Scienze sociali e dottrina sociale della Chiesa Carlo ... - Meic Marche

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30.05.2013 Views

stesso e la società in cui vive. Il primo e decisivo foro della politica è dunque la persona. Fino a che punto e in quale modo e in quale misura possiamo allora esteriorizzare il sentimento o la parte di comunità o di collettività che è in ciascuno di noi? Come possiamo metterci sulla strada che conduce ad una uguale sollecitudine per tutti? Non si costruisce un ordine accettabile al di fuori del principio di solidarietà. Questa è la condizione perché dalla persona e dalla sua alterità sia fatto defluire un ordine sociale accetto a tutti. C’è dunque, all’inizio, l’esigenza di alcunché di unanime, di accetto da tutti. Le separazioni o le divisioni in maggioranza e minoranza non sono che passaggi-mezzi per ritrovare questa fondamentale unanimità. Nessuna delega perpetua, dunque, ad istituzioni; nessun procedimento di approvazione collettiva dà legittimità alle istituzioni, che non divengono buone solo perché in esse si incarna una certa maggioranza di persone di persone e di opinioni o di interessi. «La libertà rinnega se stessa, si autodistrugge e si dispone all’eliminazione dell’altro quando non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità» si legge nell’ultima enciclica del papa Giovanni Paolo II, che continua la sua critica al relativismo dei valori giungendo ad affermare che il diritto cessa di essere tale, quando non è più solidamente fondato sull’inviolabile dignità della persona, ma viene fatto dipendere dalla volontà del più forte. È su questo terreno che si colloca una prima indicazione di approfondimento scientifico che il diritto pubblico può ricavare oggi dalla dottrina sociale, l’invito cioè a riflettere seriamente sui fini della città dell’uomo. Da questo punto di vista, in realtà, il papa, seppure marcando i toni, si mantiene nel solco della tradizione della dottrina sociale se è vero che lo stesso tipo di preoccupazione e di atteggiamento morale e intellettuale sembra essere agevolmente riscontrabile in tutto il pensiero cattolico di questo secolo circa il fondamento e i fini dello stato. «Il valore di uno stato non dipende dalla forma del suo governo, ma dalla virtù dei cittadini che ne fanno parte» si legge nel discorso di apertura del card. Dalla Costa alla Settimana sociale del 1945 che aveva per tema «i cattolici e la Costituente», frase che riassume forse nel modo più trasparente l’atteggiamento morale e intellettuale con il quale i pensatori cattolici si apprestavano ad affrontare l’esperienza costituente. I cittadini, appartenenti ad un popolo per definizione cattolico, forse in virtù di tradizione più che per consapevole e fattiva adesione di tutti, dovevano finalmente entrare nell’agone politico. La politica, diceva il Dalla Costa «è il governo del popolo; è l’amministrazione dello stato, è la scienza tanto necessaria di procurare il bene comune». Fatte queste affermazioni di principio, che già peraltro contenevano in se stesse il nucleo fondamentale di un preciso indirizzo culturale, quel convegno andò però oltre e più in profondità. Si poneva anzitutto l’interrogativo se dalla Costituzione dovesse essere escluso il fine dello stato e se la Costituzione stessa dovesse essere puramente formale, non incorporando in sé il fine dello stato, appartenente all’ambito materiale. Il formalismo allora doveva essere ripudiato, giacché «La Costituente e la Costituzione cadono anch’esse sotto il dominio dei fini dello stato» (G. Graneris). Lo stato, società inferiore, doveva rendere sensibile in tutto la sua appartenenza alla societas generis humani. Il fondamento spirituale dello stato risiedeva nell’unità cosmica, la quale non doveva subire attentati dalle società minori, e quindi dallo stato. Quest’ultimo perciò non doveva vivere in un assurdo isolamento, fonte di odio e di oppressione, e, solo rinsaldando nelle sue leggi fondamentali la superiore unità del genere umano, esso avrebbe aiutato la persona umana nel raggiungimento dei propri fini. Quali allora i compiti dello stato? Il primo in successione sarebbe quello di procurare il benessere dei cittadini nell’ordine economico e nella forma giuridica. Il secondo, servire alle superiori finalità, tutelando i valori della persona e vegliando sulle esterne condizioni indispensabili alle altre forme di vita umana (morali, religiose, ...). Il terzo, funzionare da anello di congiunzione tra gli individui e la superiorità del genere umano (G. Graneris).

