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Scienze sociali e dottrina sociale della Chiesa Carlo ... - Meic Marche

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CENTRO DI RICERCHE PER LO STUDIO DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA<br />

Supplemento al quaderno n. 4: <strong>Scienze</strong> <strong>sociali</strong> e <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong><br />

Indice<br />

<strong>Carlo</strong> Beretta La teoria economica 1<br />

Simona Beretta La scienza economica e il problema dello<br />

sviluppo<br />

18<br />

Giorgio Berti L’evoluzione costituzionale 24<br />

Gianfranco Bettetini La comunicazione <strong>sociale</strong> 33<br />

Edoardo Teodoro Brioschi La comunicazione d’azienda 53<br />

Agostino Giovagnoli La storia 60<br />

Michele Grillo La microeconomia 69<br />

Giammaria Martini Decisioni individuali e strategiche 74<br />

Daniela Parisi Riflessioni dello storico del pensiero<br />

economico<br />

80<br />

Luigi Pasinetti La scienza economica 86<br />

Walter Giorgio Scott Il marketing 88<br />

Enrico Maria Tacchi La sociologia: note su alcune «grandi<br />

questioni» culturali e <strong>sociali</strong><br />

92<br />

Francesco Villa La questione <strong>della</strong> sussidiarietà nelle<br />

politiche <strong>sociali</strong><br />

100<br />

Laura Zanfrini Lo sviluppo: indicazioni per la ricerca<br />

sociologica<br />

119<br />

Eugenio Zucchetti Lavoro e ruolo delle istituzioni 125


CARLO BERETTA<br />

LA TEORIA ECONOMICA 1<br />

Il tema di discussione proposto riguarda le relazioni tra <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> ed<br />

economia, ed in particolare le possibili influenze che ciascuna ha esercitato sull’altra. Per i limiti<br />

di conoscenza di chi scrive lo si è ulteriormente circoscritto alle relazioni tra alcuni ambiti di<br />

elaborazione <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> e una parte <strong>della</strong> teoria, parte che si ritiene però di particolare<br />

rilevanza per l’argomento in oggetto. Sempre i suddetti limiti hanno indotto ad un’analisi indiziaria,<br />

prendendo due esempi come campioni dei problemi che sorgono quando si vuole affrontare la<br />

tematica in questione; le induzioni che si possono trarre sono proposte come suggestive piuttosto<br />

che come dimostrative; per accertare quale valore possano avere, occorrono conoscenze che al<br />

momento non ho.<br />

1. I diversi ambiti di elaborazione <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

Si possono distinguere più livelli di elaborazione, di diffusione ed applicazione <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong>, legati tra loro in modo ovvio ma diversi l’un dall’altro. V’è, in primo luogo, il magistero<br />

pontificio a forte contenuto <strong>sociale</strong>. V’è poi il magistero delle conferenze episcopali e dei singoli<br />

vescovi che si differenzia dal primo se non altro per maggiori riferimenti alle realtà nazionali o locali.<br />

V’è quindi il lavoro di esegesi, soprattutto dei documenti pontifici e delle conferenze episcopali,<br />

fatto in gran parte da esperti con formazione prevalentemente teologica. V’è infine quel<br />

che di tutto questo lavoro si trasferisce a livello delle singole comunità, che traspare dalla<br />

predicazione e dal clima culturale ed ideale che si vive, ad esempio, nelle parrocchie.<br />

Da un livello all’altro cambia l’insieme dei destinatari, passando da quello degli «uomini di<br />

buona volontà» a comunità vuoi territorialmente circoscritte, vuoi contraddistinte dal possesso di<br />

caratteristiche, soprattutto di formazione e di interessi culturali, particolari; cambia lo spettro dei<br />

problemi affrontati e soprattutto cambia, o forse dovrebbe cambiare, il linguaggio utilizzato,<br />

diventando possibile, ad esempio nel campo esegetico ed analitico, utilizzarne uno tecnico e<br />

specializzato, con tutti i vantaggi ed i costi che queste operazioni sempre comportano. È naturale<br />

che i contatti con il mondo <strong>della</strong> teoria siano molto diversi a seconda del contesto considerato.<br />

Chi scrive ha una conoscenza, sia pure limitata e parziale, del primo, ristretta quasi<br />

esclusivamente ai documenti pontifici più noti in materia, essenzialmente le encicliche, e a<br />

qualche documento del Concilio; ha una conoscenza ancor più carente sia del magistero episcopale,<br />

sia del lavoro di esegesi che si è sviluppato attorno ad essi. Piaccia o no, è praticamente<br />

impossibile sottrarsi all’indistinto rumore di fondo che, di queste discussioni, si riverbera sulla<br />

società, soprattutto all’ultimo livello. Le osservazioni che seguono sono perciò fortemente distorte<br />

da questa disomogeneità e parzialità di informazione.<br />

1 Desidero ringraziare S. Beretta, A. Contini, F. Duchini, G. Merzoni, D. Parisi e gli intervenuti al<br />

seminario organizzato dal prof. S. Zaninelli. Vale l’usuale caveat.


Non solo. Per quel che riguarda l’economia, le mie conoscenze sono prevalentemente<br />

concentrate sulla teoria; sono scarse in materia di economia applicata e di politica economica.<br />

Persino per quel che riguarda la teoria, esse si riferiscono ad un particolare tipo, essenzialmente<br />

quello di derivazione neoclassica, utilizzato sia in campo microeconomico, sia negli studi di<br />

equilibrio economico generale e di teoria dei giochi, ma sulla cui applicabilità in campo macroeconomico<br />

esistono laceranti dubbi, persino tra gli stessi economisti neoclassici. Tutto ciò<br />

necessariamente limita la rilevanza di queste note.<br />

2. Le interazioni tra <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> e teoria economica nei diversi ambiti<br />

Nella ricerca di interazioni tra economia e <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, vi sono problemi e difficoltà comuni<br />

a tutti i livelli.<br />

Il primo riguarda la possibilità e il modo attraverso cui le possibili influenze reciproche possono<br />

essere individuate con una qualche certezza, così da non attribuire all’una o all’altra meriti (o<br />

demeriti) che non ha. Essi condividono molti oggetti di interesse; entrambi riflettono su problemi<br />

economici concreti. Entrambi, quindi, reagiscono agli impulsi che vengono loro dalla comune<br />

osservazione <strong>della</strong> realtà; ricercare le influenze reciproche nel contenuto dei programmi di ricerca<br />

porta perciò facilmente a correlazioni spurie.<br />

Per di più, non sono gli unici a ricomprendere nel proprio dominio questi fenomeni, così che,<br />

anche quando esistono influenze tra corpi di sapere diversi, si può attribuire ad uno ciò che in<br />

realtà è dovuto ad altri. Questa interdipendenza diffusa ha caratteristiche e peso diverso nei vari<br />

livelli ma è praticamente sempre presente per quanto riguarda sia la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, sia la teoria<br />

economica.<br />

Invece di usare ciò che le accomuna, si potrebbe partire da ciò che le differenzia, ad esempio<br />

lo spettro coperto dall’indagine che ciascuna svolge; ma anche questo non è facile. Nel caso<br />

<strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, gli interessi spaziano dal campo economico a quello <strong>sociale</strong>, politico,<br />

giuridico, antropologico e filosofico, avendo una radice comune in ambito teologico e biblico. Per<br />

quel che riguarda la teoria economica, le opinioni sui limiti che il ricercatore deve o dovrebbe osservare,<br />

su ciò che dovrebbe o potrebbe considerare esogeno e ciò che dovrebbe o potrebbe<br />

considerare endogeno, e quindi sul campo di pertinenza <strong>della</strong> propria indagine, sono molto divergenti.<br />

Almeno se ci si limita alla teoria neoclassica, non sembrerebbero esserci differenze<br />

radicali tra <strong>dottrina</strong> e teoria su questo piano, se non per i riferimenti teologici.<br />

Invece di considerare il campo d’indagine, la ricerca di influenze dovrebbe essere<br />

probabilmente fatta a livello delle persone che operano in essi. E anche qui occorre distinguere.<br />

Ai livelli più alti, è presumibile che la redazione dei documenti sia preceduta da lavori<br />

preparatori di gruppi di specialisti ed è importante vedere qual è la loro formazione, le<br />

conoscenze che hanno in altri ambiti, quanto dell’ottica e degli strumenti forniti da questi utilizzano<br />

nella propria riflessione. Non sempre, ma almeno di norma, soprattutto a livello pontificio, la<br />

partecipazione a questi gruppi di lavoro è coperta da un comprensibile riserbo, così che si sa<br />

qualcosa, di scarsa affidabilità, solo per sentito dire; sarà lo storico ad aver accesso alle carte che<br />

permettono di verificare chi ha partecipato ad essi, le sue caratteristiche scientifiche e quale<br />

apporto ha dato.<br />

Questi dati sulle persone dovrebbero invece essere noti quando si passa al livello degli esegeti,<br />

da un lato, e dei teorici, dall’altro. Ciò che forse è sorprendente, o forse è solo un’ennesima<br />

manifestazione dei vantaggi (con le costrizioni che da essi derivano) <strong>della</strong> specializzazione e<br />

divisione del lavoro, è che sembrano esservi pochi esegeti <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> che sono anche<br />

economisti teorici e pochi economisti teorici che sono anche esegeti <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>. Ma su<br />

questo problema si ritornerà più avanti.


Dati i limiti sopra elencati, in queste note si cercheranno le possibili influenze reciproche<br />

principalmente a livello di ottica adottata, di impostazione dei problemi, tenendo però conto che gli<br />

obiettivi che ci si pone di fronte differiscono di molto quando ci si muove in un campo o nell’altro<br />

e da un livello all’altro.<br />

La Sollicitudo rei <strong>sociali</strong>s afferma: «La <strong>Chiesa</strong> non ha soluzioni tecniche da offrire ... Essa,<br />

infatti, non propone sistemi o programmi economici e politici, né manifesta preferenze per gli uni<br />

o per gli altri, purché la dignità dell’uomo sia debitamente rispettata e promossa» (n. 41). La<br />

<strong>dottrina</strong>, dunque, non si propone né di fare teoria né di dettare politiche o soluzioni. Ciò su cui<br />

insiste è la centralità dei riflessi o delle conseguenze sull’uomo come metro di valutazione e di<br />

giudizio tanto <strong>della</strong> pratica quanto <strong>della</strong> teoria.<br />

Per quel che riguarda la teoria, chi conosce i profondi cambiamenti, se non le inversioni di<br />

rotta (ed occorre tener presente che anche le strade che si sono dimostrate cieche hanno<br />

prodotto conoscenza, e proprio quella conoscenza che ha portato a rivedere il proprio percorso<br />

sapendo almeno qualcosa in più dei perché dei problemi che occorre affrontare), che questa ha<br />

subito negli ultimi decenni non può che approvare un simile prudente distacco. D’altra parte,<br />

questo atteggiamento spinge a chiedersi se la teoria abbia nulla da dire a chi elabora la <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong>. Quel che la teoria può offrire sembra essere una mappa almeno tentativa delle possibili<br />

connessioni, eventualmente dei legami causali, tra caratteristiche di un assetto o di certi modi e<br />

regole di comportamento e i riflessi sulla vita umana.<br />

Si è tentati di fare invece una contrapposizione tra posizione del magistero pontificio, che privilegia<br />

un’analisi dei meriti e dei limiti di assetti diversi per la vita e lo sviluppo <strong>della</strong> persona, e<br />

quella di altri corpi ecclesiali che, costretti dall’urgenza di molte situazioni, sono spesso tentati di<br />

trarre subito implicazioni di condanna o di approvazione di situazioni e misure contingenti. Per far<br />

questo, sembrerebbe necessario un uso molto più pesante <strong>della</strong> teoria in quanto si deve adottare<br />

e credere in qualcuna di esse per giustificare la propria condanna o approvazione, e qui, qualche<br />

volta, l’adesione avviene, forse non sempre con piena consapevolezza, con cuore assai meno<br />

diviso di quello degli adepti che pure sostengono la medesima.<br />

Chi si trova di fronte problemi concreti non deve, e forse semplicemente non può, rassegnarsi<br />

alla semplice denuncia dei mali del mondo, soprattutto quando questi colpiscono altri, e altri che<br />

non sono in grado di difendersi da soli. Ma forse sarebbe prudente, e comunque sembrerebbe<br />

sensato, distinguere ciò che si può, o sarebbe desiderabile, fare in una certa situazione (di fronte<br />

a quel particolare stato di bisogno, tenuto conto che è uno dei molti stati di bisogno tra cui si è<br />

costretti a scegliere) da ciò che sembrerebbe risolvere il problema alla radice (che si presenti<br />

uno stato di bisogno). Da fonte autorevole e non sospetta (almeno in certi ambienti, si spera),<br />

sappiamo che la povertà non è destinata a scomparire fin che dura questo mondo mentre è ovvio<br />

che certi poveri possono essere aiutati e certe povertà alleviate pur di sostenere costi, che è comunque<br />

bene precisare, e sacrificare il perseguimento di altri obiettivi.<br />

Forse, in questo momento in particolare, v’è una sottovalutazione <strong>della</strong> pratica intelligente<br />

rispetto alla teoria generale (ma è anche vero che la pratica intelligente è un bene di molto più<br />

scarso, costoso e difficile da individuare e reperire <strong>della</strong> teoria anche buona). Dire che ci sono<br />

vie d’uscita quando non è così chiaro che esistano, invece di guardare le singole realtà e<br />

mettersi, o spingere altri, a una paziente ricerca, può essere avventato e pericoloso sia dal punto<br />

di vista <strong>della</strong> soluzione dei problemi in questione, sia, e forse soprattutto, per coloro che si<br />

vogliono aiutare. Occorre ammettere che, e probabilmente in questo campo più che in altri,<br />

siamo lontani dall’onnipotenza, cosa certamente dolorosa ma, per chi crede, anche provvidenziale<br />

e misteriosamente salvifica.<br />

La posizione di chi lavora all’esegesi e alla sistematizzazione <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> nei confronti<br />

<strong>della</strong> teoria sembra essere più complessa. Potenzialmente è il tramite tra chi fa teoria e chi deve<br />

elaborare la <strong>dottrina</strong> e viceversa, e dunque chi possiede, da un lato gli strumenti teorici, non solo


<strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> ma anche dell’economia, e guida la loro applicazione pratica o illustra l’utilizzo che<br />

ne viene fatto; dovrebbe essere quello che fa e traduce nel linguaggio appropriato le domande<br />

che queste due aree di ricerca si pongono reciprocamente. Ma questo è il campo su cui le<br />

conoscenze di chi scrive sono più carenti.<br />

Dall’intento dichiarato del magistero si può forse derivare anche ciò che chi studia teoria può<br />

cercare nella <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>: i documenti del magistero forniscono dei criteri di<br />

giudizio e di valutazione e la loro applicazione a fatti e situazioni; essenzialmente enunciano e<br />

chiarificano il contenuto da dare agli obiettivi personali e <strong>sociali</strong> che debbono ispirare le decisioni<br />

di comportamento, le ragioni per adottarlo, e indicano quali valori vengono o debbono essere<br />

realizzati e rispettati e quali vengono lesi o messi a repentaglio dal presentarsi di determinati fenomeni.<br />

Certo non è utile rifarsi ad essi per un’analisi scientifica dei meccanismi che portano a<br />

tali situazioni e degli strumenti che possono essere utilizzati per prevenirle.<br />

È in questa distinzione di ruoli e di campi che secondo me va cercato, se esiste, un raccordo<br />

ed un dialogo tra <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> e teoria economica. Debbo subito dire che, mentre ritengo che<br />

questa via esista e sia potenzialmente molto fruttuosa, essa non mi sembra sufficientemente<br />

considerata, non tanto nei documenti del magistero che invece offrono molti spunti in questa<br />

direzione, ma nell’esegesi che ne vien fatta, e ancor meno nella vulgata trasmessa, da coloro<br />

che all’interno <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> potrebbero essere interessati a questo dialogo.<br />

3. Alcune caratteristiche dell’impostazione neoclassica in economia<br />

Il tipo di teorie che io studio poggia, almeno nelle sue versioni essenziali, su una forte<br />

caratterizzazione individualistica degli agenti e su una visione atomistica <strong>della</strong> società. Nell’analisi<br />

positiva, esse si propongono non tanto di spiegare ma di caratterizzare o descrivere degli stati di<br />

equilibrio di alcuni meccanismi in grado di generare un coordinamento di decisioni prese da un<br />

insieme di agenti, ciascuno dei quali opera nell’ambito di una propria sfera di autonomia, in<br />

diverse condizioni di informazione, e in presenza di obiettivi almeno parzialmente in conflitto. Vi è<br />

anche una parte normativa, ma si deve purtroppo ammettere che, se la parte positiva è in<br />

subbuglio, quella normativa si deve forse dire che è nel caos. Non dicono forse molto su ciò che<br />

si può fare, ma certamente illuminano i problemi che occorre affrontare, problemi che è<br />

pericoloso ignorare.<br />

Vi sono due peculiarità che trovo interessanti di queste impostazioni.<br />

La prima è formale e non molto controversa: queste teorie mirano ad un’analisi generale e<br />

usano un linguaggio che, pur essendo formalizzato e astratto, costringe ad esplicitare quanto di<br />

ad hoc è contenuto in un’ipotesi, impedisce di usare idee vaghe e confuse ed anzi mette in luce<br />

quali legami con il referente empirico si riesce a catturare attraverso una data formalizzazione e<br />

quanto sfugge; forse proprio per questo legame con un referente empirico sono state capaci di<br />

un’evoluzione e differenziazione generate dalle esigenze interne, non ultima quella di coerenza,<br />

che non trovo in altre formulazioni.<br />

La seconda è più discutibile e riguarda quelle che ritengo essere le strutture essenziali<br />

utilizzate e studiate da queste teorie. In primo luogo, nonostante i limiti del modo in cui le caratterizzano,<br />

esse pongono l’accento sulle unità elementari di decisione, i loro obiettivi, il loro ruolo, la<br />

loro autonomia, la loro responsabilità. In secondo luogo, l’analisi del problema del singolo agente è<br />

poi la base per lo studio delle ragioni e dei meccanismi attraverso i quali gli agenti interagiscono<br />

tra di loro, dei problemi e dei risultati che ci si possono aspettare da un’analisi di queste<br />

interazioni. Questi due aspetti non sono completamente scindibili, ma ignorarne le distinzioni può<br />

essere fatale. Ed è su di essi che ci si aspetterebbe di trovare, ma secondo me non c’è, dialogo<br />

effettivo tra la teoria economica e la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>. Essi sono i campi che verranno utilizzati per<br />

fornire gli esempi o i campioni del tipo di interazioni che avvengono tra <strong>dottrina</strong> e teoria.


4. Il problema <strong>della</strong> scelta individuale e le sue connessioni col concetto di libertà<br />

Si consideri il modo in cui viene descritto e trattato il problema dell’individuo. Formalmente<br />

esso consiste in un esame del concetto di scelta e di comportamento razionale. Si postula<br />

l’esistenza di un centro di decisioni dotato di una sfera di autonomia il cui contenuto è dato dalle<br />

alternative, che per semplicità si supporranno di numero finito, a sua disposizione; questo centro è<br />

dotato di criteri di scelta tra le alternative, che riflettono i suoi obiettivi, criteri che vengono<br />

supposti completi e transitivi; la razionalità è scegliere l’elemento preferito, tecnicamente un<br />

elemento massimo, tra quelli disponibili.<br />

L’astrattezza <strong>della</strong> presentazione è in parte legata al fatto che questa si propone di essere una<br />

teoria generale <strong>della</strong> scelta, ma è soprattutto voluta; costringe a porsi il problema del contenuto<br />

da dare ai vari termini (non a quelli tecnici che sono facilmente definibili, anche se la loro<br />

discussione è importante) e dell’interpretazione del problema. Si è inoltre volutamente scelto un<br />

contesto in cui le conseguenze <strong>della</strong> scelta sono univocamente determinate dalla medesima per<br />

evitare tutti i problemi che sono più tipici delle interazioni.<br />

Le prime difficoltà riguardano la definizione e le implicazioni dell’ipotesi di razionalità e<br />

l’estensione del dominio <strong>della</strong> scelta controllato dalla razionalità. Un’interpretazione comune è<br />

quella che vede nei criteri di scelta i gusti di un individuo e nelle alternative, combinazioni di beni<br />

diverse che si può procurare; e questa è certo un’interpretazione realistica di situazioni incontrate<br />

da tutti. Ma come si è detto, la formulazione lascia del tutto indeterminato l’oggetto <strong>della</strong> scelta.<br />

Sopra si fatto l’esempio di panieri di beni alternativi, ma oltre a decidere se si vogliono delle mele<br />

o delle pere, spesso, magari erroneamente, la gente crede di poter scegliere che tipo di persona<br />

vuole essere. Qui le alternative sono i tipi di persona che si può essere, o almeno i tipi di criteri di<br />

scelta (e di conseguenza di modi di comportamento) che si possono adottare. Per l’economista<br />

non è chiaro quanto i fini perseguiti dal singolo individuo e la stessa idea che l’individuo si fa di<br />

sé, le caratteristiche che possiede come persona, debbano essere considerati, almeno da lui e per<br />

i fini <strong>della</strong> propria indagine, come esogenamente dati, e dunque non controllati dalla persona che li<br />

persegue, o debbano essi stessi essere visti come oggetti di scelta, eventualmente soggetti a una<br />

valutazione di razionalità. E naturalmente, se l’oggetto <strong>della</strong> scelta sono i criteri di scelta, occorre<br />

stare attenti quando si definiscono, da un lato, i criteri per scegliere tra criteri alternativi e,<br />

dall’altro, come si costruisce, e si arriva a conoscere, l’insieme delle alternative tra cui si può<br />

scegliere. Da un punto di vista logico, il problema è quello di evitare le regressioni all’infinito; da<br />

un punto di vista pratico il problema è quello di vedere quanto una scelta sia il risultato di<br />

preferenze o le preferenze siano il risultato di scelte.<br />

Per fare un esempio, si esaminino le connessioni tra questo problema e la maniera in cui è<br />

possibile introdurre il concetto di libertà e di responsabilità <strong>della</strong> persona nel discorso economico.<br />

Credo che nessuno dubiti che essere libero richieda avere delle alternative tra cui scegliere;<br />

questa può non essere una condizione sufficiente ma si deve ritenere, almeno in prima approssimazione,<br />

necessaria. Nelle formulazioni più semplici, l’insieme delle alternative a<br />

disposizione di un individuo è determinato dal suo reddito (o dalla sua dotazione) e dall’insieme<br />

dei prezzi a cui può acquistare o vendere; se il reddito aumenta, dati i prezzi, aumenta l’insieme<br />

delle scelte che l’individuo è in grado di realizzare e si sarebbe tentati di dire che aumenta la sua<br />

libertà.<br />

Tuttavia, se i suoi obiettivi sono dati e l’individuo è razionale, ciò che deve scegliere è determinato<br />

e consiste nell’elemento che massimizza la funzione obiettivo; può essere difficile<br />

individuare la scelta ottimale ma essa è data una volta specificate le condizioni su indicate. In<br />

sostanza, l’individuo ha delle alternative, deve fare una scelta ma forse non ha libertà di scelta.<br />

Ad esempio, se si tolgono dal suo insieme di alternative tutte quelle diverse da quella ottimale non<br />

cambia nulla dal punto di vista <strong>della</strong> realizzazione dei suoi obiettivi; la sua scelta viene solo resa


più semplice e sottratta al rischio di errori. Questo sembra dire che non è rilevante disporre delle<br />

alternative che comunque non verrebbero scelte. Se si accetta questa conclusione, avere un<br />

reddito più alto è importante solo perché consente di realizzare meglio i propri scopi, non perché<br />

offre più alternative.<br />

Ciò mostra che si è forse identificata la libertà con la capacità di realizzare i propri propositi,<br />

che è certamente un uso legittimo e forse probabile <strong>della</strong> libertà, una delle ragioni per cui la si<br />

ricerca, ma non è la libertà e, d’altra parte, qualunque sia il livello di realizzazione dei propri obiettivi,<br />

se non si hanno alternative dire che si è liberi sembra bizzarro.<br />

Nasce da qui il problema di come spiegare l’importanza dell’avere alternative, di come<br />

introdurre una qualche libertà di scelta. Vi sono almeno due possibilità. Avere alternative: a)<br />

consente di scegliere in modo diverso da come vuole la razionalità, ma è dubbio che la possibilità<br />

di essere irrazionali nel senso di fare scelte sub-ottimali significhi essere liberi; b) impone di<br />

affrontare problemi che la razionalità non è in grado di risolvere, ma allora devono esistere ambiti<br />

di scelta in cui la razionalità non è in grado di determinare da sola quale scelta si debba fare e<br />

tipicamente questo accade quando il criterio di scelta è incompleto. Ciò può accadere perché<br />

non si hanno abbastanza informazioni (e sapere di non avere informazioni sufficienti è già avere<br />

informazioni), non si sa cosa vuol dire optare per x invece che per y (e qualche volta non si sa<br />

neppure come e quando si sta facendo questa scelta) ma si sa che x e y sono cose diverse e non<br />

si ha alcuna ragione per ritenere di essere indifferenti tra l’una e l’altra. Ma può succedere<br />

anche quando si hanno tutte le informazioni che si possono desiderare e si hanno ragioni per<br />

scegliere x invece di y, ma si hanno anche ragioni per scegliere y invece di x e non si è in grado<br />

di, o non è possibile, rinunciare a nessuna di queste ragioni in conflitto. Se la scelta deve<br />

comunque essere fatta, occorre assumersene l’onere e la responsabilità. Trovarsi in queste<br />

situazioni è ciò che permette di darsi un’identità, invece di essere semplicemente fatti così, ma dà<br />

alla libertà un’aura più tragica che ilare e spensierata.<br />

Come si è detto, il campo di applicazione più ovvio è la costruzione e la giustificazione <strong>della</strong><br />

scelta <strong>della</strong> propria funzione obiettivo e in quest’ambito resta comunque da esaminare il ruolo che<br />

la scelta delle situazioni concrete che si vogliono sperimentare ha in tutto questo processo, quanto<br />

sia causa e quanto si effetto dell’adozione di una funzione piuttosto che di un’altra.<br />

Gran parte degli interrogativi interessanti sollevati da queste teorie si riferisce a situazioni in<br />

cui vi sono più agenti. In questi casi è importante specificare gli ambiti di autonomia decisionale e<br />

comportamentale di ciascuno: occorre qui vedere se vi sono, e quali siano gli ambiti che non è<br />

possibile, desiderabilità a parte, sottrarre all’autonomia individuale, quelli che è possibile e desiderabile<br />

lasciare e quelli che è possibile ma non desiderabile lasciare all’esercizio di quest’autonomia.<br />

Diventa rilevante specificare cosa si sa e cosa si può (e quando e a quali costi) osservare,<br />

da un lato, circa le caratteristiche (in pratica, quanto si conosce delle dotazioni, delle informazioni<br />

e degli obiettivi) di ciascuno e, dall’altro, circa le azioni possibili e messe in atto da ogni individuo.<br />

Ovviamente, ciò che non è possibile sottrarre all’autonomia individuale verrà usato, se<br />

l’individuo è razionale, per il perseguimento dei suoi obiettivi; se si vuole incidere su questa sfera<br />

occorre dunque incidere sugli obiettivi perseguiti o sul processo attraverso cui si formano. Le ragioni<br />

per cui si può voler incidere su di essi possono essere legate semplicemente al giudizio che<br />

si dà su tali obiettivi o, invece, a quello sulle conseguenze prodotte da un comportamento ispirato<br />

da certi obiettivi. Entrambe presentano ovvi pericoli. Le prime possono intaccare gli ambiti più<br />

importanti di libertà <strong>della</strong> persona; nella <strong>dottrina</strong> tradizionale si tendeva a distinguere il compiere<br />

azioni buone dall’essere buoni, e quest’ultimo si riteneva riflettere una decisione, almeno in<br />

qualche misura, libera, volontaria e cosciente e pertanto da privilegiare. Le seconde rischiano di<br />

subordinare i valori perseguiti da un individuo alle conseguenze, di giustificare valori con fatti. E,<br />

d’altra parte, le conseguenze possono incidere sulla possibilità di altre persone di perseguire i<br />

propri valori.


Nonostante la <strong>dottrina</strong> sia rimasta ferma in una posizione anticonsequenzialista, c’è oggi un’attenzione,<br />

certo giustificata, per i problemi concreti, per la soluzione di situazioni ovviamente<br />

pressanti, che però ha portato a bollare come un’impostazione angelistica, ritenuta per qualche<br />

ragione piuttosto biasimevole, una problematica di questo tipo.<br />

Gli stessi problemi si ripropongono per gli ambiti che possono essere sottratti all’autonomia<br />

individuale. Se vi è spazio per redistribuire le possibilità di scelta, ad esempio redistribuendo<br />

reddito o dotazioni, con quali ragioni, come e a favore di chi dovrebbero essere utilizzate? Se gli<br />

obiettivi individuali sono dati esogeni, a parte problemi sulla compatibilità tra libertà di scelta e<br />

realizzazione dell’efficienza paretiana, sembra sensato preferire una situazione in cui tutti stanno<br />

meglio a quelle in cui almeno qualcuno sta peggio e nessuno sta meglio, il tutto valutato in termini<br />

di questi obiettivi esogeni. Questo criterio pare un requisito minimo di ragionevolezza, ma ha<br />

problemi di incompletezza: date due situazioni Pareto efficienti, come (e chi e sulla base di quali<br />

ragioni può) ordinare l’alternativa x rispetto alla y quando l’individuo A preferisce la prima alla<br />

seconda e B la seconda alla prima? Occorre andare oltre e scegliere una delle possibili situazioni<br />

efficienti in senso di Pareto, scartando tutte le altre, occorre cioè decidere quale peso dare alla<br />

realizzazione degli obiettivi di un individuo rispetto a quello da dare a quella degli obiettivi di un altro,<br />

ossia decidere come costruire una funzione obiettivo per la società, ad esempio, il che, per<br />

alcuni versi, significa specificare un contenuto del bene comune.<br />

D’altra parte, se il giudizio che uno dà sullo stato in cui la società e lui stesso si trovano non<br />

riflette un elemento esogeno, non controllato e non manipolato da lui, se il suo stato di bisogno è il<br />

riflesso <strong>della</strong> sua scelta di obiettivi, quando poteva scegliere obiettivi diversi, questo giudizio dovrebbe<br />

contare tanto quanto, o di più, o di meno, rispetto alla situazione di esogeneità dei suoi<br />

bisogni, ad esempio nel momento di decidere quanto dare a lui invece che ad un altro, quanto<br />

permettere la realizzazione dei suoi obiettivi sacrificando la realizzazione di quelli di un altro?<br />

Come si vede, questo problema ha poi riflessi sulle indicazioni normative che si possono ottenere<br />

dall’analisi.<br />

In tutti questi ragionamenti occorre distinguere il caso in cui gli obiettivi di ciascuno siano noti<br />

da quello in cui non lo siano e occorre tener conto che sottrarre autonomia decisionale, anche<br />

quando è possibile, può avere dei costi in termini di utilizzazione dell’area di autonomia che non è<br />

possibile intaccare. Le valutazioni e comunque gli esiti collettivi, nella gran parte dei discorsi teorici,<br />

sono il risultato di valutazioni e decisioni individuali (anche se non del singolo individuo, ad<br />

esempio nei modelli di concorrenza perfetta, per le ragioni indicate tra poco). Si può approvare o<br />

disapprovare un simile stato di cose, ma sembra inevitabile accettarlo se si riconosce una qualche<br />

possibilità di scelta agli individui.<br />

Nell’apparente esoterismo, un campo di applicazione canonico è quello del confronto e <strong>della</strong><br />

scelta tra un’economia centralizzata, dotata di un pianificatore in grado di decidere tutto ciò che<br />

accadrà a ciascuno degli agenti, ed un’economia a decisioni decentrate, in cui agli agenti vengono<br />

riconosciuti ambiti di autonomia decisionale, un tema ricorrente nella <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> e<br />

fortemente sottolineato nella Centesimus annus.<br />

Nell’ottica in esame, l’economia pianificata tende a ridurre il numero e la varietà delle alternative<br />

che possono essere autonomamente adottate e, impoverendo lo spettro delle esperienze<br />

possibili, a ridurre le possibilità di scegliere e realizzare il tipo di persona che si vuole essere,<br />

quando addirittura non si propone di costruire l’«uomo nuovo». In questo senso può mettere a<br />

repentaglio «la “soggettività” <strong>della</strong> società…, insieme [alla] soggettività dell’individuo» (n. 13).<br />

D’altro lato, l’economia di mercato vincola le esperienze che una persona può effettuare alla sua<br />

disponibilità di reddito; redistribuire reddito redistribuisce possibilità di scelta, può addirittura<br />

essere indispensabile perché una persona possa effettuare esperienze che le danno una più<br />

ampia gamma di criteri di percezione e di valutazione <strong>della</strong> realtà e la capacità di usarle; ma ciò


non basta a redistribuire libertà di scelta; per questo occorre che la persona si renda conto <strong>della</strong><br />

sua responsabilità nel processo di individuazione di sé e di ricerca di una effettiva autonomia.<br />

È ovvio che su tematiche di questo tipo, in particolare sulla libertà <strong>della</strong> persona, la <strong>dottrina</strong><br />

(non solo, e forse prevalentemente non quella, <strong>sociale</strong>) <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> si è esercitata a lungo e<br />

certo non infruttuosamente; per lo meno, era un argomento assai importante nella formulazione<br />

tradizionale, anche se forse non riceve oggi l’attenzione di un tempo; ed è ovvio che tutto questo<br />

lavoro sia noto a chi fa esegesi <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>. Ciò che colpisce è il fatto che, da un lato,<br />

esso è in gran parte ignorato da chi fa teoria economica, non ha nessuna incidenza su di essi.<br />

Ma, forse per simmetria, i problemi dell’economista sembrano essere ignorati da chi studia la<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>.<br />

In una certa apologetica corrente si dice che la visione economicistica privilegia l’avere<br />

sull’essere. Certo riprende un’espressione usata anche nei documenti del magistero, ma se è<br />

lecito usare forme ellittiche in documenti di questo tipo non lo è altrettanto in quelli che dovrebbero<br />

essere lavori di analisi critica, di approfondimento e di interpretazione. Di sicuro rivela<br />

una scarsa conoscenza <strong>della</strong> teoria: anche nelle formulazioni più ingenue, come quella relativa<br />

alle scelte di consumo sopra riportata ad esempio, in questi schemi nessuno persegue<br />

l’acquisizione di beni di per sé, ma solo come mezzi per il raggiungimento di obiettivi. Il contenuto<br />

di questi obiettivi può essere criticato, può rivelare smodate propensioni al piacere sensuale,<br />

ricerca di dominio sul mondo, altri compresi, un atteggiamento di prudenza e di ricerca di sicurezza<br />

molto lontano da quello di chi si interroga sui progetti di Dio, ecc.; ma si ammetterà che,<br />

per quanto criticabili, questi sono modi di essere e dovrebbero essere discussi in quanto modi di<br />

essere. Per di più, non sono gli unici problemi e forse neppure sono quelli cruciali da discutere in<br />

quest’ambito, come si è cercato di argomentare sopra.<br />

Questo modo di vedere le cose ha anche un riflesso in termini del perché una persona<br />

dovrebbe essere interessata ai problemi toccati dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e forse del<br />

perché e come questi temi dovrebbero esserle presentati.<br />

Si insiste spesso sul ruolo che la solidarietà avrebbe nell’assicurare non solo una migliore (o<br />

maggiore?) realizzazione del bene comune ma lo stesso buon funzionamento del meccanismo<br />

economico-<strong>sociale</strong>. Ma, sia pure riferendosi a un contesto diverso, la Centesimus annus<br />

considera errata la visione secondo la quale<br />

quel medesimo bene possa essere realizzato prescindendo dalla sua [dell’individuo] autonoma scelta,<br />

dalla sua unica ed esclusiva assunzione di responsabilità di fronte al bene ed al male. L’uomo così è ridotto<br />

a una serie di relazioni <strong>sociali</strong>, e scompare il concetto di persona come soggetto autonomo di decisione mo -<br />

rale, il quale costruisce mediante tale decisione l’ordine <strong>sociale</strong> (n. 13).<br />

Si insiste anche sull’individualismo che caratterizzerebbe la nostra società e si tenta di<br />

correggere questa tendenza esaltando l’importanza dei momenti di vita comunitaria. Io ritengo<br />

invece che oggi ci sia molta difficoltà a formare e conservare la propria individualità, a diventare<br />

individui veramente completi, a vedere la propria vita nella sua interezza e dunque anche a<br />

vedere quanto di sé stessi si perda quando ci si chiude al resto del mondo. Se in un mondo bombardato<br />

di messaggi e modelli televisivi v’è un grosso pericolo di vite sprecate, in modo assai<br />

poco personale, in esperienze vicarie ed imitative, questo pericolo c’è sia per l’egocentrico che<br />

per il comunitario. Ma se è sicuro che una persona non possa essere, e vivere una vita, completa<br />

senza acquisire una dimensione <strong>sociale</strong>, non c’è comunità senza una forte individuazione di sé da<br />

parte dei propri membri.<br />

5. Le interazioni tra soggetti autonomi<br />

Va comunque subito chiarito che parlare di individui che perseguono i propri obiettivi non vuol<br />

dire parlare di individui egocentrici e tanto meno egoisti. Come si è sottolineato, nelle formulazioni


più astratte, il contenuto degli obiettivi, come pure gli oggetti <strong>della</strong> scelta, è lasciato del tutto<br />

indeterminato. Suona perciò un po’ ironico che alcuni studiosi <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> (ma non sono<br />

soli in questo) ritengano che la teoria economica predichi l’egocentrismo; in realtà quel che essa<br />

fa è mettere in evidenza quanto più complicati siano, in generale, i problemi di coordinamento in<br />

società in cui gli individui non sono egocentrici, naturalmente se si prende sul serio ciò che<br />

significa trovarsi di fronte a una persona, quando si vuole comunque preservarne e rispettarne<br />

l’autonomia.<br />

Ciò porta al secondo tema tipico <strong>della</strong> teoria a cui si fa riferimento e a cui si è fatto cenno<br />

all’inizio, un tema che ha radici in un arricchimento, rispetto alla formulazione tradizionale,<br />

dell’insieme dei meccanismi che permettono e regolano le interazioni tra gli individui.<br />

È in quest’ultimo ambito che l’ipotesi di egocentrismo diventa importante ma lo diventa, come<br />

si è detto, per ragioni ben precise. In tema di interazione, vi è sia un problema di coordinamento<br />

(si interagisce perché certi effetti possono essere ottenuti solo, o più facilmente, attraverso<br />

l’azione coordinata, talora addirittura congiunta, di più agenti) sia quello <strong>della</strong> soluzione di un<br />

conflitto (come ripartire i vantaggi generati dal coordinamento tra coloro che vi hanno preso<br />

parte, tenendo conto che il vantaggio ottenuto dall’uno pone dei limiti a quello che gli altri possono<br />

ottenere). Se si usano certi meccanismi, ad esempio il mercato di perfetta concorrenza, la<br />

soluzione del conflitto ed il coordinamento vengono realizzati in maniera automatica e non costosa,<br />

almeno in corrispondenza ad un equilibrio. In assenza di egocentrismo (ma naturalmente il<br />

venir meno dell’egocentrismo è solo una delle cause di fallimento di questi meccanismi) diventa<br />

difficile, se non impossibile, definire ambiti di autonomia esclusiva e questi meccanismi non sono<br />

in grado di produrre i risultati sopra indicati.<br />

Nella versione tradizionale <strong>della</strong> formulazione teorica a cui si fa riferimento, l’interazione e i<br />

suoi problemi sono praticamente assenti; almeno nella sua versione popolare, il meccanismo<br />

tipico è costituito da un contratto di compravendita, per di più stipulato in ambiente anonimo, in<br />

cui chi vende non conosce chi acquista e viceversa; nella versione colta dei modelli di perfetta<br />

concorrenza in realtà non si parla di contratti tra individui, dal momento che non vi sono<br />

interazioni individuali, ma solo di decisioni dei singoli su quanto ciascuno di essi desidera vendere<br />

o comperare dal mercato; in equilibrio, tutte queste decisioni individualmente ottimali ed<br />

autonomamente prese risultano essere compatibili e simultaneamente realizzabili.<br />

Questa visione presuppone l’esistenza di mercati o, più in generale, di un meccanismo in grado<br />

di determinare i rapporti di scambio, che vengono considerati dei dati dai singoli agenti e sulla cui<br />

base essi decidono quali scambi effettuare. Essa richiede che ciò che è acquistato e venduto sia<br />

perfettamente noto e conosciuto da tutti i contraenti così che non vi siano costi nella determinazione<br />

e nella specificazione del contenuto stesso del contratto di scambio da parte di ciascun<br />

individuo e nella verifica <strong>della</strong> sua esecuzione.<br />

È questa la versione che, sotto opportune ipotesi, permette di dimostrare l’efficienza paretiana<br />

dell’equilibrio di un’economia di concorrenza perfetta e la raggiungibilità di (quasi) ogni<br />

allocazione efficiente come equilibrio di perfetta concorrenza se sono realizzabili opportune redistribuzioni<br />

delle dotazioni individuali. È molto difficile vedere in che senso, se non per un<br />

pianificatore (e in questo caso bisognerebbe poi studiare le problematiche relazioni tra i suoi<br />

obiettivi e quelli dei pianificati) sia possibile usare questo schema per esaminare gran parte dei<br />

problemi di interesse per la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>; ad esempio, per costruzione, in questo<br />

contesto l’azione dell’individuo non ha alcuna incidenza sull’equilibrio raggiunto, dunque egli non<br />

ha alcun potere di influenzarla e di conseguenza neppure alcuna responsabilità per le sue caratteristiche.<br />

I meccanismi che vengono studiati nella teoria recente sono quelli in cui ciascun contraente sa<br />

chi è la sua controparte. Ciascuno cerca accordi liberamente e volontariamente accettati da tutti<br />

coloro che vi prendono parte, e in questo senso rispettosi dell’autonomia di ciascuno, che


consentono di coordinare le proprie azioni con quelle degli altri in modo da permettere a tutti gli<br />

agenti coinvolti di raggiungere stati preferiti a quelli raggiungibili in assenza di accordo e coordinamento.<br />

Ciascuno sa però anche che esiste una pluralità di accordi possibili che godono di<br />

queste caratteristiche ma che differiscono per la maniera in cui distribuiscono i vantaggi derivanti<br />

dal coordinamento stesso tra i partecipanti ed esiste dunque un conflitto sulla scelta dell’accordo.<br />

