30.05.2013 Views

IL SACRO COME LA CONTRADDIZIONE CHE ... - Giuseppe Limone

IL SACRO COME LA CONTRADDIZIONE CHE ... - Giuseppe Limone

IL SACRO COME LA CONTRADDIZIONE CHE ... - Giuseppe Limone

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

<strong>IL</strong> <strong>SACRO</strong> <strong>COME</strong> <strong>LA</strong> <strong>CONTRADDIZIONE</strong> <strong>CHE</strong> FONDA.<br />

<strong>IL</strong> PARADOSSO <strong>CHE</strong> SALVA<br />

di <strong>Giuseppe</strong> <strong>Limone</strong><br />

1. Il problema. 2. Rosmini. Il luogo teorico di una presenza.<br />

3. Una lezione. 4. Una nuova frontiera. 5. Una militanza filosofica<br />

come transcodifica fra codici personalisti. 6. Metamorfosi del<br />

sacro, metamorfosi della libertà. 7. La soglia. 8. Forme e livelli del<br />

sacro. 9. Volti del limite, limiti del sacro. 10. Per una logica del<br />

sacro. 11. Gli assi del sacro. 10a. Il primo luogo. L’unicità. 10b. Il<br />

secondo luogo. Il legame. 10c. Il terzo luogo. La profondità.<br />

1. Il problema.<br />

Non è forse un caso che nel nostro tempo sia venuto a maturazione un<br />

millennio. In questo tempo, infatti, sta maturando una svolta nel sacro.<br />

Una svolta nel senso del sacro.<br />

1


E, ogni volta che siamo a una svolta del sacro, siamo a una svolta di<br />

civiltà. Perché ogni epoca – lo sappia o non lo sappia – vive il problema di<br />

rielaborare sempre di nuovo il senso del sacro.<br />

C’è un sacro della nostra epoca? Quale? Quanto condiviso? Quanto<br />

diversamente percepito, qualificato, vissuto, raccontato?<br />

Non è domanda da poco, perché – a guardar bene – investe i singoli e<br />

il tutto, i cittadini e il mondo, gli scienziati e il popolo globale, le etnìe<br />

diverse e il pianeta, il bisogno di individuarsi e il bisogno di non essere<br />

soli. Forse potremmo dire, in questo senso, che ogni civiltà è un proprio<br />

originale commentario al senso del sacro.<br />

2. Rosmini. Il luogo teorico di una presenza.<br />

Davanti a questa sfida, possiamo domandarci, oggi, sulla presenza di<br />

Antonio Rosmini. Quale il suo senso?<br />

Concentreremmo, qui, l’attenzione intorno a due punti fondamentali.<br />

Il primo. Guardare la lezione rosminiana all’interno di un grande<br />

orizzonte filosofico, quello personalista.<br />

Il secondo punto. Riuscire ad applicare, per così dire, Rosmini a sé<br />

stesso, facendo centro su un asse che di Rosmini è luogo privilegiato.<br />

2


Quello che Rosmini chiama l’ ‘essere ideale’. Quell’ ‘essere’ al quale egli<br />

si approssima così: “L’essenza dell’ente non può essere conosciuta per<br />

mezzo di altra notizia: l’essenza dell’ente adunque è conoscibile per sé ed<br />

è il mezzo che fa conoscere tutte le altre cose; ella è dunque il lume della<br />

ragione. In questo senso si dice che l’idea dell’ente è innata, e che è quella<br />

forma che dà l’intelligenza” 1 .<br />

Ci domandiamo. ‘Forma’ in che senso? E’ lo stesso Rosmini che<br />

risponde:<br />

“Ma questa parola forma ha bisogno di essere chiarita, perché riceve<br />

diversi significati.<br />

La parola forma si prende a significare 2 .<br />

Ma Rosmini sa che questa sua posizione è rischiosa, almeno per i fini<br />

della sua filosofia, perché, anche se formulata in linguaggio aristotelico-<br />

scolastico, egli non vuole sia apparentata con una concezione che la sua<br />

1 Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1979, nn. 10-11, pp. 29-31; Sistema filosofico, nn. 34-35, pp. 234-236,<br />

cit. in Muratore, pp. 93-94.<br />

2 Ibidem.<br />

3


intende, invece, esplicitamente rifiutare: quella di Kant. E perciò prosegue,<br />

domandandosi: in che senso l’essenza dell’ente “dà all’anima quell’atto<br />

per il quale ella è intelligente”? Detto in altre parole, anch’esse<br />

rosminiane: in che senso “l’essere ideale si dice forma dell’intelligenza?” 3 .<br />

Per rispondere, Rosmini ha bisogno di distinguere due specie di forme.<br />

“Ciò che dà il suo atto primitivo ed essenziale ad un essere, quanto alla<br />

nozione della mente, è cosa diversa dall’atto stesso; ma talora ciò che dà<br />

l’atto essenziale ad un essere è parte dell’essere stesso, o si confonde collo<br />

stesso atto, rimanendo diviso dall’atto solo mentalmente e per via di<br />

astrazione; altre volte è cosa diversa realmente dall’atto, e dall’essere che<br />

viene informato. Così la forma di una cosa tagliente, per esempio di un<br />

coltello, non è cosa da lui diversa. All’incontro la forma di un ferro<br />

rovente è il fuoco, cosa diversa dal ferro, e ogni qualvolta due enti si<br />

mettono in comunicazione, l’uno diventa la forma dell’altro, in quanto<br />

agisce ed entra nella sfera di essere dell’altro” 4 .<br />

Ci si domanda: in quale dei due sensi l’ ‘essere ideale’ è forma<br />

dell’intelligenza? Rosmini non ha dubbi. E’ nel secondo senso<br />

dell’analogia 5 .<br />

3 Ibidem.<br />

4 Ibidem. Il corsivo è nostro.<br />

5 Ibidem.<br />

4


Non è nostra intenzione entrare qui in un’analitica filosofica<br />

circostanziata, che pur ci sedurrebbe, ma c’è da chiedersi. Che cosa è mai<br />

questo ‘essere ideale’ che, pur essendo forma, è cosa realmente [dico:<br />

realmente] diversa dall’essere informato? Si tratta di una diversità non<br />

astratta cioè, ma reale. Che cos’è mai un mentale che è realmente diverso<br />

dal soggetto – posto che sia qualcosa? Per prima cosa, significa che<br />

quest’essere è realmente diverso dal soggetto. Ossia che esso non è<br />

soggettivo. Siamo in presenza dell’ambigua pregnanza, dell’ambigua<br />

potenza, di questo concetto rosminiano: l’ ‘essere ideale’. Al di là delle<br />

perplessità che pur potrebbe suscitare, diremmo che è fondamentale<br />

penetrare nella sua intenzione strategica. Si tratta, infatti, di un concetto<br />

che, pur presentandosi come puro oggetto teoretico, è in realtà ricco di<br />

storia filosofica. Si tratta di un ‘essere ideale’ che è nella mente, ma non è<br />

della mente. Nel suo carico semantico – quindi – c’è l’idea platonica. Ma<br />

non basta. Si tratta di un ‘essere ideale’ che, pur essendo indeterminato, è<br />

necessario. Come fa un essere indeterminato ad essere, al tempo stesso,<br />

necessario, posto che non è della mente? Non solo. Si tratta di un ‘essere’<br />

che, seppur meramente possibile, è necessario. Un ‘possibile necessario’.<br />

Esso sembra avere, per così dire, una potenza ultramentale che deborda<br />

5


per necessità ontologica da sé. Rivelando, nel suo carico semantico, l’idea<br />

ontologica di Anselmo (e, forse, l’enérgheia di Plotino).<br />

Ma un tale ‘essere ideale’ – d’altra parte – non può essermi sottratto<br />

senza che mi si sottragga quanto è più intimo di me. C’è, nel suo carico<br />

semantico, il Dio più intimo della mia stessa intimità: il Dio di Agostino.<br />

Platone, Anselmo, Agostino, quindi. E forse Plotino. Se osserviamo<br />

la critica rosminiana a Kant, cioè la critica alla soggettività delle forme a<br />

priori kantiane – critica tutta rivolta alla loro pretensiosa soggettività –<br />

possiamo forse ora scoprire lontani annunci e precorrimenti di un illustre<br />

ed eretico erede di Kant, Martin Heidegger. Là dove questi, criticando<br />

Kant, riesce a forare la pura trascendentalità del meccanismo kantiano per<br />

aprire al suo interno il varco per l’emergenza di un essere di cui non<br />

appaiono nitidamente le postille (Martin Heidegger, Kant e il problema<br />

della metafisica).<br />

Vorremmo osare di più. Questo ‘mentale’ rosminiano [che non è il<br />

puro mentale soggettivo, essendone l’‘essere’ un costituente essenziale –<br />

questo ‘mentale’ che intanto pur consente alla mente di svolgere la sua<br />

funzione costitutiva, luogo cruciale in cui sembrano incontrarsi –<br />

nell’esperienza del conoscere – un ‘mentale dementalizzato’ e un ‘reale<br />

6


derealificato’] questo ‘mentale’ potrebbe rivelarsi un’istanza<br />

‘prefenomenologica’, su cui Husserl forse avrebbe qualcosa da dire.<br />

L’ ‘essere ideale’ di Rosmini si mostra, quindi, come quel campo di<br />

significato al cui interno ogni reale percezione si accende all’esistenza. Un<br />

campo di significato che non può dirsi solo mentale, perché – come<br />

Rosmini sostiene – esso è realmente diverso dal mentale. E, quindi, ha una<br />

qualche potenza di reale.<br />

Si tratta oggi, ad avviso di chi vi parla, di applicare Rosmini a sé<br />

stesso – e al nostro discorso che ne parla. Mi sia consentito dire. L’ ‘essere<br />

ideale’ di Rosmini può mostrarsi come il campo energetico indeterminato<br />

nella cui luce ciò che appare alla percezione dell’oggi, accendendosi<br />

all’esistenza, si accende di esistenza. Umberto Muratore ha detto<br />

benissimo: un ‘campo visivo’ 6 . Penserei, in proposito, alla metafora fisica<br />

del ‘campo’ e delle ‘fluttuazioni del vuoto’.<br />

Vedere il tempo presente, oggi, a partire da Rosmini è anche riuscire a<br />

vederlo a partire dal suo ‘essere ideale’. Applicando Rosmini a Rosmini.<br />

Spogliandolo, dov’è possibile, di ciò che appartiene alla sua epoca e non<br />

alla nostra.<br />

6 Umberto MURATORE, Antonio Rosmini. Il discorso sull’uomo, Città Nuova, Roma 1989, p. 41.<br />

7


Ma non può, a questo punto, sottacersi una considerazione. A chi ne<br />

scruti le pagine nella tessitura d’insieme, appare chiaro che la scaturigine<br />

prima della lezione rosminiana è etica. In questo senso, la sua ontologia,<br />

che pur precede l’etica nella fondazione, la segue nell’ intenzione.<br />

Rosmini è uno di quegli autori che, prima del pensare un’etica, si<br />

pongono un’etica del pensare. Perché egli sa che già l’etica del pensare è<br />

una luce in atto dell’essere in me.<br />

E potremmo forse anche aggiungere, in termini contemporanei, che l’<br />

‘oggettività’ dell’ ‘essere ideale’ rosminiano nei confronti del desiderio<br />

non cessa mai di essere profondità. Sicché qualsiasi desiderio realizzato<br />

mai potrà adeguare il desiderio del senso.<br />

Certo, Rosmini sente vivamente quell’ottimismo tommasiano che<br />

colloca intelligenza e volontà lungo una gravitazione spontanea verso il<br />

bene. Ma si pensi anche, da lettori attenti, a quale forza evocativa –<br />

diremmo da evangelo involontario – sia nascosta in quel dire rosminiano<br />

che nell’ ‘essere ideale’ che abita l’uomo c’è la prima notizia dell’essere.<br />

Notizia. Nella sua eversiva semplicità, è una parola che dice moltissimo in<br />

niente. Come quel Vangelo che è una buona notizia – e non è che notizia.<br />

8


3. Una lezione.<br />

Ma la lezione di Rosmini è anche altrove. Ne indicheremmo alcune<br />

coordinate. Espresse quasi in tre paradossi.<br />

A. La ricchezza di carico empirico implicato a fronte della semplicità.<br />

Apparirà subito straordinario quanto Rosmini riesca a trattare una<br />

molteplicità inesausta di campi empirici e a governarli con la semplicità di<br />

pochi princìpi. ‘Mai più di quello che occorre, mai meno di quello che<br />

occorre’ – è un principio del suo metodo. Non solo il rasoio di Ockham,<br />

ma l’invito a usarlo bene.<br />

B. Il lessico scolastico a fronte della corrente della vita. Si tratta<br />

dell’impiego di una complessa orchestrazione scolastica che,<br />

paradossalmente, riesce a non andare mai a detrimento dell’unità della<br />

corrente vitale. Così il sentimento si prolunga in istinto e in intelligenza e<br />

in volontà e in amore – e il principio senziente in anima e l’anima in<br />

persona – senza che mai una distinzione significhi interruzione 7 .<br />

7 Vedi anche Antropologia in servizio della scienza morale, Città Nuova, Roma 1981, nn. 385-388, pp.237-238,<br />

cit. in U. Muratore, Antonio Rosmini, cit., p. 104: “… quest’attività dell’anima è una cotale continuazione della prima<br />

…”.<br />

9


Il che accade in due sensi. Sia nella distinzione fra i livelli diversi del<br />

vivente, nella loro ascensione; sia nella distinzione fra il versante passivo e<br />

quello attivo della vita, nella loro reazione.<br />

Si assiste, così, come a un chiasmo filosofico. Da un lato, la potenza<br />

vitale, al cui fondo è l’anima, la quale, “dove trovi aperto il varco, per colà<br />

si stende” 8 . E, dall’altro lato, la potenza dell’essere ideale, al cui fondo è il<br />

divino, il quale, ovunque si accenda una percezione, in quello stesso punto<br />

appare. Si assiste così a una potenza di essere e di affermarsi verso le<br />

possibilità della vita – propria dell’uomo, dell’istinto vitale e dell’anima –<br />

che s’incrocia con l’altra indefinita potenza dell’ ‘essere ideale’ verso le<br />

sue specificazioni. E’ un nucleo teorico, questo, su cui <strong>Giuseppe</strong><br />