La Settimana del 1945, nell’articolazione e nella successione delle varie lezioni, compone un quadro completo e suggestivo non solo dei problemi di fondo allora affrontati nella nuova realtà politico-istituzionale, ma anche dei diversi sentimenti, sensibilità e professionalità e competenza scientifica dei relatori: quasi la registrazione dell’indagine sullo stato e sul diritto della parte cattolica della dottrina italiana specializzata nello studio delle istituzioni. Questo fu certo un avvenimento da apprezzarsi non solo sotto il profilo storico ma anche in relazione all’esperienza di oggi, nella quale riemergono così frequentemente gli interrogativi affrontati allora. Per la prima volta infatti la cultura cattolica si è trovata a misurarsi con immediatezza con le difficoltà della ricostruzione dello stato; ha dovuto cioè affrontare la traduzione in formule, o soltanto in proposte, dei principi o dei postulati della coscienza, della cultura e dell’esperienza del mondo cristiano. Si comprende così come da parte di tutti, ma di alcuni in particolare (ad es. Messineo e Lanza), la prospettiva della nuova Costituzione sia stata vissuta e pensata anzitutto, se non soprattutto, in chiave di relazione tra diritto naturale e diritto positivo. Chi era il signore del potere costituente? Se questo signore era il popolo pensato come sovrano, occorreva mettere a nudo la fonte primaria di questa sovranità, proprio per razionalizzarla nella sua origine e per conoscerne la legittimazione rispetto al grande compito da affrontare: il che voleva dire scoprire anzitutto la relazione profonda tra l’investitura sovrana e i compiti e gli obblighi coerenti con questa investitura. Lo stato diviene così l’ambito nel quale questa sovranità trova, più che la sede, la sua struttura sensibile, ed esso allora deve recare evidenti le tracce dell’origine sovrana ed esserle costantemente fedele nel corso del processo storicizzante. Si insiste molto dunque sui fini dello stato: non già nella scia dello stato etico ovvero dello stato nazionale che domina la società alla stregua di principi artefatti o ricavati da interpretazioni spesso arbitrarie del principio di nazionalità o della storia nazionale, ma perché lo stato ha ragione d’essere in quanto esso tuteli i valori autentici del popolo e realizzi nei rapporti giuridici i principi fondamentali della convivenza. Questa è una linfa ben viva nel popolo italiano, che trova una fondamentale ragione di unità proprio nella tradizione cattolica. Prendendo le mosse da tutto ciò, si fanno emergere dei principi di fondo: il carattere naturale e comune a tutti gli stati; la subordinazione dei poteri ai fini dello stato; il carattere naturale della comunità internazionale e dei rapporti tra le nazioni. E subito ne derivano le linee maestre del processo di conoscenza: stato e diritto sono in rapporto di derivazione, il secondo dal primo, in quanto però lo stato sia l’espressione di una società naturale; sono i diritti della persona umana che danno giustificazione della funzione protettiva e della funzione integrativa e coordinatrice dello stato. La negazione della tirannia e della subordinazione dell’uomo al potere va di pari passo con l’apertura dello stato ai rapporti reciproci nell’ambito di una comunità universale. 2. Diritti fondamentali Il potere costituente appartiene dunque al popolo come diritto a determinare la forma di governo e la legge di investitura del potere, ossia l’assetto costituzionale dello stato. Pertanto il potere costituente incontra dei limiti nell’ordinamento naturale, il quale precede ogni altro limite, nonché nella volontà del popolo, e nei rapporti con le altre società sovrane. La volontà popolare limita le facoltà dell’assemblea costituente, però la stessa volontà popolare è limitata in quanto subordinata all’ordinamento naturale e alle esigenze del bene comune. A questa visione del potere costituente si riattacca la configurazione dello stato come funzione di giustizia nei rapporti economico-sociali: si afferma espressamente che la struttura organica dello stato, espressione della società civile e quindi del popolo organicamente inteso, non può andare disgiunta dalla protezione della persona umana secondo un intento di giustizia sociale e attraverso l’interazione dell’ordinamento giuridico-politico e di quello economico-sociale.

