante notare l’opinione contraria della Corte d’Appello
di Roma sul caso della M/N Montecristo. Si ricorderà
che la liberazione della nave era stata condotta da Forze inglesi,
le quali avevano successivamente consegnato i pirati
catturati alle Autorità italiane per essere trasferiti in patria e
processati. Uno dei pirati, tuttavia, non aveva mai messo piede
sul mercantile-territorio italiano, essendo rimasto sulla nave
pirata (battente bandiera iraniana - a propria volta precedentemente
catturata dai pirati) in funzione di “palo”. Per giustificare
la legittimità della consegna alle Autorità italiane, effettuata
in assenza delle necessarie procedure che regolano
l’estradizione dei ricercati e le condizioni di cui all’art. 10 c.p.,
la Corte si è spinta ad affermare che «il reato è stato commesso
in acque internazionali e non già all’estero, laddove
per estero deve intendersi il territorio o il mare territoriale sui
quali si esercita la giurisdizione di uno Stato, diverso da quello
italiano» (C. App. Roma, Mahamoud et al., op. cit.). È evidente
che una simile tesi non può essere accolta. Essa determina
infatti la creazione, nell’alto mare, di una “zona grigia”
del diritto in cui le norme del c.p. sull’esercizio della giurisdizione
italiana non trovano applicazione, lasciando totale
incertezza quanto ai poteri delle navi da guerra italiane in detto
spazio marittimo. Come potrebbero giustificarsi e disciplinarsi,
in questo modo, le funzioni di polizia marittima dell’alto
mare demandate alle Marine da guerra in tempo di pace?

Giustizia sovranazionale
Diritto penale
precisione identificare i limiti dell’Area of Responsibility
(AoR) di Atalanta, poiché soggetta a modifiche
sulla base delle mutevoli necessità operative (34).
Le norme speciali sugli atti di polizia
giudiziaria e l’interrogatorio dei sospetti
pirati
Alcune delle problematiche riportate al paragrafo di
cui sopra vengono affrontate nel successivo comma
5 dell’art. 5, d.l. n. 209/2008. Esso prevede che qualora
le esigenze operative non consentano di porre
tempestivamente l’arrestato o il fermato a disposizione
dell’Autorità giudiziaria, le comunicazioni con
quest’ultima potranno avvenire in video-conferenza
o con mezzi telematici e gli arrestati/fermati custoditi
«in appositi locali del vettore militare». L’eventuale
lontananza geografica della nave da guerra da
ogni possibile punto d’approdo potrebbe difatti, tra
l’altro, rendere impossibile il rispetto dei termini per
l’effettuazione dell’interrogatorio del P.M. e gli
adempimenti di P.G. Più nello specifico, rinviando
al decreto legge originariamente emanato all’epoca
della partecipazione italiana all’Operazione Enduring
Freedom (35), il comma 5 prevede la trasmissione
al P.M. del verbale di arresto con mezzi telematici
(36), nonché l’effettuazione, mediante collegamento
videotelematico o audiovisivo, dell’interrogatorio
da parte del Pubblico Ministero (ex art. 388
c.p.p.), dell’udienza di convalida davanti al G.I.P.
(ex art. 391 c.p.p.) e dell’interrogatorio della persona
sottoposta alla misura coercitiva della custodia
cautelare in carcere (ex art. 294 c.p.p.) (37). L’imputato
che si trova a bordo della nave militare e il proprio
difensore, ubicato in patria, potranno comunicare
«per mezzo di strumenti tecnici idonei» (38).
“Un ufficiale di polizia giudiziaria” (39) (ossia su una
nave da guerra italiana, il Comandante) sarà incaricato
della stesura dei relativi verbali, mentre l’arrestato
potrà farsi assistere da un Ufficiale o da un difensore
presenti sul posto. Egli avrà anche diritto alla
presenza di un interprete (40), che potrà essere
ubicato fisicamente a Roma e collegato in video,
nonché il diritto a vedersi contestati gli addebiti in
lingua madre o in una lingua veicolare che può comprendere,
come ad esempio l’inglese (41). L’imputato,
una volta condotto a Roma, ha diritto di ripetere
l’interrogatorio secondo le forme ordinarie, ma
senza pregiudizio per i provvedimenti eventualmente
adottati in conseguenza all’interrogatorio tenutosi
a bordo (42) (come ad esempio l’ordinanza del
G.I.P. che dispone la custodia cautelare in carcere).
Tali norme cercano evidentemente di garantire agli
indiziati/imputati di pirateria gli stessi diritti garan-
236
titi dal Codice di procedura penale, sopperendo alle
oggettive difficoltà operative che caratterizzano la
detenzione a bordo di navi da guerra. Queste ultime
sono pertanto equipaggiate con sistemi di trasmissione
dati e audio/video in linea con le disposizioni
sopra citate.
Per ciò che concerne il sequestro dei beni a bordo
della nave commerciale italiana piratata o della nave
medesima, l’art. 5 del d.l. 209/2008 (comma 6)
dispone che essi possono essere affidati in custodia
all’armatore, all’esercente o al proprietario della nave
in questione, con ciò in pratica garantendo al
mercantile la possibilità di fare ritorno in patria autonomamente
con il proprio carico.
La legislazione speciale sull’uso della forza
finalizzata all’arresto dei sospetti pirati
La disciplina generale sull’uso della forza
da parte dei militari italiani impegnati
in operazioni all’estero
Come noto, l’ordinamento italiano non contiene
norme che positivamente prevedano le condotte al
quale il pubblico ufficiale debba attenersi nell’effettuare
un arresto, nel partecipare ad un conflitto a
fuoco o nel catturare un sospetto o un latitante in
Note:
(34) In linea di massima, l’area di operazioni di Atalanta va dal
sud del Mar Rosso alla parte occidentale dell’Oceano indiano,
Seychelles e golfo di Aden inclusi. Essa comprende anche
il territorio costiero della Somalia, nonché le sue acque
interne e territoriali. Tale area si estende approssimativamente
per 2 milioni di miglia quadrate, ossia circa 30 volte la
grandezza dell’Inghilterra, 10 volte quella della Germania, 7
volte quella della Francia (informazioni disponibili su:
http://www.eunavfor.eu/about-us/mission).
(35) Art. 9, commi 5-6, d.l. 1° dicembre 2001, n. 421, convertito,
con modificazioni, dalla l. 31 gennaio 2002, n. 6.
(36) Si noti che la norma porta a 48 ore il termine per l’invio
del verbale d’arresto, normalmente previsto di 24 ore (art.
386, comma 3 c.p.p.), ma stabilisce che l’udienza di convalida
debba avvenire nelle successive 48 ore.
(37) Per le altre comunicazioni soccorrono parzialmente le recenti
disposizioni di cui all’art. 19, D.M. 21 febbraio 2011, n.
44 sull’informatizzazione del processo penale, che consentono
il “dialogo a distanza” tra P.M. e P.G. mediante mezzi telematici
crittografati.
(38) Art. 9, comma 5, d.l. 421/2001.
(39) Ibid.
(40) Art. 143 ss. c.p.p.
(41) Come requisito minimo, dovrà procedersi a traduzione
(anche mediante un semplice formulario precedentemente
predisposto e custodito a bordo della nave italiana) del verbale
di arresto o quantomeno delle accuse mosse e della comunicazione
del diritto ad essere assistiti da un difensore
(Corte Cost., 19 gennaio 1993, n. 10).
(42) Art. 9, comma 5, d.l. 421/2001.
Diritto penale e processo 2/2013

fuga. Le norme del codice penale che regolano l’uso
delle armi in servizio da parte di militari (in tempo
di pace) e membri delle Forze di polizia sono scritte
in forma di scriminanti/cause di non punibilità
(43), talché non risulta possibile stabilire a priori
quali comportamenti siano da considerarsi leciti e
quali invece censurabili penalmente. Soprattutto
per quanto concerne le Forze di polizia, soccorre in
parte la giurisprudenza della Suprema Corte (44), la
quale, essendo soggetta a diversi orientamenti e
pronunciandosi di volta in volta in relazione alle
particolari circostanze del caso, non può fungere da
univoco punto di riferimento per gli operatori al fine
di stabilire preventivamente le condotte da tenere
nelle varie fasi dell’azione. La stessa Corte europea
dei diritti dell’uomo ha in passato condannato
l’Italia in relazione ad un caso concernente l’uccisione
di un cittadino albanese ad opera di un
agente di polizia nel corso di un inseguimento. Tra
le censure individuate vi è proprio quella dell’assenza
di specifiche norme sull’uso delle armi da parte
degli agenti (in altri termini, delle regole d’ingaggio)
e quella della scarsa determinatezza del sistema
penale italiano in materia di utilizzo della
coazione (45).
Per ciò che concerne l’uso delle armi e della coazione
fisica da parte dei militari italiani in operazioni
all’estero, il Legislatore ha da tempo operato la medesima,
forse poco felice, scelta di affidare la relativa
disciplina a speciali scriminanti/cause di non punibilità,
invece di stabilire in via positiva quali condotte
possano essere lecitamente poste in essere dai
nostri servicemen. Qui entrano in gioco la seconda e
la terza delle norme chiave citate nei paragrafi che
precedono, ossia i commi 1-sexies e 1-septies dell’art.
4 del d.l. 4 novembre 2009, n. 152 (46). Sulla scorta
del comma 1-sexies, le direttive e le regole di ingaggio
(rules of engagement - ROE) diramate ai militari
italiani in operazioni, nonché gli ordini legittimamente
impartiti vengono a costituire delle vere e
proprie cause di non punibilità, nel caso in cui i militari
interessati, attenendosi alle medesime,
«fa[nno] uso ovvero ordina[no] di fare uso delle armi,
della forza o di altro mezzo di coazione fisica,
per le necessità delle operazioni militari». Nell’ipotesi
in cui il militare ecceda nella coazione, la condotta
verrà giudicata come colposa «se il fatto è previsto
dalla legge come delitto colposo» (comma 1septies).
In sostanza entrambe le norme ricalcano il
testo degli artt. 53 e 55 c.p. sull’uso legittimo delle
armi e sull’eccesso colposo. Tale circostanza non le
mette tuttavia al riparo da forti dubbi di incostituzionalità
(47).
Giustizia sovranazionale
Diritto penale
Note:
(43) Cfr. In particolare, art. 53 c.p. e art. 41 c.p.m.p. In generale,
la forza può essere utilizzata dai militari e dai pubblici ufficiali
per “respingere una violenza o vincere una resistenza”.
Sul rapporto tra art. 53 c.p. e art. 41 c.p.m.p. cfr. P.P. Rivello,
Lezioni di diritto penale militare, Torino, II ed., 2012, 69 ss.
(44) Si veda, ad es.: Cass. pen., Sez. I, 16 maggio 1978 - 27
gennaio 1979, n. 927: «È legittimo l’uso delle armi da parte degli
agenti della forza pubblica per superare la resistenza armata
opposta da chi nell’atto di essere tratto in arresto abbia
esploso un colpo di pistola contro gli stessi e si sia dato alla fuga
ancora in possesso dell’arma»; Cass. pen., Sez. IV, 14 marzo
1989 - 27 aprile 1989, n. 6327: «La disposizione di cui all’art.
53 c.p. trova il suo fondamento giuridico, e quindi la sua
giustificazione normativa, nella necessità di consentire al pubblico
ufficiale l’uso delle armi al fine di adempiere un dovere
del proprio ufficio; uso che può realizzarsi solamente nel caso
egli si trovi di fronte alla necessità di respingere una violenza o
superare una resistenza costruttiva»; Cass. pen., Sez. IV, 6
febbraio 2003 - 2 maggio 2003, n. 20031: «L’art. 2 n. 2 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 4 novembre
1950, immediatamente e direttamente applicabile in Italia essendo
norma comunitaria, prevede l’uso legittimo delle armi
contro l’autore di un delitto al fine di arrestarlo, anche se quello
sta fuggendo. Ne consegue che non risponde ne di omicidio
ne di lesioni, anche a titolo di eccesso colposo il carabiniere
che spara a rapinatori in fuga dopo una rapina in banca». In
senso opposto cfr. Cass. civ., Sez. III, 22 maggio 2007, n.
11879: «il fondamento e la giustificazione della disposizione
dell’art. 53 citato, nella necessità di consentire al pubblico ufficiale
l’uso delle armi al fine di adempiere un dovere del proprio
ufficio, considera legittimo l’uso dell’arma solo in presenza
della necessità di respingere una violenza o superare una resistenza
attiva, le quali richiedono l’impiego della forza fisica o
morale e non sono perciò configurabili nel caso di fuga, che
realizza solo una resistenza passiva, se non effettuata con modalità
che mettano a repentaglio l’incolumità del terzo».
(45) Cfr. CEDU, Alikaj and Others v. Italy, ricorso n. 47357/08,
Sent. 29 marzo 2011, § 62-65, 73 e 76, http://www.echr.coe.int.
(46) Convertito con modifiche dalla l. 29 dicembre 2009, n. 197.
(47) Sui profili di incostituzionalità della norma in questione si
è già scritto in Tondini, Sulla nuova disciplina giuridica, op. cit.,
402: «In tal modo, le regole d’ingaggio e le direttive dell’Autorità
militare non vanno ad integrare una esimente prevista
per legge, ma risultano piuttosto esse stesse quali esimenti.
Sostanzialmente, atti amministrativi finiscono per determinare,
surrettiziamente, l’oggetto della norma penale, spalancando
le porte ad un vero e proprio «diritto penale amministrativo».
Così, difatti, si finisce per azzerare ogni sindacato di legittimità
giurisdizionale sulle direttive e sulle regole in parola,
poiché le condotte dei militari vengono giudicate sulla base
non della legge, ma di meri atti amministrativi, ritenuti, ex lege,
sempre e comunque “legittimi”». D’Angelo parla di “norme
penali di favore in bianco” (Cfr. L. D’Angelo, Missioni militari
all’estero: il legislatore amplia le possibilità di utilizzo delle
armi per le Forze Armate (e senza punibilità), in Forum di
Quaderni Costituzionali, 5 aprile 2010, http://www.forum
costituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_
forum/temi_attualita/guerra_terrorismo/0002_dangelo.pdf).
Ortolani e Zamponi ritengono che le nuove scriminanti “non
appaiono non indispensabili”, per via del riferimento alla necessità
delle operazioni militari, ma le stesse non dovrebbero
aprire spazi di legittimità ulteriori rispetto a quelli già contenuti
nelle scriminanti presenti nel Codice penale e nel Codice
penale militare di pace (P.M. Ortolani, F. Zamponi, La rilevanza
penale delle regole d’ingaggio,inInformazioni della Difesa,
2010, 4, 22-31, p. 31). Secondo Carlizzi, in via generale, le regole
d’ingaggio non potrebbero configurare autonome scriminanti,
ma sarebbero da ricondursi nell’alveo di quelle già tipiz-
(segue)
Diritto penale e processo 2/2013 237