Capograssi, parlando di Rosmini, ha richiamato con forza l’attenzione 9 .<br />

C. Ciò che il credente vede nella sua unità complessa, il non credente<br />

può ben vederlo, almeno in parte, dalla prospettiva della sua religiosità<br />

naturale.<br />

D. Ne nasce una visione d’insieme in cui l’unità ricostruita alla fine, in<br />

realtà era fin dall’inizio.<br />

8 Antropologia in servizio della scienza morale, cit. in U. Muratore, Antcnio Rosmini, cit., p. 105.<br />

9 <strong>Giuseppe</strong> CAPOGRASSI, Opere, vol. IV, Giuffrè, Milano 1959, p. 95 ss. e p. 321 ss.<br />

10


Così, ad esempio, quel ‘sentimento’, che sembrava solamente il<br />

segmento iniziale, può diventare il diritto alla felicità. Così, ad esempio, si<br />

vede operare, come segretamente, una spontaneità vitale che ascende e che<br />

vale. Così ad esempio, la ‘persona’ appare giacere nella vita intelligente<br />

fin dall’inizio del processo. Così, l’uomo pensa anche quando non pensa 10 .<br />

Così, nella fede razionale possiamo scoprire quanto nel pensiero ci sia<br />

della fede e quanto ci sia del sentimento e della volontà. Per una<br />

straordinaria eterogenesi dei fini, l’elaboratissima articolazione scolastica<br />

riesce a mimetizzarsi nella vivente unità del simplex originario.<br />

4. Una nuova frontiera.<br />

Davanti alla sfida dei tempi nuovi, leggere Rosmini oggi significa, ad<br />

avviso di chi parla, predisporsi a una nuova frontiera, che coinvolge altre<br />

voci, troppo spesso minoritarie – e che vanno ben al di là della distinzione<br />

credenti/non credenti. Una nuova frontiera che chiameremo con un nome<br />

ambizioso, mai veramente compreso: il ‘personalismo’. L’opzione<br />

personalista. Non le sue liquidatorie vulgate. Si tratta di una militanza<br />

pensante in nome di almeno tre cose:<br />

10 Vedi l’acuta citazione in U. MURATORE, Antonio Rosmini, cit., p. 21.<br />

11


1. - L’ ‘essere’, sì, ma non il regno dell’universale olistico – in cui<br />

gl’individuali spariscono.<br />

- L’ ‘essere’, sì, ma non il mondo dell’ ‘egli’ – che ignora l’ ‘altro’ e<br />

il ‘tu’.<br />

- L’ ‘essere’ sì, ma non l’universo del frazionato, del frantumato,<br />

dell’atomizzato, del disperso.<br />

Non è impegno da poco. Si tratta di contrastare filosofie potenti e<br />

accreditate, senza chiedere sconti sulla tenerezza di cuore. E si tratta<br />

di promuovere in modo intelligente tre negazioni, cui rispondono tre<br />

quesiti e tre percorsi, che si rivelano, d’altra parte, un unico luogo.<br />

Vedere Rosmini nella luce della frontiera personalista significa<br />

vedere anche ciò che in Rosmini non appare immediatamente –<br />

eppur c’è – mentre in altri personalisti costituisce il centro del<br />

discorso. Si tratta di alcune coordinate specifiche dell’uomo<br />

individuale, concreto, che fanno la differenza. Direi: il problema<br />

dell’unicità; il problema della profondità; il problema del legame.<br />

5. Una militanza filosofica come transcodifica fra codici<br />

personalisti.<br />

12


Siamo, a questo punto, davanti a un’urgenza. L’urgenza di una<br />

transcodifica fra i lessici diversi degli autori personalisti e dei loro statuti.<br />

Se ne guardino alcune coordinate essenziali, partendo – qui – da Rosmini.<br />

A. Il problema filosofico e lessicale della ‘oggettività’. L’oggettività<br />

non è l’oggettivazione.<br />

Quando si parla dell’ ‘essere ideale’ di Rosmini come ‘oggettivo’, si<br />

tratta, in Rosmini, solo del suo essere 'oggetto di pensiero’(come pur<br />

sostengono alcuni critici 11 )? Se si trattasse soltanto del suo essere ‘oggetto<br />

di pensiero’, esso non sarebbe più limite. Se si trattasse soltanto del suo<br />

essere ‘oggetto di pensiero’, non ci sarebbe più differenza fra ‘bene<br />

soggettivo’ e ‘bene oggettivo’. Questa ‘oggettività’ – quindi – è più<br />

resistente ontologicamente di quanto possa trovarsi nel suo essere mero<br />

‘oggetto di pensiero’.<br />

Infatti, quest’‘essere ideale’ è la ‘notizia dell’essere’. Ossia, la<br />

notizia del divino. La notizia del sacro. Ed è infatti anche ‘legge’. Forse,<br />

a ben guardare, si tratta di un’idea covante nascostamente la potenza della<br />

prova ontologica anselmiana. Questo ‘essere’ è , per così dire, il dio<br />

11 Vedi sul punto la discussione in Ludovico Geymonat e Renato Tisato, Il pensiero filosofico e pedagogico italiano<br />

nella prima metà dell’Ottocento, in L. GEYMONAT, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. IV, Garzanti,<br />

Milano 1971, pp. 691 ss. Per un diverso approccio, vedi Sergio Landucci, Il cattolicesimo liberale in Italia: Rosmini e<br />

Gioberti, in Storia della Filosofia, diretta da Mario Dal Pra, vol. IX, La filosofia contemporanea – l’Ottocento, Piccin,<br />

Padova 1983, p. 191 ss. Per una intelligente ricollocazione critica della presenza di Rosmini oggi, si veda Francesco<br />

MERCADANTE, Rosmini nel nuovo millennio. Dalla condanna alla riconciliazione, in “Rivista internazionale di<br />

Filosofia del diritto”, serie V, anno LXXVIII, n. 4, ottobre-dicembre 2001, pp. 433-460.<br />

13


naturale, che si mostra – nell’essere dell’atto cognitivo dell’uomo – come<br />

in uno specchio 12 . Dove lo specchio è, per così dire, il tessuto dell’uomo<br />

reale.<br />

Questo ‘oggettivo’, quindi, non può essere quella che è, nel lessico di<br />

altri personalisti, l’ ‘oggettivazione’. La quale, in questi ultimi, negherebbe<br />

la profondità e si connetterebbe con la ripetibilità intesa come dominio. Si<br />

possono trovare in questo senso precisi indizi rosminiani. La presenza di<br />

‘attori sconosciuti’ all’interno dell’uomo 13 . L’insistenza<br />

sull’‘incomunicabilità’ della persona 14 . Il riferimento a Leibniz 15 . Si tratta,<br />

quindi, in Rosmini, di una diversa sensibilità teoretica nell’approccio all’<br />

‘oggettivo’. L’oggettività antica nega la soggettività. L’oggettivazione<br />

moderna, invece, mostra in tale ‘oggettività’ le tracce della manipolabilità<br />

soggettiva. Della totalizzabilità. Rivelando il diretto cortocircuito<br />

moderno fra conoscenza e volontà – di cui la ‘volontà di sapere’<br />

foucaultiana è, per così dire, l’esito diagnostico ultimativo.<br />

Questa ‘oggettività’, quindi, non è l’ ‘oggettivazione’. Nella sua<br />

matrice rosminiana, infatti, resta la ‘libertà’. Della quale non c’è<br />

12 E’ di Rosmini l’efficacissima frase, tutta da meditare nella sua pregnanza teorica: essere “gli uomini dal Creatore<br />

attaccati alla verità coi loro visceri stessi” (Filosofia del diritto, vol. 2, Bertolotti, Intra 1865, nn. 488-489, pp. 141-143).<br />

13 Principi della scienza morale, Bocca, Milano 1941, pp. 76-77.<br />

14 Antropologia in servizio della scienza morale, Città Nuova, Roma 1981, nn. 832-837, pp. 460-462.<br />

15 A. ROSMINI, Teosofia, Torino-Intra 1859-1874, vol. 2, n. 1120, p. 486, cit. in U. MURATORE, Antonio Rosmini. Il<br />

discorso sull’uomo, Città Nuova, Roma 1989, p. 50.<br />

14


immagine. Sia che si tratti della libertà come elezione fra beni voluti sia<br />

che si tratti della libertà come libertà dell’intelligenza 16 . La quale ultima, in<br />

Rosmini, non solo può ‘scegliere’ ma percorre la precisa via in cui può<br />

realizzarsi come libertà che si valorizza nei suoi beni.<br />

E si pensi alla distinzione rosminiana fra ‘persona’ e ‘natura’. La<br />

natura è ciò che si ha; la persona ciò che si è. Si possono sviluppare le<br />

facoltà particolari che si hanno, ma ciò non significherà toccare quello<br />

che si è. Siamo vicinissimi alla distinzione, che altri personalisti faranno,<br />

fra ‘persona’ e ‘personalità’. Non a caso, Rosmini distinguerà, ancora, fra<br />

‘la persona come diritto sussistente’, ‘diritti connaturali’ e ‘diritti<br />

acquisiti’ 17 . E si pensi a un’ulteriore traccia di questa opzione teorica: della<br />

persona non può darsi immagine esaustiva, così come non può darsi<br />

immagine esaustiva della libertà.<br />

La metafora rosminiana dell’arco teso è, in questa luce, geniale. Dice<br />

l’enérgheia della persona che investe, modella e connota materiali psichici<br />

diversi assunti come oggetto dell’azione. E allude a quello che in altra sede<br />

abbiamo chiamato il ‘modello cornice’ 18 : là dove si dà l’istanza<br />

fondamentale di un’‘enérgheia’ che, in quanto forza strutturante, deve<br />

16 Antropologia in servizio della scienza morale, Città Nuova, Roma 1981, nn. 603-605, p. 341 ss.<br />

17 A. ROSMINI, Filosofia del Diritto, CEDAM, Padova 1967, n. 48 ss. e n. 245 ss., p. 191 ss. e p. 243 ss.<br />

18 Ci si richiama, qui, fra l’altro, a G. LIMONE, Il sacro come la contraddizione rubata. Prolegómeni a un pensiero<br />

metapolitico dei diritti fondamentali, Jovene, Napoli 2000, spc. pp. 61 ss. e passim.<br />

15


poter agire e agisce investendo i suoi ‘dati’ secondo una direzione in cui<br />

essi tutti – materiali psichici ed empirici diversi – vengono modellati e<br />

connotati secondo la rete della vis che li cattura.<br />

B. La persona non è solo l’unità dell’uomo individuale concreto, ma<br />

la sua unicità. Unicità, nel senso di non riducibilità a comuni<br />

caratteristiche costituenti. E in Rosmini possiamo trovarne precisi indizi.<br />

Si pensi al suo ragionamento sulla distinzione radicale tra i fenomeni<br />

esterni dei corpi e quelli della sensazione 19 . Sentiamo Rosmini: “Chi …<br />

non vede, esser due cose al tutto diverse il corpo dell’addolorato, che<br />

all’esterno si muta, e la sensazione del suo dolore? Il corpo<br />

dell’addolorato cade sotto i miei sensi, e produce in me sensazioni; il suo<br />

dolore all’incontro non cade sotto i miei sensi, ma sta tutto in lui solo” 20 .<br />

E questo dolore è dell’anima. E’ l’anima, per Rosmini, è il principio<br />

senziente dell’individuo. Che non gli dà quindi solo unità, ma unicità.<br />

Vediamo altri indizi. L’essere la persona “incomunicabile” 21 . L’essere<br />

la persona “principio supremo”, cioè indipendente da ogni altro 22 .<br />

Diremmo anche: irriducibile.<br />

19<br />

Antropologia in servizio della scienza morale, cit., nn. 56-60, p. 48 ss.<br />

20<br />

Ibidem.<br />

21<br />

Antropologia in servizio della scienza morale, cit., nn. 832-837, pp. 460-462.<br />

22 Ibidem.<br />

16


Che diremo, oggi, su questa unicità? E’ stato giustamente osservato<br />

che, se si guarda al cammino della scienza, fino a pochi secoli fa si<br />

credeva che il mondo non andasse oltre il sistema solare. Poi è<br />

intervenuta la scoperta di galassie a distanza di miliardi di anni luce: è<br />

stato inventato, così, lo spazio profondo. E’ stato osservato, inoltre, che,<br />

se si guarda al cammino della scienza, fino a qualche secolo fa si credeva<br />

che la storia del pianeta e dell’uomo iniziasse qualche decina di migliaia<br />

di anni fa. Poi è intervenuta la scoperta di tempi remotissimi, costituiti di<br />

milioni e di miliardi d’anni – cui ha fatto riscontro il guardare al futuro<br />

più lontano, quello delle generazioni future: è stato inventato, così, il<br />

tempo profondo.<br />

Ma nemmeno queste considerazioni bastano. Gli ultimi due secoli<br />

ci hanno offerto un’altra invenzione teorica. Oltre l’io, oltre la coscienza,<br />

oltre il cogito, oltre la coscienza che ne ho, sono stati scoperti i mondi<br />

degl’istinti, dei sogni, dell’inconscio – e, io aggiungerei (andando oltre<br />

Matte Blanco), di un ‘inconscio intelligente’ 23 . E’ stato inventato, così,<br />

l’uomo profondo.<br />

23 Ci richiameremmo qui ad alcuni nostri discorsi: fra gli altri, a G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte<br />