stesso e la società in cui vive. Il primo e decisivo foro <strong>della</strong> politica è dunque la persona. Fino a<br />

che punto e in quale modo e in quale misura possiamo allora esteriorizzare il sentimento o la<br />

parte di comunità o di collettività che è in ciascuno di noi? Come possiamo metterci sulla strada<br />

che conduce ad una uguale sollecitudine per tutti?<br />

Non si costruisce un ordine accettabile al di fuori del principio di solidarietà. Questa è la<br />

condizione perché dalla persona e dalla sua alterità sia fatto defluire un ordine <strong>sociale</strong> accetto a<br />

tutti. C’è dunque, all’inizio, l’esigenza di alcunché di unanime, di accetto da tutti. Le separazioni o<br />

le divisioni in maggioranza e minoranza non sono che passaggi-mezzi per ritrovare questa<br />

fondamentale unanimità.<br />

Nessuna delega perpetua, dunque, ad istituzioni; nessun procedimento di approvazione<br />

collettiva dà legittimità alle istituzioni, che non divengono buone solo perché in esse si incarna una<br />

certa maggioranza di persone di persone e di opinioni o di interessi.<br />

«La libertà rinnega se stessa, si autodistrugge e si dispone all’eliminazione dell’altro quando<br />

non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità» si legge nell’ultima<br />

enciclica del papa Giovanni Paolo II, che continua la sua critica al relativismo dei valori<br />

giungendo ad affermare che il diritto cessa di essere tale, quando non è più solidamente fondato<br />

sull’inviolabile dignità <strong>della</strong> persona, ma viene fatto dipendere dalla volontà del più forte.<br />

È su questo terreno che si colloca una prima indicazione di approfondimento scientifico che il<br />

diritto pubblico può ricavare oggi dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, l’invito cioè a riflettere seriamente sui fini<br />

<strong>della</strong> città dell’uomo. Da questo punto di vista, in realtà, il papa, seppure marcando i toni, si<br />

mantiene nel solco <strong>della</strong> tradizione <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> se è vero che lo stesso tipo di<br />

preoccupazione e di atteggiamento morale e intellettuale sembra essere agevolmente<br />

riscontrabile in tutto il pensiero cattolico di questo secolo circa il fondamento e i fini dello stato.<br />

«Il valore di uno stato non dipende dalla forma del suo governo, ma dalla virtù dei cittadini che<br />

ne fanno parte» si legge nel discorso di apertura del card. Dalla Costa alla Settimana <strong>sociale</strong> del<br />

1945 che aveva per tema «i cattolici e la Costituente», frase che riassume forse nel modo più<br />

trasparente l’atteggiamento morale e intellettuale con il quale i pensatori cattolici si apprestavano<br />

ad affrontare l’esperienza costituente. I cittadini, appartenenti ad un popolo per definizione<br />

cattolico, forse in virtù di tradizione più che per consapevole e fattiva adesione di tutti, dovevano<br />

finalmente entrare nell’agone politico. La politica, diceva il Dalla Costa «è il governo del popolo;<br />

è l’amministrazione dello stato, è la scienza tanto necessaria di procurare il bene comune».<br />

Fatte queste affermazioni di principio, che già peraltro contenevano in se stesse il nucleo<br />

fondamentale di un preciso indirizzo culturale, quel convegno andò però oltre e più in profondità.<br />

Si poneva anzitutto l’interrogativo se dalla Costituzione dovesse essere escluso il fine dello stato<br />

e se la Costituzione stessa dovesse essere puramente formale, non incorporando in sé il fine dello<br />

stato, appartenente all’ambito materiale. Il formalismo allora doveva essere ripudiato, giacché<br />

«La Costituente e la Costituzione cadono anch’esse sotto il dominio dei fini dello stato» (G.<br />

Graneris). Lo stato, società inferiore, doveva rendere sensibile in tutto la sua appartenenza alla<br />

societas generis humani. Il fondamento spirituale dello stato risiedeva nell’unità cosmica, la<br />

quale non doveva subire attentati dalle società minori, e quindi dallo stato. Quest’ultimo perciò<br />

non doveva vivere in un assurdo isolamento, fonte di odio e di oppressione, e, solo rinsaldando<br />

nelle sue leggi fondamentali la superiore unità del genere umano, esso avrebbe aiutato la persona<br />

umana nel raggiungimento dei propri fini.<br />

Quali allora i compiti dello stato? Il primo in successione sarebbe quello di procurare il<br />

benessere dei cittadini nell’ordine economico e nella forma giuridica. Il secondo, servire alle<br />

superiori finalità, tutelando i valori <strong>della</strong> persona e vegliando sulle esterne condizioni indispensabili<br />

alle altre forme di vita umana (morali, religiose, ...). Il terzo, funzionare da anello di congiunzione<br />

tra gli individui e la superiorità del genere umano (G. Graneris).

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