Giustizia sovranazionale
Diritto penale
L’uso della forza nelle operazioni
anti-pirateria
Anche con riguardo alle operazioni anti-pirateria,
dunque, l’azione interdittiva o a fuoco dei militari
italiani finalizzata all’arresto/fermo dei sospetti pirati
viene operata proprio sulla base delle regole d’ingaggio.
Sfortunatamente, la classifica di segretezza a
cui le medesime sono sottoposte non consente una
loro analisi più puntuale. In via generale, tuttavia,
esse potrebbero ben contenere, tra l’altro, prescrizioni
circa l’effettuazione del fermo e della custodia di
sospetti pirati. Tali regole, scritte talvolta in forma
dispositiva, quali obblighi di facere, ma più comunemente
in forma permissiva, quali mere autorizzazioni
a compiere determinate condotte, dovranno per
loro natura ritenersi semplici atti/provvedimenti
amministrativi ricognitivi di poteri già posti in capo
ai Comandanti di navi da guerra e ai loro ausiliari
dalla legge penale. Nell’ipotesi opposta ci troveremmo
di fronte a dei poteri coercitivi esercitati sulla
sola base di fonti sub legislative, quali le ROE, che
attribuirebbero delle potestà coercitive autonome
rispetto a quelle già codificate, spalancando le porte
ad un sistema coercitivo/detentivo - puramente amministrativo
- parallelo a quello previsto dalla legge
penale. Se tale sistema potrebbe, in linea di massima,
correttamente configurarsi in situazioni di conflitto
armato (al netto di eventuali censure d’incostituzionalità),
esso non può certamente ritenersi legittimo
in operazioni che sono e rimangono di mera
polizia marittima. Volendo dare una lettura costituzionalmente
orientata della norma (48) ed i linea
con i poteri già attribuiti dall’ordinamento alla polizia
giudiziaria, si deve quindi propendere per un’interpretazione
restrittiva del comma 1-sexies, che limiti
i mezzi di coazione eventualmente autorizzati/disposti
dalle regole d’ingaggio alla sola azione diretta
ad indurre i destinatari della stessa (ossia i sospetti
pirati) a fare qualcosa o ad impedire loro di fare
alcunché (ad esempio seguire i militari italiani a
bordo della nave da guerra), senza che tale interpretazione
possa ricomprendere il ricorso a forme di privazione
della libertà personale.
Non deve trarre in errore l’interprete, il fatto che
l’azione coercitiva venga effettuata con armamento
da guerra, il quale non può che essere giustificato
dalla situazione di concreta minaccia rappresentata
da pirati sovente armati con fucili d’assalto, mitragliatrici
di squadra e lanciarazzi spalleggiabili anticarro.
Ciò che verrà in rilievo su questo fronte sarà
infatti la proporzionalità di mezzi e metodi impiegati
dai militari italiani e la necessità del loro utilizzo
238
ai fini del fermo/arresto, data la situazione tattica
specifica (es. presenza di ostaggi, presenza di determinate
armi a bordo della nave pirata, pericolo per
la vita e l’incolumità del personale militare e di bordo,
ecc.).
Comunicazioni con la Procura e ulteriori
adempimenti in vista del trasferimento
in Italia dei sospetti
Poiché ogni “azione cinetica” o a fuoco è diretta al
fermo o all’arresto di sospetti pirati, dei particolari
della medesima dovrà essere informato il Pubblico
Ministero competente (artt. 357 e 386 c.p.p.). Gli
obblighi di riservatezza sulle indagini potrebbero a
questo punto confliggere con gli obblighi di informazione
del Comando dell’Unità nei confronti della
propria catena gerarchica nazionale ed internazionale.
Il conflitto, in realtà, è solo ipotetico, potendosi,
ad esempio, distinguere, da un lato l’invio di
verbali d’arresto/fermo e d’udienza al solo P.M. e,
dall’altro, le informazioni utili al prosieguo delle
operazioni e dell’azione di Comando, da trasmettersi
alla propria catena gerarchica. La separazione tra
il livello squisitamente giudiziario e quello militare
non è tuttavia sempre agevole, ben potendo informazioni
quali l’identità degli arrestati/fermati, l’armamento
sequestrato e taluni particolari dell’operazione
effettuata, essere d’interesse su entrambi i piani
(49). In tale contesto, ciò che rileverà per il Comandante-Ufficiale
di P.G. sarà stabilire due flussi
informativi distinti tra P.M. e Comandi sovraordinati,
in modo da separare all’origine gli atti di P.G.
da quelli compiuti in qualità di Ufficiale militare.
Ciò premesso, va comunque precisato che i due livelli
- giudiziario e militare - presenteranno naturalmente
dei punti di intersezione e necessiteranno di
qualche forma di coordinamento: ad esempio, la rot-
Note:
(continua nota 47)
zate (G. Carlizzi, Profili di operatività delle regole di ingaggio
nell’ordinamento penale italiano, in S. Manacorda (a cura di),
Atti del seminario di studi: Difesa comune e spazio giudiziario
penale, Gaeta, 2005, 163-183, 177 ss.).
(48) Art. 13 Cost. e art. 5, comma 1, 3-4 CEDU.
(49) Si noti inoltre che oggi, sia la flotta UE che quella NATO
cooperano con l’Interpol, scambiando informazioni riguardanti
il fermo/arresto dei pirati. Tali informazioni «will be correctly
preserved and fully exploited by law enforcement and will
help determine any links within the evidence and prosecution
framework in relation to suspected pirates and the identification
of associated criminal networks» (Interpol, Maritime piracy
investigations boosted by INTERPOL and NATO framework
on information sharing, Media Release No.
PR041/2012, 9 maggio 2012, http://www.interpol.int/Newsand-media/News-media-releases/2012/PR041).
Diritto penale e processo 2/2013

ta dell’Unità interessata dall’arresto degli autori del
reato potrebbe subire ritardi o variazioni di rilievo in
conseguenza dell’azione stessa e della presenza dei
pirati a bordo, in vista del loro trasferimento sulla
terraferma. Tali variazioni o ritardi avranno inequivocabilmente
riflessi sulla condotta delle operazioni
da parte dei Comandi internazionali sovraordinati.
A seguito del fermo/arresto di presunti pirati, la destinazione
dell’Unità interessata sarà quindi decisa
sulla base di direttive “coordinate” tra Comando internazionale
e Autorità giudiziaria competente, e finalizzata
al trasferimento degli indiziati/imputati a
terra. A ben vedere, tuttavia, ogni sforzo di coordinamento
sarà in pratica posto sulle spalle del Comando
dell’Unità interessata, essendo i Comandi
sovraordinati e la Procura competente soggetti decisionali
del tutto distinti ed autonomi nell’ambito
delle proprie prerogative. Nel caso, ci si augura
estremo, di mancato raggiungimento di un effettivo
e tempestivo coordinamento, non resterà per l’Unità
italiana che rientrare temporaneamente sotto la
catena di Comando/controllo nazionale, “sganciandosi”
dall’operazione internazionale, per portare a
termine il trasferimento degli imputati.
Detto trasferimento avrà come destinazione il territorio
italiano nel caso siano stati oggetto dell’attacco
pirata navi, beni o cittadini italiani (50), ma potrebbe
essere operato anche verso Paesi terzi disponibili
ad esercitare l’azione penale al posto del nostro
paese. In terzo luogo, il trasferimento verso la
terraferma potrebbe doversi attuare in conseguenza
del rilascio dei soggetti catturati disposto dall’Autorità
giudiziaria. Anche nel caso del trasferimento
verso l’Italia, l’ipotesi più frequente è che i sospetti
pirati vengano imbarcati su voli militari o civili italiani
diretti a Roma da basi o aeroporti stranieri. In
simili ipotesi sarà necessario per il Governo italiano
stipulare precisi accordi di transito del proprio personale
e degli individui sottoposti a custodia con i
Paesi o i Comandi interessati, al fine di evitare possibili
conflitti di giurisdizione e/o il mancato riconoscimento
dello stato detentivo degli individui de quo
da parte dello Stato di transito.
Il punctum dolens: Il trasferimento
dei pirati in Paesi terzi
Il trasferimento a terra dei sospetti pirati
in seguito al loro rilascio
Proprio il trasferimento dei sospetti pirati verso Paesi
terzi desta le più forti preoccupazioni dal punto di
vista giuridico. In primis va considerato il caso, non
infrequente, che i sospettati vengano posti in libertà
Giustizia sovranazionale
Diritto penale
a seguito di una decisione del P.M. o del G.I.P. (51).
In simili ipotesi non resta per il Comando dell’Unità
che sbarcare i fermati/arrestati a terra, avendo oltretutto
questi ultimi acquisito lo status di “uomini
liberi”, nei confronti dei quali cioè, prima dello sbarco,
potranno essere operate delle temporanee restrizioni,
ma non privazioni, della libertà personale. Tali
restrizioni saranno solo quelle strettamente funzionali
alla preservazione della sicurezza della nave e
del personale di bordo, oltre che della generale operatività
del vascello da guerra. In aggiunta, nel caso
di Paesi del bacino somalo, esclusa la Somalia, per
via dell’assenza di controllo del Governo di Mogadiscio
sul proprio territorio nazionale, dovrà per forza
di cose ottenersi il consenso allo sbarco dello Stato
di destinazione. Qui, da un lato potranno essere sollevati
da parte di detto Stato obiezioni concernenti
la disciplina dell’immigrazione (autorizzazione all’ingresso
e soggiorno di cittadini stranieri), dall’altro
il Comando dell’Unità dovrà essere ragionevolmente
sicuro del destino degli individui liberati una
volta a terra, visti gli obblighi di non-refoulement
(52) che gravano sullo Stato autore del trasferimento
(53). Gli stessi problemi riguardanti il rispetto del
principio di non respingimento sorgeranno in relazione
al rilascio dei fermati/arrestati sul suolo somalo,
in considerazione di eventuali minacce alla loro
incolumità fisica. Anche a tutela del Comando di
bordo, ogni azione dovrebbe essere effettuata previa
autorizzazione dell’Autorità giudiziaria.
Il trasferimento verso Paesi terzi disposti
a processare i pirati
Il vero nodo gordiano delle operazioni anti-pirateria
rimane tuttavia quello del trasferimento dei sospetti
pirati verso Paesi terzi disponibili ad esercitare
l’azione penale in luogo dell’Italia. Dispone difatti il
comma 6-bis dell’art. 5, d.l. n. 209/2008 che, nel caso
in cui l’atto di pirateria non coinvolga cittadini o
beni italiani, troveranno applicazione non meglio
precisati “accordi internazionali”. In aggiunta, nel
Diritto penale e processo 2/2013 239
Note:
(50) Art. 5, comma 4, d.l. 209/2008.
(51) Artt. 389, comma 1, e 391, comma 6 c.p.p.
(52) Art. 3 CEDU, Art. 33(1) della Convenzione di Ginevra sullo
status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 e ratificata
con l. 24 luglio 1954, n. 722.
(53) Cfr. in part. CEDU (GC), M.S.S. v. Belgium and Greece,
21 gennaio 2011, ricorso n. 30696/09, § 354 e 358,
http://www.echr.coe.int; CGUE (GC), N.S. v. Secretary of
State for the Home Department, causa C-411/10 e M.E. et al.
v. Refugee Applications Commissioner and Minister for Justice,
Equality and Law Reform, 21 dicembre 2011, causa C-
493/10, § 91 e 106, http://www.curia.eu.int.

Giustizia sovranazionale
Diritto penale
caso in cui il fermo/arresto sia stato condotto da
un’Unità navale partecipante all’Operazione UE
Atalanta, viene “autorizzato” il fermo/arresto dei sospetti
pirati, “la detenzione” e il loro trasferimento,
assieme al sequestro della nave pirata e/o della nave
attaccata che si trovi sotto il controllo dei pirati,
nonché la confisca dei beni trovati a bordo, secondo
quanto disposto dall’Azione Comune n. 851 del
2008 e successive decisioni di modifica (54). Tali
condotte vengono “autorizzate” proprio in virtù della
consegna dei fermati/arrestati e dei beni sequestrati
a Paesi terzi che si siano resi disponibili ad
esercitare la propria giurisdizione sul caso (55). Le
stesse misure, detenzione inclusa, «possono essere
altresì adottate» in forza di ulteriori accordi «stipulati
da Organizzazioni internazionali di cui l’Italia è
parte», con ciò in pratica riferendosi all’UE e alla
NATO. L’UE ha difatti concluso accordi per il trasferimento
dei sospetti pirati con alcuni Stati della
regione, quali Gibuti, Seychelles, Mauritius e Kenya,
mentre risulta in fase di negoziazione un ulteriore
accordo con la Tanzania. La NATO, da parte
sua, ha in procinto la conclusione di accordi similari
che ad oggi non sono stati tuttavia ancora firmati.
Pare importante inoltre precisare che il comma 6-bis
consente anche la custodia di individui non catturati
dalla nave da guerra nazionale, ma consegnati al
Comando di bordo dalle Forze di altro Stato e detenuti
in attesa di essere trasferiti verso un paese terzo.
L’ultimo comma dell’art. 5 (comma 6-ter) estende le
disposizioni viste innanzi ai procedimenti in corso.
All’epoca dell’adozione della norma che ha inserito
il comma 6-bis nell’art. 5 (56), era difatti in fieri la
consegna di alcuni sospetti pirati al Kenya da parte
di un’Unità navale italiana e tale disposizione fu elaborata
con l’intendimento di conferire una base giuridica
appropriata anche a quel particolare trasferimento.
Il quadro giuridico così composto, solo all’apparenza
logico e coerente, va più opportunamente esaminato
scomponendolo su vari livelli. Volendo iniziare
dal livello sopranazionale, si deve preliminarmente
osservare che le azioni comuni e le decisioni del
Consiglio UE sopra citate entrano per i loro contenuti
a far parte della materia penale, tradizionalmente
riservata agli Stati membri per motivi di ordine
costituzionale, anche in ossequio al principio di
sovranità, e al fine di garantire ai singoli l’accesso ad
una giurisdizione che assicuri loro effettivi meccanismi
di tutela. Con l’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona ed il venir meno dei “pilastri” sui cui si fondava
l’azione dell’UE vi è il rischio, sempre presente,
che il Consiglio o la Commissione si spingano a
240
“legiferare” direttamente in materia penale con atti
“non-legislativi”, quali azioni e decisioni - e quindi
senza che gli atti in questione siano approvati formalmente
dal Parlamento Europeo - senza alcun
provvedimento di attuazione da parte dei legislatori
nazionali e senza offrire alcun meccanismo di garanzia
(57). Non a caso, recentemente, la Corte di giustizia
dell’UE nell’annullare la Decisione con cui il
Consiglio, modificando il Codice Schengen, introduceva
le Regole per le operazioni marittime dell’Agenzia
FRONTEX, ha affermato la necessità che
le norme che vanno ad incidere sui diritti fondamentali
dell’individuo vengano adottate dal Legislatore
europeo. Secondo la Corte, difatti: «disposizioni
vertenti sull’attribuzione alle guardie di frontiera
di poteri di pubblico imperio come quelli conferiti
nella decisione impugnata, tra i quali figurano l’arresto
delle persone fermate, il sequestro di navi e il
rimpatrio delle persone fermate verso un determinato
luogo, permettono ingerenze talmente incisive
nei diritti fondamentali delle persone coinvolte da
rendere necessario l’intervento del legislatore dell’Unione»
(58). Per le stesse ragioni, il Parlamento
Europeo ha impugnato innanzi la medesima Corte
la Decisione del Consiglio UE con cui si approvava
l’Accordo con le Mauritius (59).
Se dunque un’azione comune o decisione del Consiglio
UE che incide in maniera determinante sui diritti
fondamentali degli individui è da ritenersi nulla,
tanto più una legge italiana non può semplicemente
operare un rinvio espresso a quanto ivi previsto
per disciplinare, in via speciale, l’arresto e la
consegna dei pirati, nonché il sequestro e la conse-
Note:
(54) Ex art. 2(1)(e) dell’Azione Comune 2008/851/PESC del
Consiglio del 10 novembre 2008.
(55) Ibid., art. 12.
(56) Art. 1, comma 1, lett. b), d.l. 15 giugno 2009, n. 61, convertito
dalla l. 22 luglio 2009, n. 100.
(57) Sulla necessità di un provvedimento di attuazione delle
norme europee in materia penale cfr. R. Sicurella, «Prove tecniche»
per una metodologia dell’esercizio delle nuove competenze
concorrenti dell’Unione europea in materia penale, in
G. Grasso, L. Picotti, R. Sicurella (a cura di), L’evoluzione del
diritto penale nei settori d’interesse europeo alla luce del Trattato
di Lisbona, Milano, 2011, 3-65, a p. 32 ss.; A. Bernardi,
All’indomani di Lisbona: note sul principio europeo di legalità
penale, in Quaderni Costituzionali, Vo. 29, 2009, 1, 37-64.
(58) CGUE (GC), Parliament v. Council, 5 settembre 2012,
causa C-355/10, § 77, http://www.curia.eu.int.
(59) Decisione 2011/640/PESC del Consiglio del 12 luglio
2011 (Parliament v. Council, 21 dicembre 2011, causa C-
658/11, http://www.curia.eu.int). Si veda sul tema M.E.
Bartoloni,Sulla partecipazione del parlamento europeo alla
formazione di accordi in materia di politica estera e di sicurezza
comune, Riv. Dir. Intern., Vol. 95, 2012, 3, 796-808.
Diritto penale e processo 2/2013