Per di più la negoziazione viene effettuata in una situazione in cui l’informazione che ciascuno<br />

possiede sulle caratteristiche dell’altro e sullo stato del mondo è limitata e asimmetrica, e l’osservazione<br />

del soddisfacimento del contratto stipulato è costosa o addirittura irrealizzabile. L’ultima<br />

caratteristica pone vincoli alla possibilità di utilizzare meccanismi di garanzia del rispetto dei patti<br />

come il ricorso ad un terzo arbitro o a un sistema giudiziario e richiede che il vincolo contrattuale<br />

contenga incentivi sufficienti a rendere interesse di ciascuna parte il corretto adempimento degli<br />

obblighi volontariamente sottoscritti.<br />

Gran parte <strong>della</strong> strumentazione concettuale per analizzare questi casi viene derivata dalla<br />

teoria dei giochi. Un gioco è definito da: a) un insieme di giocatori; b) per ciascun giocatore, un<br />

insieme di azioni alternative tra cui deve scegliere quella da compiere; c) una regola che associa<br />

a ciascun insieme di azioni, una per ciascun giocatore, un esito, ossia uno stato raggiunto per<br />

effetto <strong>della</strong> loro attuazione; d) una misura del livello di realizzazione degli obiettivi di ciascun<br />

giocatore in corrispondenza a ciascuno dei possibili esiti.<br />

Per semplicità, ci si limiterà dapprima essenzialmente ai giochi deterministici a informazione<br />

completa e perfetta. Nei giochi di un qualche interesse, nessun giocatore è in grado di<br />

determinare, attraverso la scelta del proprio comportamento, quale esito verrà raggiunto; sa che<br />

esso dipenderà da quali azioni gli altri sceglieranno di effettuare e sa che gli altri si trovano, e<br />

sanno di trovarsi, in una condizione analoga. Si ipotizza che ciascun giocatore sia razionale nel<br />

fare le proprie scelte, ossia che a ciascuna possibile combinazione di azioni scelte dagli altri<br />

associ un’azione sua tale da massimizzare la propria funzione obiettivo. Sa che gli altri sono<br />

razionali e sa che ciascuno sa tutto ciò che gli altri sanno. La nozione più comune di equilibrio di<br />

un gioco è quella che lo identifica in un insieme di azioni tali per cui nessuno vorrebbe aver<br />

deciso altrimenti una volta conosciute le azione adottate dagli altri; nessuno, date le scelte degli<br />

altri, potrebbe far meglio per la realizzazione dei propri obiettivi che continuando a fare ciò che<br />

fa.<br />

Trascurando gli aspetti tecnici relativi alle condizioni di esistenza e all’interpretazione di un<br />

equilibrio, i problemi interessanti per la presente discussione nascono dall’esistenza di più<br />

soluzioni che, anche quando sono tutte efficienti, non possono essere ordinate tra loro nel senso<br />

di Pareto (l’esempio canonico è la «battaglia dei sessi») e/o dal fatto che, anche quando vi è<br />

un’unica soluzione, questa non è efficiente nel senso di Pareto (il caso del «dilemma dei<br />

prigionieri»).<br />

Mentre la decisione individuale è potestà e responsabilità del singolo, la formulazione lascia del<br />

tutto impregiudicato il fatto che si stia descrivendo un mondo di persone egocentriche o di<br />

persone altruiste; questo dipende dalla struttura <strong>della</strong> funzione obiettivo di ciascuno dei giocatori.<br />

Ciò che è importante è che, una volta specificato l’insieme delle azioni disponibile per ciascuno,<br />

nessuno può vincolarsi con gli altri, per lo meno non in modo da essere credibile e creduto da<br />

costoro, a prendere una decisione piuttosto che un’altra; ciò non vuol dire che mantenere la<br />

propria parola deve essere ritenuto un fatto irrilevante: se lo è, questo incide sul modo in cui il<br />

gioco viene caratterizzato, in particolare su come si descrive la singola azione (come si distingue<br />

il fare, o non fare, un’azione che si è promesso di fare dal farla, o non farla, in assenza di<br />

promessa), come si costruisce l’insieme delle azioni ammissibili e, soprattutto, sulle proprietà di<br />

cui si dotano le funzioni obiettivo dei singoli.<br />

I problemi sottolineati in quest’ambito riguardano soprattutto i conflitti tra razionalità individuale<br />

e razionalità collettiva. Ma essi costringono anche ad un rigore di linguaggio che aiuta a chiarire


di cosa si sta effettivamente parlando. Ad esempio, distinguono nettamente i problemi di<br />

coordinamento, che non richiede coinvolgimento nel perseguimento dei fini degli altri giocatori, da<br />

quelli di cooperazione, che invece sembra presupporlo; i primi vanno studiati analizzando il gioco<br />

una volta che lo si sia definito, i secondi incidono invece sul modo in cui si definisce il gioco, ad<br />

esempio, sulle caratteristiche di cui si vuole che godano le funzioni obiettivo di cui sono dotati gli<br />

individui. Ancora, fanno vedere come si possa facilmente essere altruisti, almeno nel senso di<br />

essere interessati al benessere altrui, per motivi terribilmente egocentrici.<br />

Per riferirsi a un caso concreto, si vede spesso utilizzare il dilemma del prigioniero per<br />

illustrare i danni prodotti da una visione egocentrica, che trascura gli interessi <strong>della</strong> parte con cui<br />

ci si trova a giocare, quanto stupido sia comportarsi in maniera egoista e, in questo senso,<br />

immorale. Nel far ciò si mischia il problema del coordinamento con quello <strong>della</strong> scelta del tipo di<br />

persona che si vuol essere. Si può ben sostenere che sia male essere egocentrici e che in alcune<br />

situazioni due persone altruiste finiscono per fare scelte che se fossero fatte dalle persone egocentriche<br />

le porterebbero entrambe ad una posizione preferita a quella che la razionalità nel perseguimento<br />

di obiettivi egocentrici finisce per far loro raggiungere. Il problema è che, sia pure in<br />

situazioni diverse e per motivi diversi, anche persone altruiste possono trovarsi in una situazione<br />

di dilemma del prigioniero e essere indotte dalla razionalità a fare scelte che le portano a una<br />

situazione peggiore di quella che raggiungerebbero se si comportassero come se perseguissero<br />

razionalmente obiettivi egocentrici. Date queste difficoltà, la scelta del meccanismo di coordinamento<br />

deve dunque essere discussa separatamente, almeno da questo punto di vista, da quella<br />

<strong>della</strong> scelta del tipo di persona che si vuole essere.<br />

Si può voler sostenere che se la gente non è egocentrica certe situazioni, o certi giochi, come<br />

quelli del dilemma del prigioniero, con i loro paradossi e i loro costi, non si presenterebbero ma<br />

allora si scoprirebbe anche che è impossibile arrivare alle conclusioni desiderate; al massimo si<br />

riuscirebbe a dimostrare che si presenterebbero meno frequentemente o con minor probabilità. Si<br />

può mettere in discussione il concetto di razionalità impiegato, ma in questo modo si discuterebbe<br />

<strong>della</strong> logica impiegata non <strong>della</strong> moralità. Ma, a parte queste possibilità, si può solo dire se un<br />

gioco è giocato bene, nel senso di razionalmente, o male, irrazionalmente, non che un gioco può<br />

essere giocato in modo morale o in modo immorale. E si può discutere quali effetti abbia giocare<br />

un certo gioco sulla struttura di preferenze, sulla funzione obiettivo di un certo individuo, più in<br />

generale su come percepisce il mondo in cui si trova, ma non quale influenza abbia quella funzione<br />

sul modo in cui un gioco viene effettuato. Ma questo riporterebbe al problema <strong>della</strong><br />

formazione delle persone a cui si è fatto cenno in precedenza.<br />

6. Cenni ai problemi di disegno e valutazione delle istituzioni e dei meccanismi di<br />

interazione<br />

I problemi considerati dalla teoria dei giochi portano ad estendere l’analisi all’individuazione<br />

delle condizioni sulle caratteristiche di un gioco che assicurano, ad esempio, che l’esito sia<br />

almeno efficiente nel senso di Pareto e dunque sulla scelta, quando questo è possibile, del<br />

meccanismo di interazione da adottare. Essi possono dunque essere visti come il primo passo<br />

verso una formulazione del problema del disegno e <strong>della</strong> scelta degli assetti istituzionali.<br />

Occorre osservare che, nel caso particolare in cui tutti adottassero il medesimo criterio di valutazione<br />

degli esiti, scomparirebbero gran parte delle difficoltà a cui si fa cenno ma chi trovasse<br />

quest’ipotesi seducente dovrebbe poi chiedersi, a parte il realismo, cosa essa richieda in termini<br />

di informazione e osservazione delle azioni e dei criteri di valutazione degli altri giocatori per ciascuno<br />

degli agenti e quanto sia compatibile con la preservazione di un’identità personale dell’individuo.


Informazione ed osservabilità diventano i problemi dominanti quando si abbandona l’ipotesi di<br />

informazione completa e perfetta. Un caso molto studiato è quello del principale-agente; la sua<br />

applicazione tipica è quello del contratto di lavoro quando il datore di lavoro non può specificare<br />

le azioni che il lavoratore dovrà mettere in atto e/o non può verificare l’impegno con cui il<br />

dipendente svolge il suo lavoro; ovviamente ciò si riflette in una qualche indeterminazione<br />

contrattuale ex ante di quale remunerazione verrà riconosciuta al lavoratore dal datore di lavoro<br />

ex post.<br />

Fa grande differenza che l’interazione esaminata sia vista come unica e non ripetuta o che<br />

invece si supponga che la stessa situazione sia destinata a ripetersi un numero non predeterminato<br />

di volte. Il caso di interazioni ripetute porta all’analisi di relazioni potenzialmente durature,<br />

in cui credibilità del rispetto degli impegni all’interno di una relazione e reputazione nei confronti<br />

degli altri membri <strong>della</strong> collettività in vista di altre possibili relazioni contrattuali diventano particolarmente<br />

importanti. E nel discutere le caratteristiche che deve assumere il contratto che si deve<br />

stipulare, specificare le caratteristiche personali dei contraenti, quali obiettivi e dunque anche<br />

quali valori perseguono, di nuovo diventa importante.<br />

Questo tipo di indagini sta alla base del modo in cui si tende a vedere e a studiare il perché<br />

esistono e come funzionano le imprese, le strutture e i modi di operare dei mercati. Generalmente<br />

tendono a spostare l’analisi dal livello macroeconomico a quello microeconomico. Purtroppo non<br />

generano ipotesi facilmente verificabili e in questo campo i risultati negativi, i teoremi di impossibilità,<br />

primo tra tutti quello di Hurwicz, sono molto più forti di quelli positivi.<br />

Anche una volta che si sia ammesso tutto ciò, non sono sicuro che si possa tranquillamente<br />

accantonare queste cose come astratta teorizzazione. L’impressione che dà una certa pastorale è<br />

quella di considerare il lavoro esclusivamente come mezzo per ottenere un reddito, come tempo<br />

sottratto alla vita vera e che la sacrifica. Del resto, la necessità di lavorare (o forse solo quella<br />

del sudore <strong>della</strong> fronte) per procurarsi il pane è sorta solo dopo la cacciata dal Paradiso<br />

Terrestre. Pur essendo in accordo su questo punto, la visione moderna è molto diversa per tutto il<br />

resto dalla visione più antica. Ovviamente, le condizioni in cui si lavora sono cambiate; si pensi a<br />

quante famiglie contadine che lavoravano propri appezzamenti o alle piccole imprese artigianali,<br />

anche queste molte a conduzione familiare, sono scomparse con il passaggio alla fabbrica in<br />

Italia nel dopoguerra. Ed è cambiato di conseguenza anche il contenuto ed il significato del<br />

lavoro.<br />

Ma quando si usa quest’ottica, di quale lavoro e di quale tipo di lavoratori si parla? Date le<br />

caratteristiche di estraneità e di estraneazione, la teoria sopra indicata tenderebbe ad individuarlo<br />

in quello a bassa qualificazione, usato per operazioni di facile standardizzazione che, proprio<br />

perché non richiede grande partecipazione al lavoratore, non pone problemi di verificabilità; non<br />

lo assocerebbe certo a quello dei manager o dell’alta dirigenza e neppure a quello di un comune<br />

impiegato o persino di un garzone dotato di una qualche autonomia. Dal punto di vista<br />

dell’impresa, all’opposto di quello del lavoratore, non esiste un grande interesse ad instaurare un<br />

rapporto potenzialmente continuativo con lavoratori di questo tipo, mentre la potenziale<br />

continuatività è una struttura essenziale per il funzionamento del contratto per lavori diversi.<br />

Vi sono molte ragioni per essere estremamente critici, pur tenendo conto dei vincoli di<br />

realizzabilità, per un’organizzazione e per un uso del lavoro di questo tipo, che certamente<br />

dovrebbe essere ridotta al minimo. La pastorale del lavoro non dovrebbe perciò essere indirizzata<br />

solo ai lavoratori ma, anche se non soprattutto, ai datori di lavoro.<br />

Detto questo, è importante però insistere su quale atteggia mento, quali relazioni si dovrebbero<br />

instaurare tra lavoratore e impresa per realizzare un assetto diverso, quale formazione dovrebbe<br />

darsi e quale ottica dovrebbe adottare il lavoratore per poter realizzare un assetto diverso: se il<br />

lavoro è un diritto, comporta però ben precisi obblighi. Occorre di nuovo recuperare il ruolo ed il<br />

significato del lavoro per la vita <strong>della</strong> persona. E l’essere realisti su cosa vuol dire lavorare oggi, il


prescindere da queste dimensioni, si potrà dimostrare molto stupido quando si dovrà far i conti con<br />

il fatto che questo è anche il tipo di lavoro che ci verrà più facilmente sottratto, e su cui cadranno<br />

più pesantemente i costi <strong>della</strong> concorrenza dei paesi dell’Est Europa e di quelli in via di sviluppo<br />

dove questo tipo di lavoro costa molto di meno e forse, da un punto di vista equitativo (di<br />

equilibrio tra Nord e Sud e tra Ovest ed Est), vale molto di più.<br />

La <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> ha sempre avuto attenzione ai meccanismi di interazione. Da<br />

un lato, essi incidono sulle possibilità di, e sulla effettiva realizzazione <strong>della</strong>, scelta di che tipo di<br />

persona essere; d’altro lato, determinano le situazioni in cui le persone si troveranno ad operare.<br />

Questi due aspetti non sono completamente separabili ma, come si è sostenuto, è pericoloso<br />

trascurare le loro diversità.<br />

Una volta eliminati i fraintendimenti non v’è poi tanta contrapposizione tra questo tipo di teorie<br />

e le posizioni solidaristiche che si ritrovano nella <strong>dottrina</strong>; la differenza sta piuttosto nell’analisi dei<br />

problemi che il solidarismo deve risolvere. Da un lato c’è chi mette l’accento sulle buone intenzioni,<br />

i buoi propositi, l’essere attenti agli altri, ecc. Ma il magistero afferma che: «[La solidarietà]…<br />

non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di<br />

tante persone, vicine o lontane» (Sollicitudo rei <strong>sociali</strong>s, n. 38). Queste cose sono certamente<br />

desiderabili e in molti casi necessarie ma nel documento citato si aggiunge: «Al contrario, è la<br />

determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e<br />

di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (ibid.). C’è dunque, a mio modo<br />

di vedere, un problema di modi e regole di interazione che occorre affrontare e risolvere; per formulare<br />

questo problema occorre sia definire quali sono gli ambiti di autonomia individuale, sia<br />

definire quali sono le strutture che, pur rispettando il decentramento delle decisioni e l’autonomia<br />

dell’individuo, producono risultati che soddisfano condizioni reputate desiderabili.<br />

C’è gente che muore di fame ed è certamente necessario far sì che abbia da mangiare, ma a<br />

seconda di come questo viene fatto si possono indebolire i meccanismi che hanno prodotto<br />

questa situazione o aggravarli e sembrerebbe che ristabilire le condizioni ed i meccanismi che<br />

consentono a ciascuno di usare la propria autonomia in modo da non trovarsi a morire d’inedia<br />

sia almeno altrettanto importante dell’intervento d’urgenza. Ma di nuovo, questo mette in<br />

evidenza il problema di come le regole e le condizioni di interazione inducono i singoli ad usare<br />

<strong>della</strong> propria autonomia e, in un certo senso, di quanto l’azione <strong>sociale</strong> debba essere sussidiaria<br />

rispetto a quella individuale. La Centesimus annus afferma: «una società di ordine superiore non<br />

deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue<br />

competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua<br />

azione con quella delle altre componenti <strong>sociali</strong> in vista del bene comune» (n. 48).<br />

7. Alcuni dubbi sul ruolo dell’esegesi <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

Si è argomentato sopra che molti dei temi <strong>della</strong> ricerca teorica recente in economia, in<br />

particolare l’attenzione per la persona e per i meccanismi di interazione, appartengono in realtà<br />

alla tradizione del pensiero cattolico; ciò che le rende diverse è soprattutto il linguaggio e<br />

naturalmente l’ottica adottata in queste discussioni. Se vi è stato un influsso <strong>della</strong> teoria, non è<br />

consistito nell’introduzione di nuovi temi ma piuttosto in un arricchimento dell’articolazione e degli<br />

strumenti di analisi. Per fare un’analisi di questo tipo occorrerebbe comparare documenti<br />

elaborati in periodi diversi, vedere quali sono stati i cambiamenti e quando questi sono avvenuti.<br />

D’altra parte mi sembra molto improbabile che, direttamente, come membri dei comitati<br />

preparatori, o indirettamente, attraverso l’incidenza dei loro contributi su come si fa e cosa si<br />

studia in economia su questi problemi, i maggiori teorici del momento non abbiano avuto un<br />

qualche influsso soprattutto sui documenti più recenti.


Anche in questo caso, sembra necessario fare distinzioni a seconda dei livelli a cui viene<br />

elaborata la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>. L’incidenza <strong>della</strong> teoria sulla <strong>dottrina</strong>, nella misura in cui è avvenuta,<br />

c’è stata per quanto riguarda il magistero pontificio. Mi sembra più limitata quella sul magistero<br />

episcopale, e, forse sorprendentemente, ma qui occorre ribadire la scarsità di conoscenze in<br />

materia di chi scrive, ancora più limitata sul lavoro di esegesi.<br />

Ho molti dubbi invece sul fatto che la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> abbia influenzato il modo in cui si studiano<br />

questi problemi in ambito scientifico.<br />

A mio avviso questo è un riflesso <strong>della</strong> scelta del tipo di linguaggio utilizzato ed il tipo di<br />

interlocutori a cui ci si rivolge l’esegesi. Anche qui occorre fare una distinzione tra il linguaggio<br />

che è lecito, e probabilmente è necessario, usare in documenti del magistero e quello che invece<br />

si dovrebbe usare da parte di chi ne fa un’analisi. Da quest’ultimo punto di vista, mi sembra che,<br />

da un lato, l’analisi tenda a privilegiare quelle che vengono viste come le implicazioni pratiche,<br />

assai più che non la struttura teorica del discorso; d’altro lato, la mia impressione è che non ci sia<br />

alcuna attenzione per alcuni tipi di interlocutori. Queste scelte hanno costi che non sono sicuro<br />

siano stati attentamente valutati e, almeno potenzialmente, assai più alti di quanto si pensa.<br />

Molti dei concetti cardine utilizzati dal magistero nei suoi documenti non sono quelli usati nella<br />

letteratura scientifica corrente. Per fare un esempio, è molto difficile trovare in questa letteratura<br />

un concetto come quello di bene comune, largamente usato nei documenti; non che esso sia interamente<br />

assente, ma viene variamente declinato in termini di efficienza paretiana, funzione <strong>sociale</strong><br />

del benessere, funzione di scelta collettiva e così via. Nella letteratura scientifica, quando<br />

vengono usati, si insiste sui limiti di questi concetti (questo è il caso di quello più facilmente<br />

definibile, di efficienza paretiana) e sui problemi di esistenza, di interpretazione e di identificazione<br />

o costruzione (questo è il caso delle funzioni di scelta collettive o delle funzioni del<br />

benessere <strong>sociale</strong>) ma sono queste le cose di cui si discute. Sembrerebbero perciò essere queste<br />

le categorie che dovrebbero essere poi usate dagli esegeti, almeno se vogliono rendersi<br />

comprensibili a un certo pubblico.<br />

E, non resistendo alla tentazione di un secondo esempio, mi pare molto più articolata la<br />

posizione sull’impresa <strong>della</strong> Centesimus annus 2 di quanto non dica, soprattutto a proposito del<br />

lavoro e del profitto, certa esegesi. Leggendo quest’ultima, non si capisce qual è il livello di conoscenza<br />

<strong>della</strong> moderna teoria dell’impresa, teoria che la vede essenzialmente come un luogo di<br />

interazione tra agenti con obiettivi potenzialmente in conflitto e allo stesso tempo con ragioni di<br />

cooperazione, o del ruolo che il profitto ha anche nei modelli economici più tradizionali. Certamente<br />

si può ben sostenere che se profitti più alti vogliono dire consumi ostentativi per il «padrone»,<br />

salari più bassi per i lavoratori e maggior disoccupazione, tutto ciò sia riprovevole; in<br />

questo caso però, non si sta parlando del profitto ma essenzialmente dello scopo perseguito dal<br />

padrone e dei modi in cui è realizzato, il consumo opulento anche a scapito di quello di sussistenza<br />

dei lavoratori. Credere che il problema dell’impresa, del profitto e del lavoro si riduca a<br />

questo mi sembra colpevolmente ingenuo.<br />

Usare concetti più precisi o circoscritti pone certamente problemi per i documenti del<br />

magistero che hanno come destinatario un pubblico ovviamente eterogeneo; questa ragione non<br />

c’è per le analisi esegetiche e, d’altra parte, non sono sicuro che senza questa precisione si possa<br />

andare molto avanti nell’analisi. Vi è certamente un delicato problema di equilibrio, sia nella<br />

scelta delle persone a cui rivolgersi, sia nella scelta dei temi da mettere in rilievo. Ma insisterei<br />

sul fatto che il tipo di problemi a cui ho fatto cenno sopra, anche se astratti e non immediata-<br />

2 «Scopo dell’impresa… non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa<br />

dell’impresa come comu nità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro<br />

fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società. Il profitto è un<br />

regolatore <strong>della</strong> vita dell’azienda, ma non è l’unico; …» (n. 35).


mente applicabili, siano importanti per discutere problemi urgenti come la fame nel mondo; a<br />

detta di specialisti, molte di queste situazioni dipendono dal tipo di strutture istituzionali e di interazione<br />

utilizzate in alcune società; certamente il precetto di dar da mangiare all’affamato ha<br />

un’ovvia precedenza ma da solo, nella sua versione più immediata, non impedisce che situazioni<br />

di fame si ripresentino e addirittura si aggravino.<br />

Quel che a prima vista può apparire un doveroso esercizio dell’opzione preferenziale per i<br />

poveri può più semplicemente essere un’opzione a vantaggio di alcuni poveri e contro altri<br />

poveri, ad esempio degli occupati contro i disoccupati o dei poveri delle generazioni presenti<br />

contro i poveri delle generazioni future, di quelli dei paesi ricchi contro quelli dei paesi poveri o<br />

viceversa. Nell’appoggiare interventi di politica economica, soprattutto quelli a carattere<br />

redistributivo, occorre esser ragionevolmente sicuri di aver individuato tutti coloro che vengono<br />

colpiti, di aver accertato che sia in effetti possibile raggiungere gli effetti desiderati, scontando sia<br />

le eventuali reazioni di chi viene danneggiato, sia i comportamenti strategici dei potenziali<br />

beneficiari, qualunque sia il giudizio che si dà su queste reazioni, ed identificato chi e in che<br />

misura verrà avvantaggiato. E in queste discussioni, per quanto importante sia la teoria, la pratica<br />

(e non le implicazioni pratiche tratte dai teorici) intelligente, così rara, è insostituibile<br />

Personalmente non sono tanto disturbato dal fatto che interventi redistributivi comportino<br />

confronti interpersonali, che non è sempre facile giustificare, quanto dal fatto che non solo si<br />

fanno questi confronti, spesso senza renderli espliciti, ma di solito non si è affatto chiari, e<br />

comunque non lo si è sempre, su quanto grande ed incerto è il campo di variazione dei possibili<br />

risultati di questi interventi. Esplicitare l’esistenza di questa incertezza, possibilmente quantificarla<br />

e assumersene gli oneri e le responsabilità mi sembra una condizione minima che deve essere<br />

soddisfatta da chi è mosso all’azione da esigenze etiche.<br />

Quello che forse trovo più disturbante è il fatto che l’aver abbandonato o non molto coltivato il<br />

proprio campo, essenzialmente culturale e teorico, per una spuria ricerca di rilevanza pratica che<br />

chi opera nel concreto saprebbe, o dovrebbe saper, fare meglio, è forse la causa principale <strong>della</strong><br />

scarsa incidenza che la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, ma forse più in generale il pensiero <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, sulla<br />

persona e sulle istituzioni in particolare, ha avuto sulla letteratura scientifica. Io conosco parte di<br />

quella economica sulla teoria <strong>della</strong> scelta, ad esempio, ma credo che la situazione sia analoga in<br />

alcuni ambiti filosofici. Ho fatto sopra un esempio dei problemi per trovare uno spazio per l’idea<br />

di libertà, ma si sarebbe potuto usare il caso di cosa voglia dire che le scelte di una persona hanno<br />

un significato, di cosa costituisca ragione di una scelta. Il problema è che mentre gli schemi che<br />

essi usano sono aperti a questi interrogativi, alcuni economisti li studiano, ma molti altri, e anche<br />

tra i più rilevanti, non li vedono neppure più, e condividono anzi un’impostazione che sembra<br />

negare la stessa esistenza di queste dimensioni <strong>della</strong> persona e vederli non come problemi di<br />

libera scelta ma come il campo privilegiato dell’operare di meccanismi esogeni. Ovviamente questa<br />

impressione può essere dovuta a mia incomprensione o semplicemente a mia ignoranza.<br />

Ammesso che i documenti del magistero non possono essere il luogo di analisi scientifiche<br />

rigorose in campi per di più ancora ben lungi dall’aver trovato una qualche sistemazione definitiva,<br />

non saprei dove andare a trovare la letteratura scientifica, e forse soprattutto quella filosofica,<br />

ispirata alla <strong>dottrina</strong> che, scendendo sul loro terreno ed usando il loro linguaggio e la loro<br />

struttura concettuale, abbia, se non messo in crisi, almeno sollevato problemi per impostazioni diffuse<br />

in ambito scientifico e filosofico che sembrano palesemente in contrasto con essa, che le<br />

abbia costrette a ripensare la propria posizione.<br />

A mio modo di vedere questo è un po’ sorprendente e solleva alcuni interrogativi sugli<br />

atteggiamenti che oggi sembrano prevalere nei confronti del lavoro puramente intellettuale<br />

soprattutto se confrontato con l’impegno nel <strong>sociale</strong>. Di nuovo devo premettere che non ho conoscenza<br />

sufficiente in materia. Per un incolto come me, l’immagine <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> medioevale è<br />

popolata di monaci variegati, dagli agostiniani ai domenicani, dai benedettini ai francescani che,


vivendo in un periodo non meno caratterizzato da povertà e miseria del nostro, in cui carestie,<br />

pestilenze e guerre non erano sconosciute, con livello di reddito pro-capite risibili per gli standard<br />

di oggi, non solo si impegnavano, magari con qualche limite (ma gli storici ci ammoniscono dal<br />

fare storia con i se), per i poveri, i diseredati e gli ammalati, ma, oltre a realizzare importanti<br />

innovazioni nelle tecniche agricole e in quelle di amministrazione, fondavano e difendevano,<br />

qualche volta con un po’ di asprezza, delle proprie scuole, innanzitutto teologiche, ma anche filosofiche<br />

e scientifiche. Quanto <strong>della</strong> logica in uso fino a pochi decenni fa è stata raffinata da loro?<br />

Sarebbe difficile oggi associare qualcuna delle maggiori correnti filosofiche a uno qualsiasi di<br />

questi ordini. E il loro lavoro, ma anche quello degli altri che operano in campo teorico e culturale,<br />

mi sembra avere prevalentemente un interesse interno alla <strong>Chiesa</strong>, importante per noi ma privo di<br />

incidenza fuori dal nostro ambito.<br />

Perché? Sono queste cose meno importanti oggi di allora?<br />

Sarebbe interessante sapere se esistono stime sulla percentuale delle risorse e dell’attenzione<br />

che nel medioevo, in quelle condizioni, veniva destinata al lavoro puramente intellettuale, allo<br />

sviluppo e al rafforzamento <strong>della</strong> formazione culturale, e sapere come è cambiata venendo<br />

all’oggi. La mia impressione è che ora tale quota sia decisamente inferiore. Sono veramente dei<br />

beni inferiori o addirittura di Giffen?<br />

Allora la <strong>Chiesa</strong> aveva un ruolo che oggi non ha più; la <strong>Chiesa</strong> non ha oggi gli stessi compiti<br />

che doveva porsi allora; la <strong>Chiesa</strong> non ha più la responsabilità che deriva dall’essere uno dei<br />

pochi centri che sentono l’esigenza ed hanno la possibilità di elaborare questo tipo sapere. Oggi<br />

gran parte <strong>della</strong> cultura viene elaborata fuori dalla <strong>Chiesa</strong> e credo che in questo non ci sia nulla di<br />

male.<br />

Ma il confronto tra la situazione di allora e quella di oggi mi pare mettere in rilievo un altro<br />

fattore: allora si riteneva che anche chi si muoveva in una prospettiva essenzialmente religiosa<br />

dovesse interessarsi di tutto il campo dello scibile nel senso che nulla fosse estraneo all’uomo<br />

religioso proprio in quanto religioso. Ciò esponeva a molte tentazioni, specialmente fuori<br />

dall’ambito teologico, di scorciatoie e soprattutto di subordinazione del campo puramente<br />

scientifico e dell’interpretazione <strong>della</strong> natura che sono state duramente contestate in seguito.<br />

D’altra parte sembrava mettere in evidenza che non esiste tanto uno specifico territorio<br />

d’indagine religioso, ma piuttosto un’ottica che chi si muove in una prospettiva religiosa adotta<br />

nell’indagare un qualsiasi campo; ci possono essere oggetti d’indagine che sono di interesse quasi<br />

esclusivo di chi si muove in questa prospettiva, si pensi all’ambito strettamente teologico, mentre<br />

non lo sono per chi si muove in una diversa prospettiva, ma sembrerebbe non essere vero l’inverso.<br />

Ho il sospetto che oggi si tenda invece ad affermare che c’è un terreno di indagine proprio di<br />

ciò che è religioso, distinto se non separato dal resto del terreno culturale e scientifico. Se ci si<br />

muove in quest’ultima prospettiva, si è portati a trascurare ciò che non rientra in questo ambito<br />

specifico, e dunque a trascurare le interazioni con chi si muove in una prospettiva diversa ma<br />

sugli stessi temi. Il problema è che non ci si può aspettare che questa cultura necessaria mente<br />

adotti l’ottica, anche solo antropologica, di maggior interesse per la <strong>Chiesa</strong>. La mia impressione è<br />

che molti dei temi rilevanti, per il cristiano ma non solo, abbiano così finito per essere fortemente<br />

relegati in una regione guardata con sufficienza o almeno con sospetto nell’ambito <strong>della</strong> cultura<br />

prevalente. E forse non ci si deve meravigliare del proprio isolamento quando lo si constata nei<br />

congressi mondiali sulla popolazione, ad esempio, dove semplicemente si esprime ciò che si era<br />

culturalmente preparato prima.<br />

Se invece non esiste uno specifico religioso, ma un’ottica religiosa che pervade tutto, questa<br />

concentrazione perderebbe la sua ragione d’essere. Certamente ciò che accade in altri campi<br />

potrebbe porre interrogativi e problemi difficili a chi condivide un’ottica religiosa e che potrebbe<br />

evitare chiudendosi ad essi; l’interazione potrebbe non essere affatto facile ma fornirebbe un


terreno di confronto importante e potenzialmente produttivo di conseguenze anche sugli<br />

atteggiamenti, sugli argomenti studiati e sui metodi e gli indirizzi adottati anche da chi non condivide<br />

una tale ottica.<br />

Naturalmente si possono rifiutare tutte le impostazioni moderne che si trovano in contrasto con<br />

la propria visione. Con ciò, non cesseranno di porci domande. Il punto è che comunque finiremo<br />

per usarle e verranno comunque impiegate da coloro che lavorano in quegli specifici campi;<br />

questo è sicuramente vero per l’economia in cui gran parte dei fondamenti teorici sono<br />

fortemente debitori verso filosofie e impostazioni metodologiche predominanti nel mondo<br />

anglosassone che ci sono almeno in qualche misura estranee. D’altra parte, la gente che lavora<br />

in quei campi è lungi dall’essere perversa o in qualche senso meno persona di noi o avere una<br />

ricchezza di sentimenti e di ideali inferiore alla nostra. Come abbiamo cercato di interagire con<br />

loro e con questo sviluppo culturale? Quali domande siamo stati capaci di formulare e abbiamo<br />

posto in modo rilevante per coloro che lavorano in questi ambiti?<br />

Anche se, ma ciò è discutibile, ciò che ci interessa di più è il <strong>sociale</strong>, è vero che, proprio in<br />

quest’ottica, l’impegno, soprattutto quello di persone che non sono esperte nella pratica<br />

intelligente quanto nella teoria, debba essere concentrato sull’intervento nel <strong>sociale</strong> e non essere<br />

invece assai più attento alle dimensioni culturali, a quelle dimensioni che poi, in modo obliquo e<br />

magari distorto, generano anche il clima culturale in cui tutti noi viviamo? Dopo tutto, non è<br />

questo il clima che influenza fortemente il modo in cui si formano le persone e che rende poi<br />

necessario, secondo alcuni, rendere sensibili gli individui al <strong>sociale</strong>?


SIMONA BERETTA<br />

LA SCIENZA ECONOMICA E IL PROBLEMA DELLO SVILUPPO<br />

Nel presente contributo intendo sviluppare il rapporto fra corpo <strong>dottrina</strong>le e le discipline<br />

economiche, con particolare riferimento al problema dello sviluppo. Secondo le indicazioni, il<br />

contributo sarà articolato in tre punti (non equipesanti, per le ragioni indicate nello svolgimento):<br />

1. quale incidenza o quale fecondità ha avuto la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> sulla storia <strong>della</strong> nostra<br />

società?<br />

2. quali impieghi ha fatto la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> dei risultati scientifici?<br />

3. quali indicazioni di approfondimento scientifico l’approccio disciplinare riceve dalla <strong>dottrina</strong>?<br />

1. Quale incidenza o quale fecondità ha avuto la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> sulla storia <strong>della</strong> nostra<br />

società?<br />

La risposta che io mi sento di dare al primo quesito è innanzitutto contenuta in quanto la<br />

Dottrina Sociale dice di sé e in come definisce il suo compito nel mondo. I punti che mi sembrano<br />

più direttamente pertinenti sono:<br />

a) La <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> prende avvio dalla fede; avvalendosi di tutti gli apporti delle scienze e<br />

<strong>della</strong> filosofia, si propone di assistere l’uomo nel cammino di salvezza (Centesimus annus, n.<br />

54).<br />

b) Il messaggio <strong>sociale</strong> del Vangelo non è una teoria, ma fondamento e motivazione per<br />

l’azione (n. 57). Inclusa fra le azioni - mi pare importante ricordarlo - è l’azione del fare ricerca<br />

scientifica.<br />

c) La <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> si caratterizza sia per la sua dimensione interdisciplinare e per la sua<br />

dimensione pratica, sperimentale. «Essa si situa all’incrocio <strong>della</strong> vita e <strong>della</strong> coscienza cristiana<br />

con le situazioni del mondo e si manifesta negli sforzi che singoli, famiglie, operatori culturali e<br />

<strong>sociali</strong>, politici e uomini di stato mettono in atto per darle forma e applicazione nella storia» (n.<br />

59).<br />

d) Nell’esame del corso degli eventi, la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> non intende dare giudizi definitivi (n.<br />

3).<br />

e) Come lo scriba divenuto discepolo sa trarre dal suo tesoro cose nuove e cose antiche, così<br />

nel valore permanente del suo insegnamento si manifesta il vero senso <strong>della</strong> tradizione <strong>della</strong><br />

chiesa. Di tali cose, nuove e antiche, che si incorporano alla tradizione fa parte anche l’operosità<br />

feconda di milioni di uomini, che, stimolati dal magistero <strong>sociale</strong>, si sono ispirati ad esso in ordine<br />

al proprio impegno (n. 3).<br />

f) La <strong>dottrina</strong> segue da vicino la questione <strong>sociale</strong> non per imporre una sua concezione, ma per<br />

avere cura dell’uomo; non dell’uomo astratto, ma di ciascun uomo concreto e storico (n. 53); si<br />

noti che, per aver cura di ciascun uomo concreto e storico, è indispensabile che gli attori <strong>della</strong><br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> sono i milioni di uomini sopra ricordati.<br />

g) Si tratta di un messaggio credibile nella testimonianza delle opere, prima che nella sua<br />

coerenza interna (n. 57).<br />

Dunque, la stessa vita, concreta e storica, <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> nel mondo fa parte del tesoro da cui la<br />

forma scritta <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> attinge; al medesimo tempo, la <strong>dottrina</strong> educa ed accompagna la vita<br />

del popolo di Dio. Insomma, temo non sia possibile distinguere l’incidenza e la fecondità <strong>della</strong><br />

«<strong>dottrina</strong> - testo scritto» dall’incidenza e fecondità <strong>della</strong> «<strong>dottrina</strong> - tradizione e vita», e forse<br />

nemmeno appropriato,. Ciò che distingue la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> dalle tante teorie è la sua natura


unitaria, il suo essere allo stesso tempo riflessione teorica e movimento reale di persone che, per<br />

fede, annunciano la salvezza e (almeno per fragili cenni) la rendono sperimentabile.<br />

Non è un caso che, anticipando quel che la chiesa dice per sintetizzare il suo compito e la sua<br />

<strong>dottrina</strong> in materia di sviluppo, «la <strong>Chiesa</strong>… dà il suo primo contributo alla soluzione urgente del<br />

problema dello sviluppo quando proclama la verità su Cristo, su se stessa e sull’uomo,<br />

applicandola ad una situazione concreta» (Sollicitudo rei <strong>sociali</strong>s, n. 41), «preparando la venuta<br />

del suo Regno e anticipandolo pur nelle ombre del tempo presente» (n. 48).<br />

2. Quali impieghi ha fatto la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> dei risultati scientifici?<br />

Il secondo quesito -non vorrei averlo banalizzato- ha anch’esso una prima risposta ovvia: è<br />

evidente che il genere letterario <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> non è indicato ad esibire raffinatezze<br />

analitiche; anzi, potrebbe essere pericoloso valutare quanto avanzata è la <strong>dottrina</strong> sulla base di<br />

quanto sono state utilizzate le risultanze scientifiche delle diverse discipline (anche perché ricerca<br />

economica avanzata rischia troppo spesso di essere sinonimo di alla moda).<br />

La <strong>Chiesa</strong>, esperta in umanità, rivela il suo genio non tanto nell’impiegare, nella <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong>, i risultati scientifici (questo lo san fare tutti, anche i pagani); il suo genio sta piuttosto nel<br />

porre e nel dare voce alle domande più umane che muovono dal di dentro le discipline. Meglio<br />

ancora: alle domande che muovono il lavoro, concreto e storico, dei ricercatori.<br />

3. Quali indicazioni di approfondimento scientifico l’approccio disciplinare riceve dalla<br />

<strong>dottrina</strong>?<br />

Più che l’approccio disciplinare in quanto tale, è il lavoro scientifico delle persone (delle<br />

persone concrete e storiche: il mio e il tuo) a ricevere ricchissime indicazioni di approfondimento<br />

dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>. Su questa terza domanda mi permetto di esemplificare quali indicazioni la<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> suggerisce in merito all’analisi scientifica dei processi di sviluppo economico.<br />

L’urgenza di una visione realistica del processo di sviluppo è unanimemente riconosciuta, non<br />

essendo secondo la natura dell’uomo l’abbandonarsi alla pessimistica conclusione che i<br />

meccanismi di sviluppo siano impermeabili all’azione umana. Certo è che l’ottimismo dei decenni<br />

per lo sviluppo, associato ad una concezione del sottosviluppo come arretratezza dovuta a<br />

mancanza delle risorse tipiche di paesi sviluppati e, conseguentemente, dello sviluppo come<br />

meccanismo dinamico attivabile con adeguati trasferimenti di risorse, è ormai definitivamente<br />

tramontato. Oggi, gran parte degli studi che hanno per oggetto i processi di crescita economica<br />

tendono a sottolinearne la natura endogena e a studiare i meccanismi cumulativi che descrivono<br />

le ragioni per cui diversi sistemi economici sperimentano un ritmo più o meno veloce di crescita;<br />

di conseguenza, la teoria <strong>della</strong> crescita che oggi va per la maggiore non ha per oggetto immediato<br />

lo studio dei problemi di sviluppo economico dell’umanità (in senso concreto e storico), anche se<br />

non manca di avere ripercussioni sull’atteggiamento e sui contenuti di coloro che affrontano<br />

operativamente i problemi dei paesi poveri.<br />

In quanto segue, si parlerà di crescita per intendere quel sottoinsieme di eventi economici<br />

osservabili che riguardano fenomeni (più o meno) misurabili, quali le dimensioni di elementi del<br />

sistema economico (il reddito procapite, per esempio) o la composizione strutturale del sistema<br />

stesso (grado di industrializzazione). È - giustamente - alla crescita che fa riferimento la maggior<br />

parte dei modelli che tentano di misurare e spiegare la dinamica dei sistemi economici.<br />

Si userà la parola sviluppo per indicare l’incremento <strong>della</strong> capacità di una popolazione a far<br />

aumentare in modo durevole e stabile il proprio benessere in forza di cambiamento mentali,<br />

culturali e di comportamento che costituiscono le precondizioni di tale incremento (Perroux). Lo<br />

sviluppo, dunque, non dipende tanto dal trovare le combinazioni ottimali delle risorse e dei fattori


di produzione dati, bensì dal suscitare e utilizzare risorse e capacità nascoste, disperse o male<br />

utilizzate (Hirshman). Insomma, la questione dello sviluppo concerne cultura, atteggiamento e<br />

decisioni degli attori; la loro azione produce il cambiamento, in quanto individuano nessi,<br />

allacciano connessioni, colgono opportunità. Si noti che nel linguaggio corrente - anche se non<br />

nelle riflessioni scientifiche più accorte - la parola sviluppo non indica una azione, un agire<br />

umano; la parola sviluppo ha finito per denotare quasi esclusivamente l’esito o il fine dell’azione<br />

stessa: una cosa, e non l’azione di un soggetto. Per inciso: analogo trattamento oggettizzante è<br />

stato riservato alla parola lavoro.<br />

La <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> è geniale, invece, nel porre i termini delle questioni economiche a partire<br />

dalla sua esperienza nell’umano. Gli elementi di una definizione realistica di sviluppo e di una<br />

possibile politica per lo sviluppo contenuti nella <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> possono essere così riassunti:<br />

a) la natura del processo di sviluppo è la partecipazione all’opera <strong>della</strong> creazione, attraverso il<br />

lavoro;<br />

b) il processo di sviluppo è mosso dalla coscienza e responsabilità del bisogno, proprio e del<br />

prossimo;<br />

c) lo sviluppo è il concreto svolgersi, nello spazio e nel tempo, di azioni che producono un<br />

cambiamento nella realtà;<br />

d) lo sviluppo, come ogni cambiamento, comporta dei rischi e rende necessaria la solidarietà<br />

fra persone e fra gruppi.<br />

I quattro punti sopra elencati non mancano di implicazioni analitiche e pratiche, che possono<br />

essere - sia pur brevemente - suggerite.<br />

La natura del processo di sviluppo è la partecipazione all’opera <strong>della</strong> creazione,<br />

attraverso il lavoro<br />

Al centro del processo di sviluppo c’è l’uomo, chiamato a «dominare» la terra (Laborem<br />

exercens, n. 6), cioè a partecipare all’opera <strong>della</strong> creazione (n. 25). Il lavoro (la capacità<br />

dell’uomo di rinnovare, riorganizzare, inventare, cambiare) è infatti la chiave di tutte le questioni<br />