Tipografica, Napoli 1997, p. 71 ss. e in Il simbolico come cifra di gravitazione nello spazio noetico, in La simbolica<br />

dello spazio, Guida, Napoli, di imminente pubblicazione. E, ancora, a G. LIMONE, Tempo della persona e sapienza del<br />

possibile. Valori, politica e diritto in Emmanuel Mounier, ESI, Napoli 1988, p. 86 ss.<br />

17


L’uomo profondo. Ma già Tommaso l’aveva, nella sua<br />

semplicissima genialità antiveduto: l’actus essendi. Ma noi, andando<br />

ancor oltre, diremmo: non il mero atto di esistere, ma l’atto di esistere<br />

come quell’io singolare che sono. E’ la rivoluzionaria dimensione<br />

dell’atto di esistere còlta al singolare. Si potrebbe, qui, incrociare<br />

Leibniz (non invece Spinoza).<br />

Non si tratta, d’altra parte, del passaggio dalla potenza all’atto di<br />

Aristotele. Perché questo passaggio è pur sempre relativo a una mente<br />

che concettualizzi l’atto di esistere in modo generale.<br />

Ma vediamo il problema. Se dò all’uomo il privilegio – ontologico<br />

privilegio – di essere guardato sub specie singularitatis, gli sto dando<br />

appunto il privilegio di essere considerato come atto d’essere<br />

quell’essere che ha diritto ad essere considerato singolare. E Tommaso<br />

rappresenta, nella storia della pensabilità delle cose, un laboratorio<br />

teorico cruciale, che intende andare oltre le categorie dei Greci. La sua<br />

virata teorica, essenziale per stringere d’assedio in modo più<br />

penetrante la singolarità, è costituita dalla distinzione fra ‘essenza’ ed<br />

‘esistenza’, che non coincide con quella tra ‘forma’ e ‘materia’.


divisione>> (Summa contra Gentiles, libro I, cap. LVIII) e (Summa contra Gentiles, libro I, cap. LXV).<br />

Bisogna distinguere essentia ed existentia, quindi.<br />

Ma la distanza fra conoscere ed essere è strutturale, stavo per dire<br />

‘trascendentale’. Infatti, conoscere è sempre smembrare. E’ sempre<br />

scomporre. C’è uno scomporre fisico, che spezza in componenti<br />

fisiche. Non basta. C’è uno scomporre mentale, che spezza in<br />

componenti concettuali. Non basta. Con lo scomporre mentale, posso<br />

raggiungere l’essenza comune. Non basta. Per raggiungere l’essenza,<br />

debbo poter raggiungere l’essenza individuale. Quella che prescinde<br />

anche da se l’essenza sia comune o non sia comune. Ma nemmeno qui<br />

basta. Raggiungere, infatti, questa “essenza individuale” attraverso un<br />

puro gioco di intersezioni sarebbe farne il semplice risultato di un<br />

calcolo logico. Ma, anche se raggiungo attraverso questo calcolo<br />

l’essenza individuale – l’essenza individuale di quest’uomo-che-mi-è-<br />

qui-davanti –, anche in quest’ultimo caso non basta. Ho raggiunto,<br />

infatti, la sua essenza, non ancora la sua esistenza. Ho raggiunto il suo<br />

fantasma mentale, non lui. Ma pensare l’essenza della singolarità può<br />

– perché sia un “pensarla” – raggiungere quella singolarità<br />

19


semplicemente pensando la sua esistenza? Può esserci un’essenza<br />

della singolarità che manchi della sola esistenza? Può una singolarità<br />

– nella sua essenza – essere non esistente?<br />

Non posso raggiungere, di quell’uomo concreto, la sua esistenza<br />

perché la sua esistenza non è un predicato. E non c’è mai l’atto<br />

ultimativo che mi consenta di passare – di “saltare” – dal conoscere<br />

all’esistere. Il sapore non è il concetto del sapore. Il dolore non è il<br />

concetto del dolore. La morte non è il concetto della morte. La libertà<br />

non è il concetto della libertà.<br />

Una barriera sottile ma invalicabile separa la comprensione<br />

concettuale dall’esistere. Per sempre. Come la superficie d’uno<br />

specchio. Inesorabile, rigorosa e sottile. Si tratterebbe di attraversare<br />

lo specchio. E bisognerebbe osar dire che è qui il limite invalicabile<br />

dell’idealismo. Idealismo che incomincia già con Kant, malgré lui. Ma<br />

è un discorso che vale anche per Dio, per il Dio dei filosofi. Non per il<br />

Dio dei credenti. Questo Dio, infatti, per i credenti, lo specchio l’ha<br />

attraversando. Diventando uomo fra altri.<br />

Che cosa troviamo alla fine di questo itinerario? Un punto cruciale.<br />

La persona è l’atto di esistere come quell’io singolare che sono. Se<br />

20


l’anima lo è per la vita senziente, la persona lo è per tutto l’uomo 24 . E<br />

qui incrociamo di nuovo Rosmini.<br />

E potremmo addirittura dire, a questo punto: anche nel limite fra il<br />

conoscere e l’essere c’è una forma del sacro.<br />

C. Questa “unicità” potrebbe far pensare a un’assoluta solitudine. A<br />

una radicale incolmabile ‘incomunicabilità’. Non è così. Perché<br />

l’unicità non è l’unica coordinata di quest’uomo concreto al quale<br />

guardiamo. Egli non è solo unicità, ma legami. Forse, in un dialogo<br />

fra personalisti, possiamo incrociare Levinas. Quell’‘essere ideale’ è<br />

anche l’altro che è in me.<br />

6. Metamorfosi del sacro, metamorfosi della libertà.<br />

C’è un paradosso nel percorso della modernità, di cui misuriamo,<br />

forse, solo oggi, nella trama delle nostre viscere, la svolta.<br />

Il percorso si rivela, in realtà, a due direzioni. La libertà nasce dalla<br />

rivolta contro il sacro. Il sacro nasce dalla rivolta della libertà.<br />

Nell’intemporale storia dei miti, questa storia era, a ben vedere, già<br />

precompresa. Si pensi, da un lato, al Prometeo che ruba il fuoco agli dei e,<br />

dall’altro, alla scienza cabalistica che crea il Golem. Potremmo<br />

24 Si potrebbe, su questo specifico punto, citare Emmanuel Mounier, Il personalismo, AVE, 1966.<br />

21


parafrasare, qui, il poeta Ghiannis Ritsos: possono i miti reggere tanto<br />

cielo? (La signora delle vigne).<br />

Prometeo e il Golem ci restituiscono, in realtà, due percorsi simmetrici<br />

– due simmetriche incontenibilità. Nel Prometeo c’è la libertà che emerge<br />

imperiosamente dal sacro; nel Golem il sacro che emerge imperiosamente<br />

dalla libertà.<br />

Vediamo Prometeo.<br />

Prometeo è colui che ruba il fuoco agli dei. E’ colui che dona il fuoco<br />

agli uomini. E’ colui che Zeus mette in catene per estorcergli quello che<br />

sa. Ma è anche colui che plasma gli uomini a immagine degli dei (Ovidio,<br />

Metamorfosi). In Ovidio, per esempio, c’è il Prometeo che plasma gli<br />

uomini, non il Prometeo che ruba il fuoco. C’è da domandarsi. 1. Il<br />

Prometeo che plasma gli uomini a immagine degli dei e il Prometeo che<br />

agli dei ruba il fuoco non possono essere visti come declinazioni di un<br />

medesimo nucleo essenziale? 2. E, d’altra parte, il Demiurgo platonico che<br />

plasma le cose a immagine delle idee non può rivelarsi, nella declinazione<br />

del medesimo nucleo, lo stesso Prometeo che dona e che ruba? 3. E,<br />

d’altra parte ancora, ha da fare col Prometeo che dona e che ruba, e col<br />

Prometeo che plasma, il Prometeo che, incatenato, sa? In un medesimo<br />

22


modello mitico due istanze opposte sembrano confliggere: da un lato, un<br />

donare, che è conforme al piacere del dio; dall’altro, un rubare, che è<br />

contrario al piacere del dio. Da un lato, un sapere, che Dio permette;<br />

dall’altro, un sapere, che Dio vieta. Da un lato, un pensare, che Dio dona;<br />

dall’altro, un pensare, che Dio teme. Ma queste due istanze contrapposte<br />

non sono per caso una medesima istanza còlta nella sua ambivalenza?<br />

Cioè: il semidio che fa transitare negli uomini un ‘divinum quid’, non<br />

realizza per caso contro la potenza di Dio una potenza a favore della<br />

potenza di Dio? Contro: perché gli sottrae. A favore: perché ne è una<br />

continuazione. Un realizzare che è un contrastare; un contrastare che è un<br />

realizzare. Un dono che è un furto; un furto che è un dono.<br />

Già nel Prometeo che ruba il fuoco per donarlo sembra risuonare<br />

un’ambivalenza che dà a pensare. Anche il Dio biblico consente all’uomo<br />

una conoscenza (l’albero della vita e le altre piante del paradiso)<br />

vietandogliene un’altra (la conoscenza del bene e del male). Anche il Dio<br />

biblico crea l’uomo Lui: a immagine sua (Gen. 1,27). Ma<br />

l’uomo pecca appunto perché vuole diventare Dio (Gen. 3,5).<br />

Il fuoco è di Dio. E, nel transitare nell’uomo, può diventare contro<br />

Dio. Ora, la libertà, costola del divino, – che nel divino è, per definizione,<br />

23


intrinseca al bene –, continuandosi nell’uomo si scinde in possibilità<br />

alternative: le possibilità del bene e del male.<br />

Proviamo ora a leggere questa situazione nei termini del mito<br />

sopradescritto. Se la libertà è la somiglianza con Dio come dono, d’altra<br />

parte una libertà che pretendesse di essere intrinseca al bene – e<br />

quindi istitutiva della distinzione bene/male – sarebbe l’uguaglianza<br />

con Dio come furto. E il furto è superbia. Se la libertà è la somiglianza<br />

con Dio come dono, c’è una libertà che è essere uguali a Dio come furto.<br />

E il peccato ne è il paradossale compimento. La somiglianza con Dio<br />

sta all’uguaglianza con Dio come l’uomo sta a Dio – e come al peccato<br />

sta la libertà.<br />

Credo che la più grande continuazione di questo mito sia in una<br />

grandissima opera letteraria, I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij. Ci<br />

domandiamo. E’ forse inverosimile pensare che nel possibile parallelismo<br />

mitico tra le due figure del somigliare e del rubare risuoni l’unico fuoco<br />

della libertà? Ivan Karamazov lo sa. Egli dice: “… Si vede che gli uomini<br />

stessi ne avranno colpa: gli era stato dato il paradiso, loro han voluto la<br />

libertà e han rapito il fuoco al cielo, pur sapendo che sarebbero stati<br />

infelici” (I fratelli Karamazov, libro V, cap. IV).<br />

24


Vediamo ora il Golem.<br />

Eric Voegelin ricorda, ne Il mito del mondo nuovo, la leggenda del<br />

Golem. Geremia si reca dal figlio Sira e, seguendo i principi cabalistici<br />

della combinazione, insieme creano un uomo sulla cui fronte c’erano le<br />

parole: Iahvé Elohim emeth, che significa Dio è la verità. Ma nella mano<br />

dell’uomo appena creato dall’uomo c’era un coltello col quale egli raschio<br />

l’aleph da emeth e così restò meth, che significa morto. Creato l’uomo<br />

dall’uomo, sulla fronte dell’uomo creato la scritta si<br />

trasformò in .<br />

Che cosa può significare questa leggenda in un mondo secolarizzato?<br />

Forse significa che, se la tecnoscienza coltiva l’ambizione segreta di creare<br />

l’uomo, cioè di totalizzarlo varcandone i limiti e privandolo degli spazi<br />

singolari delle sue possibilità, c’è qualcosa che è morto. Non Dio, ma<br />

l’uomo. L’homo sapiens sapiens. O meglio: lo spazio sacro che in<br />

quest’uomo come persona singolare si dà. Ci si domanderà a questo punto.<br />

La libertà della scienza è entrata, forse, nell’era della scienza, in conflitto<br />

con la libertà dell’uomo? E può esserci una libertà della scienza senza<br />

una scienza della libertà?<br />

25


Dal seno del sacro nasce la sua rivolta, che è la libertà. Dal seno<br />

della libertà nasce la sua rivolta, che è il sacro. Da qui, un paradosso<br />

sempre osservato: sia dissacrare rigenera zone di sacro, sia sacralizzare<br />

rigenera zone di libertà.<br />

Ma anche la libertà è il sacro e anche il sacro è libertà. A ben<br />

vedere, sono a confronto due diverse forme e livelli ontologici della<br />

libertà (si pensi, per il credente, alla libertà di Dio). Il che ripropone il<br />

quesito a un livello ulteriore, di secondo grado: è nella loro soglia che<br />

abita il sacro – il sacro più grande?<br />

7. La soglia.<br />

L’esperienza del sacro è l’esperienza della soglia, del limite, del<br />

confine. E questo limite è indisponibile. Non si tratta dell’indisponibile<br />

d’oggi, ma si quello strutturale – valido per domani e per sempre. Quello<br />

di cui non disponiamo e di cui non possiamo disporre perché disporne fa<br />

terrore. Perché disporne mette in questione – anzi in rivolta – non il cuore,<br />

ma le viscere. Perché il disporne spalancherebbe nel proprio interiore un<br />

terrore più devastante della morte. Lacerando improvvisamente la scena su<br />

26


un potere – terribile – su cui non abbiamo potere. Di cui non disponiamo<br />

perché di noi dispone.<br />

Ma questa esperienza del limite è anche fenomenologia del limite.<br />

Diremmo di più. E’ metamorfosi del limite. Allo stesso modo in cui<br />

possono esserci una metamorfosi della meraviglia e una metamorfosi della<br />

paura 25 . Una metamorfosi del desiderio e una metamorfosi della fuga. Una<br />

metamorfosi della potenza e una metamorfosi della libertà. Si tratta, in<br />

ogni caso, della metamorfosi di un quid strutturalmente connesso a un<br />

fondo emozionale forte che permane.<br />

Potrebbe svilupparsi una precisa analitica di questo limite e delle sue<br />

metamorfosi. Una di esse è nello sguardo. Perché lo sguardo pone una<br />

soglia. Che può identificare o violare il limite come sacro. Potrebbe, in<br />

proposito, seguirsi una fenomenologia dello sguardo da Sartre a Bataille a<br />

Saint-Exupéry a Guardini. Una fenomenologia che sa di fragilità, di<br />

pudore, di rispetto, di amore, di pietà, ma anche di invasione, di<br />

impossessamento, di arroganza, di spoliazione, di totalizzazione.<br />

25 Sul punto richiamiamo un libro bello e penetrante: R. ESCOBAR, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna<br />