gna di navi e beni “piratati”, a Paesi terzi. La norma
de quo sembra difatti istituire un procedimento speciale,
simil-estradittivo, ulteriore rispetto a quello
previsto dal nostro sistema penale, senza tuttavia
menzionare alcuna garanzia tra quelle contenute nel
nostro codice di procedura penale (artt. 697 ss.)
(60). Né infatti l’Azione comune in parola, né altre
norme speciali, disciplinano gli aspetti sostanziali,
processuali ed esecutivi della consegna, né mai la
parola “estradizione” è menzionata nel testo di alcuno
degli atti anzidetti.
Pare d’obbligo, quindi, chiedersi: può ammettersi un
procedimento di sostanziale estradizione di un individuo
in stato di fermo o arresto, in assenza: a) della
formale rinuncia all’esercizio della giurisdizione da
parte dell’Autorità giudiziaria italiana sul caso; e b)
dell’applicazione delle norme sull’estradizione di cui
all’art. 697 c.p.p., che, va ricordato, si applicano
proprio «se mancano o non dispongono diversamente»
le «convenzioni internazionali in vigore per
lo Stato» (art. 696 c.p.p.)? Può la semplice consegna
dei sospetti pirati essere portata a termine senza alcuna
possibilità di ricorso avverso la consegna medesima
ed essere tale procedimento in linea con le
norme costituzionali e della Convenzione europea
sui diritti dell’uomo in materia di diritto alla libertà,
ad un equo processo e ad un ricorso effettivo (61)?
Può l’Azione Comune UE - atto non legislativo -
equipararsi alla “legge” prevista dall’art. 5, comma 1,
CEDU e 25, comma 2, Cost. per fondare legittimamente
la custodia di un individuo? Può ipotizzarsi
una forma detentiva in assenza dei meccanismi di judicial
review imposti dall’art. 5, commi 3 e 4 della
CEDU? (62)
La mancata rinuncia all’esercizio
della giurisdizione italiana nei casi
di trasferimento di pirati a Paesi terzi
e sue conseguenze applicative
Volendo partire dal primo dei quesiti formulati, occorre
da subito rilevare che il d.l. n. 209/2008 non
contiene alcuna rinuncia all’esercizio della giurisdizione
da parte italiana sui pirati che attacchino navi/cittadini
stranieri, con contestuale devoluzione
della medesima a favore di Stati terzi. Il comma 6-bis
dell’art. 5 si limita infatti: 1) a rinviare all’applicazione
di non meglio precisati “accordi internazionali”;
2) ad autorizzare la custodia di individui ed il sequestro
di navi e beni in attuazione di un’azione comune
UE; 3) ad autorizzare, ancora una volta, dette
misure nel caso le stesse «siano previste da accordi
in materia di contrasto alla pirateria», firmati da organizzazioni
internazionali di cui l’Italia è parte.
Giustizia sovranazionale
Diritto penale
Orbene, va osservato che, ad oggi, nessuna delle intese
di cui al punto 1) sull’esercizio della giurisdizione
è stata stipulata dall’Italia con Stati terzi. Simili
accordi sull’esercizio della giurisdizione dovrebbero
oltretutto essere debitamente ratificati ex art. 80
Cost. poiché modificherebbero le norme ordinarie
sull’esercizio della giurisdizione italiana. Inoltre
l’autorizzazione menzionata ai punti 2) e 3), anche
considerando le norme in parola esenti da vizi di costituzionalità,
vale a rendere l’applicazione di tali disposizioni
del tutto eventuale. Chi, allora, dovrebbe
decidere sulla loro applicazione al caso di specie? Il
Ministro della giustizia? Il Tribunale di Roma? Il Comando
militare? Dovrebbero essere sentiti gli interessati?
Per ciò che concerne poi il rinvio agli accordi
di trasferimento stipulati da organizzazioni internazionali
come NATO (allo stato mancanti) e UE
(conclusi per lo più nella forma di un mero scambio
di lettere e secondo condizioni giuridiche differenti
(63)), può certamente notarsi che gli stessi non possono,
da soli, costituire una base giuridica sufficiente
per il trasferimento dei sospetti pirati, quasi che il
trasferimento fosse in primis imputabile alla sola organizzazione
internazionale e il comma 6-bis fosse
una mera “norma cerniera” che autorizza i militari
italiani a conformarsi a decisioni prese altrove, ossia
presso i Comandi internazionali sovraordinati. Si
prenda ad esempio l’accordo siglato dall’UE con il
Diritto penale e processo 2/2013 241
Note:
(60) Secondo Pierini, «Tale attività ha carattere coercitivo, ma
non costituisce attività di polizia giudiziaria ed è piuttosto
un’attività sui generis. La consegna è disposta direttamente
dalla legge e sfugge a ogni coinvolgimento dell’autorità giudiziaria.
In base alla disposizione sfugge, inoltre, a ogni coinvolgimento
dell’autorità giudiziaria la detenzione della persona
per la successiva consegna» (cfr. Pierini, L’aspetto giuridico
nazionale, op. cit., 79-80).
(61) Cfr. risp. artt. 13 comma 2, 24-25, 111 Cost. e artt. 5
(comma 1, 3-4), 6 e 13 CEDU.
(62) Art. 5, CEDU: «[…] 3. Ogni persona arrestata o detenuta,
conformemente alle condizioni previste dal paragrafo 1 c del
presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi a
un giudice o a un altro magistrato autorizzato dalla legge a
esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata
entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante
la procedura. La scarcerazione può essere subordinata
a garanzie che assicurino la comparizione dell’interessato all’udienza.
4. Ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione
ha il diritto di presentare un ricorso a un tribunale, affinché
decida entro breve termine sulla legittimità della sua
detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima
[…]».
(63) Per un’ampia disamina delle problematiche inerenti gli
accordi UE con i Paesi dell’area cfr. A. Spagnolo, Il trasferimento
di presunti pirati nell’ambito dell’operazione Atalanta:
gli accordi tra l’Unione europea e i Paesi terzi, in Studi sull’integrazione
europea, Vol. 7, 2012, 2-3, 669-687, a pp. 678-680.

Giustizia sovranazionale
Diritto penale
Kenya. Nello scambio di lettere tra il Governo keniota
e l’UE si precisa che il trasferimento verrà perfezionato
a mezzo di specifici accordi presi a tre, ovvero
conclusi tra le competenti Autorità UE, keniote
e dello Stato membro che ha in custodia i sospetti
pirati (64). Se da un lato ciò vale a sconfessare
qualsiasi imputabilità esclusiva del trasferimento all’UE
(65), dall’altro, quale sarebbe l’Autorità italiana
competente a stipulare tali accordi? Il Comando
della nave? Il Ministero della giustizia? Se il trasferimento
è imputabile anche allo Stato che lo effettua,
potrebbe legittimamente l’Italia consegnare ad uno
Stato terzo degli individui negando loro qualunque
possibilità di ricorso presso l’Autorità giudiziaria italiana?
Non troverebbero applicazione il terzo e il
quarto comma dell’art. 5 CEDU?
Una lettura “costituzionalmente orientata” delle
norme anziviste imporrebbe almeno l’applicazione
delle disposizioni di cui all’art. 10 c.p. una volta che
i sospetti pirati si trovino a bordo delle navi della
Marina, e quindi in territorio italiano ai sensi dell’art.
4 c.p. e art. 4 c.n., con contestuale interessamento
del Ministro della giustizia per l’eventuale richiesta
di apertura del procedimento penale. Una
tale impostazione tuttavia, va chiarito, rinnegherebbe
la tesi secondo cui la giurisdizione penale italiana
sui reati di pirateria viene esercitata ex art. 7, n. 5,
c.p., come sopra premesso. In aggiunta, anche a voler
prendere per legittimo tale approccio, non si
comprenderebbe perché mai lo stesso procedimento
non dovrebbe essere utilizzato nei casi di pirateria
che coinvolgono navi, beni e cittadini italiani. Ad
ogni buon conto, nelle more della pronuncia del
Ministro, dovranno essere posti in essere gli ordinari
atti di polizia giudiziaria previsti dal Codice di
procedura penale e dovrà essere interessata la Procura
competente (che, seppure nell’assenza di disposizioni
specifiche, potrebbe essere quella di Roma),
non potendosi neanche escludere a priori che tra
l’equipaggio della nave attaccata vi siano cittadini
italiani o che la nave in questione trasporti beni italiani
(si pensi ad un solo container italiano tra i centinaia
trasportati da un mercantile straniero), nel
qual caso soccorrerebbe invece il già citato comma 4
dell’art. 5, d.l. n. 209/2008 e non sarebbe necessaria
alcuna richiesta del Ministro.
Nondimeno, anche nel caso in cui la pronuncia di
“mancata richiesta” di esercizio dell’azione penale
da parte del Ministro giunga tempestivamente (66),
l’ulteriore detenzione dei sospetti pirati verrebbe
“coperta” giuridicamente solo dal d.l. n. 209/2008.
In tale evenienza, nel caso si disponesse il trasferimento
dei sospetti ad un paese terzo, al fine di dare,
242
ancora una volta, una lettura costituzionalmente
orientata della norma ed in linea con gli artt. 5,
commi 3-4, e 13 della CEDU, dovrebbero essere applicate,
come minimo, anche in via analogica, le ordinarie
norme che disciplinano l’estradizione verso
altri Stati, ivi compresa la possibilità per i sospetti
pirati di ricorrere contro la propria custodia e contro
il trasferimento, il quale dovrebbe essere temporaneamente
sospeso (67). È evidente che i tempi si allungherebbero
a tal punto da inficiare il prosieguo
della missione ed il trasferimento stesso. Inoltre,
quid nel caso il Ministro ritenga di non richiedere
l’apertura di un procedimento penale a carico dei sospetti
pirati e altri Stati si rifiutino di processarli
(anche contravvenendo agli accordi precedentemente
presi con l’UE e NATO)? In tal caso non rimarrebbe
che provvedere alla loro liberazione: attività,
come precisato poc’anzi, non esente da rischi,
stante la situazione di pericolo per l’incolumità dei
soggetti catturati una volta a terra e l’obbligo di nonrefoulement.
L’Azione comune UE come base giuridica
autonoma su cui fondare la custodia
e il trasferimento dei pirati
Tra i quesiti posti nei paragrafi che precedono, rimane
da esaminare quello sull’equiparazione ad atti
aventi forza di legge delle disposizioni contenute
nell’azione comune e nelle successive decisioni del
Consiglio UE che autorizzano il trasferimento dei
Note:
(64) Exchange of Letters between the European Union and
the Government of Kenya on the conditions and modalities
for the transfer of persons suspected of having committed
acts of piracy and detained by the European Union-led naval
force (EUNAVFOR), and seized property in the possession of
EUNAVFOR, from EUNAVFOR to Kenya and for their treatment
after such transfer, Official Journal of the European
Union, Serie L, n. 79, 25 marzo 2009, pp. 49-59, Annesso, §
9(a).
(65) Guilfoyle, Counter-Piracy Law Enforcement and Human
Rights, op. cit., 158. Secondo Spagnolo, «i contingenti nazionali
nell’ambito dell’operazione Atalanta non possono essere
considerati come organi sussidiari [… né] come organi de facto
dell’Unione europea» (cfr. Spagnolo, op. cit., 686). A fortiori,
quindi, può escludersi l’imputabilità esclusiva all’UE delle
condotte poste in essere da parte delle navi italiane.
(66) Ai sensi dell’art. 128, comma 1, c.p., il Ministro della giustizia
ha in pratica tre mesi per avanzare la richiesta di procedimento.
(67) Da notarsi che in dottrina, anche tra coloro che sostengono
che il ricorso contro il trasferimento dei pirati non debba
per forza essere giurisdizionale, ma possa vestire i panni del
semplice ricorso amministrativo, si afferma la necessità di un
effettivo giudizio di compatibilità del trasferimento con la CE-
DU e di sospendere il procedimento in attesa della pronuncia
dell’Autorità investita della decisione (Guilfoyle, Counter-Piracy
Law Enforcement and Human Rights, op. cit., 167).
Diritto penale e processo 2/2013