<strong>sociali</strong> (n. 3).<br />

Alla luce <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, si può dire che lo sviluppo è un nuovo modo di lavorare.<br />

Questa definizione ricomprende anche i molteplici aspetti dello sviluppo che la scienza economica<br />

ha via via sottolineato: l’aspetto tecnico (produttivo e organizzativo) che i classici hanno così<br />

mirabilmente messo in rilievo; il riferimento alla figura dell’imprenditore innovativo, alla<br />

Schumpeter. Ma si tratta di una definizione assai più generale, come si può documentare.<br />

Attraverso il lavoro, l’uomo e gli uomini partecipano all’opera <strong>della</strong> creazione: la principale<br />

risorsa dell’uomo è, insieme alla terra, l’uomo stesso (Centesimus annus, n. 32). Ci sono alcune<br />

azioni chiave che caratterizzano lo sviluppo così definito:<br />

a) il prendere (nel senso fisico dell’acquisire un dato, ma anche nel senso di prendere atto<br />

<strong>della</strong> situazione);<br />

b) il comprendere (attraverso questa azione il dato diventa risorsa, cioè un bene nel senso<br />

economico; ad esempio, il dato immateriale compreso diventa informazione, cioè risorsa);<br />

c) il connettere (la risorsa viene messa in relazione al bisogno, proprio e del prossimo, e viene<br />

usata per soddisfarlo. Produzione, consumo e investimento si collocano qui, come esempi di<br />

azioni che connettono risorse e bisogni; vale la pena di osservare che tali tre azioni, pur<br />

costituendo l’oggetto normale dell’analisi economica dello sviluppo, non possono esaurire, dal<br />

punto di vista analitico, le azioni di partecipazione all’opera <strong>della</strong> creazione);<br />

d) l’informare (nei suoi diversi sensi, ma soprattutto nel senso di dare forma, di dare ordine<br />

alla realtà; in altre parole, lo sviluppo ha anche una dimensione esplicitamente progettuale).<br />

Così caratterizzato, il processo di sviluppo consiste essenzialmente nel creare nessi: nessi con<br />

il dato (il dato inanimato, cioè gli elementi naturali e le loro trasformazioni avvenute nel passato) e


nessi con le persone. Questo secondo tipo di nessi è particolarmente interessante da studiare,<br />

perché tende a presentare connotati diversi a seconda che le altre persone siano «dei nostri» (in<br />

senso parentale o comunitario) o «altri». La partecipazione all’opera <strong>della</strong> creazione comporta<br />

dunque l’esercizio di un potere sulle cose e sulle persone, che non può essere disgiunto da una<br />

responsabilità etica. Specie nelle relazioni di appartenenza (parentale, comunitaria, nazionale) e di<br />

conseguenza nell’esercizio <strong>della</strong> solidarietà la dimensione etica non è un problema di finalità, ma<br />

di non volontà di dominio.<br />

La <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> ricorda spesso che la crescita economica è un fenomeno ambivalente:<br />

necessaria per permettere all’uomo di essere più uomo, essa può anche ritorcersi contro di lui<br />

(Sollicitudo rei <strong>sociali</strong>s, n. 28). Ma vale la pena di osservare che anche lo sviluppo non consiste<br />

nel fine buono da perseguire: esso è un processo di partecipazione all’opera <strong>della</strong> creazione, e il<br />

contenuto dell’azione umana: dunque è un percorso essenzialmente ambivalente. Queste due<br />

affermazioni portano un messaggio più forte <strong>della</strong> solita idea che non ogni crescita è sviluppo.<br />

L’esistenza innegabile di forze oggettive, di grandi meccanismi di inerzia e di<br />

predeterminazione delle azioni dei singoli e dei gruppi non eliminano la centralità del lavoro umano<br />

nello sviluppo. Anzi, per prova provata la meccanica <strong>della</strong> crescita non risolve alcun problema:<br />

non elimina, ma aggrava gli squilibri (come si è sperimentato nelle aree sottosviluppate, dove lo<br />

strumento prescelto per dare un contributo allo sviluppo - il prestito internazionale- si è<br />

trasformato in un congegno controproducente; n. 19); non traduce l’abbondanza di beni materiali<br />

in effettivo benessere per gli uomini (super sviluppo con disoccupazione nei paesi ricchi; n. 28).<br />

Il processo di sviluppo è mosso dalla coscienza e responsabilità del bisogno, proprio e del<br />

prossimo<br />

La definizione dei bisogni cui si intende dare risposta (si potrebbe dire: la definizione del<br />

contenuto di bene comune) non sono date a priori; si possono solo cogliere nell’azione. Detto in<br />

un altro modo, non esiste una predefinizione di bene comune che possa essere assunta come il<br />

traguardo cui tendere. La dimensione etica appartiene all’azione concreta nello spazio e nel<br />

tempo, non alla definizione del fine cui l’azione dovrebbe tendere.<br />

Questo ha implicazioni ovvie per quanto riguarda l’azione delle persone e dei gruppi,<br />

ispessimento delle relazioni fra persone (l’azione afferma il valore che la muove); ma non manca<br />

di implicazioni per il funzionamento delle istituzioni, che obbediscono ad un sistema di regole<br />

predefinite e non modificabili istantaneamente e che possono essere «strutture di peccato» (n.<br />

16, ma soprattutto n. 37). L’assolutizzazione <strong>della</strong> brama esclusiva del profitto e la sete di potere<br />

sono la vera natura del male nella questione dello sviluppo; si tratta di un male morale, frutto di<br />

molti peccati, che portano a «strutture di peccato»; diagnosticare così il male significa indicare<br />

esattamente il cammino da seguire per superarlo.<br />

Dal punto di vista dello studioso dei processi di sviluppo economico, questo è uno spunto di<br />

lavoro potentissimo. Occorre lavorare sistematicamente per comprendere le ragioni per cui la<br />

capacità di prendere, comprendere, connettere e informare mette in moto un processo di<br />

sviluppo; tali ragioni non sono meccanicamente inscritte nella dotazione di risorse, nel grado di<br />

istruzione, nella qualità del sistema giuridico o in quant’altro, ma hanno a che fare con la virtù<br />

degli uomini e, in qualche senso che merita di essere approfondito, anche delle istituzioni.<br />

Lo sviluppo è il concreto svolgersi, nello spazio e nel tempo, di azioni che producono un<br />

cambiamento nella realtà<br />

La partecipazione dell’uomo all’opera <strong>della</strong> creazione non è per sua natura un processo<br />

lineare: l’uomo fa, disfa, sbaglia, corregge; è tuttavia un percorso oggettivamente sperimentabile<br />

e, per certi aspetti, misurabile.


Su questo versante, le discipline economiche non mancano di essere provocate. In primo<br />

luogo, se lo sviluppo è definito come percorso di cambiamento, nello spazio e nel tempo concreti,<br />

gli approcci di equilibrio rischiano l’inadeguatezza dal punto di vista analitico. Spazio e tempo<br />

fanno molta fatica a stare, contemporaneamente, nell’analisi economica dello sviluppo. La<br />

dinamica dei sistemi economici non segue un funzionamento meccanicistico, e su questo molti<br />

sarebbero d’accordo; ma si può forse dire che neppure gli approcci che applicano allo sviluppo<br />

economico concezioni e modelli derivati dalle scienze biologiche o dalla termodinamica possono<br />

portare lontano nella comprensione del fenomeno dello sviluppo.<br />

Le implicazioni analitico-pratiche <strong>della</strong> definizione di sviluppo come percorso, come strada,<br />

possono partire dalla riflessione che la strada rappresenta ad un tempo il condizionamento (il<br />

percorso precedente non è irrilevante nelle decisioni economiche relative allo spazio e al tempo<br />

presenti) e l’esito dell’azione. Il processo di sviluppo parte da un dato per modificarlo, ma il dato<br />

non determina ciò che lo seguirà, perché lo sviluppo, partecipazione all’opera <strong>della</strong> creazione, è<br />

per sua natura il frutto dell’attività umana, esercizio <strong>della</strong> libertà.<br />

Ecco alcune implicazioni di quanto detto per l’analisi economica <strong>della</strong> crescita, intesa come<br />

dimensione economica dello sviluppo.<br />

a) le decisioni economiche, in ogni istante, sono azioni condizionate dal dato: la struttura<br />

economica e le istituzioni <strong>sociali</strong> e politiche. Struttura e istituzioni rappresentano il contesto in cui<br />

l’attività umana si svolge; sono date, in ogni istante, ma sono nel tempo plasmate dall’azione.<br />

L’analisi economica delle istituzioni è peraltro ancora ai suoi primi passi.<br />

b) soggetto <strong>della</strong> crescita economica sono le persone: individui, gruppi (parentali o di coalizione<br />

di interessi) e anche, in un senso particolare, le istituzioni.<br />

c) le caratteristiche dello sviluppo economico (natura cumulativa, non linearità) attendono di<br />

essere comprese e non solo descritte. Un esempio di suggerimento analitico che proviene dal<br />

prendere sul serio la concezione antropologica che sta alla radice di come la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

comprende il fenomeno dello sviluppo. Le scienze economiche tendono a mettere in risalto la<br />

caratteristica <strong>della</strong> cumulatività dei processi di sviluppo (spesso riducendo l’osservazione e la<br />

comprensione di questo fenomeno al funzionare di un meccanismo); ora, l’esistenza di<br />

connessioni (relazioni personalizzate e potenzialmente durature) fra i decisori (gli uomini, storici e<br />

concreti, in azione) è una ragione fondamentale <strong>della</strong> cumulatività, chiarissima nella impostazione<br />

<strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> e quanto mai trascurata nell’analisi economica.<br />

Corollario: la valutazione del grado di sviluppo in termini relativi (come se gruppi e nazioni<br />

occupassero diverse posizioni sulla medesima strada, lineare e predefinita) è estremamente<br />

pericolosa.<br />

Nello stesso tempo, è invece profondamente vero che il mondo è uno, ed è sempre più<br />

evidentemente interdipendente (n. 19). Con una immagine, si può dire che la strada è di fatto<br />

una, e che il prossimo chilometro è da costruire. In che direzione andrà, per tutti, dipende dalle<br />

azioni libere dell’uomo.<br />

Lo sviluppo, come ogni cambiamento, comporta dei rischi e rende necessaria la solidarietà<br />

fra persone e fra gruppi.<br />

La solidarietà nasce da una appartenenza, talvolta imposta dalle circostanze (interdipendenza),<br />

talvolta scelta e costruita (gruppi di interesse, nel significato pieno <strong>della</strong> parola interesse e non<br />

nella sua accezione riduttiva di tornaconto). Nella <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, infatti, la solidarietà non è un<br />

sentimento che sopraggiunge (o dovrebbe sopraggiungere) alla realtà spazio-temporale, non uno<br />

slancio di benevolenza: è la virtù morale che risponde alla «interdipendenza, sentita come sistema<br />

determinante di relazioni nel mondo contemporaneo... e assunta come categoria morale» (n. 38).


L’appartenenza ad un gruppo di interesse e la solidarietà fra i membri che ne deriva non sono<br />

categorie opzionali nella comprensione e nella valutazione dei processi di sviluppo; anche su<br />

questo le discipline economiche sono provocate a investigare.<br />

Una forma di solidarietà è certamente il disegno e la realizzazione di politiche per lo sviluppo<br />

realistiche e giuste. Il fatto che il primo connotato di qualunque processo di sviluppo sia il<br />

cambiamento (e non l’estensione, più o meno proporzionata, dell’esistente) ha implicazioni sul<br />

modo d’essere delle politiche, che non possono essere l’applicazione meccanica e indifferenziata<br />

di linee di intervento predefinite: se non altro, la storia illustra ampiamente che qualunque<br />

intervento di politica economica teso a raggiungere obiettivi di efficienza e di giustizia<br />

esclusivamente attraverso l’individuazione e la realizzazione di meccanismi provvidenziali<br />

(trasferimenti di capitali, potenziamento di una esportazione-staple, e così via) è destinato al<br />

fallimento.<br />

La definizione di sviluppo come partecipazione all’opera <strong>della</strong> creazione, cioè come percorso<br />

ambivalente tracciato dall’azione umana, suggerisce il contenuto fondamentale di una realistica<br />

politica per lo sviluppo: il potenziamento <strong>della</strong> libertà di aggregazione e di intrapresa. Questa<br />

libertà non garantisce di per sé di procedere spediti nel percorso dello sviluppo, ma certamente<br />

pone le condizioni facilitanti la partecipazione all’opera <strong>della</strong> creazione. La strada dello sviluppo<br />

la si percorre nello stesso momento in cui la si costruisce.


GIORGIO BERTI<br />

L’EVOLUZIONE COSTITUZIONALE.<br />

Mai come nell’ultima enciclica, il papa era intervenuto in maniera così vigorosa a richiamare<br />

l’attenzione su alcune contraddizioni paradossali che sembrano affliggere la nostra epoca e<br />

mettere in crisi concetti e idee che pure fanno irrimediabilmente parte del nostro patrimonio<br />

culturale, come quelli di democrazia, diritti dell’uomo, libertà di coscienza.<br />

Di fronte a prese di posizione su temi che attengono al fondamento stesso <strong>della</strong> convivenza<br />

civile, appare d’altra parte ben giustificata la legittimazione <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> ad affrontare i problemi<br />

<strong>della</strong> società, con la pretesa di indirizzarne il cammino; domanda classica, quella su questo tipo di<br />

legittimazione, con la quale il card. Etchegaray aveva aperto il Convegno su «Insegnamento<br />

<strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>: principi e nuovi contenuti», tenutosi a Milano, presso l’Università Cattolica,<br />

dal 14 al 16 aprile del 1988, e alla quale egli stesso rispondeva osservando che il contributo <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong> - tra rischio di sottovalutazione <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> e speculare rischio di una sua<br />

sopravalutazione - «è, essenzialmente, quello d’educare le coscienze e di fortificare così la base<br />

morale <strong>della</strong> società».<br />

Se, dunque, il ruolo <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> è quello di educare e formare le<br />

coscienze, si può, già a questo livello, individuare il primo punto di contatto tra essa e le discipline<br />

scientifiche che indagano la vita economica, politica e giuridica. Dall’altra parte, si deve<br />

registrare un’influenza che il diritto pubblico ha esercitato sulla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> e cioè l’attenzione<br />

nei confronti delle forme in cui l’attività politica e giuridica si esplica, in quanto capace di<br />

indirizzare e determinare i contenuti.<br />

Oggi si parla sovente nel nostro paese di seconda repubblica, quasi con il piacere sottile di<br />

lasciare andare la prima, tanto predicata, quanto tradita, e sopratutto negletta nella sostanza,<br />

quando non nella forma, da quanti dovevano occuparsene, come una cosa troppo scomoda e<br />

difficile. Gli avvenimenti si sono poi sovrapposti alla cattiva coscienza ed alla pessima volontà<br />

degli uomini, e ci troviamo di fronte ad un edificio (che non è però solo quello degli uffici pubblici)<br />

che richiede una ristrutturazione che non sia solo nella facciata. Come sempre, bisogna prendere<br />

le mosse da un atto di cultura, di consapevolezza profonda che va certo oltre le singole idee o i<br />

singoli propositi, oppure le preferenze di persone e di gruppi.<br />

Ci sono molte cose delle quali tener conto e tutte debbono essere ricondotte ad un’unità di<br />

ispirazione. Lo stato non può venire riedificato sul solo potere politico, ma deve essere ripensato<br />

e rifatto sulle libertà e sui doveri delle persone. Non interessa tanto la divisione dei poteri pubblici,<br />

ma l’unità <strong>della</strong> persona umana, e vogliamo che lo stato sia al servizio di questa unità<br />

fondamentale<br />

Perché questo avvenga, lo stato deve ottenere non tanto consensi, quanto fiducia, deve cioè<br />

essere un complesso di cose in sé affidabile. La fiducia poi non basta dichiararla, occorre<br />

conquistarla giorno per giorno. Allora la legittimità dello stato nasce da questa fiducia, non dalla<br />

forza o dal potere stabilito. Il contrario può essere ancora sostenuto da chi si attarda in vecchie<br />

credenze.<br />

Pertanto non si deve coltivare neppure la ricerca <strong>della</strong> legittimità o <strong>della</strong> legittimazione dei<br />

governi o degli stati. Anche questo è un problema superato dai tempi: ogni società è politicamente<br />

responsabile e consapevole e neppure l’uso legale <strong>della</strong> forza potrebbe incidere in qualche modo<br />

in questa consapevolezza, che deriva dalla coscienza delle libertà e dalla necessità di viverle in<br />

comune con gli altri. Ognuno ha dentro di sé, direbbe Nagel 3 , il personale e l’impersonale, se<br />

3 T. Nagel, Equality and Partiality, Oxford 1991.


stesso e la società in cui vive. Il primo e decisivo foro <strong>della</strong> politica è dunque la persona. Fino a<br />

che punto e in quale modo e in quale misura possiamo allora esteriorizzare il sentimento o la<br />

parte di comunità o di collettività che è in ciascuno di noi? Come possiamo metterci sulla strada<br />

che conduce ad una uguale sollecitudine per tutti?<br />

Non si costruisce un ordine accettabile al di fuori del principio di solidarietà. Questa è la<br />

condizione perché dalla persona e dalla sua alterità sia fatto defluire un ordine <strong>sociale</strong> accetto a<br />

tutti. C’è dunque, all’inizio, l’esigenza di alcunché di unanime, di accetto da tutti. Le separazioni o<br />

le divisioni in maggioranza e minoranza non sono che passaggi-mezzi per ritrovare questa<br />

fondamentale unanimità.<br />

Nessuna delega perpetua, dunque, ad istituzioni; nessun procedimento di approvazione<br />

collettiva dà legittimità alle istituzioni, che non divengono buone solo perché in esse si incarna una<br />

certa maggioranza di persone di persone e di opinioni o di interessi.<br />

«La libertà rinnega se stessa, si autodistrugge e si dispone all’eliminazione dell’altro quando<br />

non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità» si legge nell’ultima<br />

enciclica del papa Giovanni Paolo II, che continua la sua critica al relativismo dei valori<br />

giungendo ad affermare che il diritto cessa di essere tale, quando non è più solidamente fondato<br />

sull’inviolabile dignità <strong>della</strong> persona, ma viene fatto dipendere dalla volontà del più forte.<br />

È su questo terreno che si colloca una prima indicazione di approfondimento scientifico che il<br />

diritto pubblico può ricavare oggi dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, l’invito cioè a riflettere seriamente sui fini<br />

<strong>della</strong> città dell’uomo. Da questo punto di vista, in realtà, il papa, seppure marcando i toni, si<br />

mantiene nel solco <strong>della</strong> tradizione <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> se è vero che lo stesso tipo di<br />

preoccupazione e di atteggiamento morale e intellettuale sembra essere agevolmente<br />

riscontrabile in tutto il pensiero cattolico di questo secolo circa il fondamento e i fini dello stato.<br />

«Il valore di uno stato non dipende dalla forma del suo governo, ma dalla virtù dei cittadini che<br />

ne fanno parte» si legge nel discorso di apertura del card. Dalla Costa alla Settimana <strong>sociale</strong> del<br />

1945 che aveva per tema «i cattolici e la Costituente», frase che riassume forse nel modo più<br />

trasparente l’atteggiamento morale e intellettuale con il quale i pensatori cattolici si apprestavano<br />

ad affrontare l’esperienza costituente. I cittadini, appartenenti ad un popolo per definizione<br />

cattolico, forse in virtù di tradizione più che per consapevole e fattiva adesione di tutti, dovevano<br />

finalmente entrare nell’agone politico. La politica, diceva il Dalla Costa «è il governo del popolo;<br />

è l’amministrazione dello stato, è la scienza tanto necessaria di procurare il bene comune».<br />

Fatte queste affermazioni di principio, che già peraltro contenevano in se stesse il nucleo<br />

fondamentale di un preciso indirizzo culturale, quel convegno andò però oltre e più in profondità.<br />

Si poneva anzitutto l’interrogativo se dalla Costituzione dovesse essere escluso il fine dello stato<br />

e se la Costituzione stessa dovesse essere puramente formale, non incorporando in sé il fine dello<br />

stato, appartenente all’ambito materiale. Il formalismo allora doveva essere ripudiato, giacché<br />

«La Costituente e la Costituzione cadono anch’esse sotto il dominio dei fini dello stato» (G.<br />

Graneris). Lo stato, società inferiore, doveva rendere sensibile in tutto la sua appartenenza alla<br />

societas generis humani. Il fondamento spirituale dello stato risiedeva nell’unità cosmica, la<br />

quale non doveva subire attentati dalle società minori, e quindi dallo stato. Quest’ultimo perciò<br />

non doveva vivere in un assurdo isolamento, fonte di odio e di oppressione, e, solo rinsaldando<br />

nelle sue leggi fondamentali la superiore unità del genere umano, esso avrebbe aiutato la persona<br />

umana nel raggiungimento dei propri fini.<br />

Quali allora i compiti dello stato? Il primo in successione sarebbe quello di procurare il<br />

benessere dei cittadini nell’ordine economico e nella forma giuridica. Il secondo, servire alle<br />

superiori finalità, tutelando i valori <strong>della</strong> persona e vegliando sulle esterne condizioni indispensabili<br />

alle altre forme di vita umana (morali, religiose, ...). Il terzo, funzionare da anello di congiunzione<br />

tra gli individui e la superiorità del genere umano (G. Graneris).


La Settimana del 1945, nell’articolazione e nella successione delle varie lezioni, compone un<br />

quadro completo e suggestivo non solo dei problemi di fondo allora affrontati nella nuova realtà<br />

politico-istituzionale, ma anche dei diversi sentimenti, sensibilità e professionalità e competenza<br />

scientifica dei relatori: quasi la registrazione dell’indagine sullo stato e sul diritto <strong>della</strong> parte<br />

cattolica <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> italiana specializzata nello studio delle istituzioni. Questo fu certo un<br />

avvenimento da apprezzarsi non solo sotto il profilo storico ma anche in relazione all’esperienza<br />

di oggi, nella quale riemergono così frequentemente gli interrogativi affrontati allora. Per la<br />

prima volta infatti la cultura cattolica si è trovata a misurarsi con immediatezza con le difficoltà<br />

<strong>della</strong> ricostruzione dello stato; ha dovuto cioè affrontare la traduzione in formule, o soltanto in<br />

proposte, dei principi o dei postulati <strong>della</strong> coscienza, <strong>della</strong> cultura e dell’esperienza del mondo<br />

cristiano.<br />

Si comprende così come da parte di tutti, ma di alcuni in particolare (ad es. Messineo e<br />

Lanza), la prospettiva <strong>della</strong> nuova Costituzione sia stata vissuta e pensata anzitutto, se non<br />

soprattutto, in chiave di relazione tra diritto naturale e diritto positivo. Chi era il signore del potere<br />

costituente? Se questo signore era il popolo pensato come sovrano, occorreva mettere a nudo la<br />

fonte primaria di questa sovranità, proprio per razionalizzarla nella sua origine e per conoscerne la<br />

legittimazione rispetto al grande compito da affrontare: il che voleva dire scoprire anzitutto la<br />

relazione profonda tra l’investitura sovrana e i compiti e gli obblighi coerenti con questa<br />

investitura. Lo stato diviene così l’ambito nel quale questa sovranità trova, più che la sede, la sua<br />

struttura sensibile, ed esso allora deve recare evidenti le tracce dell’origine sovrana ed esserle<br />

costantemente fedele nel corso del processo storicizzante.<br />

Si insiste molto dunque sui fini dello stato: non già nella scia dello stato etico ovvero dello stato<br />

nazionale che domina la società alla stregua di principi artefatti o ricavati da interpretazioni<br />

spesso arbitrarie del principio di nazionalità o <strong>della</strong> storia nazionale, ma perché lo stato ha ragione<br />

d’essere in quanto esso tuteli i valori autentici del popolo e realizzi nei rapporti giuridici i principi<br />

fondamentali <strong>della</strong> convivenza. Questa è una linfa ben viva nel popolo italiano, che trova una<br />

fondamentale ragione di unità proprio nella tradizione cattolica.<br />

Prendendo le mosse da tutto ciò, si fanno emergere dei principi di fondo: il carattere naturale e<br />

comune a tutti gli stati; la subordinazione dei poteri ai fini dello stato; il carattere naturale <strong>della</strong><br />

comunità internazionale e dei rapporti tra le nazioni. E subito ne derivano le linee maestre del<br />

processo di conoscenza: stato e diritto sono in rapporto di derivazione, il secondo dal primo, in<br />

quanto però lo stato sia l’espressione di una società naturale; sono i diritti <strong>della</strong> persona umana<br />

che danno giustificazione <strong>della</strong> funzione protettiva e <strong>della</strong> funzione integrativa e coordinatrice<br />

dello stato. La negazione <strong>della</strong> tirannia e <strong>della</strong> subordinazione dell’uomo al potere va di pari passo<br />

con l’apertura dello stato ai rapporti reciproci nell’ambito di una comunità universale.<br />

2. Diritti fondamentali<br />

Il potere costituente appartiene dunque al popolo come diritto a determinare la forma di<br />

governo e la legge di investitura del potere, ossia l’assetto costituzionale dello stato. Pertanto il<br />

potere costituente incontra dei limiti nell’ordinamento naturale, il quale precede ogni altro limite,<br />

nonché nella volontà del popolo, e nei rapporti con le altre società sovrane. La volontà popolare<br />

limita le facoltà dell’assemblea costituente, però la stessa volontà popolare è limitata in quanto<br />

subordinata all’ordinamento naturale e alle esigenze del bene comune.<br />

A questa visione del potere costituente si riattacca la configurazione dello stato come funzione<br />

di giustizia nei rapporti economico-<strong>sociali</strong>: si afferma espressamente che la struttura organica<br />

dello stato, espressione <strong>della</strong> società civile e quindi del popolo organicamente inteso, non può<br />

andare disgiunta dalla protezione <strong>della</strong> persona umana secondo un intento di giustizia <strong>sociale</strong> e<br />

attraverso l’interazione dell’ordinamento giuridico-politico e di quello economico-<strong>sociale</strong>.


Si fanno avanti così i diritti fondamentali dell’uomo, che sono originari e poggiano anzitutto sul<br />

dovere etico generalizzato. Questi diritti sono intoccabili e anche irrinunciabili da parte dei loro<br />

stessi portatori. Si collocano in questa prospettiva le sofferte parole dell’ultima enciclica laddove<br />

si segnala la «sorprendente contraddizione» di «un’epoca in cui si proclamano solennemente i<br />

diritti inviolabili <strong>della</strong> persona e si afferma pubblicamente il valore <strong>della</strong> vita» e nel contempo «lo<br />

stesso diritto alla vita viene praticamente negato e conculcato, in particolare nei momenti più<br />

emblematici dell’esistenza, quali sono il nascere e il morire». Gli attentati alla vita, dice il papa,<br />

rappresentano «una minaccia frontale a tutta la cultura dei diritti dell’uomo… una minaccia<br />

capace, al limite, di mettere a repentaglio lo stesso significato <strong>della</strong> convivenza democratica: da<br />

società di “conviventi”, le nostre città rischiano di diventare società di esclusi, di emarginati, di<br />

rimossi e soppressi».<br />

Da queste premesse di fondo si fa sgorgare la distinzione tra ciò che è assoluto e ciò che è<br />

essenzialmente storicizzabile. La classificazione dei diritti dell’uomo costituisce già un passaggio<br />

alla storicizzazione che avviene appunto attraverso la loro definizione e la loro attuazione. Si<br />

misura allora, anche in questa versione <strong>della</strong> storicità dei poteri e dei diritti, la distanza non solo<br />

dalle concezioni totalitarie (nessuno può asservire i diritti umani), ma anche dalle dottrine liberali,<br />

giacché i diritti che lo stato deve proteggere e coordinare sono appunto innati e sono tra loro<br />

coerenti non secondo un criterio di potere politico, ma appunto nella luce <strong>della</strong> persona.<br />

Sembrerebbe che, riflettendosi sull’integrità <strong>della</strong> persona umana, questi diritti si aggiustino a<br />

vicenda, in modo che nessuno diventi così pesante da scompensare la coesistenza delle chances<br />

dell’uomo. È assai significativo che il diritto al lavoro compaia fin dall’origine nella <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong> come attuazione e potenziamento <strong>della</strong> personalità e strumento di esplicazione <strong>della</strong><br />

missione dell’uomo. Ed è significativo che le libertà ottocentesche vengano, per così dire,<br />

raccolte in un superiore e riassuntivo diritto alle libertà (sane e oneste): e che il rispetto <strong>della</strong><br />

coscienza altrui possa esprimersi nella «prudente tolleranza di ciò che non è obiettivamente<br />

conforme a verità e giustizia».<br />

Questa impostazione, tutta tenuta sul piano dell’ascendenza naturale o divina dello stato, rende<br />

già in un certo senso secondario il discorso sulla forma istituzionale e sulle strutture organizzative.<br />

Prima si debbono enunciare i principi (lo aveva già rilevato il Mortati nello scritto sulla Costituente<br />

del 1945), e poi da questi principi debbono dedursi le norme secondarie per opera dell’interprete.<br />

I principi hanno assolutezza e quindi esprimono una barriera in confronto alla volontà dello stato:<br />

enunziare diritti e doveri delle persone nei confronti dello Stato è pertanto preliminare alla<br />

definzione delle forme organizzative. Passando a queste, il loro principio ispiratore nasce dalla<br />

composizione di due cose apparentemente contradditorie: il controllo del potere senza esautorarlo<br />

e il conferimento ad esso di forza e di garanzie.<br />

3. Forme organizzative<br />

Il passaggio più importante è però quello nel quale l’attività dell’assemblea costituente viene<br />

posta al confronto del principio rappresentativo. Non basta invero che il popolo elegga i suoi<br />

rappresentanti, ma occorre che esso sia messo in grado di esprimere continuamente ed<br />

estesamente il proprio pensiero politico. La volontà popolare insomma non può soddisfarsi <strong>della</strong><br />

rappresentanza, ma deve rispecchiare il diritto originario del popolo di imporre delle norme e dei<br />

limiti all’assemblea, la quale così non esaurisce in sé la struttura costituente, giacché questa<br />

comprende anche il popolo ed è quindi una struttura complessa. Democrazia rappresentativa e<br />

democrazia diretta debbono perciò comporsi saggiamente.<br />

Che la volontà popolare non debba degenerare in una dittatura <strong>della</strong> maggioranza, ma debba<br />

conciliarsi con i diritti delle minoranze e dei più deboli, proprio in ragione <strong>della</strong> democraticità dello<br />

stato e dell’osservanza dei diritti, appare nella <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> come alcunché di implicito


nell’organicità del popolo, colta nel momento in cui esso si affaccia alla politica attiva. Egidio<br />

Tosato affermò nel 1945 che «il governo <strong>della</strong> maggioranza è sopportabile solo se i diritti <strong>della</strong><br />

minoranza vengono rispettati»; anzi questi ultimi diritti dovevano essere costituzionalmente e<br />

rigidamente garantiti; donde la rigidità <strong>della</strong> costituzione e la necessità di un procedimento che<br />

includesse un numero di voti superiori a quello necessario per la legislazione ordinaria, appunto<br />

perché la decisione finale comprendesse anche la volontà <strong>della</strong> minoranza.<br />

Inoltre, proprio perché «il governo <strong>della</strong> maggioranza non si tramuti nella dittatura <strong>della</strong><br />

maggioranza e la minoranza non venga perseguitata, calpestata e soppressa» è fondamentale la<br />

funzione giurisdizionale anche come giustizia costituzionale.<br />

Il progetto costituzionale era un’occasione troppo importante per la riflessione sullo stato<br />

anche dal punto di vista <strong>della</strong> tradizione culturale cattolica: fare la Costituzione significava dare la<br />

prima e fondamentale evidenza storica allo stato e al suo ordinamento ed è chiaro che tutti i<br />

motivi e i passaggi di una teoria e di una pratica dello stato andassero tenuti presenti in tale<br />

circostanza.<br />

Il problema costituzionale di fondo che la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> si trovò ad affrontare fu allora quello<br />

di proporzionare la Costituzione alla struttura <strong>della</strong> sovranità e di far seguire l’ordinamento alla<br />

persona umana, secondo gli insegnamenti del personalismo.<br />

Lo stato è il tutore del bene comune, ma è nel popolo che risiede originariamente il potere<br />

statale. In quali forme poi concretamente il potere venga esercitato non è questione su cui la<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> si pronuncia: «quando si tratta di questioni puramente politiche, ad esempio <strong>della</strong><br />

forma migliore di costituzione dello stato o <strong>della</strong> sua amministrazione, si possono avere opinioni<br />

diverse senza con questo andare contro la legge morale» (Immortale Dei; cfr. anche Gaudium<br />

et spes), purché siano rispettati i limiti invalicabili al potere statale posti dal diritto naturale e<br />

divino. Viene qui in rilievo il problema <strong>della</strong> tolleranza e il diritto a non eseguire le leggi che una<br />

coscienza morale rettamente orientata giudica inaccettabili. In questa direzione si colloca l’invito<br />

rivolto anche da ultimo con la Evangelium vitae ad «obbedire a Dio piuttosto che agli uomini»<br />

(n. 68; cfr. anche Pacem in terris), il che dovrebbe tradursi sul piano giuridico nella salvaguardia<br />

per chi ricorre all’obiezione di coscienza non solo da sanzioni penali, ma anche da qualsiasi danno<br />

sul piano legale, disciplinare, economico e professionale (n. 74).<br />

Per quanto riguarda invece la resistenza attiva si richiede coerentemente con detta<br />

impostazione che «dove i cittadini sono oppressi da un’autorità pubblica che va al di là delle sue<br />

competenze, essi non rifiutino ciò che è oggettivamente richiesto dal bene comune» rimanendo<br />

però «lecito difendere i diritti propri e dei concittadini contro gli abusi dell’autorità, nel rispetto dei<br />

limiti dettati dalla legge naturale e dal vangelo» (Gaudium et spes, n. 74), perché «lo sappiamo:<br />

l’insurrezione rivoluzionaria - salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attentasse<br />

gravemente ai diritti fondamentali <strong>della</strong> persona e nuocesse in modo pericoloso al bene comune<br />

del paese - è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri e provoca nuove rovine»<br />

(Populorum progressio, n. 31).<br />

4. Democrazia e bene comune<br />

L’influenza <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, fattasi particolarmente sentire nel momento <strong>della</strong><br />

preparazione <strong>della</strong> Costituente, riemerge sotto angolature più specifiche e in qualche misura più<br />

limitate negli anni dell’attuazione costituzionale. Si potrebbe dire che essa si giochi tutta tra gli<br />

orizzonti vasti dei problemi di carattere pregiudiziale, di principio e le problematiche interne alla<br />

società in quanto rivolta all’azione politica, e cioè nel processo interiore di passaggio dalla società<br />

allo stato formale e quelle dei rapporti tra questo stato e la comunità internazionale. Non si<br />

concede nulla o quasi alla cosiddetta ingegneria costituzionale e ai giochi formali che impegnano i<br />

politici nell’esperienza di governo e nelle discussioni intorno agli assetti politici, al rapporto


maggioranza-minoranza, anche se, beninteso, questi dibattiti svolti nelle sedi dei partiti e in quelle<br />

ufficiali dello stato non mancano di influire nell’evoluzione <strong>della</strong> stessa <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>.<br />

La nota costante rimane quella del bene comune di cui si continua a discutere non solo come<br />

se si trattasse di un punto di riferimento obbligato e, per così dire, rituale, ma proprio perché dal<br />

relativo principio scaturivano imperiosamente delle direttrici di pensiero e di azione. Era<br />

certamente arduo, e lo è tuttora, coordinare il principio-fine del bene comune con una piattaforma<br />

democratica, dove i contrasti ideologici non si sopiscono ed anzi obbligano a decisioni e prese di<br />

posizione necessariamente parziali, o quanto meno dirette a far prevalere interessi di parte,<br />

tramutati o riletti come interessi <strong>della</strong> generalità.<br />

Sul terreno pratico, l’idea del bene comune deve anzi mettersi alla prova in confronto alla<br />

persistente ideologia dell’interesse generale, così familiare alle impostazioni filosofico-politiche<br />

del liberalismo e delle sue prosecuzioni <strong>sociali</strong>stiche. Quanto meno il bene comune ha il suo<br />

campo di coltura nella sostanza <strong>della</strong> vita <strong>sociale</strong>, quando invece l’interesse generale scaturisce<br />

da una meccanica istituzionale, dove ha sommo risalto proprio il contrasto tra maggioranza e<br />

minoranza e tutto viene fatto dipendere dalla sottomissione <strong>della</strong> minoranza a ciò che la<br />

maggioranza vuole e impone.<br />

Il bene comune, una volta messo a fuoco nell’agone culturale e politico di forze contrastanti,<br />

doveva necessariamente imporre la fuoriuscita <strong>della</strong> progettazione istituzionale dai consueti<br />

campi di battaglia dello stato liberale borghese, dove tutto si risolveva in un rapporto cittadinostato<br />

che premiava comunque il governo <strong>della</strong> maggioranza e che rendeva privilegiate formule<br />

istituzionali, di solito di stampo accentrato e comunque assai poco coordinate con le autonomie<br />

<strong>sociali</strong> e con quelle comunitarie. Non la politica in quanto tale, e cioè come campo di lotta e di<br />

sopraffazione di ideologie e di intenti disancorati da ogni prova di coerenza con ispirazioni ideali e<br />

con interessi <strong>sociali</strong> effettivi, ma una politica che sortisca appunto da una coralità di forze culturali<br />

e <strong>sociali</strong>, perché solo questo consentirebbe il dialogo occorrente a scoprire nella vita di tutti i<br />

giorni le approssimazioni più veraci al bene comune.<br />

Il passaggio alla dimensione politica esprime anche una richiesta attuale dell’uomo: una ripartizione più<br />

grande delle responsabilità e delle decisioni. Tale legittima aspirazione diventa più manifesta man mano che<br />

cresce il livello culturale e aumenta il senso <strong>della</strong> libertà, e l’uomo si rende meglio conto che, in un mondo<br />

aperto su un avvenire insicuro, le scelte d’oggi condizionano già la vita di domani. Nella Mater et magistra,<br />

Giovanni XXIII sottolineava che l’accesso alle responsabilità è un’esigenza fondamentale dell’uomo, un<br />

esercizio concreto <strong>della</strong> sua libertà, una via per il suo sviluppo, e indicava come, nella vita economica e in<br />

particolare nell’impresa, tale partecipazione alle responsabilità debba essere assicurata. Oggi la sfera è più<br />

vasta, estendendosi essa al settore <strong>sociale</strong> e politico dove deve essere istituita e intensificata una<br />

ragionevole partecipazione alle responsabilità e alle decisioni. Certo, le scelte proposte alla decisione sono<br />

sempre più complesse; molteplici le considerazioni da tener presenti, aleatoria la previsione delle<br />

conseguenze, anche se scienze nuove cercano di illuminare la libertà in questi momenti importanti.<br />

Tuttavia, sebbene talvolta si impongano dei limiti, questi ostacoli non devono rallentare una più diffusa<br />

partecipazione al formarsi delle decisioni, come alle stesse scelte e al loro tradursi in atto. Per creare un<br />

contrappeso all’invadenza <strong>della</strong> tecnocrazia, occorre inventare forme di moderna democrazia non soltanto<br />

dando a ciascun uomo la possibilità di essere informato e di esprimersi,. ma impegnandolo in una<br />

responsabilità comune. … La libertà che si afferma troppo spesso come rivendicazione di autonomia<br />

opponendosi alla libertà altrui, si sviluppa così nella sua realtà umana più profonda: impegnarsi e<br />

prodigarsi per costruire solidarietà attive e vissute (Octogesima adveniens, n. 47).<br />

Sono chiari in questo intervento del magistero i nuclei del dibattito che si svilupperà negli anni<br />

successivi e che dura tuttora: la nascita di un’idea di responsabilità per le decisioni che<br />

impegnano l’umanità tutta intera e le generazioni future, la ripartizione delle responsabilità, la<br />

connessione sempre più avvertita tra libertà e responsabilità individuale e <strong>sociale</strong>, il fiorire delle<br />

esperienze di volontariato, il nascere e crescere dell’idea di una solidarietà che si estende oltre i


confini del gruppo di appartenenza e oltre la propria generazione. Sotto questo profilo l’impegno<br />

dei cattolici non è rimasto sempre infruttuoso anche sul piano delle acquisizioni giuridiche.<br />

5. Partiti, corpi intermedi, organizzazione internazionale.<br />

Il prevalere <strong>della</strong> visione sostanziale del rapporto stato-società allontana prospettive di governo<br />

o di strutture di governo capaci di per se stesse di imporre precise direttive allo svolgersi <strong>della</strong><br />

vita collettiva. Si scopre in tutto ciò una democraticità di fondo, forse più indotta che voluta con<br />

determinazione, secondo la quale ogni scelta politica finale doveva essere tributaria verso molte<br />

mediazioni, e cioè verso molte interpretazioni; figlia, in altri termini, del protrarsi del colloquio tra i<br />

soggetti <strong>sociali</strong> e le istituzioni politiche.<br />

Le premesse culturali proprie <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> portavano alla valorizzazione sostanziale<br />