1997.<br />

27


Ma si tratta di un limite che ha attributi essenziali. Non può essere<br />

posto ad arbitrio. Non può essere contrattato. E, negato, riemerge. E’<br />

l’anipotetico nel luogo (non della pura logica ma) dell’ontologia 26 .<br />

8. Forme e livelli del sacro.<br />

Il sacro è, quindi, esperienza della soglia, del limite, del confine.<br />

Ma è per tutti uguale l’esperienza del sacro?<br />

Diversi sono i livelli e i volti del sacro. Quali e quanti?<br />

Si pensi a Rudolf Otto. Al sacro religioso.<br />

E’ di Rudolf Otto, come è noto, una delle più classiche e suggestive<br />

definizioni del sacro. Il sacro, per lui, è il numinoso. Il sovrappotente. Il<br />

deinòs. Ciò che desta meraviglia e terrore. Ciò che suscita, nel terribile e<br />

nel meraviglioso, lo sgomento allo stato puro 27 . Ciò che non può essere<br />

detto con determinazioni razionali. Rudolf Otto dice: è un apriori<br />

dell’anima. Egli intende, così, opporsi nella maniera più decisa alle forme<br />

di edulcorazione ‘noetico-ontologica’ del sacro, al sacro inteso attraverso<br />

26 Sul punto, vedi anche G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli 1997, p. 135 ss. e p. 165 ss.<br />

27 R. OTTO, Il sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, tr. e cur. di E. Buonaiuti,<br />

Feltrinelli, Milano 1989, pp. 28-30.<br />

28


forme di mistificazione neutralizzatrice. Ed è stato Walter F. Otto, come è<br />

noto, a vedere, già negli dei della Grecia, forme e figure dell’essere 28 .<br />

Già in questa forma iniziale di interrogazione del sacro, il cui primo<br />

nucleo è nell’assoluta sovrappotenza, noi possiamo cogliere, dal punto di<br />

vista di chi fa una tale esperienza, quattro elementi precisi di<br />

un’invariante strutturale. Da un lato, infatti, la condizione irrevocabile<br />

dell’esposizione alla catastrofe; dall’altro lato, la soggezione assoluta;<br />

dall’altro ancora, la forma incoativa di un legame fra gli assoggettati.<br />

C’è, infine, un quarto elemento. Il sacro appare fenomeno specifico,<br />

ben radicato nel terreno delle emozioni, di cui costituisce una precisa<br />

struttura cruciale 29 .<br />

Il sacro, quindi, costituisce una struttura emozionale specifica,<br />

un plesso emozionale specifico. Che, però, con l’evolversi dei tempi, non<br />

costituisce necessariamente un puro caos emozionale. Il sacro come<br />

struttura emozionale contiene in sé stesso, nel suo grembo, un suo<br />

possibile contenuto cognitivo: anzi, un intero mondo noetico.<br />

Ne nasce una riflessione fondamentale, che troviamo peraltro<br />

ampiamente documentata in Georges Dumézil, nei suoi studi sugli dèi<br />

28 K. KERÉNYI, Il rapporto con il divino, Einaudi, Torino 1991, p. 61<br />

29 Penserei, in proposito, per gettare un ponte con un altro stile lessicale, a un importante libro di Salvatore Veca,<br />

Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Feltrinelli, Milano 1997 – in ispecie al capitolo dedicato alla struttura delle<br />

emozioni.<br />

29


indoeuropei. Questo sacro che è il numinoso, il sovrappotente, il<br />

meraviglioso e terribile, questo sacro è ambivalente.<br />

Si tratta di un’ambivalenza che troviamo esplorata nella stessa<br />

analisi che ne fa Giorgio Colli, quando rivisita Nietzsche e rimette<br />

radicalmente in gioco il rapporto Apollo-Dioniso, risistemato a partire da<br />

una loro nuova unità.<br />

Questa ambivalenza del sacro è da pensare. E, d’altra parte,<br />

guardando al sacro nella sua prima emergenza, altre caratteristiche se ne<br />

colgono, necessario corredo della sua traduzione noetica: 1. Il sacro è<br />

indisponibile; 2. Il sacro è inafferrabile; 3. il sacro è imprevedibile; 4. il<br />

sacro è intoccabile; 5. Il sacro è costitutivo. Chi tocca il sacro, ne è<br />

incenerito. Per eccesso di energia. Chi vede il sacro, ne è accecato. Per<br />

eccesso di luce. Del sacro non si dispone. Per eccesso di soggezione. Il<br />

sacro è inafferrabile. Per eccesso di dominio. E’ intoccabile. Per eccesso di<br />

irradiazione. Il sacro è, perché radicalmente lontano, il luogo più vicino.<br />

Anzi, esso – vivendo nel mio cortocircuito emozionale fra il più lontano e<br />

il più vicino – è costitutivo della mia identità più profonda. La sua<br />

sovrabbondanza assoluta produce l’eterogenesi dei fini.<br />

30


Ma il sacro non è solo sovrappotenza. Esso lega. Precipita sugli<br />

assoggettati un legame che li accomuna. Legame da sovrappotenza. O da<br />

soggezione. O da catastrofe. O da viscerale intimità. L’uomo ha una<br />

necessità originaria di cercare, con questa forza extra ordinem, un contatto<br />

che lo salvi. La sua potenza lo costituisce in continuità. Il suo conato di<br />

dialogo col sacro è il desiderio di trovare con la sua potenza assoluta un<br />

‘logo’ comune. Da cui ricevere tutela e donazione di senso. Ci<br />

domandiamo. Che ne è di questo sacro? E’ finito fra i vecchi arnesi della<br />

storia come la pietra levigata e gli archibugi?<br />

Ma ci sono anche altre figure del sacro. Vediamone alcune.<br />

Se guardiamo al mondo omerico e al mito platonico di Er, scopriamo<br />

altre e intrecciate forme del sacro. 1. C’è il sacro come volontà-potenza del<br />

Dio. Spesso, correlata a una scelta dell’uomo: l’aíresis. 2. C’è il sacro<br />

come tyche, come l’evento della sorte. E’ l’evento casuale che buca la<br />

previsione – ogni previsione – sottoponendo l’uomo a un indecifrabile<br />

arbitrio. Il Dio greco può manovrare la tyche. Ciò che non può manovrare<br />

è l’anánche, la necessità. Anche Achille può manovrare, in certo senso, la<br />

sua tyche. Egli può decidere se vendicare o no Patroclo. Ma egli sa pure<br />

che, se deciderà di vendicarlo, vi troverà la sua anánche, la necessità<br />

31


correlata: la morte 30 . 3. C’è il sacro come l’anánche, come la ‘necessità’.<br />

Nemmeno Giove, il grande Cronìde, può fare alcunché per salvare il figlio<br />

Sarpedonte dalla morte in battaglia. Più in alto di Zeus, c’è il Fato. Che<br />

non parla. Né Zeus può parlarGli. Il Fato non ha viso né voce. Il Fato non<br />

è ‘persona’.<br />

Ci sono altre figure del sacro. C’è il sacro come il Monstrum. Che è<br />

Animale, Uomo, Dio. Che è tutte e tre le figure. Si pensi a Dioniso. E<br />

ancora: 1. C’è il sacro come Potenza pura. 2. C’è il sacro come Potenza<br />

che si fa Scienza – meglio: Onniscienza. 3. C’è il sacro come Potenza che<br />

si fa Forza emozionale. Meglio: Ira.<br />

Il Dio cristiano – frutto di un cammino di culture in cui entrano, nella<br />

chimica gigantesca di un millennio, tradizione di fede ebraica e tradizione<br />

filosofica greca – unifica segmenti di percorsi in uno solo. Il suo<br />

monoteismo può rivelarsi apicale coalescenza di dei. Rivisitati alla luce del<br />

fondamentale ‘ottimismo’ cristiano. Questo Dio è sia Volontà-Potenza, sia<br />

Fato. Sia Volontà-Potenza sia Conoscenza. Ma Egli è buono. Ed è<br />

‘persona’. E la tyche diventerà kairòs. E il fato, provvidenza. E l’ira,<br />

amore.<br />

30 C’è una situazione, individuata in bioetica in rapporto alla ‘medicina predittiva’, che potrebbe in qualche modo<br />

evocare questo antecedente mitico. E’ la situazione che in dottrina è stata chiamata, paradossalmente, l’‘antidestino’:<br />

ossia la possibilità di sfuggire alla propria condizione genetica, programmando adeguatamente la propria vita.<br />

32


Non basta. C’è il sacro come venerando e il sacro come esecrando.<br />

C’è il sacro come meraviglioso e il sacro come atroce. La doppia<br />

figurazione non spaesi. Il sacro è ambivalente.<br />

Anche la sovranità ripete le sue stimmate dal sacro. Essa è, non a<br />

caso, superiorem non recognoscens. E ius vitae ac necis. Diritto di vita e<br />

di morte. Anche qui, ambivalente. Diritto di dare la morte e diritto di<br />

restituire la meraviglia della vita. Anche la ‘rappresentanza’ ripete le sue<br />

stimmate dal sacro. E la stessa nuda vita. Si pensi, al libro di Laura<br />

Bazzicalupo su Mimesis e Aisthesis 31 . Si tratta di due poli opposti e<br />

complementari. La ‘mimesis’ è tale rispetto all’invisibilità del<br />

rappresentato. L’ ‘aisthesis’, rispetto all’irrappresentabilità della vita. A<br />

ben guardare, un’unica radice: il sacro.<br />

Lungo la storia della civiltà umana, il sacro sembra prosciugarsi. Ma<br />

è poco più che apparenza. Perché non si prosciuga: si dissemina.<br />

Nascondendosi nei luoghi più inusitati. Si osservi. Con l’avvento della<br />

scienza moderna, la conoscenza assume sulle sue spalle il compito della<br />

previsione e della potenza. Erano i cómpiti di Dio. Il sacro sembra – quindi<br />

– transitare nelle mani dell’uomo. Ma esso, mentre cede ampie province al<br />

regno dell’uomo, arriva al punto in cui si trasforma. Potremmo dire che<br />

31 Laura BAZZICALUPO, Mimesis e aisthesis. Ripensando la dimensione estetica della politica, ESI, Napoli 2000.<br />

33


emigra ai bordi della scienza: da figura si fa sfondo. Sfondo come<br />

delimitazione dei bordi della scienza – che la scienza non riesce a varcare.<br />

Veniamo al punto. Lungo il percorso in cui la scienza<br />

esponenzialmente cresce in potenza (previsionale e manipolativa), la sua<br />

maturità si converte nella sua crisi. La scienza diventa, direttamente,<br />

tecnologia. E’ l’era della ‘tecnoscienza’. Quali, gli esiti? In qualunque<br />

coordinata si guardino, l’effetto è uno solo: la contrazione del mondo. I<br />

processi si accelerano. Gli spazi e i tempi si accorciano. I corpi si<br />

miniaturizzano. Il villaggio globale si fa piccolo, sempre più piccolo.<br />

Nello spazio e nel tempo. Per l’oggi e per le generazioni future. La<br />

scienza diventa un’auto ad alta velocità. Resistente al suo guidatore.<br />

L’autostrada diventa un imbuto.<br />

Ma qui è l’altro punto. Più cresce la potenza, più decresce – su<br />

scala – la prevedibilità. Più cresce la potenza, più decresce – su scala –<br />

la sicurezza. Più aumentano le conoscenze, più decrescono le certezze.<br />

In un crescendo: dalla bomba atomica alla bomba bioambientale alla<br />

bomba genetica. In un paradosso: più cresce la comune potenza, più<br />

cresce la comune impotenza. Più cresce la comune impotenza, più<br />

34


cresce il comune legame. Là dove si attiva una comune emozione, a<br />

radice antica, mai spenta. Il sacro.<br />

L’epistemologo Edgar Morin ha speso un’intera vita di ricerca per<br />

mostrare che dal modello epistemologico della scienza geometrico-<br />

meccanica – vivente nel mito di Laplace secondo i principi della<br />

previsione, della determinazione e della riproduzione – siamo transitati al<br />

modello della scienza complessa, i cui punti ciechi sono, per necessità<br />

ineludibili, il caso, la contraddizione e la parzialità (Heisenberg, Gödel,<br />