sospetti pirati. Ciò al fine di stabilire la conformità
delle misure detentive operate sulla base di tali atti
ai principi del nulla poena sine lege, dell’“habeas corpus”
e del diritto al ricorso contro la propria custodia,
come previsti dalla CEDU (68). Il tema è stato
al centro di un intenso dibattito tra autorevoli consiglieri
giuridici delle Forze armate italiane e dell’UE
(69): mentre i primi asserivano che non fosse possibile
riferirsi esclusivamente agli atti UE per fondare
giuridicamente la custodia ed il trasferimento dei sospetti
pirati in Atalanta, i secondi difendevano la
“sufficienza giuridica” degli atti de quo agli stessi fini.
Nell’opinione di chi scrive, la natura di atti sottratti
all’approvazione formale del Legislatore europeo e la
mancanza di meccanismi giurisdizionali di tutela per
gli individui catturati che assicurino un livello di garanzia
equivalente o almeno analogo a quello che
l’ordinamento italiano garantirebbe loro se sottoposti
ad estradizione passiva (70), non consente,
un’applicazione diretta di azioni comuni e decisioni
UE aventi ad oggetto aspetti di diritto penale sostanziale
e procedurale, tanto più in quanto si tratta
di misure di privazione della libertà personale.
Non a caso, recentemente, il Tribunale amministrativo
di Colonia, investito della decisione sull’illegittimità
del trasferimento di sospetti pirati al Kenya
da parte di una nave da guerra tedesca facente parte
della Missione Atalanta, ha affermato che il trasferimento
medesimo è da considerarsi illegittimo, in
quanto, tra l’altro: a) imputabile al Governo tedesco
(71); e b) effettuato senza che le Corti competenti si
siano pronunciate sull’ammissibilità del procedimento
di estradizione degli individui arrestati, a tal
fine operando le ordinarie verifiche sulle condizioni
di detenzione nel paese di trasferimento, come previsto
dalla giurisprudenza costituzionale tedesca
(72). Degna di nota è la circostanza che, nel pronunciarsi
sulla legittimità dell’arresto dei presunti
pirati da parte delle Forze tedesche, il giudice di Colonia
non faccia riferimento alcuno all’Azione comune
di Atalanta, ma fondi la giurisdizione nazionale
esclusivamente sull’art. 105 della Convenzione di
Montego Bay (73).
Strumenti giuridici alternativi utilizzati
da Stati partner per il trasferimento
dei sospetti pirati a Paesi terzi
Alcuni Paesi, anche in vista della partecipazione dei
propri contingenti alla missione NATO (la quale,
come sopra premesso, non si estende agli aspetti penalistici
inerenti la cattura dei pirati), hanno stretto
specifici accordi di consegna con i Paesi rivieraschi.
Il Regno Unito, ad esempio, ha finora concluso ac-
Giustizia sovranazionale
Diritto penale
cordi (memoranda of understanding) per il trasferimento
dei sospettati con Mauritius, Seychelles e
Tanzania (74). Altri Stati, come i Paesi Bassi, hanno
utilizzato come base giuridica del trasferimento dei
pirati a Paesi terzi l’art. 105 della Convenzione
ONU sul diritto del mare (75). In questo caso i sospetti
pirati non vengono formalmente sottoposti a
custodia cautelare mediante pronuncia del giudice
olandese, ma vengono posti in stato detentivo sulla
scorta del solo dettato dell’art. 105 («ogni Stato […]
può arrestare le persone a bordo»), in attesa che un
altro paese (nel caso di specie le Seychelles) accetti
di processarli, adempiendo agli obblighi di cooperazione
di cui all’art. 100 della medesima Convenzione.
L’interpretazione olandese non pare tuttavia
conferire alcuna copertura giuridica all’operazione
di trasferimento. Se è pacifico che l’art. 105 non
preclude la possibilità del trasferimento di sospetti
pirati a Paesi terzi (76), è altrettanto vero che non
ne disciplina le modalità, le quali pertanto non potranno
che essere in linea con gli obblighi degli Sta-
Diritto penale e processo 2/2013 243
Note:
(68) Art. 5, comma 1, 3-4 CEDU.
(69) Cfr. J.P. Pierini, Is the Grass Always Greener on the other
side?, NATO Legal Gazette, No. 23, 25 ottobre 2010, pp. 2-
10; G.J. Van Hegelsom, F. Naert, Of Green Grass and Blue
Waters: A Few Words on the Legal Instruments in the EU’s
Counter-Piracy Operation Atalanta, NATO Legal Gazette, No.
25, 5 maggio 2011, 2-10.
(70) Potrebbe qui azzardarsi una similitudine con il principio sostenuto
dalla Corte costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht
- BverfG) nei casi Solange II (BVerfGE 73, 339) e Banana
Market (BVerfGE 102, 147), laddove la BverfG ha ritenuto
l’allora diritto comunitario non sindacabile dalle Corti costituzionali
nazionali fintanto che il livello di protezione dei diritti
fondamentali rimane al di sopra di quanto assicurato dalla costituzione
nazionale. In caso contrario, il giudice costituzionale
nazionale potrebbe rilevare eccezioni di incostituzionalità.
(71) Verwaltungsgericht Köln, Caso n. 25 K 4280/09, sent. 11
novembre 2011, § 57, http://www.justiz.nrw.de/nrwe/ovgs/
vg_koeln/j2011/25_K_4280_09urteil20111111.html.
(72) Ibid., § 60 e 62.
(73) Ibid., § 33-34.
(74) Foreign and Commonwealth Office, UK signs agreement
with Mauritius to transfer suspected pirates for prosecution,
8 giugno 2012, http://www.fco.gov.uk/en/news/latestnews/?view=News&id=773845482.
(75) Ministry of Defence, Rotterdam hands over pirates to
Seychelles, 1° settembre 2012, http://www.defensie.nl/
english/latest/news/2012/09/01/48198762/Rotterdam_
hands_over_pirates_to_Seychelles.
(76) Guilfoyle, Counter-Piracy Law Enforcement and Human
Rights, op. cit., 144. A contrario, cfr. E. Kontorovich, International
Legal Responses to Piracy off the Coast of Somalia,
ASIL Insights, Vol 13, No. 2, 6 febbraio 2009,
http://www.asil.org/insights090206.cfm. Secondo Kontorovich,
i lavori preparatori della Convenzione indicherebbero
che la disposizione in esame era nata proprio per prevenire il
trasferimento dei pirati a Paesi terzi.

Giustizia sovranazionale
Diritto penale
ti previsti dal diritto internazionale (ivi inclusi i diritti
dell’uomo) ed interno.
Le norme sulla giurisdizione penale militare
Oltre a precisare le regole sull’esercizio della giurisdizione
italiana e la competenza del Tribunale di
Roma sulla cognizione dei reati non militari eventualmente
commessi, l’art. 5 del d.l. n. 209/2008 definisce
i limiti per l’esercizio dell’azione penale militare.
Nel fare ciò, la norma in parola opera un rinvio
esplicito ad alcune disposizioni originariamente
emanate nel 2001 per consentire la partecipazione
dei militari italiani all’Operazione a guida USA Enduring
Freedom in Afghanistan (77). Nel contempo,
come di regola ormai, l’art. 5, comma 1, stabilisce
l’applicazione del Codice penale militare di pace, in
deroga a quanto previsto dal Codice penale militare
di guerra per i corpi di spedizione all’estero (78).
Più nello specifico, ai sensi del comma 1 dell’art. 5 citato,
i Comandanti delle Unità da guerra italiane, in
quanto Comandanti di corpo e quindi Ufficiali di polizia
giudiziaria militare (79), debbono procedere all’arresto
del militare colto in flagranza nella commissione
di gravi delitti, per i quali il Codice di procedura
penale prevede l’arresto obbligatorio (80). È anche
previsto l’arresto obbligatorio nei casi di alcuni specifici
reati militari, ossia: disobbedienza aggravata (81),
rivolta (82), ammutinamento (83), insubordinazione
con violenza (84), violenza contro un inferiore aggravata
(85). Analogamente a quanto stabilito per i reati
non militari, la competenza sulla cognizione dei reati
di cui sopra appartiene al Tribunale militare di Roma.
Come visto poc’anzi a proposito dei reati di pirateria,
inoltre, anche nel caso di esercizio della giurisdizione
penale militare, le comunicazioni tra Autorità giudiziaria,
Comando della Nave da guerra e arrestati, ovvero
tra questi ultimi e i propri difensori, potranno avvenire
in video-conferenza o con mezzi telematici. Gli
arrestati potranno essere custoditi, per tutta la durata
della propria permanenza a bordo, «in appositi locali
del vettore militare» (art. 5, comma 5).
La citata norma produce, in sostanza, la “militarizzazione”
di una vasta gamma di reati “ordinari” per cui
è obbligatorio l’arresto in flagranza ai sensi del Codice
di procedura penale. Quale norma speciale, essa
finisce per sottrarre spazi di giurisdizione al giudice
ordinario in favore di quello militare. Il comma 3
dell’art. 5 afferma difatti che il Tribunale di Roma rimane
competente «per i reati attribuiti alla giurisdizione
dell’autorità giudiziaria ordinaria» commessi
da cittadini italiani. In pratica tale disposizione non
afferma che tutti i reati ordinari commessi da italiani
sono affidati alla cognizione del giudice ordinario,
244
ma che per quelli a quest’ultimo attribuiti, competente
è il Tribunale della Capitale.
Sebbene quindi il giudice militare non abbia giurisdizione
sui reati di pirateria, egli potrebbe essere investito
della cognizione su ipotetici fatti di reato
commessi da militari in servizio - ai sensi del Codice
penale militare di pace e del codice penale ordinario
- nel corso della missione e, in particolare, nel corso
di ogni azione anti-pirateria. Di conseguenza, quindi,
le circostanze riguardanti l’arresto/fermo di sospetti
pirati dovrebbero di principio essere sempre
portate a conoscenza di entrambe le Autorità giudiziarie,
ordinaria e militare, fin dall’inizio. Ad esempio,
questioni inerenti l’uso della forza da parte dei
nostri militari potrebbero dar luogo a due procedimenti
penali distinti, ordinario e militare, sulla base
di diverse ipotesi di reato. Si prenda il caso di militari
italiani che prendono d’assalto una nave italiana
con pirati a bordo e, nel tentativo di liberare nave
ed ostaggi, uccidano o feriscano gravemente alcuni
pirati e, nel contempo, feriscano dei cittadini italiani
sequestrati. I reati ipotizzabili potrebbero andare
dall’omicidio alle lesioni personali gravi, dalla pirateria
al sequestro di persona e alla violata consegna.
Chi dovrebbe procedere penalmente se non entrambe
le Autorità giudiziarie?
Conclusioni. I limiti dell’approccio
penalistico alle operazioni militari
Come osservato da autorevole dottrina (86), l’approccio
penalistico alle operazioni militari viene oggi
finalizzato a due obiettivi fondamentali, ossia: 1)
assicurare il buon funzionamento e l’efficienza operativa
dei contingenti inviati; e 2) civilizzare ed
Note:
(77) Art. 9, commi 3, 4, lett. a), b), c) e d), 5 e 6, d.l. 1° dicembre
2001, n. 421, convertito con modificazioni nella l. 31 gennaio
2002, n. 6.
(78) Art. 9 c.p.m.g. dal 2006 (l. 4 agosto 2006, n. 247) in poi
ogni decreto di finanziamento delle missioni all’estero prevede
applicazione del c.p.m.p. in luogo del c.p.m.g.
(79) Art. 301 c.p.m.p.
(80) Art. 380, comma 1, c.p.p. La norma parla di delitti non
colposi, consumati o tentati, per il quale la legge stabilisce la
pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo
a 5 anni e nel massimo a 20 anni.
(81) Art. 173, comma 2 c.p.m.p.
(82) Art. 174 c.p.m.p.
(83) Art. 175 c.p.m.p.
(84) Art. 186 c.p.m.p.
(85) Art. 195, comma 2 c.p.m.p.
(86) G. Fiandaca, Quale specialità per il diritto penale militare?,
in Riv. it. dir. e proc. pen., Vol. 51, 2008, 3, 1059-1087, 1075.
Diritto penale e processo 2/2013