<strong>della</strong> politica, alla sottomissione delle figure giuridiche formali a quei principi di diritto naturale<br />

che, indipendentemente da accentuazioni organicistiche, miravano alla fine alla persona umana<br />

come punto di partenza e di arrivo del ciclo giuridico dello stato: non possiamo sbarazzarcene<br />

proprio ora, quando la caduta dei vecchi credi politici mette a nudo ciò che è essenziale e<br />

universale nei rapporti interindividuali e nel processo di mantenimento, di difesa e di<br />

miglioramento delle condizioni <strong>della</strong> società.<br />

La riflessione, nel tempo successivo alla Costituzione, fu condotta da un canto sui partiti, i<br />

sindacati e le formazioni <strong>sociali</strong>, ad iniziare da quelle più elementari e perciò stesso più importanti<br />

come la famiglia, e dall’altro sulle dimensioni internazionali del vivere <strong>sociale</strong> e quindi <strong>della</strong> stessa<br />

esperienza dello stato. Sono queste le strutture più sensibili alla funzione <strong>della</strong> persona e<br />

dell’aggregazione <strong>sociale</strong> nel suo svolgersi verso la dimensione politica. Ciò che viene prima dello<br />

stato formale (formazioni <strong>sociali</strong>) e ciò che viene dopo di esso (società internazionale o<br />

universale) si congiungono direttamente, dimostrando come l’esperienza dello stato nazionale<br />

liberal-borghese e del diritto come emanazione esclusiva di questo stato sia transeunte e caduca<br />

proprio al confronto delle intense dinamiche delle società storiche.<br />

Del resto, l’ingresso dei valori nell’agone politico avviene per circuiti diversi da quelli propri<br />

delle istituzioni formali, e soprattutto mediante le espressioni immediate <strong>della</strong> politicità dell’uomo<br />

che sono le forme associative, nella più larga accezione di quest’espressione. Forse non ci sono<br />

valori e diritti personali che, prima di attendere la protezione delle strutture dello stato, non<br />

abbiano il loro referente immediato, o il loro specchio, in figure di tipo associativo, le quali alla<br />

fine ne esprimono la razionalità, la forza di espansione, i limiti e la dimensione ultraindividuale.<br />

La stessa sovranità dello stato va perciò intesa come l’espressione di una serie di poteri diffusi<br />

e tutti originari, proprio perché manifestazioni <strong>della</strong> società come intreccio di relazioni dinamiche<br />

che hanno come punto di riferimento la persona in quanto portatrice di diritti e di doveri e cioè di<br />

responsabilità. Il lavoro cui fa esplicito richiamo l’art. 1 <strong>della</strong> Costituzione rappresenta il distacco<br />

dell’organizzazione <strong>sociale</strong> e politica da ogni potere derivante da privilegi economici e politici e lo<br />

svincolo dello stato da un predominio <strong>della</strong> politica inteso come esercizio di potere libero e<br />

irresponsabile. Di fronte a questa sovranità, si attenua anche il peso o la funzione <strong>della</strong><br />

democrazia parlamentare, giacché questa non riesce a raccogliere le espressioni delle<br />

organizzazioni <strong>sociali</strong> e politiche e delle comunità locali, che non si subordinano altro che in parte<br />

ad autorità centrali. Il corpo elettorale, nel quale si concentra la funzione sovrana, finisce così<br />

con l’essere l’insieme delle forze <strong>sociali</strong> determinate e organizzate attorno ai loro centri e distinte<br />

secondo le varie attività, i vari fini e i vari interessi a patto che queste non diventino però delle<br />

società «totalmente chiuse», vittime di quello spirito di esclusività intollerante nei confronti delle<br />

differenze e delle minoranze. Sotto questo profilo risulta particolarmente significativo<br />

l’atteggiamento <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> circa la presenza dei cattolici in politica, che da affermazioni


inizialmente orientate a favore dell’unità dei cattolici 4 ha presto avvertito gli «inevitabili limiti e un<br />

certo logoramento» dell’esperienza unitaria appellandosi al pluralismo per orientare su strade<br />

diverse l’impegno dei cristiani 5 .<br />

6. Governo, sovranità, società<br />

Secondo l’ispirazione giusnaturalistica, il diritto raggiunge la società e prima di tutto gli uomini,<br />

non necessariamente attraverso la sovranità positiva dello Stato: anzi, questa sovranità positiva si<br />

è nel passato contrapposta all’ingresso nella società dei principi fondamentali del diritto naturale e<br />

dei valori da esso espressi.<br />

Si può quindi ben ipotizzare una sorta di nuova democrazia fondamentale che riveli, attraverso<br />

i principi <strong>della</strong> Costituzione, le sue radici giusnaturali. Le carte internazionali dei diritti umani<br />

riconoscono implicitamente dal canto loro l’universalità di questi diritti (e correlativi valori) e la<br />

loro matrice extra-statale.<br />

La <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> d’altra parte, per la natura stessa <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, era stata fin dall’origine<br />

improntata ad una visione universalistica del diritto e dell’organizzazione <strong>sociale</strong> e non poche<br />

indicazioni di ulteriori approfondimenti scientifici potrebbero in questo campo essere ricavati dal<br />

diritto pubblico in una prospettiva di sempre più deciso abbandono del monismo a pro appunto<br />

dell’universalismo, attraverso gli strumenti <strong>della</strong> cooperazione giuridica internazionale.<br />

Una nuova e moderna democrazia fondamentale si pone dunque in correlazione immediata<br />

con questi presupposti di fondo, i quali del resto vogliono un nuovo realismo: come potremmo oggi<br />

espungere dalla politica (in senso largo) non solo i partiti e i sindacati, ma con questi il grande<br />

spazio <strong>della</strong> comunicazione? Il discorso semmai sta proprio nell’allontanare il pericolo che tutte<br />

queste forze si riversino a loro volta negativamente sulla libertà e sui diritti delle persone, se non<br />

altro con la manipolazione delle opinioni. Bisogna quindi combattere questi effetti allo stesso<br />

modo in cui si debbono respingere istituzioni astratte ed eteroimposte.<br />

7. Politica sostanziale e principio etico<br />

Mentre la visione liberale o borghese, ma anche quella marxiana, approdavano a concezioni<br />

formali dello stato e del rapporto stato-società, con conseguente predominio di legittimazioni<br />

formali e valorizzazione dei processi rappresentativi pure formali, la concezione cattolica mette in<br />

evidenza e accredita razionalmente e anche storicamente il valore sostanziale dell’organizzazione<br />

politica. L’essere stato di un popolo è un fatto naturale regolato da leggi non positive, e da ciò si<br />

estrae immediatamente il concetto che il perfezionarsi storico dello stato si produce attraverso la<br />

piena interazione delle aggregazioni <strong>sociali</strong>, secondo una linea che potremmo ancora ben dire di<br />

democrazia fondamentale. E poiché questa fondamentale linea è penetrata nella Costituzione,<br />

attraverso il riconoscimento delle formazioni <strong>sociali</strong> e delle autonomie locali, potremmo anche<br />

raggiungere la conclusione che gli stati di oggi vivono sull’intersezione tra una democrazia diretta<br />

sostanziale e una democrazia rappresentativa formale. Infatti, nella Costituzione, tramite la<br />

centralità parlamentare e la rappresentanza popolare, avvertiamo anche l’eco di quest’interazione<br />

essenziale, o se vogliamo di una dialettica, che non si supera se non in parziali e forse occasionali<br />

approdi, tra la democrazia sostanziale e quella formale.<br />

L’espansione <strong>della</strong> personalità umana nella società e nello stato non potrebbe certo soddisfarsi<br />

degli istituti <strong>della</strong> rappresentanza politica formale, e sarebbe addirittura soffocata se.la<br />

4 L’unità dei cattolici nella vita politica, in Enchiridion Cei, vol. I, 163 ss.<br />

5 Consiglio permanente Cei, La <strong>Chiesa</strong> italiana e le prospettive del Paese, 23 ottobre 1981, in<br />

Enchiridion Cei, vol. III, 788.


legittimazione politica, come del resto si ricava dalla storia passata, si producesse<br />

indipendentemente dalla partecipazione totale delle persone. Onde potremmo osservare che la<br />

democrazia sostanziale ovvero fondamentale costituisce la base indefettibile <strong>della</strong> democrazia<br />

formale o rappresentativa. Questa, alla fine, è legittima fintanto che non si distacchi e si renda<br />

indipendente dalla democrazia sostanziale. Potrà alterare le sue forme, ma dovrà sempre rendersi<br />

compatibile con la base reale <strong>della</strong> sua legittimità. Così la forma dello stato o la forma del<br />

governo può anche venire mutata fino al punto in cui lo stato formale non rompa gli ormeggi che<br />

ne assicurano l’aderenza allo stato sostanzia le. Lo stato formale può adempiere al suo compito di<br />

garanzia e anche, quando sia necessario, di promozione e di sviluppo, purché rispetti i limiti <strong>della</strong><br />

sua legittimità; esso può circoscrivere o limitare le libertà dei singoli solo in quanto rispetti a sua<br />

volta i limiti <strong>della</strong> sua libertà e quindi del suo potere.<br />

Per tornare alla rappresentanza, non può certo approvarsi il perdurare di un’esclusiva e<br />

solitaria relazione tra cittadino e stato attraverso un meccanismo elettorale fatto operare in modo<br />

del tutto indipendente dalla funzione dei corpi intermedi: non sarebbe altro che una via per<br />

ripristinare una sorta di autolegittimazione del potere politico, cui la società sarebbe chiamata a<br />

dare né più né meno che un consenso o un’approvazione. Né le istituzioni formali potranno mai<br />

essere tanto neutrali e per così dire sospese sopra la società, da inseguire un sogno di efficienza,<br />

che sarebbe pur sempre esenzione da responsabilità e indifferenza all’etica dei rapporti. Ciò che<br />

conta semmai è che i corpi intermedi, e soprattutto i più importanti di essi, tra i quali i partiti, i<br />

gruppi, i sindacati, le centrali dell’opinione pubblica e <strong>della</strong> comunicazione e le stesse imprese si<br />

facciano permeare dal dovere etico e dal principio di giustizia, onde i loro comportamenti<br />

sostanziali non trasgrediscano le regole fondamentali, che la Costituzione ha posto in evidenza ma<br />

che nascono nel rapporto essenziale dell’uomo con la società.<br />

Dal punto di vista dello stato, viviamo certamente ora un momento drammatico, giacché<br />

proprio quelle aggregazioni <strong>sociali</strong> sulle quali ricade la responsabilità <strong>della</strong> buona vita <strong>sociale</strong><br />

sembrano aver perduto la consapevolezza <strong>della</strong> loro ragion d’essere e, anziché trasmettere i<br />

flussi vitali ai corpi dello stato, si sono abbarbicate ad essi, quasi profittandone ed ammorbandoli,<br />

in un giuoco perverso delle parti. Di qui tutti i mali del centralismo politico, <strong>della</strong> corruzione, <strong>della</strong><br />

perdita di identità e di consapevolezza <strong>della</strong> propria origine e motivazione fondamentale. Sembra<br />

inutile, oppure ingenuo e illusorio, confidare su riforme operate nei terminali, in luogo di<br />

trasformazioni radicali che dovrebbero invece avvenire in quella democrazia sostanziale, la cui<br />

funzionalità resta affidata alle coscienze e alla fedeltà culturale e comportamentale alle<br />

immodificabili regole <strong>della</strong> convivenza responsabile 6 .<br />

6 Con la collaborazione di M. Agostina Cabiddu.


GIANFRANCO BETTETINI<br />

LA COMUNICAZIONE SOCIALE<br />

1. Influsso <strong>della</strong> Dottrina <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> sulla società alla luce delle discipline<br />

relative alla comunicazione<br />

1.1. La debole eco dei messaggi <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong><br />

Soprattutto a partire dagli anni ’70 i mezzi di comunicazione di massa sono stati ben presenti<br />

nella riflessione <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, anche se non sempre esplicitamente e specificatamente tematizzati:<br />

la loro presenza costante, il loro essere ormai divenuti parti dell’ambiente in cui i soggetti si<br />

formano e crescono è una consapevolezza che traspare da molti dei documenti del magistero. Si<br />

può citare, a titolo di esempio, un passo significativo dell’istruzione pastorale Communio et<br />

progressio (1971) che insieme sottolinea l’importanza <strong>della</strong> comunicazione e la relativizza,<br />

collocandola nella sua giusta dimensione: la donazione. Dopo avere sottolineato la natura di<br />

«comunicatore perfetto» di Cristo, che incarnandosi si è fatto vicino a chi doveva accogliere il<br />

suo messaggio, l’istruzione pastorale prosegue:<br />

Egli parlava pienamente inserito nel suo popolo, proclamava perciò a tutti, con fortezza e perseveranza, il messaggio divino, ma<br />

adeguandosi al loro modo di parlare e alla loro mentalità, al loro stato e situazione. Del resto “comunicare” comporta qualcosa di più <strong>della</strong><br />

semplice manifestazione ed espressione di idee e sentimenti. Infatti, la comunicazione è piena quando realizza la donazione di se stessi<br />

nell’amore; e la comunicazione di Cristo è spirito e vita. (Communio et progressio, n. 11).<br />

«Comunicare», nella sua accezione più autentica, contiene quindi l’idea di comunione, di<br />

partecipazione piena. Questa sottolineatura, insieme alla consapevolezza <strong>della</strong> pervasività e<br />

accessibilità dei media, porta la <strong>Chiesa</strong> a una presa di posizione chiara:<br />

sull’esempio degli apostoli, che ricorsero ai mezzi di comunicazione di cui il loro tempo disponeva, oggi la missione apostolica deve essere<br />

espletata anche mediante i mezzi e gli strumenti oggi in uso. Sicché si dovrà dire che non ottempera al mandato di Cristo chi trascurasse gli<br />

enormi vantaggi che questi strumenti apportano nel recare a numeri stragrandi di uomini la <strong>dottrina</strong> e i precetti evangelici (Communio et<br />

progressio, 126).<br />

Nonostante la chiarezza e la modernità di queste posizioni (più aperte di quelle di molti studiosi<br />

cattolici: la loro eco, e quindi la loro capacità di incidere effettivamente, nel contesto produttivo,<br />

distributivo e sulla riflessione teorica sono state piuttosto limitate.<br />

Se si considerano infatti i quattro settori tradizionali degli studi massmediologici (ovvero<br />

l’emittenza, con lo studio degli apparati produttivi e distributivi e <strong>della</strong> regolazione dei flussi di<br />

informazione; la ricezione, con lo studio dei comportamenti e degli atteggiamenti di consumo, che<br />

determinano l’interpretazione dei messaggi; i testi, ovvero i messaggi con il loro contenuto e il<br />

loro progetto comunicativo; la riflessione teorica, con la sua tendenza modellizzante e il suo<br />

tentativo di operare delle connessioni tra gli ambiti sopra citati e fenomeni <strong>sociali</strong> più generali), si<br />

può osservare infatti che non si è verificato un ripensamento, o seppure anche una critica <strong>della</strong><br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> rispetto ai media.<br />

Se a livello teorico si riscontra uno scarso impatto (dovuto probabilmente a scarsa conoscenza,<br />

da parte dei cattolici stessi, prima ancora che da scarso interesse), non si può non riconoscere<br />

alla riflessione <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> sui media la capacità di avere fatto da stimolo, in contesti determinati,<br />

all’impegno di singoli o piccoli gruppi e alla nascita di iniziative di un certo rilievo. Si possono<br />

citare, a questo proposito, tre importanti settori in cui tale contributo si è espresso, spesso con<br />

importanti risultati: l’influenza <strong>della</strong> cultura cattolica sulla televisione italiana delle origini e<br />

l’importante contributo che l’umanesimo cattolico ha apportato all’idea di servizio pubblico; la<br />

creazione di media cattolici (stampa, radio, televisioni); l’importante ruolo, svolto dai cattolici alla<br />

luce <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>della</strong> chiesa, nella formazione del pubblico (attraverso cineforum, teleforum),


nella creazione di gruppi di opinione capaci di costituirsi come interlocutori dell’emittenza, nella<br />

formazione a diversi livelli di specializzazione (università, scuole di giornalismo).<br />

1.2. Cultura cattolica e servizio pubblico<br />

Nel breve periodo che va dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Sessanta, il<br />

sistema televisivo italiano sembra ispirarsi nei suoi progetti e nelle sue scelte a quei principi che<br />

comunemente si designano con una felice formula: umanesimo cristiano. Ancor prima che con il<br />

pontificato di Paolo VI l’umanesimo integrale maritainiano informasse dei suoi principi la cultura<br />

cattolica e ispirasse le linee fondamentali del magistero <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> riguardo al problema dei<br />

media (v. Inter Mirifica), un atteggiamento di stampo umanistico era diffuso nelle proposte e<br />

nella gestione <strong>della</strong> televisione italiana. Ve lo aveva portato Filiberto Guala a cui era stata affidata<br />

la direzione <strong>della</strong> Rai, amministratore delegato dell’Ente pubblico radiotelevisivo dal ’54 al ’56.<br />

Le linee fondamentali lungo le quali si esprime l’umanesimo cristiano nella cultura televisiva di<br />

quegli anni sono essenzialmente tre:<br />

1) La prima è un atteggiamento mentale alquanto originale nella cultura di quegli anni. È quello<br />

che uno storico laico, Peppino Ortoleva, ha accuratamente sottolineato in un saggio<br />

recentemente apparso sulla rivista «Storia e dossier». Ortoleva sostiene che, a differenza <strong>della</strong><br />

cultura laicista e di quella marxista, che esprimevano nei confronti del mezzo televisivo soltanto<br />

diffidenza (la Tv è l’America, è la depressione culturale, è la perdita di valori), nella cultura<br />

cattolica le posizioni nei confronti del nuovo mezzo sono ispirate a una maggiore profondità e<br />

complessità ideologica: proprio quella complessità che si esprimerà compiutamente nelle distinzioni<br />

operate sui problemi dei media e del loro utilizzo nell’Inter Mirifica. Nel pensiero cattolico a<br />

questo riguardo convivono, in una dimensione di contrasto e, quindi, di ricerca continua, il timore<br />

e la speranza. Al timore dell’appiattimento e dello sconvolgimento culturale che la televisione può<br />

produrre si affianca sempre la speranza di poter utilizzare il mezzo a fini pedagogici. Una<br />

speranza alla quale non si può mai rinunciare in nome di quei timori.<br />

2) Un secondo punto nel quale si esprime con assoluta concretezza l’umanesimo cristiano è<br />

l’idea di servizio a cui si rifanno le azioni <strong>della</strong> politica televisiva degli anni Cinquanta e Sessanta.<br />

Ancora un volta non si può dimenticare la personalità di Filiberto Guala. Egli arrivò in Rai dalla<br />

grande esperienza dell’Ina Casa, il progetto di edilizia popolare che intendeva dare una casa a<br />

tutti gli italiani. Erano quelli tempi di grandi e generosi progetti. Lo spirito dell’Ina Casa fu lo<br />

stesso <strong>della</strong> Rai. Era lo spirito di un servizio, un servizio messo a disposizione del Paese. In nome<br />

del quale ci si poteva anche indebitare con le banche (come fece Guala) purché fosse salvo il<br />

fine ispiratore di tutta l’operazione che non era il profitto, ma appunto il servizio. Guala lo disse<br />

espressamente, come ha ricordato Gennarini nel primo convegno rievocativo delle origini <strong>della</strong> Tv<br />

italiana 7 , che la televisione non poteva essere un mezzo di divisione tra gli italiani, ma un mezzo di<br />

unione. È molto importante osservare oggi il modo in cui fu concepito, nel primo decennio di vita<br />

<strong>della</strong> televisione italiana, il suo pubblico. Ben lontani dalle attuali ipotesi mercantili sull’agorà<br />

elettronica, dalle idee di «produzione dello spettatore» che ispirano la filosofia <strong>della</strong> Tv<br />

commerciale, ma anche dalle tentazioni di organizzazione dell’opinione pubblica, gli spettatori<br />

televisivi venivano considerati una comunità. Comunità creata dalla programmazione televisiva,<br />

ma anche preesistente a essa, organizzata cioè in base ad altre comuni esperienze di ordine<br />

culturale e spirituale. Nei confronti di questa comunità la televisione operava per la sua ulteriore<br />

crescita culturale e spirituale attraverso i programmi che erano un mezzo e non un fine<br />

dell’apparato televisivo. Erano, appunto, un servizio. Non erano certo programmi in cui fosse<br />

7 Si veda Televisione: la provvisoria identità italiana, a cura di G. Bettetini e A. Grasso, Fondazione<br />

Agnelli, Torino 1985.


iconoscibile una precisa ispirazione cristiana, anche se - citiamo sempre Gennarini - un punto<br />

accomunò Guala ai suoi successori, fino a Bernabei: «la convinzione che non dovesse essere<br />

vietato l’ingresso a Dio nei programmi televisivi e che invece si dovesse il più possibile frenare<br />

l’immanentismo etico e il conseguente realismo che, come un’onda in piena, stava montando<br />

nella società italiana». Ma più ancora che nei programmi, nei loro contenuti, l’ispirazione cristiana<br />

di quella televisione si manifestava nel suo progetto generale, in una visione teleologica<br />

dell’attività culturale.<br />

3) Il terzo punto qualificante <strong>della</strong> gestione del mezzo televisivo negli anni Cinquanta fu quello<br />

<strong>della</strong> formazione <strong>della</strong> professionalità. È questo un problema fondamentale per la comunicazione<br />

televisiva, come ci rivela una proposta arrivata recentemente alla ribalta, quella elaborata da<br />

Popper poco prima <strong>della</strong> sua morte. Se è l’uso del mezzo televisivo da parte dei produttori a<br />

determinarne il valore, non è dunque indifferente all’esito finale la formazione non solo tecnica<br />

ma anche intellettuale ed etica dei produttori. Nella nascita <strong>della</strong> televisione italiana è noto che<br />

questo problema fu affrontato in maniera radicale con la selezione e la formazione in azienda di<br />

un gruppo di giovani professionisti <strong>della</strong> comunicazione televisiva. Lo spirito a cui si ispira questa<br />

operazione e che lasciò un segno profondo e duraturo sulla televisione italiana fu quello spirito<br />

cristiano che qualche anno dopo si sarebbe definito conciliare, autenticamente cristiano, cioè, ma<br />

aperto al dialogo con le altre esperienze culturali che ponessero al centro <strong>della</strong> loro attenzione<br />

l’uomo. È ancora una volta preziosa, al proposito, la testimonianza di Mimmo Gennarini, tra i<br />

protagonisti <strong>della</strong> vicenda che egli così ricorda: «Guala incitò gli ambienti cattolici e i suoi amici<br />

perché fossero numerose le partecipazioni di giovani dell’area cattolica, ma si rivolse anche alle<br />

Università… Così assieme a un gruppo di portatori di una ispirazione religiosa entrarono anche<br />

numerosi altri meritevoli per ragioni intellettuali e culturali, non del tutto estranei a una concezione<br />

cristiana» 8 .<br />

La delicatezza dell’operazione leggibile e letta all’epoca, a seconda dei punti di vista, come<br />

integralista o come tatticista non ne mise in pericolo la profondità e la complessità: si trattava,<br />

secondo le testimonianze di Gennarini, non di un’operazione politica, ma di «un tentativo di<br />

inculturazione <strong>della</strong> fede, in modo tale che dal grande minestrone televisivo sorgessero valori<br />

determinanti, criteri di giudizio e linee di pensiero di un umanesimo cristiano».<br />

I risultati di questo vasto, generoso progetto si sono manifestati nell’ambito <strong>della</strong><br />

comunicazione televisiva italiana più a lungo <strong>della</strong> presenza del suo iniziatore.<br />

1.3. Cattolicesimo e mass media<br />

Il rapporto tra <strong>Chiesa</strong> e mass media, o più in generale tra cultura cattolica e mass media, si<br />

sviluppa principalmente in tre direzioni, che assumono nell’era contemporanea una diversa<br />

rilevanza. La prima consiste nella possibilità di disporre di spazi di intervento presso i media<br />

«laici», sia con una presenza di operatori (giornalisti, conduttori, programmisti, registi)<br />

cristianamente ispirati, come è accaduto per la Rai delle origini, sia con la richiesta di spazi per<br />

programmi a contenuto formativo e religioso, che è oggi la meno praticata. Una seconda<br />

direzione è quella <strong>della</strong> creazione di media cattolici, esplicitamente e intenzionalmente ispirati al<br />

magistero <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e principalmente (benché non esclusivamente) rivolti a un’informazione<br />

intra-ecclesiale; è questo l’ambito in cui si riscontrano i risultati più evidenti, soprattutto nel<br />

settore <strong>della</strong> stampa cattolica.<br />

Una terza modalità è quella dell’utilizzo dei media come veicoli del messaggio <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>:<br />

nonostante la progressiva secolarizzazione, infatti, non si può non osservare come tanto i viaggi e<br />

i discorsi del pontefice, quanto l’opinione dei vescovi su alcuni importanti fatti <strong>della</strong> vita civile o su<br />

controverse questioni etiche siano quasi costantemente presenti nei testi dei media. Al di là delle<br />

8 Ibid.


valutazioni sulla strumentalizzazione e/o spettacolarizzazione cui spesso si assiste, in un panorama<br />

mediale in cui prevale nettamente una «visione radicalmente immanentistica dell’esistenza» (per<br />

usare le parole del card. Ruini) e in cui la corsa all’audience è l’imperativo principale, è<br />

innegabile che il Vaticano e i vescovi siano divenuti interlocutori imprescindibili <strong>della</strong> vita <strong>sociale</strong>,<br />

culturale e politica, e che i media dedichino loro uno spazio crescente e costante (quasi del tutto<br />

assente dalla copertura dei media, peraltro, è la dimensione comunitaria <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e il suo<br />

essere radicata nella dimensione locale: questo aspetto emerge invece con grande chiarezza nella<br />

stampa cattolica).<br />

Ci concentreremo qui sul secondo aspetto, dato che il primo è già stato affrontato, e che il<br />

terzo implica più il riconoscimento di una tendenza che effettive possibilità di intervento.<br />

L’istruzione pastorale Aetatis novae del 1992, del Pontificio consiglio delle comunicazioni<br />

<strong>sociali</strong>, afferma che «il lavoro dei media cattolici non è soltanto un’attività supplementare che si<br />

aggiunge a tutte quelle <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>», e sottolinea la necessità che «la comunicazione sia parte<br />

integrante di ogni piano pastorale perché essa, di fatto, ha un contributo da dare a ogni altro<br />

apostolato, ministero o programma» (n.17).<br />

Al riconoscimento, da parte <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, <strong>della</strong> imprescindibilità dell’utilizzo dei media,<br />

corrisponde una solida e longeva tradizione di media, per la maggior parte pubblicazioni, che<br />

fanno riferimento alla <strong>Chiesa</strong>.<br />

Il panorama <strong>della</strong> stampa cattolica è ampio e articolato, e un censimento delle testate si rivela<br />

problematico: secondo una stima approssimativa si tratta infatti di circa 3.000 pubblicazioni,<br />

raggruppabili in alcune categorie generali:<br />

a) i quotidiani: i quotidiani cattolici sono tre: «Avvenire», a carattere nazionale, con una<br />

diffusione giornaliera di circa 90.000 copie; «L’Eco di Bergamo», diffuso nella diocesi di<br />

Bergamo, e «Il Cittadino di Lodi», nel territorio lodigiano, rispettivamente con circa 62.000 e<br />

6.000 copie vendute.<br />

È significativo sottolineare che nel 1904 i quotidiani cattolici erano ben 29.<br />

b) i periodici: è questa una categoria variegata, che comprende una serie di realtà eterogenee,<br />

tra cui: - 134 settimanali diocesani, alcuni dei quali hanno più di un secolo di vita e che diffondono<br />

complessivamente 1.200.000 copie la settimana. Tali settimanali possono oggi beneficiare di un<br />

consorzio di servizi tecnico-amministrativi (Consis) creato dalla Fisc (Federazione italiana<br />

settimanali cattolici, nata nel 1966), e di un supplemento dell’agenzia di stampa Sir (si veda sotto)<br />

appositamente realizzato per la stampa delle 227 diocesi di tutta Italia;<br />

- il Gruppo delle edizioni Paoline, con «Famiglia Cristiana», il settimanale illustrato più diffuso<br />

in Italia (più di un milione di copie la settimana) e altre importanti riviste, tra cui «Jesus», mensile<br />

di cultura, e «Il Giornalino», settimanale per ragazzi;<br />

- il Gruppo Messaggero di S. Antonio, la cui omonima rivista mensile sfiora il milione di copie;<br />

- le pubblicazioni associative dell’Azione Cattolica (circa un milione di copie complessive);<br />

- numerose importanti riviste culturali di approfondimento, alcune delle quali godono di<br />

prestigio internazionale, come «La Civiltà Cattolica», «Vita e Pensiero», «Studium», «Studi<br />

Cattolici», «Aggiornamenti Sociali» e altre;<br />

- numerose riviste settoriali di teologia, spiritualità, psicologia, pedagogia, scienza e etica etc.<br />

- alcuni periodici per ragazzi;<br />

- una quarantina di riviste missionarie;<br />

- oltre 300 pubblicazioni devozionali, legate a santuari mariani e altro;<br />

- oltre un centinaio di riviste diocesane (per gli atti di curia, o come organi di informazione<br />

intraecclesiali)<br />

- numerose (oltre 200) riviste e pubblicazioni legate ad associazioni, gruppi e movimenti<br />

ecclesiali<br />

- circa 15.000 informatori parrocchiali (su 25.834 parrocchie esistenti in Italia).


c) le case editrici: l’editoria religiosa è costituita da oltre 200 case editrici, di cui una ventina a<br />

carattere nazionale. Le pubblicazioni raggiungono i 2.000 nuovi titoli l’anno, su 30.000 novità<br />

complessive del mondo editoriale italiano.<br />

L’editoria cattolica pubblica attualmente oltre l’8% dei libri in commercio e ha un fatturato di<br />

300 miliardi rispetto ai 3.500 complessivi del mondo editoriale. I titoli finora editi sono 22.000 su<br />

226.000 <strong>della</strong> produzione nazionale. Tra le case editrici più prestigiose si ricordano: La Scuola,<br />

Sei, Edizioni Paoline, Piemme, Marietti (oggi però culturalmente trasformata), Città Nuova, Ares.<br />

d) le agenzie di stampa: un importante contributo all’unità tra le testate locali è legato alla<br />

presenza di un’agenzia di servizi giornalistici comuni sorta nel 1951 con il nome di «Servizi<br />

informazioni settimanali» (Sis), che dal 1989 è diventata «Sir» (Servizio Informazione Religiosa);<br />

essa opera in stretta collaborazione con la Federazione italiana settimanali cattolici (Fisc) e con<br />

l’approvazione <strong>della</strong> Cei. L’agenzia, che esce bisettimanalmente, attua lanci quotidiani via telefax<br />

ai giornali abbonati. Gli utenti sono diverse centinaia, tra giornali, televisioni nazionali e locali,<br />

radio, operatori pastorali e studiosi.<br />

Per quanto riguarda il settore degli audiovisivi si può distinguere:<br />

a) il settore video-cinematografico: l’impegno delle realtà cattoliche nel settore produttivo di<br />

questo settore è ancora, tutto sommato, piuttosto limitato. Ci sono però alcune eccezioni: alcune<br />

società come la San Paolo Audiovisivi, la Elle Di Ci, l’Audiovideo Messaggero di S. Antonio e<br />

altre sono infatti attivamente inserite nel mercato <strong>della</strong> produzione di videocassette e di strumenti<br />

multimediali (in particolare Cd-Rom). Finora la produzione si è concentrata soprattutto sui<br />

programmi di video-catechesi e di cultura religiosa, ma il settore è in grande sviluppo.<br />

b) emittenti radiotelevisive: le emittenti radiofoniche ecclesiali sono circa 450, riunite nel<br />

Co.Ra.L.Lo. (Consorzio radiotelevisioni libere locali), che produce direttamente (in<br />

collaborazione con l’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali <strong>della</strong> Cei) la rubrica<br />

settimanale «Ecclesia» messa in onda da tutte le emittenti. Il consorzio ha anche promosso, dal<br />

1992, un’agenzia di informazione radiofonica («New Press»).<br />

Anche le emittenti radiotelevisive fanno riferimento al Co.Ra.L.Lo. Le emittenti che hanno<br />

ottenuto le concessioni sono circa 30. In Lombardia trasmettono «Telenova» e «Bergamo TV».<br />

Da segnalare che dal 1992 «Telepace» (che copre Veneto, Trentino, Romagna, parte <strong>della</strong><br />

Lombardia e <strong>della</strong> Liguria e ha una rete «gemella» a Roma) ha inaugurato un servizio di<br />

diffusione via satellite del magistero del papa, realizzato in collaborazione con il Centro televisivo<br />

vaticano e con Radio vaticana. Il servizio raggiunge tutta l’Europa, il Medio Oriente e parte<br />

dell’Africa settentrionale.<br />

La tendenza, condizionata anche dai piani di assegnazione delle frequenze da parte del<br />

Ministero e dalla necessità di razionalizzare i costi per potenziare gli apparati, è comunque quella<br />

di una sempre maggiore interconnessione e, dove opportuno, di una fusione di testate che<br />

recuperi in una struttura più articolata e organizzata le diverse esperienze locali.<br />

Da questo panorama, piuttosto sintetico rispetto ai caratteri delle specifiche realtà elencate,<br />

emerge la ricchezza e articolazione del contributo che le realtà ecclesiali apportano allo scenario<br />

mediale nazionale (un contributo significativo, ma quantitativamente limitato: il settore <strong>della</strong><br />

stampa, che è quello di più antica tradizione e più sviluppato, rappresenta solo il 3% <strong>della</strong> stampa<br />

nazionale, secondo una stima riportata da «Aggiornamenti Sociali» del 1993).<br />

Due aspetti meritano in particolare di essere sottolineati qui: lo strettissimo legame tra <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e sviluppo dei media cattolici (soprattutto la stampa, come si è visto) e il<br />

forte radicamento dei media cattolici sul territorio, con una valorizzazione non particolaristica<br />

<strong>della</strong> dimensione locale.<br />

Quanto al primo punto, si può osservare come l’editoria di ispirazione cattolica abbia tratto<br />

ispirazione e ricevuto grande impulso in seguito all’enciclica di Leone XIII Rerum novarum, nel


1891, che porta in primo piano la questione <strong>sociale</strong> e la necessità, per il cristiano, di impegnarsi<br />

per il miglioramento delle condizioni di vita delle classi più povere. Il giornale diventa così uno<br />

strumento importantissimo di quel movimento <strong>sociale</strong> cattolico che, ispirandosi alla <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, ha tanto contribuito al miglioramento delle condizioni materiali e spirituali di<br />

vita tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX.<br />

Da più parti è stato sottolineato come la storia dei settimanali cattolici coincida con la storia<br />

del movimento cattolico e rifletta la preoccupazione per una pedagogia cristiana e insieme<br />

l’esigenza di un impegno concreto di solidarietà (impegno che si è tradotto, per esempio, nel<br />

tessuto delle strutture cooperativistiche e nella costituzione delle casse rurali, con cui i cattolici<br />

impegnati nel <strong>sociale</strong> hanno contribuito a far fronte ai disagi e ai cambiamenti introdotti<br />

dall’industrializzazione). G. Garancini sottolinea, a questo proposito, in un intervento sul volume<br />

per i 25 anni <strong>della</strong> Fisc dal titolo Informazione e territorio, che i modelli culturali fondamentali di<br />

fine ’800, imperniati sulla dimensione del pluralismo, erano tre: il modello liberale, basato su un<br />

pluralismo concorrenziale; il modello social-marxista, sostenitore di un pluralismo conflittuale; il<br />

modello cattolico, fondato su una tradizione popolare di autonomie locali, fautore di un pluralismo<br />

organico.<br />

Nella Centesimus annus, del 1991, si riassumono e si esplicitano i principi che devono guidare<br />

l’operato dei giornalisti e dei mezzi di comunicazione di ispirazione cattolica, nella direzione di<br />

quella formazione <strong>sociale</strong> che così intensamente ha caratterizzato la stampa cattolica delle<br />

origini. I due principi fondamentali sono quelli <strong>della</strong> solidarietà <strong>sociale</strong> e <strong>della</strong> sussidiarietà, alla<br />

luce dell’idea centrale <strong>della</strong> dignità <strong>della</strong> persona umana (una dignità che rispetta la verità <strong>della</strong><br />

persona come essere relazionale, aperto agli altri): una solidarietà territoriale, centrata<br />

sull’impegno a rispondere ai bisogni realmente emergenti, e una sussidiarietà che stabilisce<br />

l’intervento delle istituzioni a sostegno dell’iniziativa <strong>sociale</strong>.<br />

La stampa cattolica, e questo è il secondo punto da sottolineare, si fa fin dall’inizio portavoce<br />

di un impegno consapevole di traduzione dei valori cattolici in una rete di attività <strong>sociali</strong> e di carità<br />

operante e operosa: una impostazione fedele e intransigente sui principi, ma appassionata e<br />

coinvolta nella pratica, che il card. Martini ha definito «carità politica». Un impegno<br />

inscindibilmente legato a quella realtà (locale, territoriale) in cui l’azione dei cattolici si sviluppa, e<br />

rispetto alla quale la stampa cattolica fa da punto di riferimento. L’impegno, soprattutto dei<br />

settimanali cattolici, per le culture locali è ben lontano dal particolarismo, poiché l’attenzione è<br />

costante nel richiamare, accanto alla dignità e alla ricchezza che nella dimensione locale si<br />

sviluppano, il collegamento e i comuni valori di cui le diverse realtà locali si nutrono. Una<br />

dimensione locale che nella Centesimus annus viene definita come «la soggettività <strong>della</strong><br />

società».<br />

La capacità di elaborare una cultura del territorio, rispettosa delle realtà, dei soggetti, <strong>della</strong><br />

cronaca ma anche in grado di rileggere tutto ciò alla luce <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> è una<br />

sfida che tutti i media cattolici, non solo la stampa, devono raccogliere dopo un periodo di crisi dei<br />

valori (si pensi alle critiche alle «metanarrazioni totalizzanti» mosse dalla corrente culturale,<br />

dominante negli anni ’80, del postmodernismo) e di eccessiva sudditanza da paradigmi culturali<br />

molto lontani dal messaggio cristiano che ha investito la società nel suo complesso e che tuttora è<br />

dominante.<br />

Una sfida che, insieme alla formazione e alla partecipazione sempre più attiva dei cattolici nei<br />

diversi settori <strong>della</strong> comunicazione, va raccolta perché la più autentica vocazione dei mezzi di<br />

comunicazione e quella dei cattolici si incontrino i media consentendo maggior forza e visibilità<br />

alla riflessione e all’operare dei cattolici, i cattolici conferendo dignità e spessore al lavoro dei<br />

media.<br />

1.4. La formazione del pubblico


Se, dal punto di vista storico, l’impegno <strong>della</strong> cultura cattolica nella produzione massmediale si<br />

differenzia significativamente a seconda dei singoli strumenti di comunicazione 9 , è però possibile<br />

individuare un ambito più omogeneamente riconosciuto dal concreto agire <strong>sociale</strong> dei cattolici<br />

come un ambito proprio: quello <strong>della</strong> formazione e, più precisamente, <strong>della</strong> formazione degli<br />

autori e degli utenti, come richiamato con chiarezza a proposito dei diversi media anche dal<br />

decreto conciliare Inter mirifica (nn. 15 e 16), e come confermato anche dai successivi<br />

interventi del magistero; ed è soprattutto sotto il secondo aspetto - quello <strong>della</strong> formazione degli<br />

utenti come contributo alla promozione di una comunicazione autenticamente umana - che la<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> sembra aver inciso con maggiore evidenza, non solo perché l’organizzazione e la<br />

formazione relative al momento <strong>della</strong> ricezione sembrano rispondere più immediatamente di altri<br />

ambiti dell’universo massmediale alla preoccupazione educativa che anima la pastorale, ma<br />

anche perché esse rivestono un’importanza strategica sviluppata con considerevole pragmatismo<br />

fin dagli anni Venti, di fronte al diffondersi del medium cinematografico 10 .<br />

Nel dettaglio, quattro sembrano essere gli ambiti di intervento più interessanti che hanno dato,<br />

nel tempo, parziale realizzazione a questa indicazione del magistero.<br />

1) Il primo, anche storicamente, si sviluppa a partire dal riconoscimento dell’importanza <strong>della</strong><br />

comunicazione cinematografica; pur senza trascurare direttamente la produzione e l’investimento<br />

di capitali nella realizzazione di pellicole destinate al grande pubblico e capaci di svolgere una<br />

funzione evangelizzante, le energie del laicato cattolico si muovono, infatti, sin dall’inizio<br />

soprattutto nella direzione <strong>della</strong> distribuzione e <strong>della</strong> organizzazione del consumo. La comunità<br />

ecclesiale sviluppa così, soprattutto nelle campagne e nelle periferie dei grandi centri urbani, una<br />

rete di sale parrocchiali 11 che costituiscono il luogo deputato alla fruizione di cinema intesa come<br />

educazione al cinema stesso: educazione del gusto e <strong>della</strong> sensibilità del pubblico, potenziamento<br />

delle sue capacità critiche ed estetiche, ma anche come formazione <strong>della</strong> domanda in grado di<br />

condizionare positivamente l’offerta; nello stesso tempo il laicato cattolico agisce sui versanti dei<br />

nascenti organismi istituzionali 12 , <strong>della</strong> distribuzione e dell’esercizio 13 , nonché <strong>della</strong> critica 14 ,<br />

anch’essi interpretati come strumenti di moderazione del mercato e insieme come occasioni di<br />

formazione culturale e spirituale del pubblico mediante la promozione <strong>della</strong> produzione<br />

artisticamente più significativa. Da questo punto di vista non si può dimenticare come lo sviluppo<br />

<strong>della</strong> pratica del cineforum, articolato anche istituzionalmente 15 , si caratterizzi nella sua<br />

9 Come si è visto, televisione, cinema e stampa offrono terreni diversi tanto all’influenza diretta <strong>della</strong><br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> quanto all’azione dei laici professionalmente impegnati<br />

10 Si pensi alla nascita del Cuce (Consorzio utenti cinematografici educativi) nel 1926 e a quella <strong>della</strong><br />

«Rivista del Cinematografo» nel 1928.<br />

11 Alla fine <strong>della</strong> seconda Guerra mondiale sono ancora attive 559 sale cinematografiche parrocchiali; nel<br />

corso degli anni Cinquanta esse diventano più di 5.000; a tutt’oggi nella sola Milano esse sono ancora una<br />

quarantina.<br />

12 Nel 1944 viene costituito l’Ente dello spettacolo.<br />

13 Si pensi al già citato Cuce e all’Acec (Associazione cattolica esercenti cinema), fondata nel 1949.<br />

14 Si pensi, per esempio, alle segnalazioni cinematografiche del Ccc (Centro cattolico cinematografico),<br />

inaugurate a metà degli anni Trenta e alla già citata «Rivista del cinematografo», nonché ai successivi<br />

strumenti critici ospitati spesso sui vari bollettini diocesani. Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, e<br />

fino ai giorni nostri, numerose sono le riviste di cultura che, come «Letture», svolgono sistematicamente<br />

una importante funzione di critica cinematografica.<br />

15 L’esperienza italiana del cineforum ha avvio con padre Morlion già sulla fine degli anni Quaranta, e si<br />

sviluppa pienamente nei decenni successivi. Molte le realtà associazionistiche e le pubblicazioni che<br />

raccolgono il lavoro dei cattolici in questa direzione, dalla stessa rivista «Cineforum» (che poi assume un<br />

suo indirizzo extraecclesiale) all’attività dei Cinecircoli giovanili salesiani, del Centro studi cinematografici,<br />

dell’Associazione nazionale circoli cinematografici italiani.