Prigogine). Quali, gli esiti? All’ingrandirsi della potenza del sistema<br />

corrisponde l’ingrandirsi – su scala – della sua imprevedibilità e della sua<br />

vulnerabilità. C’è una diretta proporzionalità, nel sistema, fra potenza e<br />

imprevedibilità, fra potenza e vulnerabilità. Contro la potenza della<br />

scienza che eredita il sacro si erge ora la potenza dei suoi limiti – altra<br />

forma del sacro.<br />

E si guardino altre forme del sacro, nella tradizione della critica. C’è<br />

il sacro antropologico di René Girard, indissociabile dalla violenza che lo<br />

costituisce. C’è il sacro di Elias Canetti, indissociabile dal potere di chi fa<br />

violenza, che sa minacciare la morte, perché la morte è la moneta del<br />

potere. C’è il sacro di Durkheim e Mauss, col loro insistere sul sacro<br />

35


comunitario, col loro guardare le cose sacre come fasciate di interdizioni,<br />

col loro distinguere fra tempo sacro e tempo profano. C’è il sacro di Jean<br />

Guitton, con la sua mirata attenzione al sacro della scienza. Dove l’attivo<br />

esplorare non nega Dio, ma individua il varco di Dio. Dove il caso si<br />

rivela tale sono a una certa scala di sguardo. Dove la percezione<br />

dell’intelligenza sommersa diventa una percezione del sacro – fin quasi a<br />

un ‘terrore’ religioso verso l’ordine che emerge 32 . Donde l’espressione<br />

efficacissima: ‘Teniamo tutto l’infinito nel palmo della mano’ 33 . Siamo –<br />

così – posti davanti all’uomo scientifico che, agendo, come per frottage<br />

scopre i sentieri e i bordi del sacro.<br />

Ha detto Ilya Prigogine: “Quello che è veramente sconcertante è il<br />

fatto che ogni molecola sa quello che faranno le altre molecole<br />

contemporaneamente a essa e a distanze macroscopiche. I nostri<br />

esperimenti ci mostrano che le molecole comunicano. Tutti accettano<br />

l’esistenza di questa proprietà nei sistemi viventi, ma nei sistemi non<br />

viventi essa giunge quanto meno inaspettata” 34 . Donde la percezione che<br />

32 J. GUITTON, G. BOGDANOV, I. BOGDANOV, Dio e la scienza. Verso il metarealismo, Bompiani, Milano 1992,<br />

p. 65 e passim.<br />

33 J. GUITTON, cit., p. 107.<br />

34 Dio e la scienza, cit., p. 40.<br />

36


“un ordine soggiacente governa l’evoluzione…” 35 . Fino a un terrore<br />

religioso 36 .<br />

Non solo. C’è il sacro di Max Scheler, col suo collocare i valori al<br />

livello del santo. C’è il sacro di Vico, col suo percepire il valore dopo la<br />

catastrofe. E c’è il sacro annunciato dall’altro. Si pensi a Buber, a<br />

Guardini, a Levinas.<br />

Ma oggi, forse, un altro sacro ci attende, simmetrico a quello<br />

individuato da Guitton. E’ quanto ci viene restituito dalla complessità<br />

come esperienza teorica del limite, del confine. Si guardino, in proposito,<br />

solo per qualche esempio: la questione astronomica; la questione<br />

astroquantistica; la questione di un mondo che non si lascia né prendere né<br />

comprendere come arcipelago di frammenti; la questione ambientale; la<br />

questione genetica; la questione ecosistemica.<br />

Crescendo la comune impotenza cresce il comune legame – la comune<br />

soggezione. C’è, qui, un lampo del sacro? Quali, gli esiti sul piano del<br />

villaggio globale?<br />

Dicevamo che all’ingrandirsi della potenza del sistema<br />

corrisponde l’ingrandirsi della sua imprevedibilità e della sua<br />

35 Dio e la scienza, cit., p. 52 ss.<br />

36 Dio e la scienza, cit., p. 65.<br />

37


vulnerabilità. C’è una diretta proporzionalità fra potenza del sistema e<br />

vulnerabilità del sistema. Necessita in queste condizioni, che mutano<br />

l’intero quadro di riferimento, arrivare a un’idea transpolitica della<br />

sovranità. Attenzione. Non antipolitica, ma transpolitica. Perché la<br />

tecnoscienza è diventata uno strumento sussunto dallo Stato e dagli<br />

Apparati di dominio, anche se va oltre la loro estensione.<br />

In un tale contesto, il terrorismo può essere la guerra condotta con<br />

altri mezzi, così come la guerra può essere il terrorismo condotto con altri<br />

mezzi. In una situazione in cui la miniaturizzazione del mondo può<br />

produrre la miniaturizzazione del colpo e del colpitore. Siamo arrivati nel<br />

tempo della sofisticatissima fragilità. Dove, alla scala del singolo, la tyche<br />

diventa destino. Dove la profondità del colpo appare il nostro più<br />

proprio destino. Che costringe alla presa di coscienza più dura: la<br />

consapevolezza di sé. Perché, come diceva Capograssi, è nell’essere<br />

colpiti che noi scopriamo di essere paradossalmente noi stessi – i<br />

singoli che siamo 37 .<br />

Tutti noi, abitanti del pianeta, non siamo mai stati tanto vicini.<br />

L’altro mi è diventato vicinissimo – più vicino di quanto io possa pensare.<br />

Sia come partner che come nemico, sia come malato che come mostro.<br />

37 G. CAPOGRASSI, Introduzione alla vita etica, in Opere, vol. III, p. 90 ss. e p. 161 ss.<br />

38


E non come genere. Come singolarità. In una situazione paradossale in<br />

cui scopro che questa vicinanza insopportabile e pericolosa è il mio<br />

nuovo destino.<br />

I luoghi dell’indifferenza ci abbandonano. Ci restano i luoghi di<br />

una libertà debole. Là dove, nel tempo delle vicinanze ridottissime e della<br />

vulnerabilità quasi assoluta, diventa sempre meno vera l’affermazione che<br />

c’è un sovrano e sempre più vera quella che ci sono molti sovrani – al<br />

limite paradossale, tutti sovrani. Anche stavolta Dio è nel frammento, ma<br />

in un senso radicalmente nuovo. E’ un frammento che, in qualsiasi<br />

momento, può devastare ogni cosa. Questo frammento esplode. E, come<br />

l’Aleph di Borges, può far rivedere a un tratto ogni cosa.<br />

Il rapinatore che mi rapina è sovrano su di me in quello<br />

spaziotempo preciso in cui ha il perfetto controllo su me. Ma questa<br />

condizione è limitata e, mediamente, reversibile. La condizione verso cui<br />

oggi procediamo è diversa. Indefinite sono le fette di spaziotempo in cui si<br />

può dividere lo spaziotempo del pianeta, e queste fette sono sempre più<br />

numerose, sempre meno limitate, e, soprattutto, sempre più destinate a<br />

diventare irreversibili.<br />

39


Il terrorista che l’11 settembre, con un semplice biglietto<br />

d’aereo, abbatte le torri gemelle di New York è l’altro volto della<br />

vulnerabilità assoluta del mondo. Quel terrorista è un volto del sacro.<br />

Esso mostra la fragilità assoluta del nostro mondo trasformando la figura<br />

in sfondo e in sfondo la figura. Trasformando – nell’immaginario<br />

collettivo – la fragilità del sistema nella potenza di chi lo fora.<br />

Il sacro mostra, così, la sua tragica ambivalenza. Genera una<br />

situazione che, rovesciata come un guanto, ci rovescia come un guanto.<br />

Facendo spuntare dalla nostra inermità di assoggettati il filo rosso del<br />

nostro legame. L’essere nostro globale e personale si rivela un sistema<br />

venoso visibile come il corpo alchemico del duca di Sansevero.<br />

Ma non è l’unico volto del sacro, questo. C’è altro. E’ il volto<br />

dell’altro. E’ l’altra faccia della nostra fragilità. E’ quella faccia che, pur<br />

non suscitando il nostro terrore, mette in questione – in radicale questione<br />

– la nostra friabile identità nel legame. E’ la viscerale emozione per chi ha<br />

fame, o è sgozzato, o è torturato. E’ la vertigine dell’altro. C’è, infatti, una<br />

solidarietà che può dare vertigine – come quando l’altro si sporge nel<br />

vuoto e io vivo il suo rischio come mio. E’ una solidarietà che deborda da<br />

ogni lato la scelta etica. Fra me e lui vibra, in quel momento,<br />

40


un’invisibile stringa: il legame 38 . Di cui non sono attore ma,<br />

paradossalmente, puro destinatario. Ma nemmeno questo volto del sacro è<br />

tutto. C’è anche il sacro di Levinas: che è oltre l’essere, perché, così come<br />

in Platone, oltre l’essere è il Bene 39 .<br />

E’ in questo contesto che noi possiamo scoprire – oggi – quanto<br />

siano state profetiche le parole di Elias Canetti, nel suo parlare di una<br />

nostra figura epocale: il sopravvissuto:<br />


nostri progenitori. Le ricette dei potenti sono chiaramente manifeste: non è<br />

difficile servirsene. Tutte le scoperte tornano loro utili, come se fossero<br />

state fatte solo per loro…. Egli dà inizio a una guerra e manda i suoi là<br />

dove devono uccidere. Molti di loro, d’altronde, potranno morire<br />

anch’essi. Non gli rincrescerà. Comunque si atteggi esternamente , c’è in<br />

lui un profondo e segreto bisogno che anche le fila della sua stessa gente si<br />

diradino … La sua angoscia del comando assume allora dimensioni che<br />

portano alla catastrofe. Ma prima che la catastrofe abbia raggiunto lui, il<br />

suo corpo – che per lui rappresenta il mondo –, prima di ciò, egli avrà<br />

portato alla rovina innumerevoli altri... La morte quale minaccia è la<br />

moneta del potere. Qui è facile mettere una moneta sull’altra e accumulare<br />

enormi capitali. Chi vuole riuscire ad aggredire il potere deve guardare<br />

negli occhi senza timore il comando e trovare i mezzi per sottrargli la<br />

spina>> 40 .<br />

Il sistema della potenza, che credeva di aver ereditato il sacro, lo<br />

vede rinascere oggi ai suoi bordi, come clamorosa annunciazione dei limiti<br />

svelati. L’imprevedibilità della tecnoscienza si mostra, in tale contesto, la<br />

40 E. CANETTI, Masse e potere, pp. 569-571.<br />

42


percezione del sacro raggiunta con altri mezzi. La vulnerabilità del sistema<br />

sovrappotente è, in questo luogo, un luogo del sacro.<br />

Ricordo Erhardt Denninger in un dibattito con chi vi parla. Correva,<br />

in quella occasione, il richiamo a un nome che è molto circolato, in questi<br />

ultimi tempi, in Occidente circa il nostro rapporto con l’Islam: il problema<br />

dei ‘dormienti’. I dormienti sono coloro che, apparentemente integrati e in<br />

sonno nella società occidentale, improvvisamente ‘si svegliano’ e possono<br />

compiere terrificanti atti armati.<br />

Forse il concetto di ‘dormiente’ può essere, nella società<br />

tecnoscientifica d’oggi, generalizzato. Ognuno può essere ‘dormiente’ in<br />

qualcosa. E ogni ‘dormiente’, appena svegliato, può mettere in crisi il<br />

sistema. Ed è imprevedibile chi sia dormiente e se e quando si sveglierà.<br />

E’ la tyche che è dormiente. E’ il sacro che è dormiente. E’ la<br />

fragilità del tutto che è dormiente. Ma questo ‘dormire’ ha dei costi. Noi<br />

siamo, oggi, perennemente interrogati su quei costi. Può uno Stato<br />

costituzionale assicurare sicurezza assoluta rispetto al ‘dormiente’? O<br />

quali costi costituzionali dovrebbe pagare per assicurarla? L’impressione,<br />

qui appena accennata, è che un tale pericolo non sia esorcizzabile in<br />

assoluto e che, perciò, l’agitazione politica del pericolo assoluto possa<br />

43


essere l’argomento perenne per far regredire, ad arbitrio, in qualsiasi<br />

momento, uno Stato costituzionale. Il ‘dormiente’ è il limite del sistema.<br />

Che può non esorcizzarlo, ma solo scenicamente arginarlo, o gestirlo.<br />

Anche a fini inconfessati. Tutti assoggettati alla catastrofe, quindi – e tutti<br />

legati. Donde il rapporto fra la colpa e il legame. Fra il desiderio e la<br />

paura. Fino ad arrivare ad emozioni che riguardano emozioni 41 . Fino a<br />

scoprire che la colpa non implica necessariamente la libertà, ma implica<br />

necessariamente il legame. Ce lo riferisce bene il lessico tedesco,<br />

chiamando allo stesso modo questa condizione di legame e di colpa: la<br />

Schuld.<br />

Dicevamo che ogni civiltà è chiamata, forse, ogni volta, a una nuova<br />

rielaborazione del sacro. Il che significa che ogni civiltà è chiamata a una<br />

sempre nuova rielaborazione del proprio mondo emozionale. A partire<br />

dall’unità geopolitica significativa nel suo tempo. Unità oggi<br />

completamente rivoluzionata. Enormemente più dilatata, perché<br />

enormemente più contratta. Non si farà una civiltà planetaria a partire<br />

dalla nuova situazione – delle vicinanze ridottissime, delle potenze<br />

devastanti e delle imprevedibilità quasi assolute – senza un lavoro<br />

41 S. VECA, Dell’incertezza, cit., pp. 303-304 (citando J. Elster).<br />

44


specifico che investa l’emozionale di coloro che sono diventati, oggi,<br />

indipendentemente dalla loro volontà, vicini in assoluto.<br />

Il pianeta si è trasformato nella cosa più fragile. Il sacro si annuncia<br />

– qui – come ciò che è condiviso nello stato d’eccezione.<br />

Si proclama, oggi, per la salvezza di tutti, la necessità della<br />

negoziazione. Ed è fin troppo facile sottolineare che, per negoziare,<br />

occorre l’insieme delle condizioni che sono sottratte alla negoziazione. Ma<br />