umanizzare l’uso della forza militare in funzione garantista.
Pur condividendosi gli obiettivi qui enunciati,
non può tuttavia essere condivisa la scelta del
mezzo utilizzato per raggiungerli. Invero, il percorso
argomentativo di tale dottrina pare innanzitutto viziato
da un problema di fondo, legato all’unilateralità
della prospettiva da cui si osserva l’operazione militare,
e finisce per condurre a delle conseguenze
esattamente opposte a quelle auspicate nell’assunto
iniziale. L’approccio penalistico poggia infatti, inesorabilmente,
sulla premessa che l’unico uso legittimo
della coazione sia quello operato da parte delle
“proprie forze”, a tutto svantaggio delle “forze nemiche”.
Invero, la criminalizzazione - in via generale -
delle condotte assunte dal “nemico”, come anche
della persona del nemico in quanto tale, è logicamente
possibile solo se l’Autorità che irroga la sanzione
penale è l’unica considerata legittima. Le conseguenze
sono quelle della creazione, passo dopo
passo, di un blocco normativo che assomiglia sempre
di più ad un “diritto penale del nemico”, utilizzato
in funzione persecutoria ed anticipatoria, e sempre
più lontano dalle finalità garantistiche che dovrebbero
ispirare la procedura penale (87).
La seconda critica che può muoversi ad una tale interpretazione
è di stampo più pragmatico e riguarda
l’asserita possibilità che il controllo, da parte del sistema
penale, dei presupposti e dei limiti dell’uso
della coazione possa essere davvero funzionale al raggiungimento
degli obiettivi politico-militari della
missione e garantire nel contempo un uso della forza
circoscritto nei confini imposti dall’ordinamento penale
e costituzionale. Qui basti prendere spunto dalla
recente disciplina speciale contenuta nei decreti
di finanziamento delle missioni all’estero, i quali, per
un verso hanno imposto tutta una serie di attività di
polizia giudiziaria ai contingenti in missione, ogni
qual volta gli stessi si trovino impegnati in attività
che implicano l’uso della forza, mentre per un altro
verso hanno creato delle scriminanti in forte odore
di incostituzionalità, le quali, in ultima analisi lasciano
ai contingenti stessi la definizione del discrimine
tra condotte coercitive lecite e illecite. Nel primo
caso assistiamo ad un’incredibile proliferazione di
adempimenti “burocratico-giudiziari” che legano oltremodo
i Comandi al compimento di attività estranee
alla buona condotta delle operazioni ed anzi, talvolta,
come nel caso del sequestro giudiziario dei
mezzi fatti oggetto di attacco, sono rivolte a loro netto
pregiudizio. Nel secondo caso, invece, la sovraproduzione
di norme speciali, spesso non ben coordinate
con le leggi vigenti e scritte in termini vaghi,
imprecisi e confusi, è più che altro ispirata ad una lo-
Giustizia sovranazionale
Diritto penale
gica emergenziale e finalizzata al solo obiettivo di
colmare le lacune normative che via via emergono
dalla realtà delle operazioni. Ebbene, una simile sovra-produzione,
nel colmare queste lacune, ne scava
altre, ovvero crea antinomie che mettono a dura prova
la tenuta dell’ordinamento e il buon funzionamento
della giustizia penale, oltre che confondere
coloro che si trovano a doverle applicare.
La lotta alla pirateria, per molti aspetti, sfugge a tale
critica, risolvendosi, come sopra affermato più volte,
nella mera repressione di un reato a giurisdizione universale,
e, come tale, posizionandosi appieno nell’orbita
della politica criminale degli Stati. Ciononostante,
l’applicazione tout court della legislazione speciale
di cui sopra per disciplinare uso della forza, giurisdizione,
competenze e attività di polizia giudiziaria, finisce
per ricreare le stesse problematiche sorte nel
corso delle altre operazioni all’estero. In aggiunta, nel
caso di atti di pirateria a largo della Somalia, commessi
in danno di navi o cittadini stranieri, l’aver disciplinato
per via legislativa una custodia sostanzialmente
ed esclusivamente amministrativa in vista del
trasferimento dei soggetti fermati/arrestati verso Paesi
terzi pone ulteriori pressanti interrogativi di costituzionalità
e legittimità ai sensi della CEDU.
Non appare allora eccessivo interrogarsi sulla reale
necessità di una disciplina speciale in tema di lotta
alla pirateria, potendo le Forze navali italiane ben
operare (88) (e forse meglio operare) anche in sua
assenza. L’esigenza di voler evitare a tutti i costi il
trasferimento in patria degli individui arrestati ha
condotto alla creazione di un monstrum giuridico
che prevede - caso unico nella storia della Repubblica
- l’applicazione di una detenzione amministrativa
in tempo di pace, sanzionata per di più da una legge
ordinaria. Ci si augura che norme come quella in
esame costituiscano un’unica e infelice parentesi,
destinata a non ripetersi nel futuro.
Diritto penale e processo 2/2013 245
Note:
(87) Sui pericoli derivanti dall’uso di un “diritto penale del nemico”
si è già scritto in M. Tondini, Il diritto del nemico. Se la
guerra diventa ideologia, in Diritto pubblico comparato ed europeo,
2007, 1, 244-270.
(88) Ad esempio, anche non applicando le norme speciali sull’invio
dei verbali d’arresto e sulle comunicazioni con l’A.G., la
legittimità della custodia dei sospetti pirati non sarebbe compromessa
dall’eventuale ritardo nella loro “messa a disposizione”
del P.M., se le oggettive circostanze materiali non lo
consentissero. Lo ha stabilito la CEDU in due casi concernenti
proprio la detenzione di individui a bordo di navi militari (cfr.
CEDU, Rigopoulos v. Spain, ricorso n. 37388/97, sent. 12 gennaio
1999, § 9, http://www.echr.coe.int: CEDU (GC), Medvedyev
et al. v. France, ricorso n. 3394/03, sent. 29 marzo 2010,
§ 127-134, http://www.echr.coe.int. Nei due casi in questione
gli individui sotto custodia vennero portati di fronte ad un magistrato
rispettivamente 16 e 13 giorni dopo l’arresto).

Osservatorio
Giustizia sovranazionale
Osservatorio Corte europea
dei diritti dell’uomo
a cura di Giulio Garuti
CONTRASTO AL RICICLAGGIO DI DENARO
E SEGRETO PROFESSIONALE IN FRANCIA
Corte europea dei diritti umani, Sez. V, 6 dicembre 2012,
Pres. Spielmann, Michaud c. Francia
La Francia, nel recepire la direttiva comunitaria in materia
di antiriciclaggio, non ha violato l’art. 8 della Convenzione.
Il caso
Il ricorrente, Patrick Michaud, è un cittadino francese, avvocato
di Parigi e membro del Consiglio dell’Ordine.
L’ordinamento francese aveva recepito le direttive comunitarie
del 1991 in tema di anti-riciclaggio, introducendo per i legali
l’obbligo di segnalare eventuali “sospetti” in relazione al
compimento di reati di tal specie, e quando il legale agisce in
veste di trustee, e quando rappresenta il cliente nell’ambito
di una transazione finanziaria o immobiliare. Diversamente,
l’obbligo in parola viene meno quando tale attività è oggetto
di un procedimento giudiziario e, in linea di massima, quando
l’avvocato è chiamato dal cliente a rendere un parere.
Nel primo caso, il legale è tenuto ad avvisare il Consiglio dell’Ordine
di appartenenza, il quale poi si farà parte diligente
nell’informare il Tracfin, ovvero l’Ente del Ministero delle Finanze
francese deputato ad agire contro i circuiti finanziari illeciti.
Nel luglio del 2007, il Consiglio dell’Ordine Nazionale ha preso
posizione sul contenuto della norma, decidendo che
l’inottemperanza alla previsione configurava un illecito disciplinare.
Contro tale decisione, il ricorrente si è rivolto al Consiglio
di Stato, affermando che la normativa de qua risultava
in contrasto con il libero esercizio della professione forense
e con le garanzie a tutela della stessa. In particolare, considerato
che non veniva precisato il grado di “sospetto” necessario
per far sorgere l’obbligo di segnalazione in capo all’avvocato,
secondo quanto sostenuto dal Sig. Michaud, si
configurava una lesione del principio di legalità, sancito nell’art.
7 della Convenzione. In secondo luogo, egli lamentava
la violazione dell’art. 8, il quale copre anche il rapporto tra avvocato
e cliente. Infine, il ricorrente richiese al Consiglio di
Stato di sollevare la questione avanti alla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, affinché valutasse la compatibilità dell’obbligo
di “riferire eventuali sospetti” in capo all’avvocato,
con quanto stabilito nell’art. 6 del Trattato dell’Unione Europea
e con l’art. 8 della Convenzione.
Il Consiglio di Stato rifiutò di sollevare la questione comunitaria
e rigettò il ricorso del Sig. Michaud. Sotto il profilo della
violazione dell’art. 8, stabilì che, stante l’interesse generale
246
DIRITTO AL RISPETTO DELLA VITA PRIVATA
alla lotta al fenomeno criminoso del riciclaggio e, considerato
che l’obbligo non sussiste per il legale impegnato in attività
giudiziali né per l’avvocato incaricato di rendere un parere,
la normativa in esame non risultava eccessivamente lesiva
delle garanzie professionali.
La decisione
Art. 8.
La Corte europea, dopo aver ribadito che la ratio dell’art. 8
della Convenzione è quella di tutelare la corrispondenza, intendendo
tale nozione come comprensiva di ogni scambio di
comunicazioni, ha affermato che l’obbligo per gli avvocati di
trasmettere a una autorità amministrativa informazioni assunte
nel corso di comunicazioni con i propri clienti risultava
lesivo del diritto al rispetto della corrispondenza, nonché del
diritto al rispetto della vita privata, comprensiva altresì dell’attività
professionale. Tuttavia, l’evidenziata ingerenza è
«prevista dalla legge»: infatti, essendo volto a combattere il
riciclaggio di denaro e altri reati economici, l’obbligo è previsto
dal legislatore in difesa dell’ordine e per la prevenzione
dei reati, così come sancito dall’art. 8.
Per quanto concerne l’imprescindibilità o meno dell’ingerenza
in questione, il Governo francese ha sottolineato come
fosse stata una direttiva comunitaria a obbligare lo Stato a recepire
la normativa oggetto del ricorso. La Corte, citando il
caso “Bosphorus Airways” c. Irlanda e, più precisamente, il
principio di “presunzione di una protezione equivalente”, ha
ritenuto che fosse da presupporre l’adempimento ai doveri
imposti dalla Convenzione da parte della Francia, visto che lo
Stato aveva solamente recepito una normativa imposta dall’Unione
europea, organismo che garantisce ai diritti fondamentali
protezione equivalente rispetto a quella assicurata
dalla Convenzione europea.
Vero ciò, gli Stati restano responsabili per le misure adottate
in ottemperanza agli obblighi imposti da organismi internazionali,
ai quali essi hanno attribuito parte della propria sovranità,
a patto che tali organizzazioni fornissero una garanzia ai
diritti fondamentali almeno equivalente rispetto a quanto garantito
dalla Convenzione. Allora, se si deve ritenere che una
protezione equivalente viene data dall’organismo sovranazionale,
si presume che lo Stato non si sia discostato dalla Convenzione,
quando lo stesso si è limitato a recepire quanto disposto
dalla organizzazione di appartenenza.
Tale presunzione è volta, in particolare, a garantire che uno
Stato non si debba trovare in una difficile situazione quando
si tratta di ottemperare a quanto stabilito da una organizzazione
internazionale - che non ha aderito alla Convenzione -
alla quale lo Stato stesso ha delegato parte della propria sovranità,
in modo da giustificare, alla luce della Convenzione
stessa, le proprie azioni o omissioni derivanti dalla adesione
a detta organizzazione.
La presunzione consente, altresì, di determinare quei casi in
Diritto penale e processo 2/2013

cui la Corte europea, al fine di favorire la cooperazione internazionale,
riduce la propria attività di supervisione - così come
previsto dall’art. 19 della Convenzione -, per quanto concerne
il controllo degli impegni assunti dalle Alte Parti contraenti.
I giudici hanno poi notato come nel caso “Bosphorus Airways”
c. Irlanda era stato stabilito che la protezione dei diritti
fondamentali garantita dalla Unione Europea era, in linea di
massima, equivalente a quella assicurata dalla Convenzione.
Tuttavia, il caso in esame differiva dal caso “Bosphorus Airways”
c. Irlanda. Infatti, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea
non aveva avuto l’opportunità di pronunciarsi sul punto,
mentre, nel caso de quo il Consiglio di Stato aveva rifiutato
di sollevare la questione pregiudiziale relativa alla compatibilità
o incompatibilità con l’art. 8 della Convenzione dell’obbligo
in capo all’avvocato di comunicare eventuali “sospetti”.
Tale questione non era mai stata affrontata dalla Corte di Giustizia.
I giudici si trovarono quindi costretti a evidenziare che, decidendo
di non sollevare una questione pregiudiziale - nonostante
la Corte di Giustizia non si fosse mai pronunciata sul
punto -, il Consiglio di Stato si era pronunciato nel merito, ancor
prima che l’ordinamento sovranazionale avesse potuto
dimostrare a pieno il proprio potenziale quanto alla protezione
dei diritti fondamentali. Proprio a causa di questa scelta e
dell’importanza dei diritti in gioco, la Corte europea ha concluso
sostenendo che la presunzione di protezione equivalente
non fosse applicabile al caso di specie. Si trattava quindi
di stabilire se l’ingerenza fosse stata davvero necessaria.
Se è vero che l’art. 8 è volto a tutelare la riservatezza di ogni
forma di «corrispondenza» tra individui, è certo che il livello
di protezione deve essere innalzato in relazione alle comunicazioni
tra avvocato e cliente. Infatti, i difensori non potrebbero
svolgere la propria funzione, fondamentale in una società
democratica, se non venissero posti in condizione di garantire
ai propri cliente il riserbo su quanto comunicato loro.
Detto ciò, i giudici hanno ritenuto che la disposizione in esame
fornisse specifica copertura anche al privilegio professionale.
Inoltre, il concetto di imprescindibilità implicava che l’ingerenza
dovesse rispondere a un’esigenza sociale pressante e,
in particolare, che fosse proporzionata allo scopo perseguito.
Sotto questo profilo, la Corte europea concordavo con quanto
stabilito dal Consiglio di Stato nella sua decisione del 23 luglio
2010.
Benché il privilegio del segreto professionale fosse fondamentale,
tanto per il cliente, quanto al fine del corretto funzionamento
della giustizia, non si trattava di un diritto inviolabile.
Infatti, nel caso di specie, lo stesso andava bilanciato
con l’interesse a contrastare il riciclaggio di denaro derivante
da attività illecite.
Per valutarne la proporzionalità, a parere della Corte, due elementi
apparivano decisivi: in prima battuta - come del resto
aveva notato anche il Consiglio di Stato -, gli avvocati erano
tenuti a comunicare i propri sospetti solamente in due casi
(ovvero quando il legale agisce in veste di trustee, oppure
quando rappresenta il cliente nell’ambito di una transazione
finanziaria o immobiliare). Si trattava, quindi, di attività distanti
dalla attività difensiva tipica dei legali e, per di più, la legislazione
francese specificava che l’obbligo di segnalazione
veniva meno quando l’attività dell’avvocato in favore del
cliente era legata a un procedimento in corso o quando questi
era stato chiamato a rendere un parere. L’obbligo de quo
non andava quindi a intaccare l’essenza del ruolo difensivo.
In secondo luogo, la normativa aveva introdotto una sorta di
Osservatorio
Giustizia sovranazionale
filtro. Il legale, infatti, non era tenuto a comunicare i propri sospetti
direttamente al Tracfin, bensì al Presidente del Consiglio
dell’Ordine di appartenenza, il quale trasmetteva la segnalazione
solo nel caso in cui fossero state rispettate tutte
le condizioni poste dalla legge.
Pertanto, la Corte europea ha ritenuto che l’obbligo in parola
non costituisse una ingerenza sproporzionata. Ne consegue
che la Francia non ha violato l’art. 8 della Convenzione.
I precedenti
Sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, cfr. C. eur.
dir. umani, Sez. III, 22 ottobre 2012, Telegraaf Media Nederland
Landelijke Media B.V. e altri c. Olanda, in questa Rivista,
2013, 117; C. eur. dir. umani, Sez. II, 31 luglio 2012, Drakšas
c. Lituania, ivi, 2012, 1292; C. eur. dir. umani, Sez. IV, 3 luglio
2012, X. c. Finlandia, ibidem, 2012, 1160; C. eur. dir. umani,
Sez. III, 5 giugno 2012, Colon c. Olanda, ibidem, 2012, 1040;
C. eur. dir. umani, Sez. V, 19 gennaio 2012, Popov c. Francia,
ibidem, 2012, 388; C. eur. dir. umani, Sez. I, 19 luglio 2011,
Khashuyeva c. Russia, ivi, 2011, 1289; C. eur. dir. umani, Sez.
V, 28 gennaio 2010, Simeonov c. Bulgaria, ivi, 2010, 512; C.
eur. dir. umani, Grande Camera, 17 settembre 2009, Enea c.
Italia, ivi, 2009, 1425; C. eur. dir. umani, Sez. III, 30 luglio
2009, Burzo c. Romania, ibidem, 1305; C. eur. dir. umani,
Sez. I, 28 maggio 2009, Bigaeva c. Grecia, ibidem, 924; C.
eur. dir. umani, Sez. II, 20 gennaio 2009, Zara c. Italia, in questa
Rivista, 2009, 390; C. eur. dir. umani, Sez. II, 17 luglio
2008, De Pace c. Italia, ivi, 2008, 1185; C. eur. dir. umani,
Sez. V, 22 maggio 2008, Alexov c. Bulgaria, ibidem, 921; C.
eur. dir. umani, Sez. II, 12 giugno 2007, Frèrot c. Francia, ivi,
2007, 1111; C. eur. dir. umani, Sez. IV, 26 settembre 2006,
Wainwright c. Regno Unito, ivi, 2006, 1440; C. eur. dir. umani,
Sez. IV, 8 agosto 2006, H.M. c. Turchia, ibidem, 1309; C.
eur. dir. umani, Sez. I, 19 gennaio 2006, R.H. c. Austria, ibidem,
387; C. eur. dir. umani, Sez. III, 9 giugno 2005, Storck c.
Germania, ivi, 2005, 1045.
DIVIETO DI TRATTAMENTI DISUMANI
E DEGRADANTI
CONDANNATA L’ITALIA A CAUSA
DEL SOVRAFFOLLAMENTO DELLE CARCERI
Corte europea dei diritti umani, Sez. II, 8 gennaio 2013,
Pres. Jočien, Torreggiani e altri c. Italia
Detenuti ristretti in celle inadeguate nelle carceri di Piacenza
e di Busto Arsizio.
Il caso
I ricorrenti, i Sig.ri Torreggiani, Bamba, Biondi, Sela, El Haili,
Hajjoubi e Ghisoni, al momento del ricorso alla Corte europea
erano tutti detenuti presso le prigioni di Busto Arsizio e di
Piacenza. Gli stessi erano ristretti in una cella di nove mq,
unitamente ad altri due detenuti, il che significa che ognuno
“aveva a disposizione” lo spazio di soli tre mq. Inoltre, denunciavano
la carenza di acqua calda e, in alcuni casi, la mancanza
di una illuminazione adeguata.
Nell’aprile del 2010, il sig. Ghisoni e altri due detenuti del carcere
di Piacenza fecero istanza al magistrato di sorveglianza,
lamentando il sovraffollamento della struttura e denunciando
una violazione del principio di eguaglianza tra i detenuti. Il giudice
diede loro ragione, in considerazione del fatto che tre
Diritto penale e processo 2/2013 247