ealizzazione culturale di matrice cattolica per una attenzione equamente ripartita tra dimensione<br />

linguistica e dimensione dei contenuti, sviluppando anche una strumentazione critica che si avvale<br />

di discipline che, come la semiotica, vengono inizialmente rigettate dalla critica contemporanea di<br />

estrazione marxista in quanto formaliste, a fronte di una più rigida attenzione ai contenuti<br />

ideologici delle pellicole.<br />

Ma la sala <strong>della</strong> comunità, che conosce soprattutto negli anni Sessanta e Settanta un grande<br />

sviluppo legato proprio al fenomeno del cineforum, è destinata a subire, negli anni Ottanta e<br />

Novanta, le sue stesse trasformazioni: mentre alcune istituzioni, come - a Milano - il Centro san<br />

Fedele, proseguono la propria attività a livello cittadino, le sale parrocchiali affrontano la crisi del<br />

cinema differenziando la propria attività; in questo contesto strutturale si inserisce, a cavallo <strong>della</strong><br />

fine degli anni Ottanta, l’avvio <strong>della</strong> pratica del teleforum, che tende ad applicare alla<br />

programmazione televisiva il patrimonio di conoscenza teorica e di esperienza educativa<br />

sviluppato nei decenni precedenti nell’ambito dei cineforum e approfondito, nel corso degli ultimi<br />

quindici anni, dallo sviluppo scientifico e accademico delle discipline <strong>della</strong> comunicazione .<br />

2) Il secondo ambito significativo è, infatti, quello relativo alla formazione dei formatori e degli<br />

operatori; si tratta, in altre parole, dell’opera di insegnamento svolta all’interno dei corsi<br />

universitari e post-universitari che hanno riconosciuto dignità disciplinare ai diversi fenomeni <strong>della</strong><br />

comunicazione e dei media non solo in prospettiva scientifica 16 , ma anche in funzione<br />

dell’approfondimento delle competenze critiche e operative dei professionisti <strong>della</strong> formazione (in<br />

primo luogo gli insegnanti e gli educatori) e <strong>della</strong> stessa comunicazione (nella molteplicità delle<br />

figure professionali dei diversi ambiti dell’informazione e dello spettacolo). A questo proposito è<br />

doveroso segnalare due esempi particolarmente significativi: il primo è quello <strong>della</strong> Scuola di<br />

specializzazione in comunicazioni <strong>sociali</strong> dell’Università Cattolica, nata negli anni Sessanta su<br />

iniziativa di Mario Apollonio come Scuola di giornalismo con sede a Bergamo, promotrice, negli<br />

stessi anni, dei primi convegni nazionali di studio sulla comunicazione, e attualmente articolata<br />

nelle sezioni di spettacolo, giornalismo e pubblicità presso la sede di Milano: la solida impostazione<br />

teorica che la caratterizza contribuisce alla formazione - anche etica e deontologica - tanto dei<br />

professionisti quanto degli educatori operanti nell’ambito dei media. Il secondo, e più recente,<br />

esempio è quello dell’Iscos, l’Istituto di scienze <strong>della</strong> comunicazione <strong>sociale</strong>, fondato in seno<br />

all’Università Salesiana nel 1988 proprio al fine di dare risposta agli interrogativi sollevati dagli<br />

educatori nei confronti del rapporto con i mass media.<br />

3) Un terzo ambito di intervento è, in parte, connesso con quello appena ricordato, di cui<br />

costituisce una sorta di fenomeno di ricaduta; si tratta infatti dello sviluppo di progetti di media<br />

education da attuarsi nella scuola media e media superiore, sia sfruttando tempi e spazi previsti<br />

dai programmi ministeriali, sia anticipando questi ultimi mediante diverse forme di<br />

sperimentazione, spesso rese più agevoli dalla natura privata delle istituzioni scolastiche; i<br />

soggetti protagonisti di questo tipo di azione educativa sono gli stessi insegnanti, spesso in<br />

collaborazione con qualche docente universitario o con altre realtà di ricerca 17 coinvolte in vista<br />

dell’aggiornamento necessario, a volte isolatamente, a volte in riferimento ad associazioni di<br />

docenti o di utenti. La tipologia di intervento, abbastanza diversificata seppur finalizzata sempre<br />

allo sviluppo delle capacità critiche degli studenti in relazione ai testi e ai messaggi dei media,<br />

prevede tanto la realizzazione di corsi di aggiornamento per insegnanti quanto la formulazione di<br />

veri e propri percorsi curriculari, mono o interdisciplinari, dedicati ai mezzi di comunicazione di<br />

massa e ai loro linguaggi 18 .<br />

16 Si veda a questo proposito il punto 2 di questo documento.<br />

17 Si veda, per esempio, l’attività del Centro studi per l’educazione all’immagine.<br />

18 Lo sviluppo <strong>della</strong> media education in Italia, sia dal punto di vista <strong>della</strong> elaborazione teorica e<br />

bibliografica, sia da quello <strong>della</strong> pratica didattica è abbastanza in ritardo rispetto ad altri paesi europei; uno


4) Infine, l’ultimo ambito in cui si riconosce l’azione del laicato cattolico è quello che ha come<br />

protagonisti l’associazionismo e il volontariato; anche in questo caso l’esigenza iniziale è, spesso,<br />

quella di costituire degli spazi auto-formativi nei quali il confronto tra genitori, insegnanti o<br />

semplici utenti in merito ai problemi sollevati dai mass media sia occasione di un aumento di<br />

consapevolezza critica nei confronti dei loro messaggi e di una personale maturazione umana. Si<br />

tratta, soprattutto, di associazioni familiari, spesso espressione <strong>della</strong> ricchezza di movimenti<br />

ecclesiali sviluppatisi in Italia dopo il Concilio Vaticano II o, ancora, di insegnanti, accomunati ai<br />

genitori dalla preoccupazione nei confronti dell’erosione che i media, e in particolar modo la<br />

televisione, stanno operando nei confronti delle tradizionali agenzie di <strong>sociali</strong>zzazione quali la<br />

famiglia e la scuola.<br />

Associazioni di utenti (come l’Aiart), di genitori (Age, Agesc, Faes, Famiglie nuove, Sidef), di<br />

insegnanti (Adasm, Aimc, Fism, Uciim) e di volontari (Avam) hanno sviluppato, negli ultimi anni,<br />

una considerevole capacità di coordinamento, senza per questo rinunciare a strategie di<br />

intervento diversificate, specifiche di ogni realtà: alle iniziative del Coordinamento nazionale per la<br />

comunicazione <strong>sociale</strong> e delle sue declinazioni regionali 19 si affiancano così le singole iniziative<br />

delle associazioni, che possono essere riassunte nei diversi ambiti <strong>della</strong> produzione di strumenti<br />

culturali (sussidi, quaderni, materiali per cine e teleforum, convegnistica specializzata), dell’azione<br />

diretta sull’opinione pubblica o sulle stesse rappresentanze parlamentari e, soprattutto, <strong>della</strong><br />

partecipazione a quelle forme di controllo delle o di negoziazione con le emittenti televisive che<br />

assumono la forma del Comitato consultivo degli utenti attivato presso l’Ufficio del garante<br />

dell’editoria o del Comitato di attuazione del Codice convenzionale di autoregolamentazione in<br />

difesa dell’utenza minorile sottoscritto dalle emittenti aderenti alla Federazione radio televisioni e<br />

da una ventina di associazioni, cattoliche e laiche.<br />

2. Consonanze tra la ricerca sui media e il magistero <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong><br />

Osservando panoramicamente lo sviluppo del magistero postconciliare sui mezzi di<br />

comunicazione <strong>sociale</strong> e la riflessione teorica sui mass media dal dopoguerra a oggi, è possibile<br />

cogliere le tracce di un reciproco avvicinamento, benché ciò non implichi una precisa<br />

corrispondenza cronologica, né rimandi a un immediato influsso dell’uno sull’altra. Sul versante<br />

del magistero ecclesiastico possiamo osservare come lo sguardo rivolto ai media sia venuto via<br />

via arricchendosi secondo due direzioni. Da un lato, la riflessione ha acquisito una maggiore<br />

profondità. Al di là <strong>della</strong> più immediata e superficiale fenomenologia dei media, è stata rinvenuta<br />

una relazione tra mass media e fondamenti teologici <strong>della</strong> comunicazione.<br />

Questa direzione di riflessione, già evidente nel passaggio dall’Inter Mirifica alla Communio<br />

et progressio, costituisce un motivo presente «sotterraneamente« nei pronunciamenti papali in<br />

occasione delle Giornate mondiali delle comunicazioni <strong>sociali</strong> e riemerge più di recente nel<br />

magistero del card. Martini (in particolare nelle lettere pastorali Effatà, del 1990, e Il lembo del<br />

mantello, del 1991). In base a questa linea di riflessione, appare chiaro che una corretta lettura<br />

dell’universo dei media - e, conseguentemente, una corretta delineazione dei principi etici<br />

dell’operare nell’universo mediale - deve partire da una collocazione di tali mezzi all’interno del<br />

più ampio orizzonte antropologico e teologico <strong>della</strong> comunicazione umana: il comunicare umano<br />

strumento utile per fare il punto <strong>della</strong> situazione e per fornire alcune ipotesi concrete di lavoro è il recente<br />

volume Teleduchiamo. Linee per un uso didattico <strong>della</strong> televisione, a cura di R. Giannatelli e P. C.<br />

Rivoltella, Elle Di Ci, Torino 1994.<br />

19 Si veda, per esempio, la nascita del Coordinamento lombardo per la comunicazione <strong>sociale</strong> cui<br />

aderiscono attualmente diciassette associazioni nonché gli Uffici diocesani <strong>della</strong> comunicazione <strong>sociale</strong>;<br />

nato anche sulla spinta del piano pastorale diocesano del card. Martini (1990-91 e 1991-92), ha promosso<br />

recentemente il convegno Mass media protagonisti del Duemila (Milano, 12 novembre 1994).


ivela, nelle sue tensioni a una costitutiva autenticità e perfino nelle sue limitazioni, una radice<br />

teologica. A essa occorre risalire per acquisire criteri di lettura e di discernimento etico da<br />

applicare ai mezzi di comunicazione <strong>sociale</strong>.<br />

Dall’altro lato, lo sguardo del magistero sui media ha guadagnato in ampiezza e articolazione:<br />

esso ha superato l’idea semplicistica dei media come strumenti neutrali di trasmissione di una<br />

realtà predeterminata, nonché l’idea (connessa alla prima e parimenti semplicistica) del recettore<br />

come punto di arrivo passivo dei messaggi mediali.<br />

Da parte sua, la teoria ha gradualmente rinunciato all’idea di un approccio deterministico, sia<br />

rispetto all’uso dei media che ai loro effetti. Mano a mano che maturava un’idea di<br />

comunicazione non più come passaggio meccanico di informazioni da un polo all’altro, ma<br />

piuttosto come una interazione comunicativa tra due soggetti, entrambi attivi, anche la<br />

comunicazione mediale si allontanava da un’idea di immediatezza di effetti. Per un verso, si<br />

sottolineava la presenza operativa di soggetti attivi all’interno dei processi comunicativi mediali,<br />

per altro verso si insisteva sulla capacità dei media di agire sul contesto e di sostituirsi a esso con<br />

la mediazione di influssi molteplici. Infine, si metteva in rilievo l’importanza degli aspetti linguistici<br />

dei media e dunque la loro capacità di costruire una realtà piuttosto che di mediarla.<br />

Attorno a questa serie di idee venivano a raccogliersi differenti discipline tese a costituire<br />

proficui interscambi: sociologia, psicologia, semiotica, etnografia del consumo, ecc.<br />

Considerando più da vicino lo studio dei media, è possibile individuare alcune aree tematiche<br />

che si impongono all’attenzione dei teorici e che presentano profonde consonanze con il<br />

magistero <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>.<br />

Tali tematiche acquistano un significativo rilievo a partire dall’ampliamento dell’ambito di<br />

interesse che ha caratterizzato l’orizzonte semiotico dall’inizio degli anni ’80.<br />

Se infatti la prospettiva precedente - quella <strong>della</strong> semiotica testuale - assumeva a proprio<br />

oggetto d’indagine il testo, inteso come struttura autonoma dal momento produttivo e da quello<br />

ricettivo, la svolta pragmatica implica una apertura dei confini testuali. Da un lato, si considerano<br />

i rimandi interni alle dinamiche che presiedono alla realizzazione e alla comunicazione del testo,<br />

dall’altro, alcune linee di ricerca arrivano a considerare pertinente la concreta situazione<br />

comunicativa in cui esso viene scambiato.<br />

Sul primo versante, l’idea centrale è che il testo contempli al proprio interno la<br />

rappresentazione simbolica di due figure - che rimandano rispettivamente al trasmittente e al<br />

ricettore - e dello scambio di sapere che avviene tra le due 20 .<br />

Ciò significa che il momento di costruzione di un testo coincide con l’organizzazione di un<br />

progetto comunicativo, che comprende la definizione delle caratteristiche, del ruolo e delle azioni<br />

del ricettore. Nell’ambito di tale lavoro di definizione, è insita la possibilità di costruire un ricettore<br />

posto in posizione di pariteticità rispetto allo scambio o, invece, un destinatario soggiogato o<br />

addirittura truffato dal progetto comunicativo. Anche nell’ambito di un orizzonte puramente<br />

teorico si configura quindi una chiara responsabilità etica dell’emittente nei confronti dello<br />

spettatore.<br />

Se dunque il testo presenta al suo interno il progetto del percorso di decodifica «ottimale»,<br />

l’analisi semio-pragmatica sottolinea anche l’esistenza di un ruolo attivo del destinatario, che si<br />

manifesta nella libertà di adeguarsi o meno a tale prefigurazione. Per esercitare questa sorta di<br />

controllo rispetto alla monodirezionalità <strong>della</strong> comunicazione, lo spettatore deve acquisire un<br />

adeguato livello di competenza nei confronti del linguaggio audiovisivo. Si configura quindi un<br />

orizzonte di responsabilità non solo nei confronti dell’emittente, ma anche del destinatario,<br />

chiamato a darsi una formazione che gli consenta di esercitare consapevolmente la propria libertà<br />

di scegliere.<br />

20 Il rinvio è a G. Bettetini, La conversazione audiovisiva, Bompiani, Milano 1984.


Queste considerazioni evidenziano, a un livello più generale, il concentrarsi dell’attenzione non<br />

più soltanto sulla dimensione strutturale del testo, bensì, piuttosto, sulla sua vocazione<br />

comunicativa, sul suo esserci per qualcuno e non solo fine a se stesso. Vero fulcro e punto di<br />

orientamento del processo comunicativo è dunque il ricettore, che si trova investito, nella<br />

prospettiva pragmatica, di una inedita centralità.<br />

Sul secondo versante, la centralità del momento ricettivo appena richiamata può condurre a<br />

focalizzare l’attenzione sul contesto in cui avviene il consumo testuale. In tale orizzonte si colloca<br />

la ricerca etnografica, dedicata all’analisi delle dinamiche <strong>della</strong> fruizione mediale in diverse<br />

situazioni ambientali. L’assunto di base 21 , ripreso e sottolineato da questa branca teoricoapplicativa,<br />

è che i mass media siano uno degli elementi del sistema ambientale che circonda<br />

l’individuo.<br />

Il processo fruitivo dipende, quindi, anche dal complesso delle sollecitazioni conoscitive e<br />

comunicative a cui sono sottoposti gli utenti. In questo senso, anche la sociologia si è<br />

progressivamente orientata verso una visione più complessa degli effetti provocati dai media. Tali<br />

effetti sono il risultato di articolate interazioni tra i mezzi, le istituzioni, le condizioni<br />

socioeconomiche, ecc. che caratterizzano l’ambiente ricettivo.<br />

Questa complessificazione dell’interpretazione del rapporto tra media e ambiente fa sì che si<br />

prendano in considerazione anche quelli che si potrebbero definire «effetti di ritorno», ovvero i<br />

fenomeni per cui la variazione delle dinamiche del consumo può indurre una variazione delle<br />

caratteristiche <strong>della</strong> produzione mediale.<br />

Un ulteriore ambito di riflessione, trasversale rispetto a quelli appena ricordati, si configura<br />

come punto di intersezione tra la riflessione semiotica e quella etica.<br />

Si tratta dello studio dei linguaggi audiovisivi: in particolare <strong>della</strong> specificità del linguaggio<br />

iconico e <strong>della</strong> messa in discorso <strong>della</strong> realtà rappresentata. Da un lato, l’uso di immagini dotate<br />

di un elevato grado di somiglianza con il mondo reale (come per esempio quelle televisive) può<br />

indurre il ricettore ingenuo ad attribuire alla rappresentazione audiovisiva lo stesso grado di<br />

evidenza che pertiene alla realtà e quindi a ritenere ciò che vede in Tv altrettanto vero rispetto a<br />

ciò che vede nel mondo reale. D’altro lato, queste immagini così evidenti non sono frutto di un<br />

atteggiamento neutrale, speculare, puramente riproduttivo <strong>della</strong> realtà: costruire un testo che parli<br />

del mondo implica una «messa in scena» 22 , che comporta operazioni di selezione, di<br />

decontestualizzazione e di successiva ricontestualizzazione, connotate dall’assunzione di uno<br />

specifico punto di vista sul rappresentato.<br />

Benché apparentemente evidenti, le immagini dei media sono quindi caratterizzate da scelte<br />

interpretative che filtrano la realtà e ne orientano la lettura. Tali operazioni, di per sé non<br />

necessariamente di segno negativo, chiedono comunque un atteggiamento di correttezza etica, al<br />

fine di non spingere il ricettore a credere vero ciò che può essere anche soltanto probabile o<br />

verosimile 23 .<br />

Non si vuole qui sostenere una diretta e reciproca influenza tra riflessione teorica e<br />

insegnamenti <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> in materia. Tuttavia le aree di interesse appena individuate, attinenti<br />

alla centralità e responsabilità del ricettore, alla presenza ambientale dei media e alla complessità<br />

del rapporto tra linguaggio audiovisivo e realtà significata, trovano numerosi e interessanti<br />

riscontri negli interventi del magistero.<br />

21 L’idea dei media come agenti di forte determinazione sull’ambiente è già presente in un autore come<br />

McLuhan (cfr. in particolare il concetto di «villaggio globale» e l’idea di un «nuovo umanesimo» a esso<br />

collegata), la cui riflessione è antecedente al consolidamento dell’interesse <strong>della</strong> semiotica per i media.<br />

22 Cfr. su questo tema G. Bettetini, Produzione del tempo e messa in scena, Bompiani, Milano 1975.<br />

23 Sulla dimensione etica <strong>della</strong> comunicazione mediale si veda G. Bettetini, L’occhio in vendita, Marsilio,<br />

Venezia 1985.


Non è possibile, in questa sede, compiere una ricognizione sistematica dei documenti del<br />

magistero al riguardo. Ci si limiterà, quindi, a indicare alcuni esempi significativi tratti dai<br />

messaggi pontifici per le Giornate delle comunicazioni <strong>sociali</strong> di Paolo VI e Giovanni Paolo II e<br />

dalle lettere pastorali Effatà e Il lembo del mantello del cardinale di Milano <strong>Carlo</strong> Maria<br />

Martini.<br />

È innanzitutto la centralità <strong>della</strong> figura del ricettore, intesa nell’ottica <strong>della</strong> duplice responsabilità<br />

indicata, a essere sottolineata anche nell’ambito del magistero ecclesiale.<br />

Già a partire dal 1967, emerge nella riflessione di Paolo VI l’indicazione di una serie di diritti e<br />

doveri dell’emittente, tra i quali spicca quello di costruire un «colloquio con il pubblico [che] esige<br />

il rispetto per la dignità dell’uomo e <strong>della</strong> società» 24 . La figura del ricettore acquisisce centralità,<br />

quindi, in prima istanza come oggetto imprescindibile di attenzione da parte dei soggetti<br />

responsabili delle scelte contenutistiche e dell’organizzazione linguistica dei messaggi. In un<br />

secondo tempo, Paolo VI indica come elemento centrale del processo comunicativo mediale<br />

anche le tensioni proprie del ricettore in quanto tale e non solo in quanto prefigurato<br />

dall’emittente: «la tensione alla verità, l’esigenza dello svago e, soprattutto, l’aspirazione al<br />

colloquio» 25 .<br />

Ma la centralità del ricettore, in modo congruente con alcune delle acquisizioni degli studi<br />

pragmatici indicate in precedenza, acquista nel messaggio del 1978 anche un’altra dimensione:<br />

quella <strong>della</strong> responsabilità. In questo contesto, infatti, il papa afferma che la «triplice<br />

responsabilità che il “recettore” deve oggi acquisire per essere un cittadino maturo e responsabile<br />

- la capacità, cioè, di comprendere il linguaggio dei mass media, di scegliere opportunamente e di<br />

saper giudicare - determina il dialogo con il comunicatore» 26 .<br />

Nell’ottica di una riflessione globale sul comunicare, oggetto del primo anno dell’omonimo<br />

programma pastorale, il card. Martini sottolinea, in linea con le indicazioni papali citate, la<br />

necessità di un dialogo paritetico, in cui la soggettività dell’interlocutore sia pienamente rispettata:<br />

«…la persona non può essere avvicinata se non nel rispetto <strong>della</strong> sua soggettività e iniziando un<br />

dialogo rispettoso che permetta una comunicazione autentica» 27 .<br />

Nel Lembo del mantello, dedicato più specificamente alla comunicazione mediale, ampio<br />

spazio è riservato all’indagine del ruolo attivo, e quindi responsabile, dei soggetti coinvolti nello<br />

scambio. In particolare, sul versante <strong>della</strong> ricezione si dice che<br />

usarli bene [i media] vuol dire anzitutto acquisire una coscienza critica, cioè la capacità di distinguere il vero dal falso, la zizzania dal buon<br />

grano, la capacità di essere obiettivi, di non demonizzare i media né di idolatrarli. Bisogna crescere nella libertà interiore, nel distacco dalle<br />

sensazioni troppo immediate e coinvolgenti, bisogna imporsi una certa ascesi, essere capaci anche di fare dei sacrifici e delle rinunce. Sono cioè<br />

emerse le responsabilità di quello che si chiama in gergo il “recettore”, il consumatore, l’utente dei media 28 .<br />

Queste acquisizioni teoriche trovano un riscontro anche sul piano educativo, con una cospicua<br />

serie di inviti alla istituzione di occasioni di apprendimento dei meccanismi di funzionamento <strong>della</strong><br />

comunicazione mediale 29 .<br />

L’ipotesi dell’esistenza di una responsabilità del ricettore nella comunicazione mediale è<br />

profondamente legata a un modo di intendere il rapporto tra media e società, che vede procedere<br />

su binari paralleli, soprattutto negli ultimi anni, la riflessione teorica e quella ecclesiale.<br />

24 Messaggio pontificio per la Giornata delle comunicazioni <strong>sociali</strong> del 1967.<br />

25 Messaggio pontificio per la Giornata delle comunicazioni <strong>sociali</strong> del 1978.<br />

26 Ibid.<br />

27 C.M. Martini, Effatà, lettera pastorale, Milano 1990, pag. 29.<br />

28 C.M. Martini, Il lembo del mantello, lettera pastorale, Milano 1991, pag. 41.<br />

29 Cfr., per esempio, le indicazioni del card. Martini contenute nella lettera pastorale Il lembo del<br />

mantello a proposito <strong>della</strong> necessità di istituire all’interno delle parrocchie e delle diocesi iniziative di<br />

teleclub o teleforum (p.69).


Già nel messaggio del 1978, infatti, è presente l’idea di un effetto di ritorno dell’attività del<br />

ricettore su quella dei media. A essa si affianca, poi, l’ipotesi - introdotta nell’ambito del<br />

magistero di Giovanni Paolo II - che i mass media siano parte di un’industria culturale e, quindi,<br />

che non agiscano in modo autonomo rispetto al contesto che li circonda. Nell’ambito del<br />

messaggio pontificio per la Giornata delle comunicazioni <strong>sociali</strong> del 1982, poi, il papa ribadisce<br />

l’esistenza di un reciproco rapporto di influenza tra i media e la cultura contemporanea<br />

affermando che: «se è vero che gli strumenti di comunicazione <strong>sociale</strong> sono il riflesso <strong>della</strong> realtà<br />

in cui operano, non è meno vero che essi contribuiscono a mo<strong>della</strong>rla».<br />

La dimensione ambientale dei media è poi individuata, dal card. Martini, nella costruzione di<br />

una modalità percettiva e cognitiva che arriva a valicare i confini del contesto strettamente<br />

mediale: «I media non sono più uno schermo che si guarda, una radio che si ascolta. Sono<br />

un’atmosfera, un ambiente nel quale si è immersi, che ci avvolge e ci penetra da ogni lato» 30 .<br />

Non manca, infine, anche un’attenzione particolare rivolta ad alcune caratteristiche specifiche<br />

del linguaggio audiovisivo, lette in chiave di un’etica <strong>della</strong> responsabilità dell’emittente.<br />

Già nel messaggio del 1967, e più tardi in quello del 1970, Paolo VI sottolinea la natura dei<br />

media non tanto di finestra sul mondo, quanto di veicolo di segni interpretativi del mondo stesso,<br />

espressi in un linguaggio «emotivo, proprio dei suoni, delle immagini, dei colori, del movimento» 31 ,<br />

in grado di conferire verosimiglianza al contenuto <strong>della</strong> comunicazione <strong>sociale</strong> e indurre, così, a<br />

un’interpretazione di questo linguaggio come analogo alla percezione del reale.<br />

Tale attenzione si conferma anche nel magistero di Giovanni Paolo II che ribadisce, nel<br />

messaggio del 1983, l’impossibilità di un’informazione assolutamente neutra poiché essa<br />

«risponde sempre, almeno implicitamente e nelle intenzioni, a scelte di fondo… [e che] abili<br />

sottolineature o forzature, come pure dosati silenzi, rivestono un profondo significato<br />

[interpretativo]» 32 .<br />

In sintonia con la rifiessione teorica sono infine le osservazioni avanzate dal card. Martini a<br />

proposito <strong>della</strong> complessa articolazione del linguaggio audiovisivo:<br />

Lo slogan <strong>della</strong> TV “fìnestra aperta sul mondo”, in presa diretta con la realtà, è solo in parte vero. Il mondo che il piccolo schermo ci porta<br />

in casa è un’immagine elettronica che solo parzialmente corrisponde alla complessità <strong>della</strong> realtà inquadrata dalla telecamera. (…). Tra la<br />

telecamera che riprende un fatto e me seduto davanti al mio televisore, c’è un complicato e artificioso processo di selezione e costruzione delle<br />

immagini. (…) I media “in-formano” soprattutto perché danno una certa forma alla realtà, reinterpretandola secondo ben precisi e interessati<br />

criteri 33 .<br />

Tra le responsabilità dell’emittente si configura, così, anche quella di un corretto uso delle<br />

forme espressive mediali e tra quelle del ricettore l’acquisizione di una lucida consapevolezza<br />

<strong>della</strong> non neutralità del linguaggio dei mezzi di comunicazione.<br />

3. I1 futuro <strong>della</strong> ricerca e <strong>della</strong> teoria alla luce <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>.<br />

Sembra possibile affermare che - nelle sue linee generali - la ricerca sui media e i<br />

pronunciamenti magisteriali su questo settore <strong>della</strong> vita <strong>sociale</strong> siano andati negli ultimi anni in<br />

direzioni convergenti. Nei documenti del magistero si nota una coscienza sempre più esplicita del<br />

fatto che i media non si limitano ad amplificare messaggi, ma che già la loro stessa esistenza<br />

contribuisce alla creazione di una certa cultura 34 . Dal canto suo, la ricerca sui media negli ultimi<br />

anni ha lavorato su alcune tematiche che sono presenti anche nella <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>: i media come<br />

costruttori di realtà <strong>sociale</strong>, creatori di repertori di significati, i cui linguaggi hanno una forte<br />

30 Il lembo del mantello, cit., pag. 34.<br />

31 Messaggio pontificio per la Giornata delle comunicazioni <strong>sociali</strong> del 1970.<br />

32 Messaggio pontificio per la Giornata delle comunicazioni <strong>sociali</strong> del 1983.<br />

33 I1 lembo del mantello, cit., pag. 25-28.<br />

34 Cfr. Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, n. 37


influenza modellizzante; è stata rimessa a fuoco, per esempio, la nozione mcluhaniana di<br />

«villaggio globale» (cfr. per es. il lavoro di Joshua Meyrowitz), studiandone più analiticamente le<br />

varie articolazioni; sono stati analizzati dalla sociologia dei media i problemi legati all’identità<br />

culturale, alla rappresentazione, al rispetto e al dialogo fra le diverse culture.<br />

Raccogliamo qui di seguito alcuni spunti che ci sembra siano offerti nell’attuale panorama, con<br />

nuovo o rinnovato valore, alla ricerca sui media (intesa sia come ricerca pura, sia come ricerca<br />

applicata, che in questi campi è intrecciata strettamente ai diretti interventi operativi) dalla<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>.<br />

La prima idea, sempre presente negli interventi del magistero sui media, è quella di impegnarsi<br />

a far assumere ai ricettori un ruolo attivo, non riducibile a quello di puri consumatori. Un’idea<br />

basilare, in apparenza forse anche banale, ma la cui forza è effettivamente grande, se solo si<br />

decide di prenderla sul serio. Una rivistazione del concetto di utente attivo è poi tanto più<br />

importante oggi, in quanto essa è stata scoperta dagli operatori di marketing come plus da offrire<br />

al consumatore nel rapporto con il prodotto. Esso ha così portato allo sviluppo di varie tecniche<br />

di interattività nel rapporto fra azienda e consumatore di beni (anche quei beni che sono giornali o<br />

programmi audiovisivi), e, nel campo televisivo e radiofonico, alla messa in scena di forme<br />

dialogiche (es. attraverso l’uso del telefono), in cui però la possibilità di risposta e di dialogo del<br />

pubblico è limitata a una forma simulacrale, delegata ad alcuni rappresentanti - a volte casuali,<br />

più spesso scelti o controllati dall’emittente stessa -: una messa in scena, appunto. Oggi la<br />

dimensione interattiva viene proposta ed enfatizzata nelle azioni di lancio dei prodotti multimediali<br />

delle nuove tecnologie.<br />

Da un lato, infatti, c’è, da parte di educatori, genitori, operatori <strong>sociali</strong>, l’intuizione forte del<br />

fatto che nei media elettronici ci sia una spinta verso la passività. Dall’altro ci sono operatori e<br />

anche alcuni studiosi che sostengono che la fruizione degli audiovisivi è attiva, perché coinvolge<br />

capacità percettive, competenze di decodifica, una certa cultura necessaria a comprendere il<br />

montaggio, le ellissi, i rimandi, le allusioni che sono presenti, in misura maggiore o minore, in ogni<br />

testo audiovisivo o comunque mediale. Questa dimensione dell’attività e <strong>della</strong> libertà del ricettorefruitore<br />

è poi, come accennavamo, fortemente sottolineata oggi nelle campagne pubblicitarie e di<br />

marketing riguardanti i new media (giochi elettronici, Cd-Rom ecc.), che enfatizzano in modo<br />

assai marcato il concetto di interattività.<br />

È quindi importante una messa a fuoco di che cosa significhi ruolo attivo del ricettore. Sembra<br />

assai opportuno a questo scopo mantenere viva una chiara distinzione fra interattività e<br />

interazione: se per interazione si intende un’azione <strong>sociale</strong> dei soggetti nei loro rapporti con altri<br />

soggetti l’interattività è invece l’imitazione dell’interazione da parte di un sistema meccanico o<br />

elettronico, che contempla come suo scopo principale o collaterale anche la funzione di<br />

comunicazione con un utente 35 . Ne consegue che, secondo queste definizione, ciò che fanno i<br />

media cosiddetti interattivi è simulare interazioni comunicative.<br />

L’interattività comporta quindi un ruolo attivo da parte dell’utente nella selezione di<br />

informazioni e nella scelta all’interno di alcuni menu, ma se da qui ci si chiede se sia favorita una<br />

vera e propria creatività la risposta non può che essere prudente: la creatività viene consentita,<br />

almeno in alcune limitate dimensioni. Dal punto di vista invece di una maggiore libertà e di una<br />

maggior interazione <strong>sociale</strong>, il discorso si fa più complesso, e dai nuovi media la risposta può<br />

arrivare a ricomprendere la fruizione di media più tradizionali come la televisione e il cinema.<br />

Parlare di fruizione attiva in effetti non è immediatamente lo stesso che parlare di libertà nella<br />

fruizione. Qui va infatti messa in luce la differenza - che per la libertà è costitutiva - fra attività<br />

percettiva e attività propriamente razionale. È innegabile che ci sia una forte richiesta di attività<br />

1993.<br />

35 Cfr. Le nuove tecnologie <strong>della</strong> comunicazione, a cura di G. Bettetini e F. Colombo, Bompiani, Milano


nella percezione di uno spettacolo audiovisivo, che richiede movimenti oculari, integrazioni<br />

fantastiche, riempimento di ellissi, interpretazioni di segnali. Ma il punto per qualificare una<br />

fruizione veramente libera sta nel coinvolgimento <strong>della</strong> dimensione propriamente razionale nella<br />

fruizione e nella possibile seguente autodeterminazione a cui può essere chiamato il fruitore: una<br />

scelta che non è solo pro o contro la fruizione dell’audiovisivo, ma anche interpretazione e<br />

adesione oppure rifiuto delle scelte presentate-proposte dal soggetto enunciatore del testo. Non si<br />

può parlare infatti di libertà solo per l’assenza di costrizioni esterne o per la presenza di una<br />

qualsiasi determinazione proveniente dal singolo. Se invece si intende la libertà non come arbitrio<br />

ma come autodeterminazione razionale 36 si vede che:<br />

1) per il fruitore di uno spettacolo audiovisivo classico la sua libertà e, quindi, la componente<br />

veramente importante e decisiva del suo essere attivo, si giocherà nella componente razionale<br />

maggiore o minore che è presente nella fruizione e nella conseguente adesione ad aspetti<br />

cognitivi o di scelta etica presentati e proposti dal testo. Non è qualificante quindi, perché<br />

avvenga una fruizione libera di un testo, l’eventuale componente di indeterminazione<br />

nell’apparato significante del testo (libertà di fruizione-interpretazione per assenza di univocità<br />

nella componente significativa del testo): essa non è decisiva per la dimensione di libertà del<br />

fruitore. È invece qualificante per la libertà <strong>della</strong> fruizione una relazione in cui sia messa<br />

significativamente in luce la componente razionale; questa relazione è naturalmente ottimale<br />

laddove il testo faccia appello alla dimensione razionale al di sopra di altre dimensioni e l’utente<br />

risponda su questa stessa linea alle proposte del testo stesso.<br />

2) l’interattività tecnologica offerta dai nuovi media è solo un presupposto, non ancora decisivo,<br />

per una fruizione degli apparati tecnologici che sia creativa, ma soprattutto libera e responsabile.<br />

In altre parole, l’interattività tecnologica non è di per sé garanzia di una maggiore attività<br />

umana in senso pieno, né di una maggiore interazione <strong>sociale</strong>: anzi, se gestita in modo squilibrato,<br />

potrebbe andare a loro detrimento, provocando un calo di tensione veramente partecipativa nelle<br />

interazioni <strong>sociali</strong> in soggetti soddisfatti da un surrogato, vale a dire da un’interazione simulacrale<br />

che soddisfa alcune istanze per la propria accessibilità e la facilità con cui dispensa gratificazioni<br />

immediate. Una società in cui si gioca molto, e si ha l’impressione di essere veri protagonisti, ma<br />

in cui l’interesse per la comunità di appartenenza e per l’intera polis viene anestetizzato, è una<br />

società in cui la stessa nozione di democrazia è minata nelle sue fondamenta, perché le viene a<br />

mancare il principio di responsabilità e di partecipazione che ne è l’anima 37 .<br />

Questa messa a fuoco del concetto di attività dell’utente-fruitore ci riporta a un secondo punto<br />

forte <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, che fa da cerniera fra etica personale ed etica <strong>sociale</strong> e<br />

che viene a giocare un ruolo importante anche nei confronti dei media: è la sottolineatura <strong>della</strong><br />

centralità <strong>della</strong> famiglia in tutti i processi formativi e di <strong>sociali</strong>zazione.<br />

Si sta in effetti notando nel mondo dei media una certa maggiore attenzione alla famiglia, che<br />

tuttavia non è ancora ben chiara nei suoi fini. Ci potrebbe infatti essere una valorizzazione <strong>della</strong><br />

famiglia, intesa nel senso borghese di nucleo chiuso, secondo una concezione che mette a fuoco<br />

soprattutto la sua valenza di target consumistico: la famiglia come soggetto di consumo da<br />

conquistare per gli investitori pubblicitari (che è il concetto di famiglia che sembra ogni tanto<br />

affacciarsi su Canale 5 e Raiuno). Nella <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> la famiglia è intesa invece<br />

come comunità naturale, costituita da relazioni significative, soggetto di comunicazione al suo<br />

interno e verso l’esterno, istitutrice di reti di legami e di solidarietà con le comunità <strong>sociali</strong> che<br />

essa costituisce e di cui fa parte, pur trascendendole 38 . Il problema che nel campo dei media la<br />

36 Cfr. Gaudium et spes, n. 17; Veritatis splendor, n. 42.<br />

37 Cfr. Centesimus annus, n. 46<br />

38 Cfr. Familiaris consortio; cfr. anche Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, 2 febbraio 1995.


<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> mette a fuoco è quello di come dare spazio a un maggior protagonismo <strong>della</strong><br />

famiglia come soggetto attivo di comunicazione, come interlocutore delle emittenti, degli editori e<br />

anche degli investitori pubblicitari, che sono la vera anima - o il sangue, se si preferisce - di molte<br />

imprese di comunicazione.<br />

Emerge nettamente anche in questo campo l’importanza del principio di sussidiarietà, che<br />

qualche volta potrebbe magari essere stato inteso e interpretato come una semplice negazione<br />

del collettivismo: al contrario, la sua radice -e di conseguenza la sua portata- antropologica è<br />

assai vasta e offre ambiti di piena applicazione anche nel settore <strong>della</strong> comunicazione.<br />

C’è infatti una dimensione vitale che è la radice del senso di tutte le attività strutturali, (quelle<br />

che potremmo ricondurre ai due grandi ambiti dello stato e del mercato): è questo fondo vitale<br />

che costituisce, nel suo significato più proprio, la società; ed è di questo fondo, che è ethos,<br />

cultura 39 , che vivono gli uomini, mettendo in discussione le pretese dirigistiche del tecnosistema in<br />

cui sono inserite anche le grandi imprese di comunicazione. Questo ambito dell’ethos si struttura<br />

in «provincie finite di senso», in comunità solidali, in società intermedie di cui la famiglia è la<br />

prima e la più importante. È proprio dalla famiglia come forma radicale di solidarietà e come<br />

primo motore di un insieme di comunità intermedie che può venire l’energia <strong>sociale</strong> che si<br />

opponga alla spersonalizzazione e al dominio delle grandi strutture, anche di quelle comunicative.<br />

Nel passaggio, che alcuni sociologi stanno descrivendo per questi anni ’90, dal Welfare State<br />

alla Welfare Society c’è un forte cambio di accento sulla stessa nozione di Welfare che le viene<br />

dal sostantivo che la accompagna: si passa dalla connotazione passivista di prestazioni ricevute a<br />

una nozione di qualità <strong>della</strong> vita che è intesa, soprattutto, come attiva partecipazione alla<br />

costruzione del bene comune. Il fallimento dell’ideologia del Welfare Stafe ha reso ormai chiaro<br />

che la vita <strong>sociale</strong> acquista qualità non quando è garantita una erogazione paritaria di servizi<br />

burocratizzati, ma quando ai suoi attori viene permesso di realizzare i loro progetti vitali, e se<br />

necessario essi vengono aiutati a portarli a termine. Questo mette in luce l’importanza - anche<br />

nel settore dei media, dove qualcosa si è mosso, ma si può fare molto di più - dello sviluppo <strong>della</strong><br />

partecipazione, attraverso tutti i tipi di forme intermedie: dalle associazioni di ascoltatori al<br />

Consiglio consultivo degli utenti, dal cineforum di quartiere a una pay-tv in cui i soci-abbonati<br />

abbiano davvero la possibilità di intervenire sulla scelta e la progettazione dei programmi. Da<br />

questo punto di vista, anche le strutture a rete, con diversi livelli di integrazioni successive, che si<br />

stanno costituendo nel campo del giornalismo (quando per es. si integrano diverse strutture, dalle<br />

più capillari e localistiche via via verso le più centralizzate, collaborando in modo che ciascuna<br />

mantenga un proprio livello di autonomia), si presentano come un’interessante attuazione - fra le<br />

molte possibili - di questi principi.<br />

Un altro campo di sviluppo possibile - qui forse più direttamente rivolto al lavoro teorico<br />

segnalato, almeno implicitamente, dalle indicazioni <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, è l’opportunità di una più<br />

approfondita comprensione del rapporto fra narrativa (scritta e audiovisiva) e proposta-diffusione<br />

di valori. È un tema intuito chiaramente e più volte richiamato negli interventi magisteriali 40 e<br />

nelle sue linee di fondo è certamente patrimonio comune anche dell’intuito critico di operatori e<br />

commentatori. Tuttavia si tratta di un tema che - poiché non è stato oggetto di un particolare<br />

approfondimento teorico (con precisi motivi di storia delle idee su cui non ci soffermiamo) - è<br />

stato messo un po’ in secondo piano dalla critica più colta, che nelle sue analisi testuali si è<br />

piuttosto fermata sulla componente cognitiva dei testi, indagando poi le strategie del darsi del<br />

testo ai fruitori (componente pragmatica). Questo ha fatto passare in secondo piano la<br />

componente etico-valoriale, che non solo è sempre presente all’interno di un testo, anche<br />

narrativo, ma è anche una dimensione assai importante -spesso anzi prevalente- <strong>della</strong> fruizione<br />

39 Cfr. Giovanni Paolo II all’Unesco, 2 ottobre 1980.<br />

40 Cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata delle comunicazioni <strong>sociali</strong>, 24 gennaio 1995.