è irrealistico credere che si possano negoziare le condizioni che debbono<br />

essere sottratte alla negoziazione. Perché è irrealistico credere che la<br />

negoziazione, da sola, possa avere questa forza. Quella di fondarle.<br />

Il sacro, oggi, è il ‘luogo’ emozionale in cui vivono insieme il terrore<br />

e lo sgomento – anche lo sgomento da meraviglia; anche il terrore e la<br />

pietà. E non la pietà virtuosa, ma quella viscerale, necessitata dalla<br />

vicinanza. E che impone, a salvaguardia propria ed altrui, un’esigente<br />

soglia di attenzione. Ed è a questa altezza che si guadagna un possibile<br />

accesso al sentimento della ‘dignità’. Nella quale distingueremmo più<br />

livelli:<br />

1. Il livello della vicinanza ‘viscerale’ – quello del minimo non<br />

ulteriormente erodibile. E’ l’esigenza severa verso il massimo male. 2. Il<br />

45


livello della dignità ‘povera’. Quella ‘inferius non recognoscens’. Quella<br />

che, usando la terminologia proposta da Veca, chiameremmo la dignità del<br />

‘paziente morale’. E’ l’esigenza del minimo bene. 3. Il livello della dignità<br />

‘ricca’. Quella che, usando a modo nostro la terminologia di Veca,<br />

chiameremmo la dignità dell’‘agente morale’. E’ l’esigenza del massimo<br />

bene praticabile in condizioni di condivisione.<br />

Dignità minima, dignità povera, dignità ricca. Dignità minima e<br />

dignità massima. Questa ‘dignità’ è un luogo del sacro 42 .<br />

Siamo, quindi, ricondotti alla questione religiosa. Alla questione<br />

religiosa in quanto possiede al suo cuore la questione dell’uomo.<br />

Siamo oggi, davanti a mille forme di nichilismo del potere. Davanti al<br />

quale potremmo anche dire, nel trionfo delle matematiche, che siamo<br />

come davanti a un platonismo dimezzato.<br />

9. Volti del limite. Limiti del sacro.<br />

Tutta l’opera di Dostoevskij è un commentario al problema del sacro.<br />

Vediamo. Nel legame violato c’è il sacro (Dostoevskij, Delitto e<br />

castigo). Nella sofferenza dei bambini c’è il sacro (Dostoevskij, I fratelli<br />

42 Per alcune riflessioni sulla ‘dignità’ in un contesto costituzionale, si veda A. RUGGERI, A. SPADARO, Dignità<br />

dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in “Politica del diritto”, a. XXII, n. 3, settembre 1991.<br />

46


Karamazov 43 ). Anzi, è appunto la sofferenza dei bambini l’argomento per<br />

l’interrogazione più potente e diretta al cuore di Dio. Nel dolore condiviso<br />

c’è il sacro. Il sacro non è soltanto ciò che costituisce un terrore comune,<br />

ma anche ciò che individua un dolore comune (cfr. in Alessandro Manzoni<br />

la celebre scena della madre che scende dalla soglia durante la peste). Lo<br />

starec Zosima, nel libro secondo de I fratelli Karamazov, si avvicina a<br />

Dmitrij e – scrive Dostoevskij – (p. 99). Zosima il santo si prostra davanti al<br />

peccatore Dmitrij. L’assoluta straordinarietà della cosa lascia Dmitij<br />

(p. 99). Zosima sa – solo lui sa – che Dmitrij sarà destinato<br />

al dolore (p. 379). Egli infatti confesserà ad Alioscia: “Ieri mi sono<br />

inchinato alla sua grande sofferenza avvenire” (p. 379, e cfr. p. 103). E<br />

quel prostrarsi in ginocchio dice al massimo grado la radicalità del<br />

rispetto dovuto al dolore. La grandezza letteraria di Dostoevskij esprime il<br />

sacro col sacro. Il sacro è il dolore condiviso.<br />

E’ un tema su cui Dostoevskij ritorna. Anche Iliuscia muore nel<br />

dolore. E Iliuscia è un bambino innocente. Per un paradosso, forse<br />

inconscio, del genio dostoevskiano, tutti i fratelli Karamazov sono modi<br />

personali diversi di girare intorno al problema del sacro.<br />

43 Vedi, ad esempio, la requisitoria di Ivan contro Dio; la morte di Iliuscia.<br />

47


C’è un paradosso, infatti, nel sacro – che investe anche chi lo irride.<br />

Per un folgorante paradosso dell’intuizione dostoevskiana, è l’ateo Ivan<br />

a ricordare al Dio in cui non crede i diritti del sacro. La sofferenza dei<br />

bambini è una domanda sacra. L’ateo Ivan ricorda – contro lo stesso Dio<br />

in cui non crede – i diritti del sacro. Il sacro, infatti, è limite allo stesso<br />

Dio, se Dio è degno del sacro. Rosmini direbbe: nemmeno Dio può<br />

strumentalizzare l’uomo 44 . In questa luce, l’ateo Ivan, il luciferino Ivan è<br />

un credente.<br />

Oggi la tecnoscienza mette in discussione non solo il pianeta, ma i<br />

singoli e la specie. Ad essa risponde l’uomo che io sento di essere –<br />

custode del sacro. L’uomo che sento di essere, infatti, percepisce di essere<br />

chiamato a custodire tre mondi: il mondo di me singolo, il mondo<br />

dell’altro in me, il mondo della specie. Per il credente, in ognuno dei tre<br />

mondi è fissato lo sguardo di Dio. Per il non credente, lo sguardo<br />

dell’uomo che dell’uomo ha cura.<br />

Consumata la secolarizzazione, oggi, sono riemersi tanti nomi del<br />

sacro. Vediamoli.<br />

Il recente libro di Antonio Negri e di Michael Hardt sull’Impero<br />

credo che sia, più che un testo di analisi, il segno dei tempi di questa nuova<br />

44 A. ROSMINI, Filosofia del diritto, vol. 2, Bertolotti, Intra 1865, nn. 542-545, p. 132.<br />

48


paradossale percezione del sacro. Non a caso, il libro è scopertamente<br />

costruito intorno a concetti e metafore teologiche: le due città, la nova<br />

aetas, la fede, la gioia, San Francesco. Non a caso, la metafora del<br />

contagio 45 .<br />

Ma individuerei – a questo punto – innanzitutto due modi e livelli<br />

diversi d’intendere il sacro.<br />

1. Il sacro come l’emersione di sempre nuove figure, sempre nuovi<br />

crepacci che spalancano all’uomo – improvvisa – la percezione della sua<br />

inermità. Perché, in questa luce, il sacro è l’insieme dei bordi catastrofici<br />

del vivere – quelli in cui si disegna e si rivela il filo rosso della nostra<br />

inermità.<br />

2. Il sacro come la negazione, come la paradossale relativizzazione di<br />

ogni sacro. In una logica non di concorrenza, ma di ulteriorità. Il<br />

sacro come la potenza di relativizzare ogni altro sacro.<br />

Domandiamoci. Il sacro ci nega? Ma questo sacro, negandoci, ci<br />

fonda. Oggi è la stessa libertà della potenza a far emergere la potenza<br />

della libertà. Siamo nel tempo in cui è minacciato il singolo, è<br />

45 M. HARDT, A. NEGRI, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002.<br />

49


minacciata la specie, è minacciata la vita in quanto tale. Tutto – Zoè,<br />

Bìos, persona – è minacciato alla sua scala.<br />

Dove, qui, il sacro? Sono gli assi di un’esperienza personalista<br />

che possono mostrare, alle frontiere dei nuovi millenni, i nomi nuovi<br />

del sacro.<br />

10. Per una logica del sacro.<br />

Ma vediamola al rallentatore, adesso, come in un esperimento<br />

mentale, questa logica del sacro. C’è una logica della negazione nella sua<br />

intrinseca struttura. Prescindendo da fedi confessionali, la diremmo in due<br />

passi.<br />

Primo passo. Il sacro non può essere negato. Come non può essere<br />

negato l’ ‘essere ideale’ rosminiano. Perché, negato, riemerge.<br />

Secondo passo. Ma il sacro ci nega. Eppure, negandoci, ci fonda.<br />

Perché ci libera da ogni idolatria. Aprendoci a quella libertà che,<br />

incontrando il limite e negata dal limite incontrato, può permanere<br />

realmente come libertà.<br />

50


Guardiamo ora il sacro da un altro punto di vista. C’è, nella sua<br />

intrinseca struttura, una logica dell’appartenenza e della disappartenenza.<br />

Diremo anche questa in due passi.<br />

Primo passo. Proprio perché ‘è’ nel nostro essere storico, il sacro è<br />

quel limite che costituisce la condizione di possibilità di tutto ciò che<br />

questo nostro essere è – di tutto ciò che possiamo.<br />

Secondo passo. Proprio perché ‘non è’ il nostro essere storico, il<br />

sacro costituisce la condizione di relatività di tutto ciò che il nostro essere<br />

è – di tutto ciò che possiamo.<br />

In questo senso, il sacro è e non è il nostro essere storico. Esso è<br />

veramente sacro se non invade il profano. Perché anche la libertà del<br />

profano ha il suo sacro: è il suo sacro. E’la sua dignità. In questo senso, il<br />

sacro è limite alla libertà, ma anche la libertà è limite al sacro. Perché la<br />

libertà stessa è sacra – è forma del sacro. Forma plurale del sacro. E, come<br />

Rosmini coraggiosamente precisa, nemmeno Dio ha il diritto di<br />

strumentalizzare un uomo 46 . Potrebbe addirittura dirsi, con apparente<br />

paradosso, che la desacralizzazione in nome dell’uomo 47 è un sostanziale<br />

46 A. ROSMINI, Filosofia del Diritto, Bertolotti, Intra 1865, vol. 2, nn. 542-545, pp.162-163.<br />

47 Rosmini scrive esplicitamente sulla sacralità dei diritti dell’individuo: Filosofia del Diritto, CEDAM, Padova, 1967,<br />

p. 183.<br />

51


iarticolarsi del mondo all’interno del sacro. Ciò mentre il sacro, aprendo a<br />

tutte le libertà, tutte le relativizza.<br />

Ancora una volta, l’esperienza del sacro conduce al filo di una soglia.<br />

Al limite fra confinanti libertà – fra confinanti Dignità.<br />

L’esperienza del sacro è esperienza di contraddizione. Perché c’è nel<br />

suo senso più vero non solo il manifesto ma l’apofatico. E’ per questo che<br />

i mistici custodiscono la relazione molto più dei dogmatici. Essi possono<br />

essere guida reale agli assi dell’universo personalista. Assi che, a nostro<br />

avviso, possono essere detti da tre luoghi narrativi. Tre luoghi narrativi,<br />

per dire tre logoi della persona.<br />

11. Gli assi del sacro.<br />

Ci domandiamo a questo punto. C’è un sacro cui l’immagine<br />

dell’uomo può condurre? Diremmo di sì, se la vediamo – questa immagine<br />

– ruotare intorno a tre luoghi e a tre assi.<br />

11a. Il primo luogo. L’unicità.<br />

Si veda il Giobbe della Scrittura. Enorme è il problema. Giobbe si<br />

sente giusto e innocente, eppure si vede dalla sventura ripetutamente<br />

52


colpito. La tragedia greca non ha un Dio a cui porre la domanda. Il testo<br />

ebraico sì.<br />

Il libro di Giobbe è il confronto di Giobbe coi suoi . I consolatori molesti sono quelli che ti sono vicini, ma non<br />

guardano te. Nel senso preciso che non guardano te in carne ed ossa. Essi,<br />

cioè, non guardano quest’uomo singolo e concreto che sei, perché ti<br />

guardano all’interno del quadro ideologico di cui sono portatori. Essi, per<br />

così dire, ti frantumano e ti ricostruiscono nel reticolato delle loro<br />

categorie: ti strumentalizzano all’interno del loro concetto di 48 .<br />

Il Libro di Giobbe, infatti, chiarisce in modo magistrale che il<br />

dolore non è il concetto di dolore, che la morte non è il concetto della<br />

morte.<br />

Giobbe appare, a vederlo controluce, l’itinerario ultimo e<br />

ultimativo di una rastremazione, di una spoliazione, di una scarnificazione<br />

che punta alla radice. L’ che ognuno di noi è, viene<br />

sottoposto a una scarnificazione radicale. Giobbe è, come ogni uomo del<br />

resto, uno che ha. Egli ha ricchezze, ha moglie, ha figli, ha una posizione<br />

48 C’è un significativo testo di Kant su Giobbe: vedi E. KANT, Sull’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea,<br />

in Questioni di confine, a cura di F. Desideri, Marietti, Genova 1990, pp.23 ss.<br />

53


sociale. Attraverso Satana, col permesso di Dio, egli viene prima colpito<br />

nei beni, poi nei figli, poi nella posizione sociale, infine nel corpo.<br />

Attraverso una lenta e implacabile azione spoliante, egli viene<br />

progressivamente ridotto a pura voce. Egli si sente un niente.<br />

Nella situazione del pensare cartesiano c’è un non saper nulla, un<br />

dubitare di tutto, che mantiene una sola certezza: il pensare. Nella<br />

situazione di Giobbe, c’è un niente che ha conservato una sola ricchezza: il<br />

domandare. Egli, che è un saggio e un perseguitato, domanda a Dio con<br />

acerrima insistenza: Perché?<br />

Giobbe è ridotto a un niente, a un purissimo niente. Ma è un niente<br />

che domanda. L’unica sua certezza non è il pensare, ma il domandare.<br />

Giobbe viene colpito nei beni, nella posizione sociale, nel nome. Non<br />

viene colpito in ciò che ‘è’, ma in ciò che ‘ha’. E’ specificamente per<br />

questo che Dio consente a Satana ogni esperimento su Giobbe. E’, infatti,<br />

sperimentandolo nell’avere che egli può lasciarlo rivelare nell’essere. Chi<br />