Osservatorio
Giustizia sovranazionale
persone condividevano celle adeguate a detenerne una soltanto.
La superficie media delle celle era di nove mq e nel
2010 la struttura, ideata per contenere centosettantotto prigionieri
ed avente come capacità massima quella di trecentosettantasei
persone, era arrivata a detenere invece fino a
quattrocentoquindici carcerati. L’essere ristretti in un ambiente
sovraffollato, secondo il magistrato di sorveglianza,
costituiva innegabilmente un trattamento disumano e degradante,
nonché una violazione del diritto di eguaglianza rispetto
ai detenuti che si trovavano in condizioni migliori.
L’istanza del sig. Ghisoni fu inoltrata al Ministero della Giustizia
e alla autorità carceraria, unitamente alla richiesta di adottare
contromisure urgenti. Nel febbraio del 2011, il sig. Ghisoni
fu spostato in una cella “da due persone”.
La decisione
Art. 3.
La Corte ha ribadito che la restrizione in carcere non comporta
il venir meno dei diritti garantiti dalla Convenzione.
I dati in merito alla ampiezza delle celle e al numero dei detenuti
forniti dai ricorrenti differivano da quanto sostenuto dal
governo. Infatti, il governo aveva affermato che le celle misuravano
undici mq e che generalmente “ospitavano” due
detenuti. Tuttavia, l’esecutivo italiano non aveva fornito informazioni
a sostegno delle proprie asserzioni e, quindi, la Corte
ha esaminato la questione alla luce di quanto sostenuto
dai ricorrenti e delle informazioni a propria disposizione. La
dimensione di nove mq della cella veniva confermata dal
provvedimento del magistrato di sorveglianza. In mancanza
di elementi contrari, i giudici non hanno avuto motivo per dubitare
che il numero di detenuti in ogni cella fosse, nel carcere
di Piacenza - così come altresì in quello di Busto Arsizio -
pari a tre, il che significa che ognuno di essi viveva nello spazio
di tre mq. Condizione con tutta evidenza inaccettabile, alla
luce dei precedenti elaborati dalla Corte europea. Infatti, il
Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa,
con riferimento ad altri casi (ad esempio, nel caso Ananyev
e altri c. Russia), aveva raccomandato uno spazio di almeno
quattro mq per ogni detenuto.
Nel carcere di Piacenza, la mancanza di spazio veniva aggravata
dalla mancanza di acqua calda, protratta per lunghi periodi,
nonché dalla insufficienza di luce e di aereazione. Tutti
questi elementi, di per sé non disumani né degradanti, nel
complesso cagionavano sofferenze maggiori.
Pur mancando l’intenzione di umiliare o svilire i detenuti, la
Corte europea ha ritento che le condizioni della detenzione,
soprattutto in considerazione della durata della stessa, avevano
acuito la sofferenza che, inevitabilmente, deriva dalla
privazione della libertà. L’Italia ha dunque violato l’art. 3 della
Convenzione.
Art. 46.
L’art. 46, interpretato alla luce dell’art. 1 (obbligo di rispettare
i diritti dell’uomo), impone allo Stato di adottare misure volte
a assicurare la tutela dei diritti del ricorrente, che la Corte europea
ha accertato essere stati violati. Tali misure dovevano
poi essere estese anche a coloro i quali si trovavano nella
stessa posizione del ricorrente. Quindi, per facilitare l’ottemperanza
da parte degli Stati alle decisioni della Corte, quest’ultima
può adottare una decisione “pilota” nella quale evidenzia
chiaramente l’esistenza di un problema strutturale
concernente la violazione dei diritti umani e, contemporaneamente,
indica le misure e le azioni necessarie per risolverlo.
La procedura “pilota” è volta altresì ad indurre lo Stato rispondente
a risolvere un gran numero di casi individuali, derivanti
dallo stesso problema strutturale, rafforzando il princi-
248
pio di sussidiarietà che è alla base dell’ordinamento convenzionale.
Il fine primario della procedura “pilota” era quello di
assicurare la rapida rimozione di una disfunzione sistematica
e l’adozione di effettivi rimedi all’interno dello Stato. Essa poteva
e può ricomprendere altresì soluzioni ad hoc, come ad
esempio quella di indicare alle parti un accordo transattivo
oppure un’offerta unilaterale in linea con quanto richiesto dalla
Convenzione.
Il sovraffollamento carcerario in Italia certo non riguardava i
soli ricorrenti. Infatti, il Presidente del Consiglio italiano aveva,
al riguardo, dichiarato lo stato di emergenza nel 2010.
Vi erano, inoltre, centinaia di ricorsi pendenti davanti alla Corte
per detto motivo. Mentre la stessa Corte europea non può
sindacare le scelte di politica criminale adottate dai singoli
Stati, né entrare nel merito dell’organizzazione del sistema
penitenziario, ha ritenuto di sottolineare i contenuti delle Raccomandazioni
del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa
(Racc. 22/1999 e Racc. 13/2006) che, da un lato, invitavano
i magistrati a ricorrere all’adozione di misure alternative alla
carcerazione, laddove possibile, e, dall’altro, incoraggiavano
gli Stati a rivedere le loro politiche in materia penale, riducendo
i casi di applicazione della pena detentiva.
Per quanto riguarda le misure interne volte a contrastare il
problema, la Corte ha osservato che, quando un ricorrente
versa in condizioni contrarie all’art. 3, la forma di contromisura
più efficace è quella di porre fine alla violazione. Se la
persona non si trova più nel medesimo stato che ne aveva
comportato la lesione dei diritti, la stessa deve essere posta
in condizione di pretendere un risarcimento per quanto subìto.
La Corte ha quindi concluso che il governo italiano deve adottare,
entro un anno dal passaggio in giudicato della presente
decisione, una soluzione effettiva in grado di garantire, in linea
con i principi della Convenzione, una riparazione adeguata
e sufficiente nei casi di sovraffollamento carcerario. L’esame
dei ricorsi concernenti unicamente questo profilo verrà
quindi rinviato durante il periodo stabilito per l’adozione delle
misure da parte dello Stato italiano.
L’Italia è stata condannata a risarcire un totale di 99.600 euro,
oltre a 1.500 euro ciascuno in favore dei sig.ri Sela, El Haili,
Hajjoubi e Ghisoni per le spese legali.
I precedenti
Di recente, circa il divieto della tortura, cfr. C. eur. dir. umani,
Sez. III, 13 novembre 2012, Anca Mocanu e altri c. Romania,
in questa Rivista, 2013, 115; C. eur. dir. umani, Sez. I, 2 ottobre
2012, Najafli c. Azerbaijan, ivi, 2012, 1410; C. eur. dir.
umani, Sez. III, 2 ottobre 2012, Virabyan c. Armenia, ibidem,
2012, 1408; C. eur. dir. umani, Sez. I, 31 luglio 2012, Makhashevy
c. Russia, ibidem, 2012, 1294; C. eur. dir. umani, Sez.
II, 31 luglio 2012, M. e altri c. Italia e Bulgaria, ibidem, 2012,
1162; cfr. C. eur. dir. umani, Grande Camera, 22 maggio
2012, Idalov c. Russia, ibidem, 2012, 903; C. eur. dir. umani,
Sez. III, 17 aprile 2012, J.L. c. Lettonia, ibidem, 2012, 781; C.
eur. dir. umani, Sez. II, 27 marzo 2012, Mannai c. Italia, ibidem,
2012, 645; C. eur. dir. umani, Sez. II, 31 gennaio 2012,
M.S. c. Belgio, ibidem, 2012, 519; C. eur. dir. umani, Sez. IV,
17 gennaio 2012, Harkins and Edwards c. Regno Unito, ibidem,
2012, 390; C. eur. dir. umani, Sez. III, 20 dicembre
2011, Pascari c. Moldavia, ibidem, 2012, 258; C. eur. dir.
umani, Sez. I, 8 novembre 2011, Filatov c. Russia, ibidem,
2012, 126; C. eur. dir. umani, Sez. V, 20 ottobre 2011, Alboreo
c. Francia, ivi, 2011, 1537; C. eur. dir. umani, Sez. III, 27
settembre 2011, Archip c. Romania, ibidem, 1419; C. eur. dir.
umani, Sez. III, 12 luglio 2011, Ianos c. Romania, ibidem,
Diritto penale e processo 2/2013