ingenua. Il risultato è stato un certo distacco fra le analisi dei ricercatori e le dimensioni <strong>della</strong><br />

fruizione degli spettatori, dimensioni assai rilevanti sia in sé, sia anche per i loro esiti <strong>sociali</strong>. Una<br />

maggiore attenzione quindi, in linea con le preoccupazioni <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, sull’impatto dei<br />

valori proposti e presentati, con una messa a punto di strumenti analitici che non annullino<br />

pregiudizialmente questa dimensione, oltre a consentire una maggiore assunzione di responsabilità<br />

da parte dell’operatore dei media, può di riflesso portare a un riavvicinamento delle pratiche di<br />

analisi alle modalità prevalenti nella fruizione del pubblico.<br />

Si vede, inoltre, l’opportunità di un lavoro teorico di sintesi, di confronto e poi di alta<br />

divulgazione sui risultati <strong>della</strong> ricerca specialistica sugli effetti sul pubblico <strong>della</strong> violenza e <strong>della</strong><br />

pornografia nei media. Ci sono ormai molti dati e molte ricerche empiriche, ma in questo settore<br />

teorico si avverte l’esigenza di alcune operazioni di raccordo, che seguano una elevata via media<br />

fra ricerca fortemente specialistica e intervento occasionale, per elaborare sintesi documentate e<br />

accessibili da mettere a disposizione di studiosi, associazioni, famiglie - in una parola, dei<br />

principali attori che devono portare la loro voce nelle decisioni <strong>sociali</strong>, legislative e<br />

giurisprudenziali su temi di tale delicatezza. Si tratta anche, in fondo, di spostare l’attenzione<br />

ossessiva dagli aspetti di influsso politico-partitico del singolo medium o del singolo giornalista a<br />

tematiche di ben più vasta rilevanza: passare cioè dal minutaggio delle presenze televisive dei<br />

leader di partito alla diffusione di una maggior coscienza <strong>sociale</strong> sui risultati delle ricerche che<br />

evidenziano i gravi rischi di una comunicazione spesso violenta e irrispettosa <strong>della</strong> dignità <strong>della</strong><br />

persona umana.<br />

Sin dai primi interventi magisteriali sul mondo dei media 41 non è mancato un richiamo molto<br />

esplicito alla loro dimensione economica e alla necessità di un intervento imprenditoriale<br />

coraggioso, ispirato al rispetto dei valori umani e trascendenti. Quanto afferma la Centesimus<br />

annus 42 sul rapporto fra etica e profitto, sulla necessità di non spingere a forme dissennate di<br />

consumismo e di subordinare sempre le dimensioni materiali e istintive dell’uomo a quelle interiori<br />

e spirituali, apre un campo di intervento operativo di grande vastità per chiunque è impegnato nel<br />

settore. Si tratta di una sfida a realizzare modalità produttive e distributive autosufficienti,<br />

qualitativamente ed economicamente competitive, che operino nel rispetto <strong>della</strong> dignità <strong>della</strong><br />

persona. Si tratta cioè di affermare non solo in teoria, ma anche nella pratica, i! primato <strong>della</strong><br />

dimensione morale. In una società che tende a considerare l’etica solo come una messa a punto<br />

di tecniche procedurali -invocate spesso solo quando rischiano di essere toccati i propri interessi-,<br />

si tratta di vivere e diffondere, attraverso comunità vitali (scuole, università, associazioni, aziende,<br />

agenzie di stampa e di pubblicità, case di produzione, canali televisivi), il primato dell’etica come<br />

dimensione radicale e unitaria, espressiva del vero bene dell’uomo: ciò che non è etico non è<br />

degno <strong>della</strong> persona umana. Ma essendo profondamente unitaria già l’etica in se stessa - come<br />

fra gli altri ha messo in rilievo recentemente MacIntyre, riprendendo una tradizione aristotelica<br />

finora per lo più interpretata razionalisticamente - un eventuale insegnamento dell’etica è assai<br />

poco efficace se l’etica non è vissuta come ethos all’interno di una comunità educante prima, e<br />

poi all’interno di team di lavoro, o almeno all’interno di una comunità che, facendo da sponda<br />

all’ambiente strettamente lavorativo, consenta a chi lavora di formarsi alle scelte giuste e di<br />

correggere i propri errori.<br />

Pensiamo a quanto sia importante riproporre costantemente a quanti operano<br />

nell’informazione la necessità di mettere la verità al di sopra degli interessi particolari, ma anche<br />

di avere presente che se più radicalmente non si accetta la verità come «dipendenza» costitutiva<br />

41 Cfr. Inter mirifica; ma anche le indicazioni assai concrete <strong>della</strong> recente istruzione del Pontificio<br />

consiglio per le comunicazioni <strong>sociali</strong>, Aetatis novae, 22 febbraio 1992.<br />

42 Cfr. n. 36.


dell’uomo 43 , ci si può facilmente illudere che il compito del giornalista sia quello di porsi in una<br />

neutralità priva di valori. A prescindere dal fatto che una totale avalutatività è impossibile (ci può<br />

essere imparzialità solo su alcune linee, ma ogni atto informativo dà per scontati e quindi rinforza<br />

alcuni valori), l’imparzialità e l’oggettività di un professionista onesto sta invece proprio<br />

nell’adesione disinteressata alla verità conosciuta, pur con tutti i limiti e le imperfezioni <strong>della</strong><br />

nostra condizione. Questa adesione disinteressata alla verità fa sì che, mentre ripudia ogni<br />

menzogna e ogni partigianeria, egli avverta come dovere irrinunciabile quello di assumere una<br />

posizione inequivocabilmente chiara, pur nei limiti del proprio ruolo, tutte le volte che si vedano<br />

minacciati i valori fondamentali <strong>della</strong> vita umana e <strong>della</strong> convivenza civile. Non assumere questa<br />

posizione - pur nel più limpido rispetto delle persone che pensano diversamente - significherebbe<br />

non solo rinunciare a ogni valore deontologico, ma, prima ancora, rinunciare alla propria umanità.<br />

Uno dei problemi principali <strong>della</strong> nostra società è invece il fatto che l’ideologia relativista (nelle<br />

sue varie espressioni, che vanno da un relativismo illuminista classico alle forme più estreme di<br />

relativismo libertario) vuole legittimarsi come l’unica posizione teorica che possa garantire il<br />

pluralismo, il rispetto e la tolleranza. Ma in realtà non è possibile che riesca in questo obiettivo. Il<br />

volto tollerante e permissivo del relativismo è infatti solo una superficie: è in qualche caso una<br />

maschera, in altri - dove non c’è dolo, ma solo inconsapevole autoinganno - una delle due facce,<br />

quella superfìcialmente più attraente, di una medaglia in cui sta, dall’altro lato, la porta che il<br />

relativismo non riesce a chiudere allo sfruttamento dei deboli da parte dei forti, dei poveri da<br />

parte dei ricchi, degli emarginati da parte dei potenti. È una dinamica che è esemplarmente<br />

realizzata nella questione dell’aborto, in cui dietro la pretesa dell’autodeterminazione e <strong>della</strong><br />

asserita impossibilità di sindacare su ciò che viene presentato come libertà di scelta di un<br />

soggetto, sta nei fatti la messa in atto di una brutale violenza contro un innocente indifeso. Solo<br />

l’adesione salda a principi etici irrinunciabili, derivati dalla conoscenza <strong>della</strong> verità <strong>della</strong> nostra<br />

condizione 44 - un’adesione continuamente riaffermata e attuata pur nella mutabilità <strong>della</strong> vita-<br />

consente di opporsi, nella professione giornalistica come in ogni attuazione <strong>sociale</strong>, a queste e a<br />

tutte le altre forme di sfruttamento. Se non si accetta una verità assoluta e il conseguente<br />

riferimento a comuni valori fondamentali, tutto diventa convenzionale, tutto diventa negoziabile:<br />

anche il piano dei diritti fondamentali, che possono essere facilmente scardinati laddove si riesca<br />

a esercitare una sufficiente pressione di interessi <strong>sociali</strong>, economici o politici 45 .<br />

La strada suggerita più e più volte dagli interventi magisteriali, che sottolineano l’importanza<br />

<strong>della</strong> formazione etica degli operatori, è una strada ancora pienamente attuale e quanto fatto<br />

finora non può che stimolare a una maggiore diffusione di iniziative e di impegno in questa<br />

direzione.<br />

In conclusione, per sintetizzare quanto detto finora, possiamo forse raccogliere in due obiettivi<br />

generali la strategia dell’attenzione ai mezzi di comunicazione <strong>sociale</strong> per il futuro.<br />

Il primo obiettivo potrebbe essere espresso come l’elaborazione di una cultura in grado di<br />

assorbire i media - i loro linguaggi e parte dei loro contenuti - al proprio interno. Una delle<br />

caratteristiche fondamentali dei mezzi di comunicazione di massa è infatti quella di alfabetizzare<br />

apparentemente da sé al proprio uso: nessun bambino sembra aver bisogno di un particolare<br />

insegnamento per capire i messaggi forniti dalla televisione o per giocare con soddisfazione ai<br />

videogiochi. Tuttavia le forme <strong>della</strong> conoscenza che i media garantiscono non possono essere<br />

esportate facilmente in altre dimensioni <strong>della</strong> vita: i media consentono di apprendere, ma non<br />

insegnano ad apprendere; inoltre essi ampliano alcune possibilità vitali, ma di per sé non<br />

insegnano a utilizzarle. Il celebre personaggio interpretato da Peter Sellers in Oltre il giardino<br />

43 Cfr. Giovanni Paolo II, Ai giornalisti dell’Associazione stampa estera, 17 gennaio 1988.<br />

44 Cfr. Veritatis splendor.<br />

45 Cfr. Evangelium vitae, nn. 18-20


ha sempre conosciuto soltanto la televisione. Nel momento in cui viene proiettato nel mondo si<br />

porta dietro il telecomando e reagisce alle situazione sgradevoli cercando di cambiare canale. È<br />

una metafora, certamente, ma assai indicativa del limite intrinseco dei media. Paradossalmente<br />

questo limite agisce anche rispetto ai contenuti dei media stessi, che non riescono sempre a<br />

penetrare, anche quando sono utili e positivi, in una dimensione propriamente e profondamente<br />

culturale <strong>della</strong> persona. Si limitano a offrire poco più che procedimenti, ma non producono<br />

relazioni vitali, che sono l’ambito in cui si costituisce una cultura come dimensione unitaria<br />

dell’esistenza dell’uomo storico. Vi è dunque la necessità di rifondare una dimensione<br />

autenticamente culturale che si confronti con i media senza moralismi ma anche senza cedimenti,<br />

e che riscopra l’importanza mai venuta meno del radicamento <strong>della</strong> persona in un sapere e in una<br />

visione del mondo coerente e non eterodiretta.<br />

A partire da qui si potrà immaginare una strategia verso i media che recuperi i loro contenuti<br />

positivi inserendoli in una visione complessiva e in una capacità autentica di discernimento.<br />

Questa capacità diviene tanto più importante nel momento in cui la risorsa che maggiormente<br />

viene a mancare nella fruizione di comunicazione è il tempo, che i media spesso conducono a<br />

sperperare in una fruizione poco attenta e poco parsimoniosa <strong>della</strong> propria vita; non a caso uno<br />

dei messaggi di Giovanni Paolo II invitava proprio a una fruizione dei media autonoma e libera sia<br />

nei tempi che nei modi, una fruizione che non ostacoli lo svolgimento di attività e lo sviluppo di<br />

interrelazioni più fondamentali, come quelle che si giocano all’interno <strong>della</strong> famiglia.<br />

Il secondo obiettivo fondamentale è costituito dal ripensamento del ruolo e dell’organizzazione<br />

del sistema formativo. Nel momento in cui la rapidità di informazione e di accesso ai media<br />

surclassa le potenzialità <strong>della</strong> scuola; nel momento in cui i parametri <strong>della</strong> scuola moderna sono<br />

messi in crisi da un nuovo rapporto fra media e istituzioni formative, non ci si può illudere di<br />

risolvere ogni problema semplicemente rivendicando oltre ogni evidenza la centralità <strong>della</strong> scuola.<br />

La realtà è che oggi al centro del processo formativo non vi sono più istituzioni salde, ma<br />

l’individuo. Occorre dunque al più presto formulare un progetto formativo integrale che<br />

redistribuisca tra famiglia, media e istituzioni formative classiche il compito dell’educazione.<br />

Questo non significa, naturalmente, dare ai media i compiti che devono essere <strong>della</strong> scuola;<br />

semmai chiedere a quest’ultima, ma prima ancora alla famiglia, e a quelle comunità solidali che<br />

dalla famiglia sono generate, un ruolo sempre più marcato di diffusione <strong>della</strong> cultura viva e di<br />

forme che consentano una dimensione di unitarietà vitale (che ben si accorda con il pluralismo, a<br />

patto che esso sia inteso in senso non contraddittoriamente relativistico) di apprendimento: la<br />

provenienza dei contenuti e la loro articolazione verrebbero così proiettate in un’orbita più<br />

marginale, a tutto vantaggio degli autentici valori formativi 46 .<br />

Milano, novembre 1995<br />

46 Hanno discusso e collaborato alla stesura di questo testo Piermarco Aroldi, Fausto Colombo,<br />

Ruggero Eugeni, Armando Fumagalli, Barbara Gasparini, Chiara Giaccardi, Anna Manzato, Cristiana<br />

Ottaviano, Giorgio Simonelli, Marina Villa, Nicoletta Vittadini.


1. Premessa<br />

EDOARDO TEODORO BRIOSCHI<br />

LA COMUNICAZIONE D’AZIENDA<br />

La comunicazione d’azienda si trova alla confluenza di due particolari ambiti disciplinari: da un<br />

lato, quello <strong>della</strong> comunicazione e, in modo particolare, <strong>della</strong> comunicazione <strong>sociale</strong>; dall’altro,<br />

quello dell’economia dell’azienda, da cui l’attività suddetta viene ad essere impiegata quale<br />

componente delle proprie strategie e, di conseguenza, quale fattore delle diverse combinazioni<br />

produttive.<br />

Da rilevare, altresì, che la trattazione <strong>della</strong> comunicazione d’azienda nella sua vastità ed<br />

unitarietà - da cui l’espressione «comunicazione totale» - risale al più agli anni Settanta nel nostro<br />

paese come pure in altri ritenuti pubblicitariamente più avanzati - tra cui l’ambiente anglosassone,<br />

peraltro attestato sul concetto più strumentale che strategico di «comunicazione integrata».<br />

Va in ogni caso qui richiamato che, quando si ricorre all’espressione «comunicazione totale»,<br />

si vuole mettere in rilievo che qualsiasi elemento (a partire dalla denominazione stessa<br />

dell’azienda), aspetto (a cominciare dalla stessa sede) ed attività dell’azienda contribuisce al<br />

comunicare di questa - e non solo, quindi, le più note e citate attività (di pubblicità anziché di<br />

relazioni pubbliche o di promozione delle vendite) - e, pertanto, alla definizione di una sua identità<br />

e, tramite questa, di una sua immagine 47 .<br />

Se tutto comunica, se cioè, più esattamente, è l’istituto aziendale nei suoi caratteri e nelle sue<br />

manifestazioni all’origine <strong>della</strong> comunicazione, allora l’esigenza di finalizzare e di coordinare sia i<br />

primi che le seconde - affinché venga appunto offerta dell’azienda una specifica identità e<br />

promossa una adeguata immagine - condurrà a governare l’istituto in esame secondo una<br />

particolare ottica, che viene appunto definita «ottica di comunicazione» 48 .<br />

Le considerazioni qui svolte, mentre intendono chiarire l’ambito che verrà di seguito<br />

investigato, si propongono altresì di anticipare le possibili sovrapposizioni od integrazioni con la<br />

trattazione riguardante gli altri ambiti disciplinari, nonché di sottolineare lo stato di progressivo<br />

consolidamento in cui ancora si trova la trattazione scientifica concernente la comunicazione<br />

d’azienda.<br />

2. L’incidenza <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> sulle attività di comunicazione dell’azienda<br />

Il ricorso crescente e sistematico dell’azienda alle attività di comunicazione - ad iniziare dalla<br />

pubblicità - avviene nella seconda metà dell’Ottocento (in particolare con gli anni Ottanta e<br />

Novanta) ad opera dell’impresa sorta dalla rivoluzione industriale di circa un secolo prima.<br />

47 La comunicazione d’azienda negli anni Novanta, a cura di E. T. Brioschi, numero monografico di<br />

«Comunicazioni Sociali», 3/4, 1990, pp. 225 ss. e 295 ss.<br />

48 E. T. Brioschi, Marketing e comunicazione: evoluzione di un rapporto, in Attualità del pensiero di<br />

Antonio Renzi nel contesto evolutivo <strong>della</strong> tecnica economica, Atti <strong>della</strong> Giornata di studi in corso di<br />

pubblicazione.


È, in modo specifico, l’impresa industriale di beni di largo consumo (saponi, detersivi, lieviti,<br />

alimenti per l’infanzia,ecc.) ad identificare nella comunicazione rivolta a vasti pubblici lo<br />

strumento basilare per una rapida ed estesa diffusione delle produzioni attuate 49 .<br />

Accesa appare, di conseguenza, la situazione concorrenziale con riferimento a mercati, che si<br />

strutturano spesso in oligopoli con frange concorrenziali.<br />

A differenza, tuttavia, dell’utenza pubblicitaria che aveva prevalso fino ad allora (costituita<br />

principalmente da aziende di spettacolo - a cominciare dai circhi - e da laboratori o pseudolaboratori<br />

farmaceutici), la moderna impresa industriale - che destina risorse economiche<br />

consistenti quando non addirittura eccezionali alla pubblicità - si propone di fondare la sua azione<br />

su una base razionale, introducendo pertanto i temi <strong>della</strong> programmazione e del controllo anche<br />

all’interno <strong>della</strong> comunicazione.<br />

Alle poche regole empiriche, che avevano fino ad allora retto l’uso del fattore di produzione in<br />

esame, viene così storicamente a contrapporsi la richiesta di una precisa tecnica di impiego <strong>della</strong><br />

pubblicità.<br />

Questa inizia ad essere elaborata negli Stati Uniti, ma anche in Europa tra gli anni Novanta del<br />

secolo scorso e gli anni Venti di quello attuale 50 : i formulatori di questa prima impostazione<br />

tecnica appartengono all’ambiente universitario o, più in generale,al mondo <strong>della</strong> scuola così<br />

come a quello delle aziende che offrono servizi pubblicitari, a cominciare dalle agenzie di<br />

pubblicità. Indicativo dell’indirizzo di impiego dello strumento pubblicitario è il titolo del primo testo<br />

tecnico in materia che risale al 1893: Building business. An illustrated manual for aggressive<br />

business men 51 .<br />

Pertanto, allorché prende avvio - con la famosa enciclica leoniana - la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong>, la comunicazione d’azienda - e, per essa, la sua attività principale, cioè la pubblicità<br />

(relazioni pubbliche e promozioni delle vendite svolgono a quell’epoca una funzione<br />

indubbiamente limitata) - non dispone ancora nè di una elaborazione teorica di base, nè di una<br />

sistematica impostazione tecnica. Entrambe, lo ribadisco, si svilupperanno nei decenni successivi.<br />

L’intervento <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> poteva dunque in quegli anni rivolgersi esclusivamente -<br />

come di fatto è avvenuto con la citata enciclica - all’impresa in quanto tale, ai principi generali<br />

cui si ispirava ed alle sue modalità di intervento sul mercato e nella società.<br />

La crescita, quantitativa e qualitativa, <strong>della</strong> comunicazione d’azienda è consentita ed anzi<br />

stimolata dall’avvento dei mezzi audio e audiovisivi, che - seppure scoperti (mi riferisco al cinema<br />

e alla radio) negli anni Novanta del secolo scorso - si affermeranno come «mass media» negli<br />

anni Dieci e Venti di questo secolo. Come è noto, l’iniziale affermazione <strong>della</strong> televisione risale<br />

invece agli anni Trenta e ancor più Quaranta, cioè a mezzo secolo fa.<br />

L’avvento e la crescente affermazione di tali mezzi non è certo sfuggita al magistero, che è<br />

più volte intervenuto al riguardo dall’enciclica di Pio XI Vigilanti cura del 1936 all’enciclica di<br />

Pio XII Miranda prorsus del 1957.<br />

L’attenzione, in questi casi, appare però principalmente rivolta ai mezzi in questione, alla loro<br />

potenzialità, ai loro operatori ed all’utenza ultima degli stessi e cioè al pubblico e non all’azienda o<br />

alla sua attività di comunicazione, anche se non mancano accenni e richiami 52 .<br />

49 E. T. Brioschi, Elementi di economia e tecnica <strong>della</strong> pubblicità, vol. I: Dai primordi alla pubblicità<br />

moderna, prima ristampa, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 102 ss.<br />

50 Ibid., pp. 104 ss.<br />

51 N. C. Fowler jr., Building business. An illustrated manual for aggressive business men, The Trade,<br />

Boston 1893.<br />

52 Pio XII, Lettera enciclica «Miranda prorsus» circa la cinematografia la radio e la televisione,<br />

Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1957, p. 21. Il richiamo si riferisce, nella fattispecie, a «la<br />

pubblicità commerciale insidiosa o indecente» a favore di spettacoli cinematografici.


La crescita sotto il profilo quantitativo e con ritmi via via accelerati dell’attività di<br />

comunicazione - pubblicitaria in grande misura, come già si è osservato - aveva d’altronde<br />

condotto lo stesso settore professionale ad intervenire decisamente a favore di una<br />

autoregolamentazione o a recepire, in ogni caso, i principi ed i documenti in materia elaborati da<br />

fonti autorevoli già nei primi decenni di questo secolo.<br />

Ciò era avvenuto dapprima negli Stati Uniti (basti ricordare The truth-in-advertising<br />

movement del 1911 e la conseguente nascita dei Better Business Bureaus, che stanno appunto<br />

alla base dei sistema di autoregolamentazione di quel Paese 53 ) e successivamente in Europa con<br />

la Camera di commercio internazionale e la proposta da parte di questa del primo di una serie di<br />

codici etici nel campo <strong>della</strong> comunicazione: il Côde des pratiques loyales en matière de<br />

publicite (1937) 54 .<br />

L’incidenza <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> appare accrescersi - come tendenza più che come riflesso<br />

immediato ed operativo - con il secondo dopoguerra: mi riferisco, in modo specifico, all’Inter<br />

mirifica, il decreto conciliare sugli strumenti <strong>della</strong> comunicazione <strong>sociale</strong> (1963) e all’istruzione<br />

pastorale relativa Communio et progressio (1971), cui avrebbe - a distanza di oltre vent’anni -<br />

fatto seguito l’altra istruzione pastorale Aetatis novae (1992).<br />

Ciò avviene - pur fermandosi ai primi due dei citati documenti - per diversi motivi: perché la<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> affronta il problema dei mass media e dei loro effetti in generale e non più con<br />

riferimento a questo o a quell’altro mezzo per quanto rilevante; perché la <strong>dottrina</strong> in esame<br />

introduce un’espressione - quella appunto di strumenti <strong>della</strong> comunicazione <strong>sociale</strong> - che non<br />

rappresenta semplicisticamente una traduzione di mass media, ma inserisce e sottolinea una<br />

istanza etica (la missione degli strumenti in esame non consiste nel massificare, ma nel facilitare<br />

il processo di <strong>sociali</strong>zzazione dell’individuo); perché la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> propone in tutta la sua<br />

rilevanza il problema <strong>della</strong> responsabilità <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> comunicazione d’azienda e, in particolare,<br />

<strong>della</strong> comunicazione commerciale (a partire, una volta ancora, dalla pubblicità); perché tale<br />

<strong>dottrina</strong> suscita interventi sistematici nell’ambito <strong>della</strong> formazione degli operatori, di coloro cioè<br />

che sarebbero stati preposti o addetti con varie competenze ai processi di produzione <strong>della</strong><br />

comunicazione in esame; perché la <strong>dottrina</strong> considerata promuove iniziative ricorrenti - purtroppo<br />

ancora, però, assai limitate nella loro effettiva incidenza - di sensibilizzazione del pubblico nei<br />

confronti degli strumenti di comunicazione <strong>sociale</strong> e delle loro problematiche. Mi riferisco, in<br />

modo specifico, alle Giornate mondiali dedicate annualmente a tali strumenti.<br />

Con specifico riguardo al quarto dei motivi sopra indicati, non posso non ricordare il contributo<br />

recato all’attuazione delle istanze del magistero in campo formativo dall’esperienza <strong>della</strong> Scuola<br />

di specializzazione in comunicazioni <strong>sociali</strong> <strong>della</strong> nostra università.<br />

Avviata come Scuola superiore - con distinte sezioni, tra cui una specificamente dedicata alla<br />

pubblicità - con l’anno accademico 1961/62, essa muta successivamente la propria<br />

denominazione (quella originaria era «Scuola superiore di giornalismo e mezzi audiovisivi») in<br />

rispondenza piena al citato decreto conciliare, sottolineando sempre più la rilevanza <strong>della</strong><br />

dimensione etica del comunicare nel campo <strong>della</strong> formazione , e ciò allo scopo di fornire alla<br />

società - secondo un’espressione cara al fondatore e primo direttore, prof. Mario Apollonio -<br />

53 E. T. Brioschi, Elementi di economia e tecnica <strong>della</strong> pubblicità, cit., p. 132.<br />

54 Sul ruolo di tale primo codice a livello europeo si rinvia a E. T. Brioschi, The Principles of Advertising<br />

Self-regulation in Europe, in Working Across Cultures, a cura di H. Lange - A. Löhr - H. Steinmann,<br />

Kluwer, Dordrecht 1997 (in corso di pubblicazione). Più in generale si veda Venticinque anni di<br />

autodisciplina pubblicitaria in Italia (1966-1991), Istituto dell’Autodisciplina pubblicitaria, Milano<br />

1992.


«uomini di scienza e di coscienza» 55 . Tale scuola ha altresì promosso di recente (1994) il centro<br />

di ricerche denominato «Osservatorio sulla comunicazione».<br />

Nel frattempo i codici di autodisciplina - proposti, oltre che dalla Camera di commercio<br />

internazionale, da altri enti ed associazioni di norma internazionali ed espressione di specifici<br />

settori <strong>della</strong> utenza e <strong>della</strong> professione del comunicare - si erano grandemente diffusi. In Italia il<br />

Codice <strong>della</strong> lealtà pubblicitaria entra in vigore nel 1966, facendo specifico riferimento al modello<br />

<strong>della</strong> citata Camera di commercio, mentre fin dal 1970 la Federazione relazioni pubbliche italiana<br />

adotta il Codice di etica <strong>della</strong> International Public Relations Association.<br />

Gli interventi del magistero vengono dunque ad incidere sulla società, intrecciandosi anzitutto e<br />

in particolare con i codici suddetti, che prevedono altresì strutture e procedure atte alla concreta<br />

e cogente applicazione delle regole introdotte presso gli operatori che - direttamente o<br />

indirettamente - si sono obbligati a rispettarle (un caso esemplare per il nostro paese è<br />

rappresentato dall’Istituto <strong>della</strong> autodisciplina pubblictaria e dagli organismi preposti alla<br />

applicazione del codice relativo).<br />

Un tale intrecciarsi si verifica anche nei confronti dei principi e dell’operato dei movimenti<br />

consumeristici, cioè a difesa dei diritti dei consumatori, che si affermano in ambiente statunitense<br />

già negli anni Sessanta: emblematico di tale affermazione è il Messaggio al consumatore,<br />

pronunciato da Kennedy davanti al Congresso appunto nel 1962.<br />

Al di là di organizzazioni storiche per il nostro paese (si pensi, ad esempio, all’Unione nazionale<br />

consumatori o al Comitato difesa consumatori), una crescente rilevanza è andata poi assumendo<br />

in epoca recente l’Associazione consumatori utenti (Acu), le cui origini risalgono alla metà del<br />

passato decennio e che ha tra l’altro promosso nel 1992 l’«Osservatorio <strong>della</strong> pubblicità e <strong>della</strong><br />

comunicazione di massa», che si propone in modo specifico di segnalare i casi di pubblicità<br />

ingannevole sia all’Istituto <strong>della</strong> autodisciplina pubblicitaria, sia all’Autorità garante <strong>della</strong><br />

concorrenza e del mercato 56 .<br />

A quest’ultimo proposito, un aspetto particolare dell’incidenza del magistero riguarda la nascita<br />

o il consolidamento di associazioni cattoliche che rivolgono una particolare attenzione alle<br />

problematiche educative suscitate dalla diffusione e dall’uso degli strumenti <strong>della</strong> comunicazione<br />

<strong>sociale</strong>, diverse delle quali hanno di recente dato vita ad un Coordinamento delle associazioni per<br />

la comunicazione.<br />

3. Contributi <strong>della</strong> disciplina offerti e/o utilizzati dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong><br />

Il tema in esame può essere affrontato, prendendo avvio dall’istruzione pastorale Communio<br />

et progressio, che, a differenza del decreto conciliare Inter mirifica, richiama esplicitamente la<br />

pubblicità e le problematiche relative (nn. 59-62). Al centro di tale richiamo vi è il problema di<br />

fondo <strong>della</strong> responsabilità <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> comunicazione tramite i mass media in generale e di quella<br />

d’azienda in particolare, colta ed esemplificata nella pubblicità.<br />

Non si può che riconoscere - si afferma al riguardo - il valore di questo processo economico [di<br />

comunicazione e di scambio, innescato dalla pubblicità], purché sia tutelata la libertà di scelta<br />

dell’acquirente e nell’opera di persuasione venga data la preferenza ai beni di prima necessità piuttosto che<br />

ad altri prodotti. La pubblicità deve poi essere veritiera, tenendo conto naturalmente delle sue specifiche<br />

forme espressive (n. 59).<br />

Ora, le tre condizioni sopra richiamate, affinché il contributo economico <strong>della</strong> pubblicità risulti<br />

socialmente accettabile, coinvolgono concetti propri <strong>della</strong> teoria e <strong>della</strong> tecnica <strong>della</strong><br />

55 E. T. Brioschi, Alle origini di una <strong>dottrina</strong> italiana <strong>della</strong> pubblicità: Mario Apollonio,<br />

«Comunicazioni Sociali», 3/4, 1986, pp. 217 ss.<br />

56 Associazione consumatori utenti, Profilo e statuto, testi ciclostilati, Milano 1995.


comunicazione d’azienda, quali il processo di comunicazione posto in essere dalla pubblicità e<br />

l’efficacia dello stesso. Valga al riguardo qualche breve commento. Inizio dal rispetto <strong>della</strong> libertà<br />

di scelta dell’acquirente.<br />

È qui appena il caso di ricordare che tale condizione richiama alla mente l’ipotesi, che ha<br />

purtroppo trovato ampia divulgazione a partire dagli anni Cinquanta, che la pubblicità e i suoi<br />

messaggi possano sempre e senz’altro condizionare l’individuo e, quindi, il pubblico, che sarebbe<br />

caratterizzato soprattutto dalla propria passività. È questa, come noto, un’ipotesi che si pone in<br />

contrasto con l’assunto teorico, d’altronde ampiamente verificato, che la comunicazione è un<br />

processo che si attua fra due soggetti attivi, un comunicatore e un ricevente, il quale ultimo è in<br />

grado di esporsi o meno alla comunicazione, di recepirla o meno e, in ogni caso, di interpretarla<br />

alla luce dei suoi bisogni e delle sue motivazioni. Se mai vi è da rilevare che il ruolo attivo del<br />

ricevente può assumere concretamente una diversa intensità a seconda di una serie di fattori<br />

(momento in cui viene diffusa la comunicazione pubblicitaria, classe di prodotto pubblicizzata,<br />

ecc), fra cui vanno inseriti anche i caratteri che contraddistinguono il ricevente. La presunzione<br />

di responsabilità riguarderebbe allora in modo specifico - secondo una prima applicazione di una<br />

teoria elaborata dall’Ardigò, che abbisognerebbe in ogni caso di ulteriori sistematici<br />

approfondimenti - i riceventi meno provveduti, quali, a titolo di esempio, i bambini o gli anziani,<br />

mentre, di contro, la pubblicità non assumerebbe presumibilmente alcuna responsabilità quando<br />

venisse rivolta a soggetti provveduti, quali, sempre a titolo d’esempio, il giovane universitario o<br />

l’uomo impegnato nel mondo del lavoro 57 .<br />

Quanto alla veridicità dei messaggi pubblicitari - altra delle citate condizioni da rispettare - v’è<br />

da ricordare anzitutto che la pubblicità è soggetta a disposizioni legislative, a codici di<br />

autodisciplina, a regolamentazioni concernenti l’impiego dei vari mezzi. Pertanto i margini di<br />

responsabilità specificamente connessi a questo aspetto, quando disposizioni legislative, codici e<br />

regolamentazioni relative ai vari mezzi trovino concreta e tempestiva applicazione, appaiono assai<br />

ridotti. Semmai la responsabilità nel caso in questione consisterebbe nel rilievo ingiustificato<br />

attribuito talvolta nei messaggi ad affermazioni pur veritiere riguardanti in modo specifico il<br />

prodotto, ovvero in un perseguito ed inidoneo equilibrio fra verità e rilevanza <strong>della</strong> stessa.<br />

La problematica considerata rientra, in ogni caso, in un’area estremamente delicata ed<br />

importante - quella dei contenuti dei messaggi pubblicitari - su cui ritornerò tra breve.<br />

Particolarmente significativa appare, infine, la condizione relativa alla individuazione di<br />

determinate priorità nella pubblicizzazione dei prodotti (beni o servizi), condizione tuttavia il cui<br />

effettivo rispetto non riguarda solo e tanto la pubblicità quanto e in modo specifico la realtà<br />

produttiva che sta a monte <strong>della</strong> stessa e gli eventuali indirizzi di programmazione nazionale dei<br />

paesi in cui la pubblicità si attua.<br />

Ulteriori aree di responsabilità <strong>sociale</strong> - sempre secondo l’istruzione pastorale in esame -<br />

riguardano: la pubblicità in quanto elaboratrice e diffonditrice di messaggi aventi particolari<br />

caratteristiche; la pubblicità come fonte di finanziamento dei mezzi di comunicazione di massa.<br />

Aree, entrambe, suscettibili di ulteriori approfondimenti e di conseguenti puntualizzazioni.<br />

Concetti propri <strong>della</strong> disciplina relativa alla comunicazione d’azienda appaiono poi - ad un<br />

ventennio circa dal documento esaminato - in due fondamentali testi. Si tratta - più esattamente -<br />

dell’enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II (1991) e <strong>della</strong> già citata istruzione pastorale<br />

Aetatis novae.<br />

57 A. Ardigò, Responsabilità <strong>sociali</strong> <strong>della</strong> pubblicità. Relazione al Congresso nazionale <strong>della</strong> pubblicità<br />

su «La pubblicità per lo sviluppo economico e <strong>sociale</strong> degli anni ’70», Confederazione generale italiana<br />

<strong>della</strong> pubblicità, Milano 1972, p. 204.


«I pubblicitari - si afferma chiaramente in quest’ultimo documento - oltrepassano il loro ruolo<br />

legittimo, consistente nell’identificare i bisogni reali e nel rispondervi, e, spinti da motivi di<br />

mercato, si sforzano di creare bisogni e modelli artificiali di consumo» (n. 5).<br />

Mentre, da un lato, è opportuno osservare che nel ruolo citato confluisce - con la<br />

comunicazione pubblicitaria e a monte di questa - quella particolare ottica di governo dell’azienda<br />

che si denomina marketing, dall’altro va ricordato che la stessa enciclica richiamata aveva in<br />

precedenza rilevato che «nei Paesi sviluppati si fa a volte un’eccessiva propaganda dei valori<br />

puramente utilitaristici, con la sollecitazione sfrenata degli istinti e delle tendenze al godimento<br />

immediato, la quale rende difficile il riconoscimento e il rispetto <strong>della</strong> gerarchia dei veri valori<br />

dell’umana esistenza» (n. 29).<br />

Ora, entrambe le citazioni - come già ricordavo - si richiamano a concetti rientranti nella<br />

disciplina che si occupa <strong>della</strong> comunicazione d’azienda, in particolar modo con riferimento alla<br />

cosiddetta strategia creativa, ovvero all’identificazione e alle modalità di espressione dei contenuti<br />

dei messaggi.<br />

Al riguardo è stato anzitutto rilevato come la pubblicità consideri sovente il consumatore come<br />

disgiunto dalla persona nella sua globalità, accentuando di conseguenza l’indirizzo ed il contenuto<br />

materialistici dei suoi messaggi. Più in generale, l’analisi di tali messaggi e <strong>della</strong> relativa struttura<br />

mette in evidenza il prevalere, in un numero consistente di casi, <strong>della</strong> componente persuasivosuggestiva<br />

su quella informativa, il che richiama direttamente il tema del livello di<br />

responsabilizzazione proposto dai messaggi pubblicitari e, con esso, il problema del rapporto tra<br />

contenuto responsabilizzante ed efficacia <strong>della</strong> pubblicità.<br />

Ora, se il prevalere nei messaggi in esame <strong>della</strong> componente persuasivo-suggestiva fosse non<br />

solo un carattere, ma il carattere fondamentale <strong>della</strong> pubblicità, non solo una condizione, ma la<br />

condizione per il manifestarsi <strong>della</strong> sua efficacia, allora si potrebbe anche affermare che<br />

l’efficacia <strong>della</strong> pubblicità sarebbe tanto maggiore quanto minore fosse il contenuto in termini di<br />

responsabilità nei confronti <strong>della</strong> società assunto dalla pubblicità stessa, quanto minore fosse cioè il<br />

livello o il grado di responsabilizzazione proposto dai suoi messaggi. Evidentemente, ove tale<br />

ipotesi, d’altronde riferita solo ad una parte per quanto consistente dei messaggi in questione,<br />

fosse ulteriormente approfondita e dimostrata, la responsabilità <strong>della</strong> pubblicità consisterebbe<br />

proprio in questa sua proposta di deresponsabilizzazione. Ne deriverebbe l’esigenza di un nuovo<br />

stile pubblicitario, ovvero di più idonee formule di comunicazione, incentrate su un differente<br />

rapporto con il consumatore e sul conseguente contributo da offrire a quella che viene definita<br />

come la sua educazione.<br />

Ritornando al tema fondamentale <strong>della</strong> responsabilità <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> pubblicità, si può concludere<br />

osservando come essa si incentri su una interpretazione inattuale del rapporto da instaurare con il<br />

consumatore e, in modo specifico, su una inadeguata partecipazione alla evoluzione dello stesso<br />

(in termini di valori, razionalità, coerenza, ecc.), anche se evidentemente un contributo in tal senso<br />

potrà essere offerto dalla pubblicità solo all’interno di un differente indirizzo di conduzione delle<br />

aziende e sulla base di idonee indicazioni provenienti dalla ricerca.<br />

Come ho avuto occasione di sottolineare,<br />

nuovi compiti ed ulteriori responsabilità attendono il nostro comunicatore e per affrontarli sarà<br />

indubbiamente indispensabile una sempre più perfezionata preparazione tecnica ed una crescente<br />

sensibilità e comprensione umana. L’uomo infatti è, e deve rimanere, al centro di ogni fatto,<br />

indipendentemente dall’evoluzione tecnologica e dagli sviluppi economici e <strong>sociali</strong> 58 .<br />

«Tutti, in ogni caso- come è stato autorevolmente affermato - abbiamo interesse che l’altro - il<br />

pubblico - cresca, perché a lungo termine sarà più capace di distinguere il vero dal falso, i<br />

58 G. Mengacci - E. T. Brioschi, Il pubblicitario: evoluzione di un uomo dalla intuizione alla<br />

professione, Relazione al Congresso nazionale <strong>della</strong> pubblicità, cit., p. 388.


prodotti buoni dai meno buoni e quindi la pubblicità aiuterà veramente il bene a imporsi, le cose<br />

migliori a essere riconosciute tali, attraverso un’educazione e una maturazione del pubblico» 59 .<br />

4. Stimoli all’approfondimento disciplinare offerti dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>.<br />

Nel nostro paese - come d’altronde a livello internazionale - si avverte l’esigenza di elaborare<br />

una cultura <strong>della</strong> comunicazione d’azienda, intesa quale comprensione vera e piena del ruolo e<br />

delle potenzialità di tale comunicazione colta nella molteplicità delle sue componenti<br />

(comunicazione interna ed esterna, istituzionale e di marca, locale e internazionale, ecc.).<br />

Ora, con particolare riguardo a tale cultura, sarebbe opportuno approfondire: il grado di<br />

conoscenza e di recepimento <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> da parte del top management delle aziende o,<br />

più realisticamente, il recepimento dell’istanza etica da parte di tale management; le prospettive<br />

di sviluppo <strong>della</strong> comunicazione d’azienda e <strong>della</strong> cultura relativa offerte dalla tecnologia più<br />

evoluta; il contributo che la comunicazione interna è in grado di recare all’azienda intesa quale<br />

«comunità di uomini» (Centesimus annus, n. 35).<br />

Con riferimento poi, a problematiche specifiche di ampio respiro, risulterebbero utili<br />

approfondimenti circa: le influenze e/o i rapporti concretamente esistenti tra la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> e<br />

l’attività di autodisciplina <strong>della</strong> comunicazione d’azienda; le influenze e/o i rapporti concretamente<br />

esistenti tra la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> ed i movimenti consumeristici; gerarchie di valori ed incidenza<br />

effettiva <strong>della</strong> comunicazione d’azienda (con riguardo a specifici pubblici o stili di vita); modelli di<br />

consumo ed incidenza effettiva <strong>della</strong> comunicazione d’azienda (con riferimento a specifiche<br />

classi di beni e di servizi); l’influenza <strong>della</strong> comunicazione d’azienda sui contenuti dei mezzi di<br />

comunicazione non commerciale (ad esclusione, dunque, delle radio e delle televisioni<br />

commerciali) 60 .<br />

59 C. M. Martini, Necessità e difficoltà del discernimento etico, Intervento al Convegno sul tema «Il<br />

comunicatore: professionista adulto», promosso dall’Associazione italiana tecnici pubblicitari, Milano, 22<br />

marzo 1991, testo ciclostilato, p. 11.<br />

60 Il presente testo è stato steso nel dicembre 1996 e, pertanto, precedentemente l’uscita del documento<br />

del Pontificio consiglio delle comunicazioni <strong>sociali</strong>, Etica nella pubblicità, Libreria Editrice Vaticana, Città<br />

del Vaticano, 1997. A tale documento è esplicitamente dedicato un contributo in via di pubblicazione.