è Giobbe? E’ forse colui che ha figli, moglie, pecore, una posizione<br />

sociale, un carattere, un nome? Egli è forse l’intersezione di tutti questi<br />

dati connessi? No. Giobbe è colui che nonostante tutto’ residua’ dopo<br />

questa spoliazione progressiva. Egli è questa singolarità concreta che,<br />

54


essendomi davanti, qui ed ora annichilita m’interroga. E’ un niente. Ma<br />

un niente con questa sua unica forza residua: egli interroga. La spoliazione<br />

progressiva lo ha privato finanche del nome, ma non del suo domandare. Il<br />

suo essere è il domandare.<br />

Non ‘cogito ergo sum’ (penso dunque sono), dunque, ma ‘patior ergo<br />

sum’ (soffro dunque sono). In quanto soffro, mi accorgo che sono io a<br />

soffrire e non tu 49 . E perciò ora domando. Non ‘cogito ergo sum’, dunque,<br />

ma ‘quaero ergo sum’. Io domando – ed è in questo mio domandare che<br />

songo.<br />

Se io dico, secondo la modalità di Cartesio, che ‘sono in quanto penso’,<br />

posso pur sempre pensare – o altri potrebbero convincermi a pensare – che<br />

ci sia un ‘altro’ a pensare in me, che io sia il puro terminale di un pensiero<br />

che in me vive, che di me vive, che io vivo e di cui non mi accorgo:<br />

l’uomo universale, o lo spirito universale che sia. Ma se invece io dico che<br />

soffro, sono io che soffro e non tu, né tanto meno un che in me<br />

soffra per me. E nessuno mai riuscirà a convincermi del contrario.<br />

E’ il problema dell’uomo concreto: il suo essere lui, solo lui, nessun<br />

altro che lui. Ed è il paradosso del dolore. Il dramma del nostro dover<br />

49 E, si potrebbe aggiungere, in quanto tu soffri con me per la mia sofferenza, io vedo che in qualche misura la prova<br />

privilegiata che tu riesci ad essere anche un po’ me.<br />

55


evitarlo e del suo esserci necessario. Per poter acquistar certezza di noi.<br />

Per poter sapere, attraverso il suo varco, che non si è pure copie, né<br />

semplici momenti di un Idem 50 .<br />

La sofferenza è il luogo della massima distanza, qui. Massima,<br />

perché l’altro, invece di capire questa tua sofferenza che ti fa<br />

irrimediabilmente fragile e solo, ti inserisce in un discorso di carattere<br />

generale in cui di te non c’è più traccia. Sei stato derubato di te. Il<br />

dolore ci fa disuguali. E il pianto è questa preghiera del corpo che sei,<br />

sfuggita al tuo dominio. Quell’esser riconosciuti che è l’essere còlti<br />

nella flagrante singolarità che si è. Giobbe soffre della mancanza di<br />

riconoscimento. Poiché non è riconosciuto, è perduto. Chi mi vede<br />

come genere e non come singolo, mi deruba. Non mi ruba l’avere, ma<br />

l’essere.<br />

Ma questa distanza invalicabile può diventare un varco. E lo diventa<br />

nel momento e nella misura in cui si apre la possibilità – l’area, il luogo<br />

lo specchio – del riconoscimento.<br />

Il varco presuppone due persone che attraverso il suo transito si<br />

riconoscono. Dio non dice cose molto diverse da quelle dette da Eliu,<br />

50 Si potrebbe, in una prospettiva teologica, citare il Cristo evangelico che parla col Padre: Se puoi, allontana da me<br />

questo calice, ma sia fatta la Tua volontà, non la mia.<br />

56


uno dei consolatori di Giobbe, eppure è Dio che compie l’atto radicale:<br />

egli fa di Giobbe il riconoscimento. Il riconoscerlo in quello che egli,<br />

nel suo singolare atto d’essere, già è. La massima distanza può<br />

diventare, a questo punto, la minima distanza. Il dolore rende disuguali.<br />

Ma può rendere, anche se non identici, uguali.<br />

E’ il nesso fondamentale che sta alla radice della solidarietà. Se non<br />

si scopre l’altro come singolo, non c’è possibile solidarietà.<br />

Diceva Pascal che ci sono due infiniti: l’infinitamente grande e<br />

l’infinitamente piccolo. Diremmo noi che la singolarità non è né l’uno<br />

né l’altro. Rispetto al pensiero astraente, è una terza forma d’infinito.<br />

Da questo momento, dal momento in cui si apre il varco fra i due<br />

disuguali cioè, “io divento una buona notizia per l’altro”.<br />

Il testo di Giobbe, a ben vedere, apre un’interrogazione sulla<br />

tecnologia politica, oggi. Che ti scruta con le sue articolazioni invasive.<br />

Con una sola differenza. Che essa non ti toglie togliendoti, ma<br />

invadendoti. Che essa ti toglie saturandoti. Di appartenenze incrociate.<br />

E controllate 51 .<br />

51 Sul punto, S. RODOTA’, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Laterza, Roma-<br />

Bari 1997.<br />

57


Veniamo a una prima riflessione su questo passo. L’unicità apre al<br />

legame.<br />

10b. Il secondo luogo. Il legame.<br />

Si veda Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, aurea favola<br />

moderna i cui strati speculativi sono, a nostro avviso, straordinari e tutti da<br />

disoccultare 52 .<br />

Il piccolo principe, giunto sulla terra, vede delle rose, che<br />

assomigliano tutte al suo fiore. (cap.<br />

XX). E si disse: (ibidem). Il fiore, che egli riteneva<br />

, da quel momento non lo è più. Infatti, egli credeva che<br />

fosse 53 . Egli sapeva,<br />

quindi, che la sua singolarità coincideva col suo genus. Nel momento in<br />

cui le cinquemila rose gli rappresentano all’improvviso che quel suo fiore<br />

è solo uno dei tanti del suo genere, la sua singolarità non c’è più. Quel<br />

fiore è perduto.<br />

52<br />

E’ una nostra antica opinione. Ce ne siamo esplicitamente occupati in G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte<br />

Tipografica, Napoli 1997, pp. 151 ss.<br />

53<br />

A. de SAINT-EXUPERY, Il Piccolo principe, cit., p. 89.<br />

58


Che cosa può rifarlo singolare?<br />

(cap. XXI). Il piccolo<br />

principe le chiede di giocare con lui. ,<br />

disse la volpe, ….<br />

.<br />

. . , disse la volpe. . . (cap. XXI).<br />

La ‘singolarità’ della rosa, che sembrava irrimediabilmente<br />

perduta per il fatto dell’esistenza di altre rose, ora si ricostituisce<br />

attraverso uno speciale rivolgersi: l’ ‘addomesticare’.<br />

, disse<br />

la volpe (ibidem).<br />

59


Lo sguardo dell’altro, nel conoscermi come singolarità, mi<br />

costituisce come tale.<br />

Il testo francese dice l’ ‘addomesticare’ come ‘apprivoiser’.<br />

‘Apprivoiser’ viene dal ‘privatus’ e dal ‘privatim’ latino, che non<br />

allude al privato ma a quel prendersi cura che costituisce, nel<br />

proprio campo visivo, l’unicum della singolarità.<br />

Una seconda conclusione. Nel passo precedente, l’unicità<br />

apre al legame. Qui – all’inverso e a conferma – il legame apre<br />

all’unicità.<br />

10c. Il terzo luogo. La profondità.<br />

Nikolaj Berdjaev intende sperimentare una grande scommessa.<br />

Prendere sul serio le idee. Rosmini si domanda come nella presenza delle<br />

cose c’è l’ ‘essere ideale’. Berdjaev si somanda come nella presenza degli<br />

uomini c’è la ‘libertà’.<br />

Ed ecco la sfida lanciata dalla sua capacità visionaria all’uomo futuro.<br />

Egli sostiene, con forte audacia teorica, tre epoche del<br />

Cristianesimo. Epoche in cui si passa dal tempo di un legame etico in<br />

cui l’uomo vive subordinato a un’idea costrittiva di Dio al tempo in cui<br />

l’uomo perviene all’idea della propria centralità, ma continuando ad<br />

60


‘oggettivarsi’, fino al tempo in cui l’uomo, essere libero, può<br />

improvvisamente scoprire di essere chiamato, in quanto partner di Dio,<br />

a un incremento assoluto della creazione rispetto alle stesse possibilità e<br />

preveggenze di Dio 54 .<br />

L’uomo, chiamato alla Divino-Umanità, potrà realizzare così, nel<br />

Cosmo, un incremento assoluto di Valore, innovativo e ulteriore<br />

rispetto alla stessa azione di Dio.<br />

Che cosa comporta, in una tale prospettiva, la lettura di una tale<br />

libertà creatrice? Possiamo, forse, sentirlo da Berdjaev stesso:<br />

55 .<br />

E’ – dice Berdjaev – come nelle notti bianche. 56 .


notti bianche ricordano … che in una situazione normale la luce è<br />

qualcosa di interiore agli esseri e alle cose del mondo…>> 57 .<br />

Ma un tale discorso sulla libertà apre, a ben vedere, a un altro<br />

varco sull’uomo: quello sulla profondità. Dove ‘profondità’ non è luogo<br />

mistico ma, posto l’uomo concreto, precisa coordinata della sua libertà<br />

rispetto a chi lo guarda. Se è vero che la libertà può realizzarsi in modi e<br />

guise diverse, è altresì vero che mai potremo dire esaurito un uomo<br />

nelle immagini – nell’immagine – in cui egli abbia espresso la sua<br />

azione. Se vediamo un uomo decidersi per una forma di vita e<br />

realizzarla come sua, la sua storia non sarà mai l’immagine di lui tutto<br />

intero. Che l’uomo non abbia immagine significa – anche – che mai<br />

nessuna sua storia sarà la sua immagine esaustiva. Un uomo è sempre<br />

più di ciò che appare 58 . Un uomo è sempre più della storia che –<br />

foss’anche alla fine della vita – ne reca l’immagine rappresentativa. C’è<br />

un essere possibile dell’uomo che è oltre tutte le immagini che la sua<br />

storia fa sedimentare di lui presentandole come conclusive. E’ il suo<br />

essere profondo. Il suo essere giacimento di libertà, disposizioni e<br />

57 N. BERDJAEV, op.cit., p.109. Le sottolineature sono nostre.<br />

58 Vedi G. CAPOGRASSI, L’attualità di Vico, in Opere, vol. IV, p. 400 e passim. In questo senso, il ‘Nessuno’<br />

pronunciato da Ulisse per dire il suo nome può rivelarsi gravido di una sapienza inconscia, tutta da disoccultare. Sul<br />

punto, ci sia consentito richiamarci a G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli 1997, pp.167 ss.<br />

Per una discussione vedi anche F. BELLINO, Persona e ragionevolezza, Levante Editori, Bari 1997.<br />

62


talenti che mai poterono tutte esplicarsi – e mai ebbero tutte i contesti in<br />

cui esprimersi e di cui lo stesso singolo uomo non sa. Il suo essere<br />

giacimento di libertà condizionate che mai poterono tutte venire alla<br />

luce. E’ il groviglio labirintico d’intrecci fra contesti, talenti,<br />

disposizioni, percorsi possibili e libertà. E fra queste ultime e le loro<br />

sedimentazioni condizionanti, nella misura in cui queste propiziino e/o<br />

ostacolino quelle – strutturandole 59 . E’ l’essere nascosto d’un uomo, per<br />

molti versi, a sé stesso. E’ ciò che dice il suo pudore 60 . Se la pianta è il<br />

suo sviluppo, la singola persona non è il suo sviluppo – non è la sua<br />

storia. Perché è più della sua storia. Lo storicismo non è personalista 61 .<br />

Anzi, potrebbe dirsi in proposito che le stesse espressioni storiche di un<br />

uomo, che pur ne dicono conoscitivamente qualcosa, si collocano su un<br />

fondo insondato sul quale la loro figura appare trasfigurata nella<br />

capacità simbolica e nel valore. In questo senso, potrebbe dirsi che<br />

guardare un uomo a partire dalla sua storia è una falsificazione sottile<br />

del suo essere, scientificamente conseguita a partire dal ‘dopo’ e dai<br />

fraintendimenti inafferrabili che questa prospettiva, anche<br />

59 Per una disamina della questione antropologica con riferimento al tempo, richiamiamo qui G. BINOTTI, Il tempo:<br />

una struttura concettuale, in Tempo della legge e tempo della storia, a cura di G.M.Chiodi, Guida, Napoli 1999, pp. 45-<br />

108.<br />

60 G. CAPOGRASSI, L’attualità di Vico, cit.<br />

61 Sul punto richiamiamo G. LIMONE, Il sacro come la contraddizione rubata. Prolegómeni a un pensiero metapolitico<br />

dei Diritti fondamentali, Jovene, Napoli 2000, pp. 10 ss. Vedi anche ID., Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica,<br />

Napoli 1997, pp. 154 ss. e pp. 156 ss.<br />

63


subliminalmente, produce. Alcuni personalisti distinguerebbero, in<br />

proposito, fra ‘personalità’ e ‘persona’ 62 . E lo stesso Rosmini, come è<br />

noto, distinguerà fra ‘libertà come elezione’ e ‘libertà dell’intelligenza’.<br />

‘Homo sum absconditus. Noli me tangere’ 63 . Questa ‘profondità’ è da<br />

pensare. Perché è, a ben guardare, null’altro che l’altro volto della<br />

libertà. A condizione che questa ‘libertà’ sia presa sul serio. Dal punto<br />

di vista di chi ne cerchi – invano – ex post l’ ‘oggettivazione’ che la<br />

raddoppi.<br />

Unicità, Legame, Profondità sono i tre luoghi dell’uomo.<br />

Vediamoli uno alla volta.<br />

1. C’è, a ben guardare, un paradosso dell’‘unicità’. E’ il suo essere un<br />

paradossale infinito – anzi un paradossale controinfinito 64 . Quasi non<br />

basta, infatti, un intero infinito per esaurirne la forza comprensiva. Ed<br />

occorre, invece, un intero infinito per passare nella porta stretta della<br />

singolarità che gli sfugge.<br />

Per capirla, questa singolarità unica, si pensi al numero primo. Alla<br />

sua non riducibilità ai costituenti logici di un altro ente – quale che sia –,<br />

così come un numero primo non si riduce ai costituenti matematici di un<br />

62 G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, cit., p. 169 ss.<br />

63 E. MOUNIER, Trattato del carattere, Edizioni Paoline, Roma 1982, p. 610, p. 104 ss. e passim.<br />

64 Sul punto ci permettiamo richiamarci a G. LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli 1997, spc. p.<br />