1165; C. eur. dir. umani, Sez. I, 21 giugno 2011, Mader c.
Croazia, ibidem, 1034; C. eur. dir. umani, Sez. I, 10 maggio
2011, Popandopulo c. Russia, ibidem, 910; C. eur. dir. umani,
Sez. II, 5 aprile 2011, Toumi c. Italia, ibidem, 772; C. eur. dir.
umani, Sez. V, 17 marzo 2011, Bocharov c. Ucraina, ibidem,
647; C. eur. dir. umani, Sez. V, 21 dicembre 2010, Taddei c.
Francia, ibidem, 249; C. eur. dir. umani, Sez. I, 21 dicembre
2010, Malika Dzhamayeva e C. c. Russia, ibidem, 250; C. eur.
dir. umani, Sez. I, 21 ottobre 2010, Gaforov c. Russia, ivi,
2010, 1515; C. eur. dir. umani, Sez. I, 16 settembre 2010, Ayrapetyan
c. Russia, ibidem, 1375; C. eur. dir. umani, Sez. IV,
27 luglio 2010, Rokosz c. Polonia, ibidem, 1257; C. eur. dir.
umani, Sez. I, 20 maggio 2010, Khayadarov c. Russia, ibidem,
898.
Circa la violazione dell’art. 46, cfr. C. eur. dir. umani, Sez. V, 26
luglio 2012, Vasiliy Ivashchenko c. Ucraina, in questa Rivista,
2012, 1293; C. eur. dir. umani, Sez. V, 15 maggio 2012, Kaverzin
c. Ucraina, ibidem, 2012, 906; C. eur. dir. umani, Sez. V,
14 ottobre 2010, Naydyon c. Ucraina, www.echr.coe.int.
INDAGINI INEFFICACI IN RUSSIA CIRCA LE SPARIZIONI
AVVENUTE IN CECENIA
Corte europea dei diritti umani, Sez. I, 18 dicembre 2012,
Pres. Berro-Lefèvre, Aslakhanova e altri c. Russia
La Russia sistematicamente omette di indagare sul rapimento
di ceceni, da parte di gruppi armati.
Il caso
I ricorrenti sono sedici cittadini russi che vivono in Cecenia. I
loro otto parenti erano scomparsi, dopo essere stati arrestati
tra il marzo del 2002 e il luglio del 2004, nelle vicinanze di
Grozny, da parte di gruppi armati, con modalità simili a quelle
di una operazione di sicurezza.
Il marito di Satsita Aslakhanova, come confermato da numerose
testimonianze, nonché dalla documentazione prodotta
dalla donna, fu portato via da Grozny il 10 marzo 2002 da un
gruppo in armi, a bordo di veicoli militari. La Corte distrettuale
ha deciso di dichiararlo assente a partire da quella data.
In merito al secondo e al terzo caso, i testimoni hanno dichiarato
che, rispettivamente, nelle mattine del 23 e 25 ottobre
2002, un veicolo con a bordo uomini armati ha forzato un
posto di blocco militare a Grozny. Il gruppo ha perquisito svariate
abitazioni, arrestando quattro uomini, tre dei quali - i due
figli di Larisa Barshova e il padre di Akhmed Shidayev nonché
marito di Belkis Shidayeva - sono successivamente scomparsi.
La quarta persona, Akhmed Shidayev, all’epoca dei fatti
appena diciottenne, fu rilasciata qualche giorno dopo. In seguito
al proprio rilascio, rese una dettagliata deposizione in
merito al rapimento, ai maltrattamenti subìti e al periodo di
detenzione sofferto insieme ai tre uomini scomparsi.
In merito a questo quarto caso, secondo quanto affermato
dai ricorrenti, Akhmed Shidayev rispettivamente figlio, marito
e padre della vittima, il 1° luglio 2004, fu arrestato presso
la propria abitazione in Grozny, da un gruppo di circa venti
persone, pesantemente armate, vestite in uniforme mimetica
e comunicanti tra loro via radio. Il gruppo aveva perquisito
l’appartamento dei ricorrenti, nonché dei vicini, verificando i
documenti dei residenti. I loro veicoli, alcuni dei quali blindati,
erano sprovvisti di targa e venivano utilizzati per forzare i
posti di blocco della polizia.
Per quanto concerne il quinto caso, nella mattina del 22 febbraio
2003, un gruppo di circa dieci persone, in mimetica e
dotate di armi automatiche, fece irruzione in diverse case di
Osservatorio
Giustizia sovranazionale
Dachu-Borzoy, nel distretto di Grozny. Gli uomini, che parlavano
russo e comunicavano via radio con i propri superiori,
arrestarono tre familiari dei ricorrenti e li portarono sui mezzi
militari, scalzi e svestiti. Il convoglio passò poi attraverso un
posto di blocco e una base militare.
In relazione a ognuno dei casi sovramenzionati, a distanza di
tempo, furono aperte indagini da parte dell’ufficio del procuratore
del luogo. Nonostante ciò, nessuna di queste fu in grado
di fornire risposte sul luogo in cui si trovavano i congiunti
dei ricorrenti, né sull’identità dei rapitori.
Il governo russo non confutava la rappresentazione dei casi
fornita dai ricorrenti, per quanto riguarda i fatti principali, ma
notava che, a indagini ancora pendenti, sarebbe stato prematuro
giungere a conclusioni in merito alle esatte circostanze.
In particolare, non era ancora stato accertato che i loro
parenti erano stati portati via da militari in servizio, né se
fossero morti.
I ricorrenti hanno quindi lamentato una violazione dell’art. 2
della Convenzione, da un lato a causa della sparizione dei loro
congiunti, dall’altro, a causa dell’incapacità mostrata dalle
autorità nazionali nel condurre indagini efficaci in merito.
Inoltre, hanno anche denunciato una violazione degli artt. 3 e
5, derivante dalla sofferenza morale patita a causa della sparizione
e detenzione illegittima dei loro parenti. Alla luce dell’art.
13, hanno contestato l’impossibilità di ottenere un ricorso
effettivo in Russia. Infine, hanno evidenziato la natura sistematica
delle violazioni denunciate, da parte dello Stato.
La decisione
Venendo al piano fattuale, la Corte non aveva motivo per dubitare
che, come affermato dai ricorrenti, i loro familiari fossero
stati rapiti da militari in servizio. L’onere della prova passava
quindi al governo russo. Esso, invece, limitandosi a sottolineare
l’invalidità di alcuni elementi di prova nonché il fatto
che i procedimenti pendevano ancora in fase di indagini, non
aveva ritenuto di fornire alla Corte una ricostruzione alternativa
- credibile - dei fatti. La Corte ha poi concluso che le vittime
dovevano essere presunte morte, a causa dell’assenza
di loro notizie da anni e della particolare pericolosità della situazione
in cui si erano trovati.
Art. 2.
Alla luce di quanto precede, la responsabilità per le presunte
morti rimaneva in capo allo Stato. Dato che il governo non
aveva dato alcuna plausibile spiegazione in ordine a tali fatti,
la Corte europea ha ritenuto che fosse stata violato l’art. 2,
nei casi dei Sig.ri Apti Avtayev, Sulumbek Barshov, Anzor
Barshov, Abuyazid Shidayev, Ayub Temersultanov, Ayub Nalbiyev,
Badrudin Abazov e Ramzan Tepsayev. Benché le indagini
pendessero da anni, non vi erano ancora stati sviluppi in
merito ai possibili autori dei rapimenti, né circa le sorti delle
vittime. Inoltre, i procedimenti erano viziati da una combinazione
di elementi che la Corte aveva altresì già rilevato in numerosissimi
altri casi di sparizione avvenuti in Cecenia e Inguscezia,
tra il 1999 e il 2006. In particolare, il ritardo nell’apertura
delle indagini e nel compimento delle prime attività
investigative, i lunghi periodi di inattività, la mancata effettuazione
di attività d’indagine assolutamente fondamentali -
specialmente quelle volte a identificare gli autori dei rapimenti
e a sentire il personale militare che aveva partecipato
o meramente assistito al rapimento - . Inoltre, non erano stati
coinvolti i procuratori dei tribunali militari, neppure laddove
fosse già sufficientemente provato che gli autori erano militari
in servizio, non era stato possibile risalire ai veicoli usati
e alla loro provenienza e accertare il passaggio di detti veicoli
attraverso posti di blocco militari. Infine, non era stata ga-
Diritto penale e processo 2/2013 249

Osservatorio
Giustizia sovranazionale
rantita la pubblicità interna al procedimento, poiché i familiari
erano all’oscuro dei passaggi investigativi compiuti e dei risultati
delle indagini.
Vero ciò, la Corte ha rigettato la questione sollevata dalla
Russia circa il mancato esaurimento dei ricorsi interni da parte
dei ricorrenti.
Ha quindi constatato una seconda violazione dell’art. 2, derivante
dall’inefficacia delle indagini.
Artt. 3 e 5.
Atteso che lo Stato doveva essere considerato responsabile
dei rapimenti e della mancanza di indagini efficaci in merito
alla scomparsa, la Corte ha ritenuto che i ricorrenti avessero
subìto anche una violazione dell’art. 3. Infatti, essendo parenti
stretti delle vittime, avevano sofferto e continuavano a
soffrire, a causa dell’incertezza sulle sorti dei loro cari.
La Corte ha altresì costatato una violazione particolarmente
grave dell’art. 5. Infatti, gli autori dei rapimenti erano militari
russi, i quali avevano detenuto le 8 persone in modo totalmente
illegittimo.
Akhmed Shidayev aveva subìto una seconda violazione degli
artt. 5 e 3 derivante dalla detenzione illegittima. Infatti, era
stato detenuto dai militari, senza possibilità di comunicare
col mondo esterno, e lo avevano fatto assistere ai maltrattamenti
inferti al padre e ai vicini.
L’art. 3 risultava violato anche sotto il profilo dell’inefficacia
delle indagini.
Art. 13.
Infine, visto che il procedimento penale non aveva portato alcun
risultato, ai ricorrenti veniva negata la possibilità di chiedere
il risarcimento in sede civile. Non avevano quindi avuto
un ricorso effettivo a livello nazionale, in violazione dell’art.
13.
Art. 46.
La Corte europea aveva già accertato violazioni dello stesso
tipo in oltre centoventi casi, riguardanti sparizioni accadute
nel Caucaso settentrionale dal 1999. Quindi, ha concluso che
lo Stato russo sistematicamente non svolge indagini ai fini di
accertare tali crimini, in relazione ai quali, dunque, non viene
garantito alcun ricorso interno effettivo.
Data la natura delle violazioni, la Corte ha ritenuto di non ordinare
alla Russia di intraprendere misure determinate, né ha
indicato una scadenza entro la quale conformarsi alla decisione.
Tuttavia, un gran numero di numero di contromisure
appariva urgente, al fine di evitare continue violazioni della
Convenzione europea. Sul punto, autorità sia nazionali che internazionali
avevano già espresso una serie di raccomandazioni.
Tali raccomandazioni potevano essere distinte in due
gruppi principali. L’urgenza maggiore riguardava la sofferenza
causata ai familiari degli scomparsi. Al riguardo, i giudici della
Corte europea hanno caldeggiato la creazione di un organismo
interno, deputato a risolvere i casi di sparizione in
quella area geografica, avente diritto d’accesso a tutte le informazioni
rilevanti. La Corte ha poi sostenuto che la Russia
dovesse stanziare fondi, vuoi per la ricerca di possibili siti di
sepoltura, vuoi per risarcire i ricorrenti.
Il secondo gruppo di misure doveva concernere l’efficacia
delle indagini. In particolare, era necessario adottare un piano
d’azione generale volto ad accertare i fatti in casi consimili
a quelli esaminati, che garantisse agli investigatori accesso
illimitato alle informazioni militari e dei servizi segreti rilevanti.
Le vittime dovevano avere accesso al fascicolo del procedimento
e le indagini non dovevano terminare per la scadenza
dei termini.
La Russia doveva inoltre elaborare una strategia in merito, da
sottoporre al Comitato dei Ministri al più presto.
250
La Corte, a causa della serietà delle continue violazioni, non
ha ritenuto di rinviare la trattazione dei casi simili.
La Russia è stata condannata a risarcire a Satsita Aslakhanova
un totale di 77.000 euro, a Larisa Barshova 123.000 euro,
a Akhmed Shidayev e Belkis Shidayev 70.500 euro e, ai cinque
ricorrenti del caso Malika Amkhadova e altri c. Russia,
77.182 euro. Nel caso Satsita Sagaipova e altri c. Russia, a
Satsita Sagaipova, Aminat Nalbiyeva e Abu Nalbiyev 74.000
euro, 60.000 euro a Seda Abazova e 69.000 euro a Tatyana e
Aminat Magomerzayeva.
I precedenti
In tema di diritto alla vita, cfr. C. eur. dir. umani, Sez. III, 13 novembre
2012, Anca Mocanu e altri c. Romania, in questa Rivista,
2013, 115; C. eur. dir. umani, Sez. II, 23 ottobre 2012,
Nihayet Arıcı e altri c. Turchia, ibidem, 2013, 116; C. eur. dir.
umani, Sez. V, 19 luglio 2012, Ketreb c. Francia, ivi, 2012,
1291; C. eur. dir. umani, Sez. I, 29 maggio 2012, Damayev c.
Russia, ibidem, 2012, 904; C. eur. dir. umani, Sez. I, 27 marzo
2012, Inderbiyeva c. Russia e Kadirova e altri c. Russia, ibidem,
2012, 647; C. eur. dir. umani, Sez. I, 17 gennaio 2012,
Choreftakis e Choreftaki c. Grecia, ibidem, 2012, 389; C. eur.
dir. umani, Sez. I, 27 settembre 2011, Beksultanova c. Russia,
ivi, 2011, 1417; C. eur. dir. umani, Sez. I, 19 luglio 2011,
Khashuyeva c. Russia, ibidem, 1289; C. eur. dir. umani, Sez.
II, 26 aprile 2011, Enukidze e Girgvliani c. Georgia, ibidem,
770; C. eur. dir. umani, Grande Camera, 24 marzo 2011, Giuliani
e Gaggio c. Italia, ibidem, 643; C. eur. dir. umani, Sez. V,
27 gennaio 2011, Iordanovi c. Bulgaria, ibidem, 381; C. eur.
dir. umani, Sez. I, 21 dicembre 2010, Malika Dzhamayeva e
C. c. Russia, ibidem, 250; C. eur. dir. umani, Sez. V, 25 novembre
2010, Efimenko c. Ucraina, ibidem, 127; C. eur. dir.
umani, Sez. I, 21 ottobre 2010, Gaforov c. Russia, ivi, 2010,
1515; C. eur. dir. umani, Sez. III, 13 luglio 2010, Carabulea c.
Romania, ibidem, 1125; C. eur. dir. umani, Sez. I, 3 giugno
2010, Alapayevy c. Russia, ibidem, 1015; C. eur. dir. umani,
Sez. V, 10 dicembre 2009, Dudnyk c. Ucraina, ibidem, 257;
C. eur. dir. umani, Sez. III, 20 ottobre 2009, Agache e altri c.
Romania, ivi, 2009, 1555; C. eur. dir. umani, Sez. IV, 24 marzo
2009, Mojsiejew c. Polonia, ibidem, 659; C. eur. dir. umani,
Sez. V, 16 ottobre 2008, Renolde c. Francia, ivi, 2008,
1579; C. eur. dir. umani, Sez. I, 25 settembre 2008, Mezhidov
c. Russia, ibidem, 1455; C. eur. dir. umani, Sez. V, 20 dicembre
2007, Nikolova e Velichkova c. Bulgaria, ibidem, 257;
C. eur. dir. umani, Sez. V, 14 dicembre 2006, Taraiyeva c.
Russia, ivi, 2007, 269; C. eur. dir. umani, Sez. II, 8 novembre
2005, Gongadze c. Ucraina, ivi, 2006, 119; C. eur. dir. umani,
Sez. III, 10 febbraio 2005, Bubbins c. Regno Unito, ivi, 2005,
650; C. eur. dir. umani, Grande Camera, 20 dicembre 2004,
Makaratzis c. Grecia, ibidem, 258; C. eur. dir. umani, Sez. II,
12 ottobre 2004, Bursuc c. Romania, ivi, 2004, 1570; C. eur.
dir. umani, Sez. I, 19 maggio 2004, Toteva c. Bulgaria, ibidem,
916; C. eur. dir. umani, Sez. IV, 30 marzo 2004, S. c.
Turchia, ibidem, 649; C. eur. dir. umani, Sez. I, 26 febbraio
2004, N. e altri c. Bulgaria, ibidem, 517.
Di recente, circa il divieto della tortura, cfr. C. eur. dir. umani,
Sez. III, 13 novembre 2012, Anca Mocanu e altri c. Romania,
in questa Rivista, 2013, 115; C. eur. dir. umani, Sez. I, 2 ottobre
2012, Najafli c. Azerbaijan, ivi, 2012, 1410; C. eur. dir.
umani, Sez. III, 2 ottobre 2012, Virabyan c. Armenia, ibidem,
2012, 1408; C. eur. dir. umani, Sez. I, 31 luglio 2012, Makhashevy
c. Russia, ibidem, 2012, 1294; C. eur. dir. umani, Sez.
II, 31 luglio 2012, M. e altri c. Italia e Bulgaria, ibidem, 2012,
1162; cfr. C. eur. dir. umani, Grande Camera, 22 maggio
2012, Idalov c. Russia, ibidem, 2012, 903; C. eur. dir. umani,
Diritto penale e processo 2/2013