AGOSTINO GIOVAGNOLI<br />

LA STORIA<br />

1. L’incidenza <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> nella società contemporanea<br />

Fin dalle sue prime formulazioni, nell’ultima parte del XIX secolo, la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong> è entrata nelle elaborazioni teoriche e nelle opzioni pratiche di molti cattolici per ciò che<br />

riguarda le principali questioni <strong>sociali</strong> contemporanee. Tale <strong>dottrina</strong> ha largamente ispirato<br />

pensieri, scelte, azioni di singoli credenti, ma ancora maggiore è stata l’influenza sui cattolici<br />

organizzati in movimenti, partiti, sindacati. L’esistenza di una <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> ed i<br />

suoi sviluppi siano stati spesso all’origine di tali aggregazioni e <strong>della</strong> loro attività. Il legame tra<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> e movimento cattolico è stato perciò molto stretto. Si tratta di un’influenza che si<br />

è svolta principalmente all’interno dei singoli contesti nazionali, ma non sono mancati<br />

collegamenti internazionali fra cattolici ispirati da tale <strong>dottrina</strong>. Va anche considerata l’esistenza<br />

di una influenza per così dire diretta - e cioè anche a prescindere dalla mediazione svolta dai<br />

cattolici - <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> sulle opinioni pubbliche nazionali ed a livello<br />

internazionale, su singole personalità e su formazioni politico-<strong>sociali</strong>, su governi e su<br />

organizzazioni sovranazionali. Sotto questo profilo, perciò, l’analisi dell’influenza <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong> oltrepassa l’ambito <strong>della</strong> storia del movimento cattolico e si estende alla storia<br />

dell’istituzione ecclesiastica, alla storia socio-religiosa, a quella delle relazioni internazionali e via<br />

dicendo.<br />

Un bilancio di tale influenza rappresenta un’impresa assai vasta ed impegnativa, che urta<br />

contro un problema metodologico ancora parzialmente irrisolto in campo storico: il problema di<br />

una storia <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> contemporanea à part entiere, in grado di collegare gli aspetti istituzionali<br />

a quelli socio-religiosi, la storia del movimento cattolico a quella dei rapporti fra stato e <strong>Chiesa</strong>,<br />

ecc. Una storia di questo genere corrisponde ad un’esigenza sempre più sentita, dopo l’intensa<br />

successione di differenti approcci storiografici maturata negli ultimi decenni. Non a caso, tale<br />

esigenza appare assai viva in opere come il Dizionario storico del movimento cattolico in<br />

Italia, tentativo di tracciare il bilancio complessivo di una esperienza nazionale particolarmente<br />

ricca. L’opera curata da Campanini e Traniello, affianca diverse prospettive storiografiche e<br />

tiene in particolare considerazioni approcci inusuali per la storia del movimento cattolico, come<br />

l’ottica socio-religiosa. Ma l’esigenza di una storia <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> à part entiere non ha ancora<br />

trovato uno sbocco totalmente soddisfacente e non è neppure certo che possa trovarlo, date le<br />

grande difficoltà metodologiche di una prospettiva di questo tipo. Appare perciò necessario<br />

ricorrere a diversi approcci storiografici, cercando di raccogliere e collegare i risultati di differenti<br />

metodologie di ricerca.<br />

Una prima questione rilevante riguarda il nodo delle origini. Su questo terreno appare anzitutto<br />

necessario ricorrere alla storia <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> precedente l’età contemporanea. Sono infatti evidenti<br />

i legami fra la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> ed una vasta eredità raccolta dai secoli precedenti, riguardante<br />

questioni di fondo come lo sviluppo dell’ecclesiologia cattolica e la conformazione istituzionale di<br />

tale <strong>Chiesa</strong>, i rapporti con le istituzioni politiche, le tradizioni di esegesi, predicazione, morale<br />

riguardanti la carità ed i poveri, le opere sviluppate in questi campi dai credenti… Tali legami<br />

appaiono sempre più rilevanti con la diffusione di una sensibilità più ricca e di una conoscenza<br />

storica più completa. Negli scorsi decenni, ad esempio, era emersa la tendenza ad attribuire un<br />

significato almeno parzialmente negativo al termine carità per indicare l’azione dei credenti a<br />

favore dei poveri, altro termine oggetto di molteplici diffidenze ma di fatto insostituibile sul piano


dell’analisi storica. Una cultura religiosa più matura e una maggiore dimestichezza con le<br />

prospettive <strong>della</strong> storia <strong>sociale</strong> di lungo periodo hanno ispirato un atteggiamento meno impoverito<br />

dalle schematizzazioni ideologiche e più rigoroso sul piano storico. Appare oggi più chiaro che,<br />

per molti aspetti, la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e ciò che essa ha suscitato direttamente o<br />

indirettamente si collegano ad una lunga tradizione precedente e ne esprimono l’adattamento<br />

all’epoca contemporanea. Anche in questa epoca infatti la storia <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong> e <strong>della</strong> sua influenza si collega ad una complessa sedimentazione: si pensi ai legami con<br />

aspetti come l’universalismo cattolico, il centralismo romano, il magistero pontificio. Per ciò che<br />

riguarda i contenuti, la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> ha tratto vasto alimento da una sensibilità peculiare <strong>della</strong><br />

tradizione religiosa cristiana e che, dopo il Vaticano II, è stata indicata con l’espressione di<br />

«scelta preferenziale per i poveri».<br />

Questo inquadramento storico più ampio ha però fatto anche meglio risaltare le effettive<br />

specificità <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, strettamente collegate a nuovi problemi posti alla chiesa dall’età<br />

contemporanea. Si è a lungo insistito sul rapporto fra questa <strong>dottrina</strong> e le principali ideologie<br />

contemporanee, in particolare il liberalismo ed il <strong>sociali</strong>smo. In chiave prevalentemente negativa,<br />

sono stati sottolineati la refrattarietà <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> verso gli aspetti positivi di tali ideologie, i<br />

collegamenti con i progetti di un impossibile ritorno ad un regime di cristianità (Miccoli) e la<br />

sostanziale antimodernità di molte posizioni (Menozzi). La <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, tuttavia, non è sorta<br />

solo per reazione, imitazione, contrapposizione alle nuove ideologie dominanti. Essa si è inserita<br />

all’interno di un più vasto tentativo <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> cattolica di ridefinire la sua collocazione nel<br />

contesto <strong>della</strong> società contemporanea soprattutto europea. Emile Poulat ha parlato ad esempio di<br />

un conflitto triangolare fra <strong>Chiesa</strong>, borghesia e proletariato, paragonando la <strong>Chiesa</strong> alla Polonia,<br />

la cui integrità territoriale e la cui espressione statuale sono state tante volte negate, ma che ha<br />

continuato tenacemente ad esistere come specifica identità nazionale. Anche la Chie sa, ha<br />

assunto problematiche, linguaggi, modalità tipiche dei nuovi interlocutori: le ideologie, gli stati, i<br />

partiti, i movimenti, ecc. Ed anche la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> ha rappresentato un aspetto <strong>della</strong> complessa<br />

rete delle esigenze di identità, di visibilità, di collocazione che nel corso del XIX e del XX secolo<br />

hanno caratterizzato il rapporto fra <strong>Chiesa</strong> e società. Tuttavia, come la Polonia, la <strong>Chiesa</strong> ha<br />

anche costantemente mantenuto una sua diversità dalla società circostante: ed è proprio in questa<br />

diversità che, complessivamente, si radica la principale influenza <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> cattolica e <strong>della</strong><br />

stessa <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> in età contemporanea.<br />

Storicamente, la ridefinizione del rapporto fra la <strong>Chiesa</strong> e gli stati ha rappresentato una<br />

fondamentale premessa per la nascita <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> e ha interagito con i suoi sviluppi. E<br />

la diffusione di tendenze laiciste ed anticlericali ha suscitato il problema di una «difesa degli<br />

interessi cattolici» ad opera di un laicato cattolico organizzato (Taparelli d’Azeglio) che ha<br />

rappresentato un destinatario privilegiato di tale <strong>dottrina</strong>. Ampia ed abbondante, com’è noto, è la<br />

massa di studi su questi temi a proposito di Italia, Francia, Belgio, Spagna, Germania, Austria ed<br />

altri paesi europei, ma anche di Nord e Sud America. Le ricerche hanno appurato che l’influenza<br />

sugli orientamenti liberali <strong>della</strong> tradizione cristiana - ed anche in parte di quella cattolica - è stata<br />

rilevante. Esistono numerose tracce di una profonda radice cristiana di alcune delle più<br />

significative istanze espresse dalla nuova sensibilità per i temi <strong>della</strong> libertà, dell’uguaglianza, <strong>della</strong><br />

fraternità affermatisi in Europa dopo la Rivoluzione francese (Scoppola). Ma è anche noto che le<br />

scelte dell’istituzione ecclesiastica si sono spesso rivolte contro le dottrine, le istituzioni e le classi<br />

dirigenti che si sono riconosciute nel liberalismo. Sul piano dei principi, come ad esempio si<br />

evince dal Sillabo, la contrapposizione al liberalismo è stata totale.<br />

Tuttavia, anche nella fase <strong>della</strong> più dura contrapposizione fra <strong>Chiesa</strong> cattolica e liberalismo<br />

europeo, gli sviluppi <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> cattolica, per esempio sotto il pontificato di Leone XIII,<br />

hanno accompagnato una significativa articolazione dell’atteggiamento cattolico, di cui è rimasto<br />

famoso l’esempio del rallíement nella Francia di fine secolo. Proprio riferendosi a questa


esperienza, De Gasperi, in polemica con Croce ma anche con altri cattolici, sostenne che in una<br />

prospettiva storica più ampia il contributo <strong>della</strong> istituzione ecclesiastica al progresso <strong>della</strong> libertà<br />

appariva rilevante in ogni epoca. Egli ammonì in particolare a non guardare l’impatto immediato<br />

degli atteggiamenti ecclesiastici sulle istituzioni politiche, ma a cogliere un più profondo contributo<br />

<strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> alla storia umana, a motivo dagli indissolubili legami che costantemente collegano la<br />

sua opera al messaggio evangelico da essa proposto. Va inoltre osservato che, nel tempo,<br />

l’evoluzione del movimento cattolico verso un’azione <strong>sociale</strong> e politica più incisiva ha spinto i<br />

cattolici verso un crescente inserimento in istituzioni politiche in definitiva originate dal<br />

liberalismo. In Italia, in una prima fase, la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> cattolica si è inserita nel dissidio fra<br />

Stato e <strong>Chiesa</strong>, alimentando la contrapposizione fra paese reale e paese legale, e sostenendo le<br />

masse cattoliche contro ordinamenti liberali fortemente segnati anche da una connotazione di<br />

classe (Fonzi). Ma lo sviluppo del movimento cattolico, anche ad impulso di questa <strong>dottrina</strong>, è<br />

stata anche all’origine <strong>della</strong> vicenda del Partito popolare, un’esperienza preziosa per la<br />

maturazione del laicato cattolico italiano (De Rosa).<br />

Molto è cambiato, naturalmente, con l’avvento <strong>della</strong> società di massa e con la diffusione di<br />

ideologie autoritarie o totalitarie come il fascismo ed il nazismo. Il rapporto fra <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

cattolica e fascismo è stato studiato con particolare attenzione per alcune questioni specifiche,<br />

come il corporativismo, attraverso cui è stato colto un qualche appoggio <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> a questo<br />

regime. Per dare un giudizio più completo sul rapporto fra <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> e fascismo occorre<br />

però tener presente anche altri aspetti, forse ancora più caratterizzanti del corporativismo, come<br />

il problema del nazionalismo o la questione del razzismo, qualificanti anche per cogliere il<br />

rapporto con il nazismo. Ed è noto l’atteggiamento critico su tali questioni, emerso soprattutto<br />

nell’ultimo scorcio del pontificato di Pio XI.<br />

A questo periodo risale anche un significativo sviluppo del tema <strong>della</strong> unità <strong>della</strong> famiglia<br />

umana, in nome del quale il magistero <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> ha assunto, con sempre maggior frequenza,<br />

posizioni critiche verso conflitti e guerre. Rilevante appare pure la condanna, nel 1926,<br />

dell’Action Française, che ha avuto grande importanza nello svincolare il cattolicesimo dalle<br />

strumentalizzazioni politiche e nel separare i suoi interessi da quelli di una certa logica di ordine e<br />

conservazione e dal primato <strong>della</strong> civilizzazione europea nel mondo. Indirettamente, tale<br />

condanna ha influenzato anche la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> ed il movimento cattolico - si pensi alla<br />

parabola di Maritain -, facilitando un approdo più convinto alle prospettive <strong>della</strong> democrazia e<br />

favorendo un nuovo approccio teologico alle realtà temporali (Chenu). Nell’insieme, pur con<br />

fatica e certo fra contraddizioni, già durante il pontificato di Pio XI vennero poste le premesse di<br />

sviluppi <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> cattolica verso nuove direzioni, emerse poi più compiutamente con il<br />

Vaticano II.<br />

Per quanto riguarda invece il rapporto fra <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, <strong>sociali</strong>smo e<br />

comunismo non si può negare un qualche influenza delle prime tendenze <strong>sociali</strong>ste su aspetti<br />

fondamentali <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> cattolica, le cui prime formulazioni organiche - anzitutto la<br />

Rerum novarum - appaiono radicate nella esigenza di indicare limiti e correttivi dello sviluppo<br />

industriale. Nel complesso però l’atteggiamento <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> è stato<br />

piuttosto critico verso queste correnti, soprattutto quando esse sono entrate sotto l’influenza<br />

marxista o hanno assunto una più radicale fisionomia comunista. Alcuni studiosi hanno<br />

sottolineato i legami tra movimento cattolico e borghesia capitalistica, denunciando i limiti <strong>della</strong><br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> cattolica nel campo di una effettiva tutela degli interessi del proletariato<br />

industriale (Mario G. Rossi). Tuttavia, anche su questo terreno, lo schema triangolare indicato da<br />

Poulat coglie una verità più profonda.<br />

Molto è poi cambiato dopo il 1917, quando tali correnti ideali e <strong>sociali</strong> hanno trovato<br />

espressione nell’esperimento sovietico. Appare perciò necessario tener conto dei rapporti più<br />

complessi fra la <strong>Chiesa</strong>, l’Urss e gli altri stati comunisti sorti successivamente, per comprendere


gli sviluppi <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> in questo campo. Alla radice di molti atteggiamenti<br />

negativi verso il comunismo v’è stato infatti anzitutto il carattere ateo o almeno antireligioso ed<br />

anticattolico di questi regimi. Tale radice rivela l’esistenza di una specifica valenza religiosa<br />

prima che politica dell’opposizione cattolica al comunismo. La ricerca storica ha ad esempio<br />

documentato che il momento culminante di tale posizione, la scomunica del 1949, è da porre in<br />

diretta relazione con le persecuzioni allora in corso nei paesi dell’Europa orientale (Riccardi). La<br />

radice religiosa dell’anticomunismo ha indirettamente influenzato anche gli apporti più specifici<br />

<strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> sul sistema <strong>sociali</strong>sta realizzato in Urss ed altrove. E ciò ha avuto rilievo<br />

anche per le vicende del movimento cattolico, che si è sviluppato spesso in relazione a queste<br />

correnti ideologiche e a regimi e partiti che ne sono stati espresslone .<br />

Malgrado il rilievo di queste vicende, come si è già accennato, il rapporto fra <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> e<br />

ideologie contemporanee non solo non ha esaurito i contenuti, gli orientamenti, gli scopi di questa<br />

<strong>dottrina</strong>, ma non ha neppure assorbito tutte le prospettive del movimento cattolico. Oltre alla<br />

difesa degli interessi <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, fin dagli inizi tale movimento ha cercato di farsi carico di<br />

principi e valori cristiani, dalla scuola alla famiglia, dalla difesa del lavoro alla distribuzione delle<br />

ricchezze, sul piano <strong>sociale</strong>, politico, giuridico. Con il tempo, i cattolici hanno cercato di andare<br />

ancora oltre, spingendo la loro attenzione verso tutti i principali problemi <strong>sociali</strong> contemporanei e<br />

facendosi portatori di un progetto globale sulla società. Ciò è avvenuto più facilmente dopo che<br />

questioni a lungo irrisolte nei rapporti fra Stato e <strong>Chiesa</strong> erano state superate e quando<br />

l’affermazione di sistemi democratici ha offerto loro nuove chances: in concreto, dopo il declino<br />

dell’esperienza liberale ed il superamento dei regimi fascisti.<br />

Ciò è accaduto ad esempio nell’Italia del secondo dopoguerra, dopo che nel ’29 la questione<br />

romana era stata definitivamente risolta. Qui si è sviluppato forse il maggior tentativo, sul piano<br />

storico, di realizzare una «guida cattolica» <strong>della</strong> società. Per la prima volta nella storia italiana, si<br />

è imposta una classe dirigente cattolica, nella cui formazione la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> aveva avuto un<br />

ruolo rilevante. Il bilancio di tale esperienza appare oggi prevalentemente negativo e ciò getta<br />

molte ombre almeno sulle vicende ultime del movimento cattolico italiano e sul suo rapporto con<br />

la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>. In realtà, non disponiamo ancora di una soddisfacente<br />

ricostruzione storica dell’Italia repubblicana, in grado anche di dar conto in modo esauriente degli<br />

esiti di questa esperienza. Sicuramente, il bilancio negativo non riguarda tutta la realtà del<br />

cattolicesimo organizzato allo stesso modo: le correnti che sono rimaste più legate alle esperienze<br />

<strong>sociali</strong> come quelle del sindacalismo cattolico (Zaninelli), ad esempio, hanno conservato un<br />

legame più autentico con la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>. Tuttavia, l’esperienza <strong>della</strong> «guida<br />

cattolica» è stata, o almeno è apparsa, troppo rilevante per il cattolicesimo italiano e per il paese<br />

nel suo complesso perché si possa eludere l’esigenza di un giudizio storico globale su di essa.<br />

Probabilmente, la storia di questa vicenda va inquadrata nei vasti cambiamenti complessivi che<br />

negli ultimi cinquant’anni hanno profondamente modificato la situazione complessiva <strong>della</strong> società<br />

contemporanea in Italia ma non solo. Sono cambiati anche gli orientamenti <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e la<br />

stessa <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>. Qualcuno ha parlato di fine <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> cattolica. Ma queste<br />

voci si sono rivelate premature: il pontificato di Giovanni Paolo II, ad esempio, è stato<br />

caratterizzato da numerosi pronunciamenti in questo campo. Tuttavia, qualcosa è effettivamente<br />

cambiato in profondità, in particolare con Giovanni XXIII ed il Concilio Vaticano II.<br />

Naturalmente, questa cesura non deve essere assolutizzata: per esempio, già nel pontificato di Pio<br />

XII si possono trovare intuizioni poi raccolte dai testi conciliari e riprese da Paolo VI. Ma il<br />

pontificato giovanneo ha davvero introdotto importanti elementi di novità, come una dilatazione<br />

<strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> nella direzione di una lettura complessiva delle tendenze <strong>della</strong><br />

storia - «i segni dei tempi» - ed un decisivo allargamento dei suoi destinatari - tutti «gli uomini di<br />

buona volontà» -. Già nella Mater et magistra, inoltre, si affermava che la questione <strong>sociale</strong><br />

aveva ormai assunto dimensioni mondiali.


Il pontificato di Giovanni XXIII sembra aver portato ad esplicita maturazione tendenze già da<br />

tempo presenti all’interno <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> cattolica. Gli storici hanno segnalato alcune linee portanti<br />

<strong>della</strong> crescente evoluzione, soprattutto nel corso di questo secolo, del rapporto fra <strong>Chiesa</strong> e<br />

mondo contemporaneo (Riccardi). Sempre più coinvolto nei grandi problemi che hanno afflitto i<br />

popoli nel XX secolo, il papa è ad esempio diventato anche una voce sempre più ascoltata,<br />

seppure non sempre seguita. Non si tratta propriamente, come talvolta si è creduto, di una<br />

dilatazione dell’azione <strong>della</strong> diplomazia vaticana, ma piuttosto di un riconoscimento spontaneo<br />

sempre più diffuso di una grande autorità morale con cui anche i governanti hanno dovuto fare i<br />

conti, malgrado le ironie di Stalin sull’assenza di «armate» al servizio del papa.<br />

Collegata all’evoluzione dei rapporti tra <strong>Chiesa</strong> e società, emblematicamente espressi dal<br />

mutato rapporto fra il papa ed il mondo, è stato anche l’allargamento delle tematiche affrontate<br />

dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>. Tale allargamento è ad esempio testimoniato dalla raccolta delle Fonti<br />

documentarie curata dal Centro di ricerche per lo studio <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong><br />

dell’Università cattolica, che rinvia giustamente ad una serie molto ampia di documenti pontifici<br />

riguardanti non solo questioni più tradizionali come quelle legate all’industrializzazione, allo<br />

sviluppo <strong>sociale</strong>, ai rapporti fra le classi, ma anche ad altre tematiche, dalla giustizia nelle<br />

relazioni internazionali alla situazione dei paesi sottosviluppati, dalla condizione <strong>della</strong> donna ai<br />

problemi dei rifugiati. Si registra in questo senso un costante allargamento dell’attenzione <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong> verso problemi e materie che oltrepassano il campo più strettamente religioso e<br />

l’abbandono di talune preoccupazioni apologetiche o difensivistiche, nella direzione di un interesse<br />

sempre più esplicito per l’uomo e la società umana in quanto tali.<br />

A partire da Giovanni XXIII, i temi <strong>della</strong> guerra e <strong>della</strong> pace - peraltro già toccati in<br />

precedenza, fin dal pontificato di Benedetto XV - hanno acquistato un rilievo crescente, mentre<br />

si delineava una nuova collocazione <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> nei rapporti con gli stati, le organizzazioni<br />

internazionali, l’opinione pubblica mondiale. In seguito, encicliche come la Populorum<br />

progressio o la Octogesima adveniens di Paolo VI sono state considerate tappe importanti<br />

nell’evoluzione <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, in rapporto ai temi dello sviluppo ed al rapporto Nord-<br />

Sud ed alla ridefinizione del senso e delle modalità dell’impegno politico dei cattolici. Un capitolo<br />

nuovo si è aperto con Giovanni Paolo II, con il rilancio <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, «che<br />

sembrava essersi alquanto ridotta con Paolo VI». Questo papa ha sentito il bisogno di ridare al<br />

cattolicesimo un linguaggio suo proprio per parlare delle ingiustizie e delle miserie del mondo<br />

(Riccardi). Il magistero di Karol Woityla ha cercato di sottrarre alcune categorie come popolo,<br />

poveri, storia ad una lettura marxista. Tuttavia questa ripresa <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> cattolica non è<br />

stato un ritorno al passato: Giovanni Paolo II ha tenuto conto dello spostamento emerso nel<br />

magistero di Paolo VI dalla questione operaia ai rapporti fra Nord e Sud del mondo e ha ribadito<br />

che la <strong>Chiesa</strong> non ha soluzioni tecniche da offrire ma che è soprattutto «esperta di umanità».<br />

Questo papa ha tenuto anche a marcare le distanze <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> cattolica dal modello capitalista.<br />

Egli ha inoltre promosso nuove prospettive, introducendo nella <strong>Chiesa</strong> una ampia riflessione sul<br />

problema <strong>della</strong> difesa <strong>della</strong> vita e del rispetto dei diritti umani.<br />

Con il pontificato di Giovanni Paolo II, durante il quale è finita la guerra fredda e si è dissolto il<br />

blocco sovietico, per i credenti si sono posti nuovi interrogativi e si sono aperte nuove prospettive.<br />

La fine delle ideologie non sembra aver coinciso con la scomparsa <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong>. Già nel 1987, Giovanni Paolo II scriveva che la <strong>dottrina</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> non è «un’ideologia<br />

ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà<br />

dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce <strong>della</strong> fede e <strong>della</strong><br />

tradizione ecclesiale» (Sollicitudo rei <strong>sociali</strong>s). Ed il collasso del marxismo, sembra aver<br />

rilanciato tale <strong>dottrina</strong> come espressione di un impegno contro la miseria e le ingiustizie, al di là<br />

<strong>della</strong> critica di sistemi <strong>sociali</strong> erronei. Negli ultimi decenni, insomma, per la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong> sembra esserci stata una dilatazione di prospettive, interlocutori ed argomenti. Liberata


dai condizionamenti di un confronto ravvicinato con i grandi sistemi ideologici, tale <strong>dottrina</strong> si è<br />

inoltre trovata davanti alla possibilità di riscoprire meglio le sue radici. E mentre l’interesse per la<br />

società e per l’uomo in quanto tali hanno acquistato nel magistero <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> crescente<br />

evidenza, anche per l’influenza <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> si sono delineati nuovi orizzonti.<br />

2. Influenze <strong>della</strong> storia contemporanea sulla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

Il contributo <strong>della</strong> disciplina «storia contemporanea» alla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> si<br />

colloca nel contesto <strong>della</strong> più ampia questione del rapporto fra approccio storico e cultura<br />

cattolica. È noto che a partire dalla seconda metà dell’800, cultura cattolica ed in particolare<br />

quella ecclesiastica sono diventate più impermeabili all’influenza delle discipline storiche<br />

(Traniello). Questa tendenza ha coinvolto anche la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, anche se questa si è spesso<br />

occupata di questioni specifiche <strong>della</strong> società contemporanea e dei suoi sviluppi. Su tale <strong>dottrina</strong><br />

hanno pesato in modo particolare i legami con l’approccio lammenaisiano ai principali problemi<br />

contemporanei che, seppure colpito da condanne pontificie, ha esercitato comunque larga<br />

influenza sulla cultura cattolica XIX secolo.<br />

Il momento di maggior tensione è stato raggiunto con il modernismo, quando l’irrigidimento<br />

disciplinare ha colpito una effervescenza culturale molto sensibile agli apporti del metodo storico.<br />

La temperie modernista ha posto soprattutto in modo acuto il problema del rapporto fra analisi<br />

storica ed ispirazione scritturistica: in questa fase, cioè, è emerso soprattutto il problema del<br />

confronto con la storia antica e con discipline affini come l’archeologia, l’orientalistica, l’esegesi<br />

e via dicendo. Anche nel modernismo però - malgrado l’attenzione verso tendenze specifiche<br />

<strong>della</strong> società contemporanea, dal <strong>sociali</strong>smo al pacifismo, dal cosmopolitismo all’«americanismo»<br />

- il problema del rapporto con la storia moderna o contemporanea non è stato affrontato in modo<br />

organico.<br />

Gradualmente, la storia ecclesiastica ha cominciato a riconquistare uno spazio maggiore in<br />

istituzioni formative come i seminari e le facoltà teologiche. Particolare rilievo ha avuto ad<br />

esempio l’esperienza romana, caratterizzata da figure come quella di mons. Pio Paschini.<br />

Altrove, dalla storia ecclesiastica si è passati ad un’ampia serie di studi sulla storia medievale (lo<br />

stesso Pio XI aveva effettuato ricerche in questo campo prima di diventare papa). Nella<br />

direzione di un nuovo interesse per la storia hanno cominciato intanto a convergere filoni<br />

importanti del rinnovamento cattolico del XX secolo, come il movimento liturgico o quello biblico.<br />

Molteplici sollecitazioni - come quelle provenienti dal campo missionario e dalla questione <strong>della</strong><br />

decolonizzazione - hanno portato a considerare con attenzione le diverse configurazioni assunte<br />

dalla <strong>Chiesa</strong> nei diversi contesti storici. Lo stesso lavoro dei teologi si è avvalso con più<br />

frequenza di un ricco materiale storico (Congar, Chenu, De Lubac). A suggestioni provenienti dal<br />

mondo protestante ha corrisposto anche in campo cattolico una intensa discussione su fede e<br />

storia. Particolarmente in Germania, la storia <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> è stata assunta in modo centrale da<br />

una riflessione teologica che l’ha valorizzata in una prospettiva incarnazionista, pneumatologica,<br />

trinitaria (Kasper). Ulteriore impulso è venuto poi dal recupero <strong>della</strong> tensione escatologica<br />

(Metz). Nel corso del XX secolo, inoltre, le nuove problematiche socio-economiche<br />

contemporanee hanno sollecitato, soprattutto da parte dei laici, una nuova attenzione per la<br />

dimensione storica: si pensi alla tradizione di storia economica fiorita all’interno dell’Università<br />

cattolica. Ed infine, il ritorno dei cattolici all’impegno politico in vari paesi ha favorito anche una<br />

larga produzione di ricerche sulla storia del movimento cattolico. Dagli anni ’20 agli anni ’60,<br />

insomma, per molte vie i cattolici sono tornati ad interessarsi di storia, con una inedita attenzione<br />

anche per quella contemporanea.<br />

Questi diversi filoni sono giunti a maturazione con Giovanni XXIII - in gioventù studioso di<br />

storia e sempre attento a questa dimensione - e con il Concilio. Il ritorno <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> alla storia,


per così dire, non è però avvenuto principalmente per impulso di un’esigenza culturale, ma è<br />

stato animato soprattutto da una tensione pastorale. In Giovanni XXIII, il senso che la <strong>Chiesa</strong> era<br />

un «giardino» più che un «museo» e le esigenze di «aggiornamento» spingevano verso una<br />

ricomprensione sia <strong>della</strong> precedente storia <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> che <strong>della</strong> sua collocazione attuale nel<br />

mondo. Anche sotto il profilo dell’influenza <strong>della</strong> storia sulla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, il pontificato di<br />

Giovanni XXIII ed il Concilio hanno rappresentato uno snodo importante. È noto il rilievo, anche<br />

per questa <strong>dottrina</strong>, <strong>della</strong> sensibilità giovannea per i «segni dei tempi». Il collegamento fra<br />

aggiornamento <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e attenzione a questi segni è stato poi recepito dalla Gaudium et<br />

spes sotto l’influenza del tema montiniano del «dialogo» (Campanini). «Con il mondo, si aprivano<br />

le porte alla storia: “la <strong>Chiesa</strong> nel mondo d’oggi”; e con la dimensione storica dell’economia<br />

cristiana, entravano i segni dei tempi che sono necessari non soltanto per scandire i momenti del<br />

suo cammino, ma per definirne la costituzione» ha scritto Chenu. Una delle maggiori novità del<br />

linguaggio conciliare, ha notato Alberigo, è stata rappresentata dall’abbandono di un riferimento<br />

esclusivo a prospettive dogmatiche e giuridiche e dal frequente riferimento alla dimensione <strong>della</strong><br />

storia.<br />

Nei testi conciliari era soprattutto presente un recupero dell’approccio patristico alla storia<br />

(Campanini). Tuttavia, la svolta impressa dal Concilio ha rappresentato l’inizio di un vasto<br />

intreccio fra cultura cattolica e dimensione storica che ha preso poi molteplici direzioni. Ed in<br />

questo multiforme sviluppo anche la questione del rapporto fra storia contemporanea e <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong> ha acquistato maggior rilevanza. Per analizzare questo rapporto, va però ricordato che<br />

non è facile definire in modo univoco la disciplina «storia contemporanea», anche se essa ha alle<br />

spalle una storia molto breve e non solo da un punto di vista accademico. Tuttavia, in campo<br />

contemporaneistico è maturata negli ultimi anni se non una metodologia univoca quantomeno una<br />

sensibilità diffusa che ha contribuito a differenziarla, almeno in parte, da altre discipline storiche.<br />

A ciò hanno contribuito elementi specifici come la prossimità cronologica dell’oggetto di studio e<br />

la quantità e la qualità delle fonti utilizzabili, ma anche le evoluzioni più recenti <strong>della</strong> stessa<br />

vicenda storica. Per lungo tempo, com’è noto, negli studi di storia contemporanea hanno avuto<br />

grande rilievo forti influenze filosofiche, come quelle esercitate dall’idealismo e dal marxismo, ed<br />

un primato <strong>della</strong> storia politica su altre ottiche. Ma anche la storia contemporanea è stata sfidata<br />

e rinnovata dalla rivoluzione metodologica delle «Annales». Ed oggi i contemporaneisti appaiono<br />

spesso diffidenti verso impostazioni ideologiche troppo rigide mentre si mostrano più aperti verso<br />

gli apporti di altre discipline - come la geografia, l’economia, la sociologia, il diritto - utili per<br />

cogliere e descrivere connessioni e interdipendenze che caratterizzano in modo peculiare la<br />

vicenda contemporanea.<br />

Indubbiamente, dopo Giovanni XXIII e Paolo VI, il magistero <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> ha mostrato<br />

maggior familiarità con la storia contemporanea. L’esigenza di un approccio storico<br />

contemporaneistico era ad esempio già presente, almeno implicitamente, nella Mater et<br />

magistra. Quest’enciclica si apriva con una considerazione degli sviluppi attraversati dalla<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> sotto l’influenza degli avvenimenti contemporanei e sottolineava l’esistenza di<br />

altri più recenti evoluzioni in campo scientifico-tecnico-economico, <strong>sociale</strong> e politico. Il legame<br />

con la dimensione storica era ancora più evidente nella Pacem in terris, particolarmente attenta<br />

a cogliere i principali «segni dei tempi» presenti nella società contemporanea. Con Paolo VI la<br />

<strong>Chiesa</strong> ha operato un vasto ripensamento <strong>della</strong> propria collocazione in un mondo segnato dal<br />

tramonto <strong>della</strong> civiltà agricola e dalle tensioni dell’urbanizzazione, mentre l’emersione di popoli<br />

nuovi nel Terzo mondo cambiava gli scenari mondiali. Ed è nota la stretta compenetrazione fra il<br />

pensiero di papa Montini e molte tematiche che hanno agitato l’uomo contemporaneo.<br />

L’attenzione di Giovanni Paolo alla storia contemporanea si inserisce in una più ampia<br />

considerazione per la storia in generale: questo papa appare ad esempio vivamente consapevole<br />

delle eredità, sia positive che negative, lasciate dalla storia <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> dei secoli passati. Nella


lettera apostolica Tertio millennio adveniente, egli ha tracciato un panorama complessivo <strong>della</strong><br />

vicenda <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> nel XX secolo. Il suo interesse riguarda anche la storia del mondo. È nota<br />

la sua conoscenza <strong>della</strong> storia europea e la sua sensibilità per alcune costanti di questa storia,<br />

come i temi <strong>della</strong> nazione e delle nazionalità, emerse frequentemente nei pronunciamenti sulla<br />

guerra in Jugoslavia ma presenti anche negli interventi sulle radici cristiane <strong>della</strong> vocazione<br />

unitaria dell’Italia. Questa sensibilità storica è presente anche nella <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> di questo<br />

pontificato. Nella Sollicitudo rei <strong>sociali</strong>s, scritta a venti anni dalla Populorum progressio, ad<br />

esempio, Giovanni Paolo II ha rilanciato la prospettiva di un autentico sviluppo umano di fronte a<br />

tanti segni negativi che sembravano aver interrotto una ottimistica marcia verso il progresso.<br />

Nella Centesimus annus, egli ha poi ripercorso brevemente la storia mondiale dell’ultimo secolo,<br />

sviluppatasi fra guerre e ideologie, segnata dal fallimento del <strong>sociali</strong>smo e dalla disumanità del<br />

consumismo. In questa enciclica egli ha anche offerto un’interpretazione storica degli eventi del<br />

1989, «fatto unico in un documento papale» (Riccardi).<br />

3. Suggestioni <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> per lo studio <strong>della</strong> storia contemporanea<br />

Dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> sono venuti molteplici stimoli allo studio <strong>della</strong> storia<br />

contemporanea. In alcuni casi ciò è particolarmente evidente, ad esempio per quanto riguarda la<br />

storia del movimento cattolico, per tanti motivi strettamente connessa a questa <strong>dottrina</strong>. Il<br />

problema si pone in modo particolarmente interessante per l’oggi. Le evoluzioni più recenti di<br />

questa <strong>dottrina</strong> hanno influito sugli ultimi sviluppi <strong>della</strong> storia contemporanea o comunque<br />

indicano a questa nuove prospettive? Conviene probabilmente collocare anche questo problema<br />

in un contesto più vasto, quello dell’influenza che viene dalla <strong>Chiesa</strong> e dal suo magistero verso lo<br />

studio <strong>della</strong> storia contemporanea.<br />

Si può rilevare anzitutto che la <strong>Chiesa</strong> - ed in particolare la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> - esercitano una<br />

influenza su tale disciplina come oggetto di studio. Le peculiarità dell’oggetto di ricerca hanno<br />

infatti spinto quest’ultima ad affinare i suoi strumenti e ad allargare le sue prospettive. La atipicità<br />

e la complessità <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> come oggetto di indagine hanno ad esempio avuto, negli scorsi<br />

decenni, un effetto positivo su uno studio storico troppo spesso condizionato da schematizzazioni<br />

ideologiche. La necessità di addentrarsi in profondità nella <strong>Chiesa</strong> come oggetto di studio e quella<br />

di sottoporre questo oggetto ad una analisi sempre più rigorosa hanno insomma probabilmente<br />

avuto un effetto incrociato: una sorta di «laicizzazione» <strong>della</strong> storia contemporanea, sollecitata a<br />

liberarsi da incrostazioni ideologiche, e di «deideologizzazione» dello studio <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, spinta ad<br />

alleggerirsi da approcci confessionali o anticlericali. Al centro di questa influenza reciproca e per<br />

certi aspetti similare c’è una maggiore consapevolezza <strong>della</strong> complessità, tanto <strong>della</strong> società<br />

contemporanea quanto <strong>della</strong> realtà <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> cattolica. Ed una <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> profondamente<br />

aggiornata sembra oggi spingere la storia contemporanea ad interrogarsi su aspetti e problemi di<br />

particolare ampiezza, quali le implicazioni morali dei processi economici e politici, i fattori di<br />

interdipendenza fra piani e fenomeni diversi, le dimensioni sempre più mondiali <strong>della</strong> questione<br />

<strong>sociale</strong>, la centralità dei diritti umani rispetto agli assetti istituzionali nazionali o sovranazionali e<br />

via dicendo.<br />

Oltre agli stimoli che sono venuti dalla <strong>Chiesa</strong> in quanto oggetto di ricerca, la storia<br />

contemporanea ha ricevuto molteplici suggestioni anche dal magistero cattolico. Già a partire da<br />

Giovanni XXIII, distinzioni come quelle fra l’errore e l’errante e tra ideologie e movimenti da<br />

esse ispirati sono rimaste giustamente famose. Questo pontefice, pur senza contrapporsi alle<br />

esigenze di scientificità proprie <strong>della</strong> ricerca storica, ha saputo suggerire una visione<br />

misericordiosa <strong>della</strong> storia, particolarmente importante per la vicenda contemporanea, così<br />

profondamente segnata da contrasti e tensioni e rispetto alla quale molti «profeti di sventura»,<br />

anche in campo ecclesiastico, non sapevano trovare atteggiamenti positivi. Dal magistero di


Paolo VI sono venuti impulsi significativi per una riconsiderazione di alcuni problemi importanti,<br />

come quelli dei rapporti fra stato e <strong>Chiesa</strong>, religione e politica, clero e laicato. Ancora più<br />

profonda è stata l’influenza di questo pontificato in campo ecumenico e sulla ricostruzione <strong>della</strong><br />

storia delle relazioni fra diverse confessioni cristiane. Forse però il suo contributo più incisivo si è<br />

espresso nel favorire una maggior percezione <strong>della</strong> intrinseca storicità <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e dei profondi<br />

legami di questa con la storia del mondo.<br />

A Giovanni Paolo II, si può poi forse attribuire se non una vera e propria interpretazione <strong>della</strong><br />

storia contemporanea almeno una sua visione dei problemi principali di tale storia. Nel suo<br />

magistero gli eventi dell’ultimo secolo non appaiono accostati casualmente, ma alcuni assumono<br />

un ruolo più rilevante degli altri e contribuiscono ad illuminarne il significato. È il caso <strong>della</strong><br />

Seconda guerra mondiale, intesa come una sorta di avvenimento epocale, ed all’interno di questa<br />

di alcuni eventi particolarmente carichi di significato, come quelli legati ad Auschwitz ed<br />

Hiroshima. Questi luoghi, infatti, le memorie che rappresentano, il loro spessore simbolico non<br />

sono solo evocati per sostenere un appassionato magistero di pace ma anche assunti come<br />

tragica rivelazione del volto e <strong>della</strong> condizione dell’uomo contemporaneo. Per questo papa, alcuni<br />

avvenimenti contemporanei e la storia contemporanea nel suo insieme diventano cioè spunti per<br />

una visione sapienziale e per certi aspetti profetica, in cui l’uomo assume una fortissima<br />

centralità.<br />

Tutto ciò interroga gli studiosi e li spinge a riconsiderare la guerra ed il suo ruolo nella storia<br />

contemporanea. L’interpretazione <strong>della</strong> Seconda guerra mondiale come evento epocale è ad<br />

esempio illuminante riguardo a problemi la cui analisi ha ricevuto nuovi impulsi dalla fine <strong>della</strong><br />

guerra fredda, che per molti decenni ha indirettamente limitato una libera discussione<br />

storiografica su molti eventi cruciali del XX secolo. Superando abituali confini metodologici<br />

spesso troppo angusti, il contemporaneista viene sollecitato dal magistero di questo pontefice ad<br />

affrontare tutte le dimensioni <strong>della</strong> «guerra totale», esperienza tragicamente esclusiva dell’età<br />

contemporanea. E nel cuore di questa esperienza si colloca anche una problematica di grande<br />

rilievo morale come quella del rapporto tra sterminio e modernità, presente, sia pure in modo<br />

molto diverso, sia nell’evento di Auschwitz che in quello di Hiroshima. Gli interrogativi posti da<br />

questo rapporto gettano una luce inquietante su tutta la vicenda contemporanea ed in particolare<br />

sulla natura profonda dell’azione umana nel suo complesso, che molti considerano caratteristica<br />

specifica dell’uomo moderno.<br />

Più in generale, tra le principali sollecitazioni recenti che vengono dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong> allo studio <strong>della</strong> storia contemporanea c’è soprattutto «l’opzione preferenziale per i<br />

poveri». Nella Centesimus annus Giovanni Paolo II ha scritto:<br />

L’amore <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> per i poveri, che è determinate ed appartiene alla sua costante tradizione, la spinge<br />

a rivolgersi al mondo nel quale, nonostante il progresso tecnico-economico, la povertà minaccia di<br />

assumere forme gigantesche. Nei paesi occidentali, c’è una povertà multiforme dei gruppi emarginati, degli<br />

anziani e malati, delle vittime del consumismo e, più ancora, dei tanti profughi ed emigrati; nei paesi in via<br />

di sviluppo si profilano all’orizzonte crisi drammatiche, se non si prenderanno in tempo misure<br />

internazionalmente coordinate.<br />

Con questa sintesi, Giovanni Paolo II si collega alle origini più antiche <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> e<br />

spinge lo sguardo verso gli sviluppi più recenti <strong>della</strong> società contemporanea. Sottratta a molte<br />

interpretazioni sociologiche strumentali, la multiforme realtà dei poveri si presenta infatti come un<br />

vasto campo di ricerca ed un problema capace di illuminare indirettamente squilibri e<br />

contraddizioni del mondo attuale. In questo modo, Giovanni Paolo II coglie e rilancia le nuove<br />

possibilità aperte dalla fine del periodo delle ideologie e suggerisce ampie prospettive di ricerca<br />

alla storia contemporanea.