145 e passim.<br />

64


altro numero – quale che sia. Quei costituenti che, moltiplicandosi fra loro,<br />

lo riproducano come tale. In questo senso, il ‘singolare’ potrebbe vedersi –<br />

a fronte del ‘continuo’ – lungo la potenza dei transfiniti di Cantor.<br />

2. Ci sono facili equivoci sulla ‘profondità’. Dove ‘profondità’ non è<br />

un ipotetico luogo mistico di riferimento enfatico ma libertà – libertà<br />

presa sul serio. Cioè, opzione teorica consistente nell’accettare come<br />

eticamente fondato il rifiuto di esaurirsi e di essere esauriti in immagini.<br />

Perché la libertà non è solo un sottrarsi ex ante – in sede di tendenziale<br />

previsione deterministica – ma anche un sottrarsi ex post – in sede di<br />

oggettivazione conoscitiva.<br />

3. Né si trascurino i possibili equivoci sul ‘legame’. Dove il ‘legame’ è<br />

la scoperta del valore costituente della relazione.<br />

E si guardi a quello che accade nelle violazioni di queste coordinate<br />

cruciali. 1. Dalla violazione dell’unicità nascono la fungibilità,<br />

l’indifferenza, la serialità. 2. Dalla violazione del legame, la colpa. La<br />

Schuld. Perché la colpa è la continuazione del legame. La continuazione<br />

del legame con altri modi. 3. Dalla violazione della profondità, ogni<br />

preteso giudizio di definitività, ogni prospettiva di ‘grande fratello’, ogni<br />

invasione del pudore – della privacy, della riservatezza, dell’area di<br />

65


ispetto; e, di qui, anche ogni controllo totale, ogni condanna a morte, ogni<br />

categorizzazione assorbente, ogni totalizzazione.<br />

E si pensi, ancora, per la violazione di ‘unicità’ e ‘profondità’, alle<br />

possibili intersezioni di dati informatici in quanto pretendano di esaurire<br />

conoscitivamente un intero individuo 65 - indi totalizzarlo.<br />

Riassumeremmo, quindi, le precedenti coordinate richiamando: il<br />

diritto a non essere considerati fungibili; il diritto alla relazionalità – alla<br />

relazionalità che non ‘abbiamo’ ma ‘siamo’; il diritto a non essere<br />

cristallizzati in giudizi definitivi – e/o a non essere esistenzialmente<br />

perquisiti per consentire il formularsi di giudizi definitivi.<br />

Vorremmo, qui, sottolineare uno straordinario pensiero di Salvatore<br />

Satta sulla profondità dell’esistenza – pensiero tutto da meditare nelle sue<br />

pieghe, posto a suggello della sua splendida opera postuma, Il giorno del<br />

giudizio: “… Sono stato una volta piccolo anch’io, e il ricordo mi assale di<br />

quando seguivo il turbinare dei fiocchi [di neve] col naso schiacciato<br />

contro la finestra. C’erano tutti allora, nella stanza ravvivata dal caminetto,<br />

ed eravamo felici poiché non ci conoscevamo. Per conoscersi bisogna<br />

svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella<br />

65 Sul punto si veda anche S. RODOTA’, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione,<br />

Laterza, Roma-Bari 1997.<br />

66


fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti<br />

racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale” 66 . Nemmeno una<br />

vita intera basta a conoscersi. Occorre – alla fine, ancora! – essere<br />

resuscitati. Reinseriti ancora nel flusso della vita. Per essere ancora una<br />

volta vissuti, cercati, raccolti, raccontati.<br />

Continuerà ad esistere l’uomo, se non c’è più il sacro? Il sacro è una<br />

fede? Ma non è anche l’uomo (il risultato di) una fede?<br />

Il nome nuovo del sacro è la dignità.<br />

Dignità, come dicevamo, guardata a tre livelli. 1. Quello della<br />

vicinanza ‘viscerale’, del minimo non (ulteriormente) riducibile, del<br />

minimo non ulteriormente erodibile. L’esigenza severa verso il massimo<br />

male. 2. Quello della dignità ‘povera’: l’esigenza del minimo bene. 3.<br />

Quello della dignità ‘ricca’: l’esigenza del massimo bene praticabile in<br />

condizioni di condivisione. Quell’esigenza che, usando la terminologia di<br />

Rosmini, chiameremmo la dignità intrinsecata nella libertà come elezione<br />

e nella ‘libertà dell’intelligenza’.<br />

Dignità minima, dignità povera, dignità ricca, quindi, per un racconto<br />

sul sacro.<br />

66 Salvatore SATTA, Il giorno del giudizio, Adelphi, Milano 1990, pp. 291-292.<br />

67


Lo stesso Rosmini parla della sacralità di questi Diritti 67 . E la stessa<br />

distinzione fra ‘Bene pubblico’ e ‘Bene comune’ ne è un momento<br />

specifico di collaudo teorico 68 .<br />

Ma quanti racconti del sacro, oggi? Quanti racconti religiosi del<br />

sacro? E quanto condivisi?<br />

Bisogna, forse, in qualche modo, saper andare oltre la rosminiana<br />

alternativa fra libertà di coscienza rettamente intesa e lo scetticismo<br />

religioso 69 . E occorrerà, in questa luce, domandarsi in che modo realizzare<br />

una relazione tra fedi a livello planetario senza creare fusioni narrative<br />

abnormi, nuovi ippogrifi religiosi del sacro.<br />

Il teologo Andrea Milano ha distinto tre possibili forme di relazioni tra<br />

fedi religiose: ‘esclusività’; ‘inclusività’; ‘pluralità’ 70 – tutte da<br />

trasvalutare. Perché, in realtà, in un rapporto ben impostato fra religioni<br />

non si tratta tanto di convertire qualcuno dall’una all’altra fede, come si<br />

dice, ma di vedere quanta capacità di universale ha il messaggio<br />

sacri”.<br />

67 A. ROSMINI, Filosofia del diritto, I, CEDAM, Padova 1967, p. 183: “…I diritti d’un solo uomo sono pur<br />

68 A. ROSMINI, Filosofia del Diritto, Bertolotti, Intra 1865, vol. 2, nn. 1647-1649, pp. 547-548.<br />

69 A. ROSMINI, Filosofia del Diritto, CEDAM, Padova, vol. I, nn. 189 ss., p. 225 ss.<br />

70 A. M<strong>IL</strong>ANO, Quale verità? Per una critica della ragione teologica, Edizioni Dehoniane, Bologna 1999, pp. 377 ss.<br />

68


eligioso di cui è portatrice una fede. E’, questo, un collaudo cruciale, che<br />

diventa anche, in qualche misura, prova di verità.<br />

Si tratta di vedere quale capacità di universale ha ognuno di questi<br />

racconti sacri. E’ qui, a ben vedere, il vero luogo della ‘conversione’.<br />

Quello della sua forza – della sua universale ‘convertibilità’.<br />

Si pensi – lungo questo ragionamento – all’uomo secondo il racconto<br />

biblico e cristiano. Il suo essere a immagine di un Dio che non ha<br />

immagini. Homo sum absconditus. Noli me tangere (E. Mounier, Trattato<br />

del carattere 71 ). Diremmo in proposito che, forse, ha più capacità di<br />

universale quel sacro che, non dandosi mai in immagini esaustive, tutte<br />

le nega. E, negandole, le salva.<br />

Non va dimenticato che l’esserci di ‘un solo Dio’ – in una cultura<br />

monoteista – può avere declinazioni ed esiti opposti: istituire il privilegio e<br />

la gelosia di chi ne possieda l’esclusiva, o – all’inverso – sottintendere e<br />

custodire una diversa, paradossale sapienza: l’esserci di un solo Dio in<br />

quanto significhi che nessuno ha la privativa di Dio, perché Egli in ogni<br />

prospettiva lascia o può lasciare una traccia del suo darsi.<br />

Molti racconti sacri, oggi, attraversano il mondo. C’è un punto di<br />

convertibilità fra di essi? Quale?<br />

71 Vedi E. MOUNIER, Trattato del carattere, Paoline, Roma 1982, p. 610, p. 104 ss. e passim.<br />

69


Crediamo, in questo senso, che c’è, per il possibile sacro condiviso,<br />

un possibile esperanto comune – che è anche una misura comune. E’ il<br />

rapporto con l’altro. Vediamolo nella prospettiva cristiana. Parliamo di Gv<br />

Ep. 4,20: “Chi dice ‘Io amo Dio’ e odia il prossimo, è un bugiardo. Chi<br />

non ama il fratello, che vede, non può amare Dio, che non vede”. E<br />

vediamo la cosiddetta ‘parabola degli atei’ (Mt., 25, 31,46). Là dove Dio<br />

riconosce credente anche chi non sapeva di esserlo, mentre chi credeva di<br />

esserlo stato, viene solennemente dichiarato non esserlo mai stato.<br />

E, d’altra parte, se nel più piccolo io so vedere Dio, quel più piccolo<br />

può vedere in me quel Dio che lo vede attraverso di me.<br />

Nell’uomo esiste un segnale fenomenologico preciso del suo essere e<br />

sentirsi custode di unicità e di profondità. Questo segnale è il pudore. Che<br />

allude, non a caso, a tre piste.<br />

1. L’ ‘unicità’. Là dove in quell’uno ne va di tutto. Perché quell’uno è<br />

l’unico essere necessario a sé stesso. E che, nel sentirsi necessario a sé<br />

stesso, si prende sul serio – e si difende. E che, nel difendersi, ha pudore. E<br />

di cui abbiamo, non a caso, – in atteggiamento speculare e simmetrico –<br />

‘pietà’.<br />

70


2. Il ‘legame’. Là dove – nell’altro – ne va del sé. Che, nel sentirlo, ha<br />

viscerale pietà.<br />

3. La ‘profondità’. Là dove nell’essere ‘oggettivati’ ne va della libertà<br />

presa sul serio. Di cui è segnale, ancora una volta, il pudore.<br />

‘Unicità’, ‘Legame’, ‘Profondità’. Tutte forme della Dignità. Perché<br />

sono tre nomi del sacro. Quid – a questo punto – del sacro?<br />

Il sacro è il nostro destino. Non potremo vivere di solo sacro. Non<br />

vivremo senza sacro. E saremo veri credenti se avremo un Dio – o un<br />

Valore che valga quanto Dio. E purché a noi sia toccato un Dio che abbia<br />

rispetto del sacro.<br />

Ma c’è un nome del sacro che sempre ci sfida. Con la sua infinita<br />

capacità di comunicarci e con la nostra infinita incapacità di spiegarlo pur<br />

avendolo compreso. E’ il nome di cui parlano moralisti, teologi,<br />

costituzionalisti. Di cui tutti sanno e di cui nessuno sa dire. Questo<br />

nome è la dignità. I tre assi dell’universo persona – l’unicità il legame<br />

la profondità – sono tutti nomi della dignità. Che è più dell’intelligenza.<br />

Più della libertà. Più della vita. Custodita da quel pudore che ne è il<br />

segnale di confine e che dice: ‘Io sono più di ciò che appaio’ 72 .<br />

72 Vedi sul punto <strong>Giuseppe</strong> Capograssi, Opere, vol. IV, p. 400 ss.<br />

71


Il sacro, in tale contesto, come l’ ‘essere ideale’ di Rosmini, non è<br />

solo confine ma luce. Non solo divieto di ciò che contraddice la vita,<br />

ma liberazione di tutte le possibilità della vita. Della crescita personale,<br />

della pietà, dell’amore. Della dignità – quella ricca. Se riusciremo – un<br />

giorno – a percepire il sacro non solo come luogo di divieti e terrore, ma<br />

come indicatore di vita, potremo forse, allora, poter dire del sacro ciò che<br />

John Donne ha scritto, in una sua bellissima lirica, dell’amore – anche<br />

l’amore è una declinazione del sacro: “Per nulla al mondo, amore, avrei<br />

spezzato questo sogno beato. Ma tu fosti saggia a svegliarmi. Tu non<br />

spezzi il mio sogno, lo continui”.<br />

C’è un aspetto paradossale del cristianesimo che non va mai<br />

perduto. Esso ci dice di un Dio che, rompendo la crosta del terrore, rivela<br />

il suo sacro come amore. E ci parla di un Dio di cui non si dà immagine –<br />

che crea un uomo a sua immagine. L’uomo – cioè – è fatto a immagine di<br />

un Dio che non ha immagine. Homo sum absconditus. Noli me tangere 73 .<br />

E’ la grande lezione apofatica.<br />

Qui, si aprirebbe un grande discorso, che non possiamo fare,<br />

sull’importanza dei mistici nel dialogo fra le civiltà. Sì, diciamo dei<br />

mistici. Perché sono gli eretici di tutti i sistemi. E possono accedere alla<br />

73 Emmanuel Mounier, Trattato del carattere, Edizioni Paoline, Roma 1982, p. 610.<br />

72


percezione del sacro come limite di ogni sacro. Perché la fede vera sa<br />

attraversare il nulla della notte dei mistici salvandone il sapere dal<br />

nulla. Come la parola non detta. Come la luce non vista. Come il volto<br />

non toccato. Come il varco che custodisce ricchezza aprendosi sul<br />

vuoto. Come ciò che, da noi negato, a noi riemerge e, negandoci, ci<br />

costituisce. Come ciò che, relativizzandoci, ci costituisce. Come la<br />

contraddizione che fonda e il paradosso che salva.<br />

<strong>Giuseppe</strong> LIMONE<br />

73

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!