Sez. III, 17 aprile 2012, J.L. c. Lettonia, ibidem, 2012, 781; C.
eur. dir. umani, Sez. II, 27 marzo 2012, Mannai c. Italia, ibidem,
2012, 645; C. eur. dir. umani, Sez. II, 31 gennaio 2012,
M.S. c. Belgio, ibidem, 2012, 519; C. eur. dir. umani, Sez. IV,
17 gennaio 2012, Harkins and Edwards c. Regno Unito, ibidem,
2012, 390; C. eur. dir. umani, Sez. III, 20 dicembre
2011, Pascari c. Moldavia, ibidem, 2012, 258; C. eur. dir.
umani, Sez. I, 8 novembre 2011, Filatov c. Russia, ibidem,
2012, 126; C. eur. dir. umani, Sez. V, 20 ottobre 2011, Alboreo
c. Francia, ivi, 2011, 1537; C. eur. dir. umani, Sez. III, 27
settembre 2011, Archip c. Romania, ibidem, 1419; C. eur. dir.
umani, Sez. III, 12 luglio 2011, Ianos c. Romania, ibidem,
1165; C. eur. dir. umani, Sez. I, 21 giugno 2011, Mader c.
Croazia, ibidem, 1034; C. eur. dir. umani, Sez. I, 10 maggio
2011, Popandopulo c. Russia, ibidem, 910; C. eur. dir. umani,
Sez. II, 5 aprile 2011, Toumi c. Italia, ibidem, 772; C. eur. dir.
umani, Sez. V, 17 marzo 2011, Bocharov c. Ucraina, ibidem,
647; C. eur. dir. umani, Sez. V, 21 dicembre 2010, Taddei c.
Francia, ibidem, 249; C. eur. dir. umani, Sez. I, 21 dicembre
2010, Malika Dzhamayeva e C. c. Russia, ibidem, 250; C. eur.
dir. umani, Sez. I, 21 ottobre 2010, Gaforov c. Russia, ivi,
2010, 1515; C. eur. dir. umani, Sez. I, 16 settembre 2010, Ayrapetyan
c. Russia, ibidem, 1375; C. eur. dir. umani, Sez. IV,
27 luglio 2010, Rokosz c. Polonia, ibidem, 1257; C. eur. dir.
umani, Sez. I, 20 maggio 2010, Khayadarov c. Russia, ibidem,
898.
Circa il diritto alla libertà e alla sicurezza, cfr. C. eur. dir. umani,
Sez. IV, 18 settembre 2012, James e altri c. Regno Unito,
in questa Rivista, 2012, 1407; C. eur. dir. umani, Sez. V, 3 luglio
2012, Lutsenko c. Ucraina, ibidem, 1158; C. eur. dir.
umani, Grande Camera, 15 marzo 2012, Austin e altri c. Regno
Unito, ibidem, 2012, 647; C. eur. dir. umani, Sez. II, 31
gennaio 2012, M.S. c. Belgio, ibidem, 2012, 519; C. eur. dir.
Osservatorio
Giustizia sovranazionale
umani, Sez. V, 24 novembre 2011, Schönbrod c. Germania,
ibidem, 2012, 125; C. eur. dir. umani, Sez. IV, 26 luglio 2011,
M. e altri c. Bulgaria, ivi, 2011, 1287; C. eur. dir. umani, Sez.
IV, 7 giugno 2011, Hadzic e Suljic c. Bosnia Herzegovina, ibidem,
1032; C. eur. dir. umani, Sez. II, 21 giugno 2011, Adamov
c. Svizzera, ibidem, 1033; C. eur. dir. umani, Sez. I, 3
maggio 2011, Sutyagin c. Russia, ibidem, 909; C. eur. dir.
umani, Sez. II, 5 aprile 2011, Sarigiannis François c. Italia, ibidem,
771; C. eur. dir. umani, Sez. V, 18 febbraio 2011, Kharchenko
c. Ucraina, ibidem, 507; C. eur. dir. umani, Sez. V, 13
gennaio 2011, Haidn c. Germania, ibidem, 379; C. eur. dir.
umani, Grande Camera, 28 settembre 2010, Mangouras c.
Spagna, ivi, 2010, 1374; C. eur. dir. umani, Sez. IV, 27 luglio
2010, Gatt c. Malta, ibidem, 1257; C. eur. dir. umani, Sez. I,
20 maggio 2010, Khayadarov c. Russia, ibidem, 898.
Sul diritto a un ricorso effettivo, cfr. C. eur. dir. umani,, Sez. II,
31 luglio 2012, Drakšas c. Lituania, in questa Rivista, 2012,
1292; C. eur. dir. umani, Sez. IV, 31 luglio 2011, M. e altri c.
Bulgaria, ivi, 2011, 1162; C. eur. dir. umani, Sez. I, 24 maggio
2011, Konstas c. Grecia, ibidem, 2011, 908; C. eur. dir. umani,
Grande Camera, 24 marzo 2011, Giuliani e Gaggio c. Italia,
ibidem, 643; C. eur. dir. umani, Sez. I, 21 dicembre 2010,
Malika Dzhamayeva e C. c. Russia, ibidem, 2011, 250; C. eur.
dir. umani, Grande Camera, 10 settembre 2010, Mc Farlane
c. Irlanda, ivi, 2010, 1373; C. eur. dir. umani, Sez. I, 20 maggio
2010, Dzhabrailovy c. Russia, ibidem, 899; C. eur. dir.
umani, Sez. V, 10 dicembre 2009, Koktysh c. Ucraina, ibidem,
259.
Circa la violazione dell’art. 46, cfr. C. eur. dir. umani, Sez. V, 26
luglio 2012, Vasiliy Ivashchenko c. Ucraina, in questa Rivista,
2012, 1293; C. eur. dir. umani, Sez. V, 15 maggio 2012, Kaverzin
c. Ucraina, ibidem, 2012, 906; C. eur. dir. umani, Sez. V,
14 ottobre 2010, Naydyon c. Ucraina, www.echr.coe.int.
Diritto penale e processo 2/2013 251

Diritto penale e processo
Indici
INDICE DEGLI AUTORI
Corbetta Stefano
Osservatorio Corte di cassazione - Diritto penale ..... 174
Di Chiara Giuseppe
Osservatorio Corte costituzionale ............................. 168
Garuti Giulio
Osservatorio Corte europea dei diritti dell’uomo ...... 246
Kalb Luigi
La riforma possibile, anzi doverosa…........................ 129
Leo Guglielmo
Osservatorio Contrasti giurisprudenziali.................... 188
Montagna Alfredo
Osservatorio Corte di cassazione - Sezioni Unite...... 171
Peccioli Annamaria
La riforma dei reati di prostituzione minorile e pedopornografia
................................................................ 140
Peroni Francesco
Osservatorio Corte di cassazione - Processo penale 181
Risicato Lucia
Le linee guida e i nuovi confini della responsabilità
medico-chirurgica: un problema irrisolto ................... 195
Roiati Alessandro
Linee guida, buone pratiche e colpa grave: vera riforma
o mero placebo?.................................................. 216
Scarcella Alessio
Regola del B.A.R.D. nel giudizio d’appello e riforma
«contra reum» della sentenza assolutoria................. 205
Tondini Matteo
Stato di diritto e lotta alla pirateria nelle acque somale
............................................................................... 230
Vallini Antonio
Nuove norme a salvaguardia del minore, della sua libertà
(integrità) sessuale e del minore nella “famiglia”...........................................................................
151
252
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
Giurisprudenza
Corte costituzionale
15 novembre 2012 (5 novembre 2012), n. 251......... 168
Corte di cassazione (Sezioni semplici)
9 febbraio 2012 (u.p. 26 ottobre 2011), n. 4996........ 205
19 settembre 2012 (c.c. 19 giugno 2012), n. 35878 . 188
19 settembre 2012 (c.c. 11 luglio 2012), n. 35922.... 191
20 settembre 2012 (u.p. 29 febbraio 2012), n.
36010 ........................................................................ 190
30 novembre 2012 (20 settembre 2012), n. 46471 .. 183
3 dicembre 2012 (11 ottobre 2012), n. 46714........... 184
3 dicembre 2012 (u.p. 11 ottobre 2012), n. 46736.... 177
4 dicembre 2012 (24 ottobre 2012), n. 46805........... 181
10 dicembre 2012 (3 ottobre 2012), n. 47859........... 182
17 dicembre 2012 (u.p. 29 novembre 2012), n.
48733 ........................................................................ 174
17 dicembre 2012 (20 novembre 2012), n. 48764..175; 185
18 dicembre 2012 (u.p. 16 ottobre 2012), n. 49215.. 178
20 dicembre 2012 (14 dicembre 2012), n. 49442 ..... 186
3 gennaio 2013 (u.p. 2 ottobre 2012), n. 117 ............ 176
Corte di cassazione (Sezioni Unite)
20 novembre 2012 (c.c. 19 luglio 2012) n. 45246 ..... 172
7 dicembre 2012 (c.c. 16 ottobre 2012), n. 47604 .... 171
Corte europea dei diritti dell’uomo
6 dicembre 2012, Pres. Spielmann, Michaud c. Francia..............................................................................
246
18 dicembre 2012, Pres. Berro-Lefèvre, Aslakhanova
e altri c. Russia ..................................................... 249
8 gennaio 2013, Pres. Jočienė, Torreggiani e altri c.
Italia........................................................................... 247
Legislazione
Legge 1 ottobre 2012, n. 172 «Ratifica ed esecuzione
della Convenzione del Consiglio d’Europa per la
protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso
sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007,
nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno»,
con commento di Annamaria Peccioli e Antonio
Vallini ................................................................ 137
Legge 20 dicembre 2012, n. 237 «Norme per l’adeguamento
alle disposizioni dello statuto istitutivo
della Corte penale internazionale» ............................ 135
Legge 24 dicembre 2012, n. 231 «Conversione in
Diritto penale e processo 2/2013

legge, con modificazioni, del decreto legge 3 dicembre
2012, n. 207, recante disposizoni urgenti a tutela
della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione,
in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse
strategico nazionale».................................... 135
Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 «Testo
unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e
di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo
conseguenti a sentenze definitive di condanna per
delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma
63, della legge 6 novembre 2012, n. 190»................ 135
INDICE ANALITICO
Diritto penale
Circostanze
Legge “ex Cirielli”, disciplina degli stupefacenti e divieto
di prevalenza dell’attenuante della lieve entitá
sulla recidiva reiterata: incostituzionale la rigiditá del
meccanismo (Corte cost., sent., 15 novembre 2012
(5 novembre 2012), n. 251) ....................................... 168
Delitti contro il patrimonio
Minaccia pretestuosa di adire le vie legali: quando integra
l’estorsione (Cass. pen., Sez. II, 17 dicembre
2012 (u.p. 29 novembre 2012), n. 48733) ................. 174
Delitti contro l’amministrazione della giustizia
Non punibilità del testimone falso che avrebbe dovuto
essere escusso ex art. 210 c.p.p. (Cass. pen.,
Sez. VI, 17 dicembre 2012 (u.p. 20 novembre 2012),
n. 48764) ................................................................... 175
Sulla inosservanza dolosa dei provvedimenti del giudice
(Cass. pen., Sez. VI, 20 settembre 2012 (u.p. 29
febbraio 2012), n. 36010) .......................................... 190
Delitti contro la p.a.
Concorso nell’esercizio abusivo della professione di
odontoiatra (Cass. pen., Sez. VI, 3 gennaio 2013
(u.p. 2 ottobre 2012), n. 117)..................................... 176
Delitti contro la persona
Il dolo del delitto di divulgazione di materiale pedopornografico
(Cass. pen., Sez. III, 3 dicembre 2012
(u.p. 11 ottobre 2012), n. 46736)............................... 177
Delitti contro la vita
Ancora sulla morte di lavoratori per esposizione alle
polveri di amianto (Cass. pen., Sez. IV, 18 dicembre
2012 (u.p. 16 ottobre 2012), n. 49215)...................... 178
Disciplina degli stupefacenti
Vendita di semi di piante stupefacenti e reati configurabili
(Cass. pen., Sez. Un., 7 dicembre 2012 (c.c.
16 ottobre 2012), n. 47604)....................................... 171
Protezione dei minori
Un ulteriore intervento a tutela dei minori (I parte), di
Annamaria Peccioli e Antonio Vallini.......................... 137
Responsabilità medica
Linee guida, buone pratiche e colpa grave: vera riforma
o mero placebo?, di Alessandro Roiati ................ 216
Le linee guida e i nuovi confini della responsabilità
medico-chirurgica: un problema irrisolto (Cass. pen.,
Sez. IV, 19 settembre 2012 (c.c. 11 luglio 2012), n.
35922), con commento di Lucia Risicato .................. 191
Giustizia sovranazionale
Diritto al rispetto della vita privata
Contrasto al riciclaggio di denaro e segreto professionale
in Francia (C. eur. dir. umani, Sez. V, 6 dicembre
2012) ................................................................... 246
Divieto di trattamenti disumani e degradanti
Condannata l’Italia a causa del sovraffollamento delle
carceri (C. eur. dir. umani, Sez. II, 8 gennaio 2013,
Pres. Jočienė, Torreggiani e altri c. Italia) .................. 247
Indagini inefficaci in Russia circa le sparizioni avvenute
in Cecenia (C. eur. dir. umani, Sez. I, 18 dicembre
2012, Pres. Berro-Lefèvre, Aslakhanova e altri c.
Russia)....................................................................... 249
Pirateria marittima
Stato di diritto e lotta alla pirateria nelle acque somale
di Matteo Tondini................................................... 230
Processo penale
Atti
Ancora sull’obbligo di traduzione dell’ordinanza cautelare
riguardante lo straniero alloglotta (Cass. pen.,
Sez. I, 19 settembre 2012 (c.c. 19 giugno 2012), n.
35878) ....................................................................... 188
Esecuzione
Liberazione anticipata concedibile per periodi di detenzione
espiati all’estero (Cass. pen., Sez. I, 4 dicembre
2012 (24 ottobre 2012), n. 46805) ............... 181
Rapporti tra legge “svuota carceri” e sospensione
dell’ordine di esecuzione ex art. 656 c.p.p. (Cass.
pen., Sez. I, 10 dicembre 2012 (3 ottobre 2012), n.
47859) ....................................................................... 182
Giudizio
Regola del B.A.R.D. nel giudizio d’appello e riforma
«contra reum» della sentenza assolutoria (Cass.
pen., Sez. VI, 9 febbraio 2012 (u.p. 26 ottobre 2011),
n. 4996), con commento di Alessio Scarcella ........... 205
Misure cautelari
Diritto penale e processo
Indici
Contestazioni a catena e momento di rilevabilità del-
Diritto penale e processo 2/2013 253

Diritto penale e processo
Indici
la retrodatazione del termine (Cass. pen., Sez. Un.,
20 novembre 2012 (c.c. 19 luglio 2012) n. 45246) .... 172
Sui rapporti tra giudicato amministrativo e determinazioni
del giudice penale (Cass. pen., Sez. IV, 30 novembre
2012 (20 settembre 2012), n. 46471) .......... 183
Procedimenti speciali
Giudizio direttissimo: l’irritualità dell’avviso al difensore
di fiducia è causa di nullità assoluta (Cass. pen.,
Sez. III, 3 dicembre 2012 (11 ottobre 2012), n.
46714) ....................................................................... 184
Prove
Condizioni processuali del reato di falsa testimonian-
254
za (Cass. pen., Sez. VI, 17 dicembre 2012 (20 novembre
2012), n. 48764) ........................................... 185
Riforme
La riforma possibile, anzi doverosa…, di Luigi Kalb .. 129
Udienza preliminare
Ancora su imputazione generica e abnormità del
provvedimento di restituzione degli atti al pubblico
ministero (Cass. pen., Sez. II, 20 dicembre 2012 (14
dicembre 2012), n. 49442) ........................................ 186
Diritto penale e processo 2/2013

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