MICHELE GRILLO<br />

LA MICROECONOMIA<br />

1. Oggetto del mio intervento è una breve riflessione intorno alla domanda b): «Quali impieghi<br />

delle risultanze scientifiche <strong>della</strong> disciplina ha fatto la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>; ovvero quale<br />

contributo di conoscenza la disciplina ha dato al corpo <strong>dottrina</strong>le complessivamente<br />

considerato?» Quanto alla domanda a), sull’incidenza o la fecondità che la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> ha<br />

avuto nella storia <strong>della</strong> nostra società in base alle risultanze scientifiche <strong>della</strong> disciplina tenderei a<br />

rispondere che esse sono state genericamente deboli, soprattutto se, per le ragioni che cercherò<br />

di chiarire più avanti, si tiene esplicitamente conto del metodo con cui l’economia moderna<br />

affronta le questioni teoriche più astratte ed essenziali. Ancora più difficile è, date le stesse<br />

premesse, offrire una risposta alla domanda c) che è in sé orientata in chiave direttamente<br />

positiva. In verità, anche con riferimento alla domanda b) la riflessione che esporrò di seguito non<br />

può, né intende, configurarsi come una risposta, neppure in forma indiretta. Ma le questioni sulle<br />

quali la domanda ci interroga non possono essere eluse da chiunque voglia confrontarsi con il<br />

proprio ruolo di ricercatore <strong>sociale</strong> nel dibattito contemporaneo; così, benché incapace di una<br />

risposta nella forma probabilmente attesa, non mi sottrarrò alla richiesta e cercherò di esplicitare<br />

un percorso, personale e inconcluso, di ricerca.<br />

2. La disciplina nella quale ho qualche competenza è la teoria microeconomica, ossia, in<br />

termini stilizzati, lo studio delle relazioni <strong>sociali</strong> che assumono la forma di relazioni di scambio tra<br />

soggetti economici descritti come individui razionali. La microeconomia contemporanea sta<br />

attraversando da circa venti anni un travaglio metodologico che si accompagna all’ambizione,<br />

neppure tanto segreta, di costituirsi come la disciplina teorica fondativa di ogni scienza <strong>sociale</strong>: il<br />

microeconomista chiede oggi cittadinanza al giurista per una teoria economica del diritto; al<br />

politologo per una teoria economica delle forme di governo; al sociologo per la teoria economica<br />

dell’organizzazione e l’analisi economica delle convenzioni <strong>sociali</strong>. E così via. Questo<br />

orientamento imperialistico può essere ricondotto a due momenti essenziali dello sviluppo <strong>della</strong><br />

disciplina:<br />

a) l’estensione di una teoria del comportamento razionale del soggetto <strong>sociale</strong>, dallo studio<br />

dell’individuo in isolamento allo studio di un individuo esplicitamente trattato come attore <strong>sociale</strong>.<br />

La teoria del comportamento razionale in un contesto di interazione <strong>sociale</strong> - convenzionalmente<br />

nota come teoria dei giochi - dopo un lento avvio a partire dalla pubblicazione nel 1944 del libro di<br />

J. von Neumann e O. Morgenstern si è sviluppata con grande accelerazione negli ultimi venti<br />

anni, permeando di sé qualsiasi indagine in economia; essa ha nel contempo offerto gli strumenti<br />

per una riconduzione, appunto imperialistica, di ogni problema relativo ai meccanismi di<br />

convivenza <strong>sociale</strong> a un problema di scelta razionale, e quindi a un problema economico;<br />

b) la riconduzione di ogni relazione <strong>sociale</strong> a una relazione contrattuale, cioè una relazione che<br />

presuppone da un lato il perseguimento di un mutuo vantaggio a fondamento di ogni rapporto<br />

<strong>sociale</strong>; e dall’altro riconosce che l’ottenimento di tale vantaggio reciproco non è problema<br />

banale, ma richiede il disegno di appropriati meccanismi organizzativi.<br />

3. Non è tuttavia l’elemento imperialistico in sé quello sul quale vorrei concentrare la mia<br />

attenzione, bensì l’approccio metodologico che lo guida. Di questo approccio metodologico<br />

vorrei ricostruire brevemente la genesi, affidandomi evocativamente a una pagina de I fratelli


Karamazov (libro sesto, II, d) nella quale Dostoevskij offre un affresco potente che compendia<br />

in poche parole un secolo - il suo secolo - di storia del pensiero economico. Il personaggio del<br />

brano citato afferma, a un certo punto, quanto segue: «Queste cose...» - e intende la capacità<br />

degli uomini di condivisione, di farsi fratelli; una capacità il cui sviluppo, a giudizio dello scrittore,<br />

non può essere affidato al progresso tecnologico e produttivo, all’aiuto <strong>della</strong> scienza e del profitto<br />

- «si avvereranno, ma prima deve concludersi il periodo dell’isolamento umano».<br />

L’isolamento di cui Dostoevskij parla è una potente metafora del mercato, ossia di un assetto<br />

ideale <strong>della</strong> società che l’autore ricostruisce presentandolo congiuntamente come premessa e<br />

come progetto antropologico. Tale ricostruzione rende conto con grande sintesi di un percorso<br />

culturale che, iniziato nel XIX secolo, ha permeato di sé la ricerca economica anche nella prima<br />

metà del secolo XX. Nell’elaborazione teorica portata a compimento negli anni ’50 di questo<br />

secolo l’homo oeconomicus è, nel mercato, un individuo totalmente estraniato da ogni relazione<br />

<strong>sociale</strong>: nulla che possa concernere i suoi affetti, nulla che abbia a che vedere con la soluzione<br />

dei suoi problemi pratici, può essere posto in relazione con una esperienza condivisa con gli altri<br />

uomini. Il mercato è infatti, per definizione, l’ambito nel quale le azioni che il soggetto economico<br />

è posto in grado di compiere sono irrilevanti sotto ogni aspetto per ciascun altro soggetto con cui<br />

entra in relazione. Queste azioni non hanno alcun effetto su ciò che è bene o male per gli altri<br />

uomini; nel mercato solo a se stesso egli può - in termini di fatto - fare bene o fare male.<br />

Nel linguaggio <strong>della</strong> teoria economica contemporanea, il mercato è un contesto nel quale ogni<br />

effetto esterno delle azioni che un soggetto compie è interamente rimosso, in quanto<br />

completamente interiorizzato attraverso il meccanismo dei prezzi. Il mercato realizza allora le<br />

condizioni nelle quali ciascun soggetto economico rimane unico parametro di giudizio delle proprie<br />

azioni: poiché infatti con il suo agire può arrecare bene o male soltanto a se stesso, il soggetto nel<br />

mercato può lasciarsi guidare nelle proprie azioni solamente dalla valutazione del bene e del male<br />

che tali azioni arrecano a lui. Ciascun soggetto, si postula allora, è in grado di discernere ciò che<br />

è bene e ciò che è male - in termini delle conseguenze <strong>sociali</strong> delle proprie azioni - distinguendo<br />

ciò che è bene o male per sé. Posto così in grado di valutare le conseguenze del proprio agire, e<br />

scegliendo ciò che per lui è bene, il soggetto sceglie ciò che è bene; e in questo senso infine, in<br />

questa capacità di valutare e di scegliere, egli è razionale, almeno nel significato che la teoria<br />

economica attribuisce a questo termine.<br />

La ricostruzione analitica del mercato si fonde nella storia delle idee con un elemento<br />

normativo e con una istanza progettuale. In primo luogo, nel mercato, ciascun soggetto <strong>sociale</strong><br />

può avere individualmente pieno dominio dei propri valori: non solo non c’è per lui necessità di<br />

valori condivisi, ma non c’è necessità neppure di interrogarsi sul senso di questi valori; o<br />

comunque tale interrogarsi non ha alcun rilievo dal punto di vista dell’analisi delle forme<br />

organizzative <strong>della</strong> società. In secondo luogo, il risultato analitico principale <strong>della</strong> teoria economica<br />

del mercato è che l’esito <strong>sociale</strong> - dell’agire di individui guidati ciascuno dall’obiettivo di<br />

realizzare un proprio sistema di valori sul quale ha pieno dominio - è collettivamente desiderabile,<br />

sia pure alla luce dello stesso criterio interno che guida la scelta di ciascun individuo: il cosiddetto<br />

Primo teorema dell’economia del benessere afferma infatti che, partendo dall’esito di mercato,<br />

non è possibile arrecare del bene ad alcun soggetto <strong>sociale</strong> senza nel contempo arrecare del<br />

male ad altri soggetti. Il mercato è in altri termini concepito come quell’assetto astratto nel quale<br />

nessuna restrizione nel profilo dei valori individuali, nessuna metanoia, si rende necessaria<br />

affinché la convivenza <strong>sociale</strong> sia non solo possibile, ma si realizzi anche in forme desiderabili,<br />

ottimali .<br />

4. Il dibattito teorico in economia tra la seconda parte del secolo scorso e la prima parte di<br />

questo secolo ha perseguito consapevolmente il seguente obiettivo: fino a che punto è possibile<br />

spingere il progetto del mercato come progetto integrale. Quando negli anni ’50 la risposta a


questa domanda cominciò a materializzarsi, apparve evidente che molte istanze <strong>della</strong> divisione<br />

<strong>sociale</strong> del lavoro si realizzano in contesti nei quali il mercato non può operare nemmeno come<br />

contesto ideale o perché semplicemente i mercati non esistono, o perché non sono comunque in<br />

grado (la circostanza richiamata consuetamente è quella di informazione incompleta tra i<br />

soggetti) di internalizzare adeguatamente gli effetti esterni delle relazioni <strong>sociali</strong>.<br />

Per un verso, ma per un verso solamente, questa consapevolezza ha posto termine<br />

all’isolamento dostoevskiano: le relazioni <strong>sociali</strong> nelle quali ciascun soggetto è coinvolto devono<br />

essere esplicitamente prese in considerazione quando il soggetto si interroga sul suo agire,<br />

cercando la soluzione dei suoi problemi pratici. La teoria dei giochi, ossia la teoria del<br />

comportamento razionale in un contesto di interazione, ha fornito esattamente lo strumento per<br />

questa modifica di prospettiva. Per altro verso, tuttavia, un ingrediente essenziale del progetto<br />

culturale del secolo XIX è rimasto e si è anzi potenziato: nel determinare l’azione da compiere in<br />

un contesto irriducibile di interazione <strong>sociale</strong> il soggetto continua ad essere descritto come<br />

guidato da un proprio ordinamento di preferenze individuali (e quindi di valori) sugli esiti delle<br />

proprie scelte. È ben vero che tali esiti dipendono ora non più dalle proprie azioni soltanto - come<br />

era possibile per l’individuo isolato nel contesto di mercato - ma anche dalle azioni di ciascun<br />

altro soggetto <strong>sociale</strong>. E certamente, in tali circostanze, la cogenza normativa che era stato<br />

possibile derivare dalla teoria del mercato si presenta in termini almeno in parte più deboli: nel<br />

mercato infatti il bene e il male che conseguono all’azione di un soggetto coincidono con ciò che<br />

soltanto per quel soggetto è bene o male, cosicché del tutto naturale appariva in quelle<br />

circostanze che di tali esiti, che soltanto quel soggetto coinvolgevano, il suo individuale benessere<br />

diventasse l’unico criterio di giudizio. In un contesto di interazione invece il bene e il male che<br />

consegue all’azione di un soggetto in parte ricade sul soggetto che ha compiuto l’azione, in parte<br />

ricade sugli altri soggetti. Tuttavia la prospettiva ideale dell’indagine teorica dell’economia<br />

contemporanea è più elaborata, ma non è differente da quella <strong>della</strong> teoria del mercato: ci si<br />

chiede infatti se e a quali condizioni, anche in un contesto irriducibile di interazione, l’esito <strong>sociale</strong><br />

che consegue dalla circostanza che ciascun soggetto risolve razionalmente il proprio problema di<br />

scelta lasciandosi guidare da un proprio ordinamento di preferenze sulle conseguenze delle<br />

proprie azioni, possa essere valutato come collettivamente desiderabile o «ottimale».<br />

L’interpretazione delle relazioni <strong>sociali</strong> come relazioni di scambio può essere infatti facilmente - e<br />

forse in modo ancora più agevole - estesa dal contesto di mercato (che, può essere opportuno<br />

richiamare, è un contesto ideale di isolamento) a un contesto di esplicita interazione. E poiché in<br />

tale contesto sembra lecito presumere che i soggetti saranno razionalmente guidati a entrare in<br />

una relazione di scambio solo se questa è in grado di garantire loro un mutuo vantaggio, l’esito di<br />

tale interazione non potrà non essere collettivamente desiderabile.<br />

Così l’analisi economica estende il proprio dominio a ogni forma di meccanismo <strong>sociale</strong><br />

interpretandola come l’esito di una relazione, mutuamente vantaggiosa, di scambio; l’elemento<br />

cruciale in questa costruzione, dal punto di vista delle premesse antropologiche, è che tali<br />

meccanismi coordinano verso fini collettivamente desiderabili comportamenti di soggetti guidati -<br />

sia pure nella consapevolezza di un contesto di interazione - da sistemi di valori (ordinamenti di<br />

preferenze) individuali. In altri termini, l’individualismo metodologico resta la base su cui la teoria<br />

economica costruisce la propria analisi <strong>sociale</strong> anche dopo avere abbandonato il progetto di un<br />

mondo costituito da individui in isolamento; anzi, appunto attraverso questa estensione del suo<br />

dominio finisce con l’assumere una valenza infinitamente più cogente.<br />

5. In che rapporto questa evoluzione si pone con la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>? Poiché il mio<br />

discorso è essenzialmente relativo al metodo, mi asterrò dal riferirmi ai contenuti limitandomi a<br />

identificare nella <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> la ricerca <strong>della</strong> definizione di un insieme di valori<br />

condivisi che possano servire da guida nel disegno degli assetti organizzativi delle relazioni <strong>sociali</strong>.


Ma, per le ragioni messe in evidenza nell’esposizione precedente, la teoria economica<br />

contemporanea rivolge il suo interesse alla comprensione di forme organizzative indipendenti<br />

dall’accettazione di valori etici condivisi, perseguendo così un progetto che è nel contempo<br />

analiticamente più debole e normativamente più ambizioso. È infatti analiticamente meno<br />

esigente nella spiegazione degli assetti <strong>sociali</strong> partire da una posizione di relativismo morale<br />

(riducendo al minimo la restrizione sui valori come precondizione per il disegno delle forme di<br />

organizzazione <strong>sociale</strong>); ed è normativamente più ambizioso chiedersi se, e a quali condizioni,<br />

esiti collettivamente desiderabili possano conseguire da comportamenti <strong>sociali</strong> che non<br />

presuppongono necessariamente da parte di ciascun soggetto una preventiva metanoia.<br />

L’idea illuministica secondo la quale - parafrasando Goethe - le teorie <strong>sociali</strong> possono fare<br />

ricorso a forze che «perseguono continuamente il male» e «operano continuamente il bene» è<br />

stata almeno parzialmente recepita dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> quando ha accettato di<br />

riferirsi al mercato come il luogo nel quale, mediante lo scambio, soggetti autointeressati pongono<br />

le basi per un assetto <strong>sociale</strong> dove tutte le istanze benefiche di divisione <strong>sociale</strong> del lavoro<br />

possano essere colte. D’altro lato il mercato perfettamente concorrenziale rappresenta nelle sue<br />

premesse e nei suoi esiti una idealizzazione estrema; cosicché l’accettazione dell’idea del<br />

mercato ha potuto essere contemperata nella storia <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> dal riferimento a valori<br />

di giustizia, di cooperazione e di sussidiarietà invocati ogniqualvolta il mercato (perfettamente<br />

concorrenziale) fallisce o si rivela particolarmente esigente in termini distributivi.<br />

Ma la teoria tradizionale dei mercati perfettamente concorrenziali è oggi un oggetto ormai<br />

pressoché scomparso dall’agenda dell’economista. Oggi la teoria economica entra nell’analisi<br />

<strong>della</strong> politica, del diritto e <strong>della</strong> sociologia (al fine di disegnare meccanismi di coordinamento<br />

<strong>sociali</strong> diversi dal mercato) con un progetto che si presenta come interamente e irriducibilmente<br />

costruito su un approccio di individualismo metodologico e su un principio di relativismo etico<br />

come pre condizione analitica. La sfida che tale costruzione teorica pone nei confronti <strong>della</strong><br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> allora va bene al di là dell’accettazione, temperata, di un<br />

meccanismo inevitabilmente imperfetto di mercato; un meccanismo imperfetto da temperare<br />

appunto con una attenzione alla persona umana, che deve trovare necessario fondamento in una<br />

preliminare metanoia individuale. La sfida è oggi se e fino a quale punto tale attenzione alla<br />

persona umana possa essere concepita non come una premessa, o un vincolo esogeno, ma come<br />

l’esito di un meccanismo la cui molla possa essere interamente affidata a un sistema non ristretto<br />

di valori individuali. Tale progetto, così pervasivo e ambizioso, è appunto allo stato attuale<br />

solamente un progetto: sarebbe illusorio estendere questa valutazione a risultanze (cui si fa<br />

riferimento nella domanda) che non ci sono; e tuttavia tale progetto è estremamente coinvolgente<br />

nella definizione dell’approccio analitico ai problemi, e condiziona l’intero apparato teorico <strong>della</strong><br />

economia contemporanea.<br />

A causa di queste premesse metodologiche il confronto e la valutazione del travaglio oggi<br />

attraversato dalla teoria economica - nelle forme che ho cercato di sintetizzare - e l’evoluzione<br />

<strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> è tema certamente di grande fascino. Ma la mia opinione è che<br />

esso richiede forze immani e profonda meditazione, già nella definizione delle forme di avvio<br />

dell’indagine; certamente non esiste alcun riferimento ordinato di cui rendere facilmente conto.<br />

Vi è infine un’ultima considerazione, anch’essa di natura metodologica, che vorrei richiamare.<br />

Ed è che, nonostante la - o forse appunto a causa <strong>della</strong> - vastità e ambizione del progetto,<br />

l’orientamento scientifico oggi prevalente nella teoria economica incentiva nella pratica<br />

quotidiana una parcellizzazione talmente fine delle conoscenze e delle competenze da non<br />

consentire, se non in momenti ormai sempre più rari, la capacità di rappresentarsi un quadro nel<br />

quale collocare in modo organico e coerente le grandi questioni; le quali vengono<br />

sistematicamente lasciate sullo sfondo. Così l’analisi delle questioni inevase, delle risposte che<br />

non ci sono o che appaiono francamente insufficienti a una semplice introspezione, viene oggi,


nella pratica quotidiana <strong>della</strong> ricerca, tralasciata come indagine sterile, mentre la convenzione<br />

diffusa è che i problemi che si intende affrontare vadano innanzi tutto circoscritti in ambiti definiti<br />

e limitati, e attaccati in modo tale che, come con un laser, tutto il contorno possa rimanere intatto.<br />

La regola convenzionalmente accettata è in altri termini quella di «provare a vedere cosa vien<br />

fuori facendo», mentre l’ indagine astratta sulle grandi questioni generali è rifiutata come<br />

inconcludente.<br />

Credo che anche questo approccio introduca ulteriori e non piccole difficoltà nella strada <strong>della</strong><br />

comprensione adeguata di una possibile fertilizzazione incrociata tra l’analisi economica<br />

contemporanea e la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>.


1. Introduzione<br />

GIAMMARIA MARTINI<br />

DECISIONI INDIVIDUALI E STRATEGICHE<br />

Il presente contributo è articolato in tre parti. Nella prima vengono brevemente illustrati<br />

l’origine <strong>della</strong> teoria economica moderna ed i contributi prevalenti in termini di comportamento<br />

individuale, per evidenziare come la paternità <strong>della</strong> disciplina economica giochi un ruolo rilevante<br />

nello spiegare una certa differenza antropologica tra le teorie economiche e la tradizione cattolica<br />

e i contributi del magistero. La seconda parte del lavoro ha per oggetto un aspetto <strong>della</strong> teoria<br />

economica che recentemente ha avuto un notevole sviluppo, ed ha consentito di raggiungere<br />

risultati rilevanti in diverse discipline economiche: la teoria dei giochi [TG]. 61 In particolare questa<br />

sezione intende sottolineare come proprio lo studio dell’interazione strategica tra gli individui,<br />

così come viene formalizzata nella TG, costituisca uno dei settori dove maggiormente i contenuti<br />

<strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> (almeno sotto il profilo metodologico) potrebbero risultare particolarmente<br />

pertinenti. Infine nella terza parte del lavoro vengono enfatizzati, a scopo provocatorio, alcuni<br />

aspetti metodologici dell’attuale letteratura economica che sembrano essere paradossali: vale a<br />

dire analisi in cui il metodo proprio delle scienze economiche viene applicato a materie che<br />

andrebbero invece indagate utilizzando un metodo diverso. Vale a dire, se il metodo serio per ogni<br />

attività di ricerca viene imposto dall’oggetto di indagine, in alcuni casi esistono contributi<br />

economici che saltano questo requisito fondamentale, applicando ad un oggetto particolare di<br />

studio un metodo non pertinente. 62<br />

2. L’anima anglosassone delle scienze economiche e la teoria del comportamento<br />

individuale<br />

Ogni corso di economia parte dai contributi degli autori cosiddetti «classici»: Adam Smith,<br />

David Ricardo, John Stuart Mill e Karl Marx. Questi autori hanno tutti un comune denominatore:<br />

la cultura protestante inglese. In essa l’accento principale nella costituzione e nella formazione<br />

<strong>della</strong> personalità è riposta nella persona intesa come individuo e non come soggetto inserito<br />

(appartenente) ad un contesto comunitario 63 . Un individuo la cui prospettiva storica e morale è<br />

tutta giocata nella risposta diretta ed individuale alla chiamata ricevuta.<br />

Nella misura in cui la prospettiva individualistica appena accennata viene progressivamente ad<br />

interessare l’ambito proprio <strong>della</strong> nascente scienza economica, la conseguenza metodologica è<br />

coerente: si studia il comportamento partendo esclusivamente dall’ipotesi che l’individuo agisca<br />

61 La teoria dei giochi è stata inizialmente sviluppata nei contributi di Von Neumann e Morgerstern<br />

presso l’Università di Princeton (USA).<br />

62 È opportuno sottolineare che questo scritto deluderà senza ombra di dubbio il lettore per quanto<br />

riguarda le conoscenze ed i riferimenti alle cosiddette encicliche <strong>sociali</strong>. L’approfondimento dell'autore<br />

riguardo a questi contributi è decisamente lacunoso e non possiede i caratteri di scientificità richiesti, ed<br />

inoltre è limitato alle encicliche <strong>sociali</strong> più recenti.<br />

63 A questo proposito è sufficiente analizzare i capitoli introduttivi dei manuali moderni di<br />

microeconomia, che sono utilizzati nella maggior parte delle Università italiane. Non solo, è interessante<br />

notare come la maggioranza di questi testi, anche per quanto riguarda lo studio <strong>della</strong> macroeconomia, siano<br />

traduzioni italiane di testi inglesi o americani.


per massimizzare il proprio benessere personale. In quest’ottica i rapporti con gli altri individui<br />

sono totalmente esclusi. Questo è chiaramente, almeno in partenza, piuttosto lontano dalla<br />

concezione di solidarietà propria del magistero <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, ovvero, come recita la<br />

Sollicitudo rei <strong>sociali</strong>s: «la determinazione ferma e perseverante ad impegnarsi per il bene<br />

comune: ossia il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutto» (n.<br />

38).<br />

A questo proposito, anche per dovuta autocritica, occorre sottolineare che, nonostante sia ben<br />

conscio dei limiti dal punto di vista antropologico, del suddetto approccio individualista, l’autore di<br />

questo contributo lo utilizza ampiamente nell’insegnare agli studenti la microeconomia, ossia lo<br />

studio dei comportamenti dei soggetti economici secondo una prospettiva di analisi il più possibile<br />

disaggregata. Non solo, lo ritiene attualmente lo strumento di indagine più idoneo per spiegare<br />

alcuni comportamenti economici peculiari, come le decisioni di consumo dell’individuo, le<br />

decisioni di impiego dei fattori da parte dell’imprenditore e così via. In questo senso, l’approccio<br />

individualista ha dei limiti nella concezione dell’uomo ma è molto potente dal punto di vista<br />

analitico.<br />

I contributi degli economisti, che hanno come base l’interesse individuale, hanno poi bisogno di<br />

un ambito dove l’agire per il soddisfacimento dei proprio bisogni possa confrontarsi con<br />

l’effettiva possibilità di soddisfarli. In altre parole, in una società moderna, dove non è più<br />

possibile auto-soddisfare i bisogni, ma piuttosto acquistare da altri individui i beni per il<br />

soddisfacimento personale, occorre identificare un ambito in cui questo avvenga. Questo ambito<br />

è il mercato: il luogo in cui le decisioni singole degli individui si confrontano, fino a giungere ad un<br />

compromesso (lo scambio), in cui entrambe le parti ottengono un beneficio. È chiaro dunque che<br />

il mercato non rappresenta l’ambito di riferimento <strong>della</strong> teoria economica (come potrebbe essere<br />

se fosse utilizzata l’analisi per incrementare le disponibilità dei beni nel mercato, la distribuzione<br />

delle risorse tra gli individui, la maggiorazione degli scambi), ma piuttosto il metodo per risolvere i<br />

problemi individuali. In altre parole, l’analisi dell’equilibrio in un determinato mercato parte dal<br />

presupposto che le decisioni fondamentali degli individui (siano essi venditori o compratori) sono<br />

già state prese (sia come disponibilità a pagare per comprare un certo bene, che come costo di<br />

compensazione richiesto per privarsi <strong>della</strong> disponibilità del bene). Il mercato non è il luogo dove<br />

l’individuo discute, impara, cambia e precisa meglio le sue preferenze: è solo l’ambito dove<br />

verifica se le sue preferenze possono essere soddisfatte.<br />

A questo punto è necessaria una precisazione: quando si afferma che le discipline economiche<br />

hanno un’idea dell’uomo decisamente individualistica non si vuole aprioristicamente contestare gli<br />

aspetti positivi di questa concezione nella misura in cui vengono ad essere sollecitate la<br />

responsabilità e l’iniziativa personale nel tentativo di soluzione dei problemi. Piuttosto si vuole<br />

evidenziare come, accanto a questi aspetti positivi, esiste la possibilità di una antropologia diversa<br />

(ed in antitesi) da quella del magistero <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>. Con ciò non si vuole affermare una «via<br />

cattolica dello studio dell’economia»; questo sarebbe pura astrazione e condurrebbe con forti<br />

probabilità ad incorrere nel rischio dell’ideologia. L’economia è senza ombra di dubbio lo studio<br />

<strong>della</strong> realtà nell’aspetto <strong>della</strong> produzione dei beni, del loro scambio, del lavoro offerto per poterli<br />

acquistare, dell’organizzazione di imprese e fattori produttivi (scarsi) per produrli e così via.<br />

L’oggetto dell’analisi non può essere cambiato. Anche il metodo per l’analisi difficilmente può, al<br />

momento attuale delle conoscenze matematiche e statistiche, essere modificato. Le relazioni tra<br />

gli agenti economici vengono infatti investigate sulla base di relazioni matematiche non per<br />

meccanizzare il comportamento degli individui, che difficilmente può rispettare la rigorosità<br />

espressa in tali relazioni, ma per evidenziare l’esistenza di alcune leggi fondamentali che regolano<br />

il comportamento nel campo economico. In questo senso, è ormai da tutti accettata la legge <strong>della</strong><br />

domanda, per cui esiste una relazione inversa tra prezzo di un bene e quantità domandata dello<br />

stesso.


Quello che si vuole invece sottolineare è che, per inserire nell’analisi una concezione di<br />

individuo diversa da quella precedentemente evidenziata, non basta inglobare, come asserito da<br />

molti economisti moderni, nella funzione obiettivo (la ragione per cui un individuo si muove<br />

realizzando delle scelte) una variabile in più rispetto a quelle tradizionali (solitamente identificate<br />

nelle quantità consumate dei beni o nella massimizzazione del profitto), la variabile «bene<br />

comune» ad esempio, per cui il benessere individuale cresce se aumenta il benessere collettivo.<br />

Per approfondire questo concetto senza scendere troppo nei dettagli, spesso nelle discussioni<br />

seminariali di vari lavori scientifici in cui il tema etico o la concezione non utilitaristica<br />

dell’individuo vengono marginalmente discusse, si tenta di risolvere il problema inserendo nella<br />

funzione da massimizzare una variabile in più rispetto ad esempio, alle sole quantità consumate<br />

dei beni. Questa variabile potrebbe, ad esempio, essere le quantità consumate da altri individui,<br />

così che l’utilità dell’individuo cresce se crescono le quantità consumate dagli altri individui.<br />

Questa è chiaramente una soluzione giustapposta. È come affermare che la solidarietà sia una<br />

variabile da inserire tra altre variabili fondamentali. Si vuole invece sottolineare come l’economia<br />

deve certamente studiare il comportamento individuale, ma anche l’interazione di diversi individui<br />

possibilmente per il raggiungimento di uno scopo comune, o almeno per effettuare un giudizio<br />

normativo relativo alla distribuzione delle risorse e all’impiego delle stesse nel modo più efficiente<br />

possibile. In questo senso, negli ultimi anni uno degli strumenti più fecondi a disposizione degli<br />

economisti ha consentito di approfondire con successo almeno l’analisi dell’interazione tra gli<br />

individui, e di porne in evidenza i limiti quando il comportamento assume toni totalmente<br />

individualistici. Questo strumento, e i suoi principali risultati, molto interessanti nella logica che<br />

stiamo trattando, è la TG.<br />

3. Lo studio delle relazioni tra gli individui: il contributo <strong>della</strong> teoria dei giochi<br />

Al momento <strong>della</strong> sua nascita, nel 1944, la TG suscitò reazioni contrastanti tra gli economisti.<br />

L’opera di von Neumann e Morgenstern Theory of Games and Economic Behavior creò<br />

entusiasmo in economisti come Hurwicz (1945), Marschak (1946) e Stone (1948), e<br />

disapprovazione e scetticismo in studiosi come Kaysen (1946). Molti economisti furono invece<br />

prudenti nel valutare la nuova metodologia di analisi: in particolare Samuelson (1991) affermò<br />

che il libro di von Neumann e Morgenstern non fu visto immediatamente di buon occhio dalla<br />

professione per l’antagonismo dimostrato dai due autori nel tenere vari seminari di presentazione<br />

<strong>della</strong> nuova teoria. Nel Dipartimento di scienze economiche dell’Università di Princeton, dove i<br />

due autori lavorarono, l’ostilità fu ancora maggiore che altrove, in particolare da parte di Jacob<br />

Viner.<br />

L’opera di von Neumann e Morgenstern non diede subito, forse anche per le suddette ragioni,<br />

grandi frutti in termini di ricerche. Pochi autori andarono aldilà di una rassegna critica dell’opera,<br />

e non la utilizzarono per mo<strong>della</strong>re la dinamica economica. Gli unici due centri dove la [TG] trovò<br />

spazio in quegli anni furono l’Università di Michigan (dove in particolare si segnalò John<br />

Shapley), e la Rand Corporation (denominata inizialmente Project Rand) a Santa Monica, dove<br />

fu molto attivo John Williams. In questo scenario, John Nash, insignito nel 1994 del Premio Nobel<br />

per l’economia assieme a Reinhard Selten e John Harsanyi, arrivò a Princeton, e ottenne<br />

rapidamente, nel giro di due anni, il titolo di Ph.D. in Economics sotto la supervisione di Albert<br />

Tucker. Il contributo principale <strong>della</strong> sua tesi è il famoso teorema dell’esistenza di un equilibrio in<br />

un gioco con numero finito di giocatori e insieme finito di strategie, che diede origine al<br />

famosissimo equilibrio di Nash (1950). 64<br />

64 Il concetto di equilibrio di Nash è un metodo di soluzione di un gioco in cui due individui agiscono in<br />

modo indipendente allo scopo di massimizzare i propri guadagni individuali. In forma estremamente


Il contributo di Nash, che non rimase isolato e fu ricchissimo nell’arco di un brevissimo<br />

numero di anni, diede l’impulso decisivo allo sviluppo <strong>della</strong> TG che a partire dagli anni Sessanta<br />

fu applicata nelle ricerche teoriche a livello microeconomico. Ma soprattutto negli anni Settanta<br />

la TG divenne lo strumento di analisi principale delle relazioni economiche, e consentì di ampliare<br />

notevolmente il grado di conoscenza dei fenomeni economici e dei nessi causali sottostanti. Negli<br />

anni Ottanta la TG ha trovato applicazione nell’economia industriale, nell’economia del lavoro,<br />

nella macroeconomia, nell’economia internazionale. Praticamente, ogni studioso di economia<br />

viene ormai formato ed indirizzato all’attività di ricerca tenendo presente i contributi forniti dalla<br />

TG e i suoi principali strumenti applicativi.<br />

Ora perché dedicare uno spazio rilevante di un contributo dell’impatto <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

<strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> sulla teoria economica alla TG? Vorrei rispondere osservando il risultato principale<br />

del gioco più famoso <strong>della</strong> TG: il «dilemma del prigioniero». Brevemente, la situazione descritta<br />

nel gioco è la seguente: due ladri hanno commesso un furto. Inseguiti dalla polizia, riescono a<br />

nascondere la refurtiva prima di essere catturati. La polizia può trattenerli ed interrogarli perché<br />

hanno commesso una pena minore (ad esempio porto d’armi abusivo). Trasferiti in questura,<br />

sono immediatamente separati e non possono più comunicare tra loro. Da quel momento,<br />

agiscono quindi come individui indipendenti. Gli interrogatori sono separati ed essi sono messi di<br />

fronte al seguente dilemma: se entrambi confessano di aver realizzato il furto ottengono uno<br />

sconto sulla pena. Se entrambi non confessano sono condannati per una pena minore. Se uno<br />

solo confessa e l’altro non confessa, il primo viene lasciato libero mentre il secondo viene<br />

condannato con il massimo <strong>della</strong> pena. Non potendo dilungarmi sulla descrizione <strong>della</strong> soluzione<br />

del gioco, passo direttamente alle conclusioni principali. I due prigionieri, che si muovono in modo<br />

indipendente e massimizzano il benessere individuale, raggiungono un esito dell’interazione<br />

strategica che non rappresenta la situazione Pareto ottimale tra tutte quelle possibili. Cosa<br />

significa che non è Pareto ottimale? Che l’esito del gioco non è il migliore possibile per entrambi,<br />

vale a dire se essi potessero cooperare, ossia agire tenendo presente il benessere di entrambi e<br />

non solo quello individuale, essi sarebbero in grado di raggiungere una soluzione migliore, più<br />

efficiente per entrambi. Questo è proprio il punto fondamentale che vorrei sottolineare. La TG ha<br />

consentito di evidenziare i limiti dell’interazione strategica tra agenti economici che perseguono<br />

interessi esclusivamente individuali nel raggiungere le migliori soluzioni possibili dal punto di vista<br />

dell’insieme degli individui coinvolti nell’interazione. In particolare, essa ha evidenziato come<br />

spesso i giochi cooperativi (dove si tiene presente l’interesse del gruppo e non quello individuale),<br />

danno luogo ad esiti più efficienti di quelli non cooperativi. 65<br />

Ecco dunque un interessante ed importante anello di congiunzione tra la teoria economica e la<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, che si è sviluppato in modo autonomo. Non solo l’analisi<br />

dell’interrelazione strategica tra gli individui ha consentito di conoscere in modo molto più<br />

approfondito i nessi esistenti nelle relazioni economiche (in modo certamente più adeguato,<br />

specie in alcuni settori, del metodo basato sulla massimizzazione individuale), ma ha anche<br />

sommaria, l'equilibrio di Nash prevede che ogni giocatore, nel calcolare il possibile equilibrio di un gioco,<br />

tenga presente soltanto quelle strategie del rivale (o dei rivali se sono più d’uno), che costituiscono le<br />

reazioni ottimali (ossia quelle che gli massimizzano il guadagno) di quest’ultimo ad ogni possibile strategie<br />

del giocatore. In questo modo si riduce notevolmente l’insieme delle possibile strategie da tenere in<br />

considerazione. Inoltre, il giocatore sceglie la sua strategia anticipando la risposta del rivale. Quando la<br />

strategia di ogni giocatore rimane la stessa anche dopo la risposta del rivale a quella strategia, allora il<br />

gioco ha una soluzione detta «equilibrio non-cooperativo di Nash».<br />

65 Va sottolineato che, in alcune circostanze, i giochi non cooperativi sono una soluzione più efficiente<br />

dal punto di vista del benessere collettivo: se consideriamo due imprese, se esse possono coordinare le<br />

loro azioni ed agire come fossero una sola impresa, costituirebbero un monopolio e questo ridurrebbe il<br />

benessere <strong>della</strong> collettività.


evidenziato che i risultati delle relazioni tra gli individui possono essere più efficienti quando essi<br />

si muovono tenendo presente l’interesse collettivo e non soltanto quello individuale.<br />

4. Gli errori metodologici dei contributi economici<br />

In quest’ultima sezione del contributo, vorrei evidenziare alcuni aspetti dei lavori svolti da<br />

alcuni economisti che sono inadeguati dal punto di vista del metodo applicato per studiare<br />

l’oggetto dell’attività di ricerca. Vi sono infatti contributi rilevanti che hanno studiato relazioni<br />

fondamentali dell’esperienza umana, quali la famiglia e le nascite, applicando il metodo<br />

economico <strong>della</strong> massimizzazione individuale. Un caso emblematico di riferimento è<br />

rappresentato dalle ricerche sulla famiglia condotte dall’economista americano Gary Becker.<br />

Nel corso degli anni Settanta, Becker avvia una serie di studi sulla famiglia, che lo portano a<br />

pubblicare l’opera A Treatise on the Family [1981], che lo renderà famoso presso la<br />

professione. Il tentativo di Becker è quello di analizzare le principali decisioni familiari, quindi<br />

innanzitutto quella di avviare una famiglia (matrimonio), e quella di avere dei figli. Tutta l’analisi<br />

viene formulata sul postulato per cui, ogni persona, anche relativamente alla scelta <strong>della</strong> persona<br />

con cui avviare una famiglia ed alla decisione di avere dei figli, mira esclusivamente a<br />

massimizzare il proprio benessere individuale. La conclusione di Becker è che una nuova<br />

famiglia viena formata quando l’unione tra due persone porta alla massimizzazione <strong>della</strong> loro<br />

rispettiva utilità, e che quando l’utilità viene di fatto diminuita (in ragione del fatto di continuare a<br />

vivere con la stessa persona quando invece emergono contrasti personali, ad esempio), è<br />

totalmente razionale separare e distruggere la famiglia; e conseguentemente, quando si<br />

ripresenta l’opportunità, (e ancora avendo presente soltanto la massimizzazione), costituire una<br />

nuova famiglia. Lo stesso dicasi per la procreazione: un figlio viene perseguito come oggetto di<br />

una scelta razionale funzionale all’aumento dell’utilità dei singoli membri <strong>della</strong> (temporanea)<br />

famiglia. Pertanto, tale contributo sembra costituire un caso emblematico di come anche la<br />

scienza economica, al pari delle altre scienze <strong>sociali</strong>, non sia immune dal rischio di cadere in quel<br />

«positivismo che sopravvaluta i dati empirici a scapito <strong>della</strong> comprensione globale dell’uomo»<br />

(Orientamenti per lo studio e l’insegnamento <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> nella<br />

formazione sacerdotale, n. 68).<br />

Ed infatti è di immediata evidenza come decisioni relative alla vocazione <strong>della</strong> persona non<br />

possono essere studiate in modo meccanico e considerate semplicemente come la soluzione di un<br />

problema matematico: la relazione in questo caso è certamente più complessa, e tocca<br />

direttamente la ragione e lo scopo <strong>della</strong> vita dell’uomo. L’approccio scientifico, se vuole essere<br />

serio ed adeguato alla realtà, deve tener conto di una visione complessiva dell’uomo, non<br />

confinabile alla sola espressione utilitaristica. L’errore compiuto, certamente in buona fede, da<br />

questo tipo di studi consiste nella presunzione di poter utilizzare indiscriminatamente il metodo di<br />

analisi delle scienze matematiche-economiche estendendone indebitamente la portata<br />

ermeneutica oltre i limiti consentiti. Infatti non tutto ciò che ha un effetto economico può ridursi<br />

ad essere oggetto <strong>della</strong> scienza economica. Non si può affrontare con il metodo <strong>della</strong><br />

massimizzazione vincolata problemi che hanno certamente effetti economici, ma che però<br />

devono essere investigati sulla base di metodi più adeguati. Eppure questo sembra essere un<br />

errore frequente tra gli studiosi contemporanei di economia, che forti delle potenzialità di analisi<br />

del proprio specifico metodo di indagine, sono soggetti alla tentazione di spiegare con esso tutta la<br />

vita dell’uomo. Oltretutto questo va a discapito <strong>della</strong> scienza economica come tale, che risulta<br />

incapace, di fatto, di cogliere lo stesso dato empirico secondo la totalità effettiva dei fattori che lo<br />

compongono. Su questo piano si colloca il contributo che la disciplina economica può ricavare<br />

dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>: innanzitutto il richiamo all’utilizzo nell’attività di ricerca di<br />

metodi di analisi proporzionati agli oggetti investigati. E in questa direzione sembra essere


pertinente e di estremo interesse, proprio per la efficacia ermeneutica di una scienza (quella<br />

economica) che voglia mantenersi tale, il richiamo espresso nei già citati Orientamenti ad un<br />

attento discernimento per evitare il pericolo di piegare le scienze <strong>sociali</strong> («strumento importante,<br />

anche se non esclusivo, per la comprensione <strong>della</strong> realtà») «alla pressione di determinate<br />

ideologie contrarie alla retta ragione, alla fede cristiana, e in definitiva ai dati stessi<br />

dell’esperienza storica e <strong>della</strong> ricerca scientifica» (n. 68).<br />

5. Conclusione<br />

Il tentativo effettuato in questo contributo è stato quello di evidenziare alcuni aspetti<br />

fondamentali <strong>della</strong> relazione tra gli studi economici ed i contenuti <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong>. A questo proposito il lavoro ha concentrato l’attenzione del lettore su tre punti<br />

fondamentali: la lontananza <strong>della</strong> visione dominante dell’uomo adottata negli studi economici da<br />

quella invece propria <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>. In questo senso ciò che sembra essere importante<br />

sottolineare non è tanto la lontananza tra le due visioni dell’uomo, quanto l’opportunità di<br />

stimolare attività di ricerca che portino al centro dell’analisi delle relazioni economiche gli individui<br />

come centri di rapporti, come gruppi di persone, con l’obiettivo di promuovere il benessere<br />

all’interno <strong>della</strong> popolazione e non solo nella singola cerchia personale. Da questo punto di vista,<br />

come evidenziato nella parte del lavoro dedicato ai contributi dalla TG, gli studi più recenti hanno<br />

messo in luce che proprio una maggiore vocazione degli individui alla cooperazione interpersonale<br />

potrebbe portare ad un maggiore benessere anche dal punto di vista individuale.<br />

Riferimenti bibliografici<br />

Becker G.S., A Treatise on the Family, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1981.<br />

Hurwicz L., The Theory of Economic behavior, «American Economic Review», 35 (1945),<br />

909-925.<br />

Kaysen C., A Revolution in Economic Theory, «Review of Economic Studies», 14 (1946),<br />

1-15.<br />

Leonard R.J., Reading Cournot, Reading Nash: The Creation and Stabilisation of the<br />

Nash Equilibrium, «The Economic Journal», 104 (1994), 492-509.<br />

Marschak J., Von Neumann and Morgenstern’s New Approach to Static Economics,<br />

«Journal of Political Economy», 54 (1946), 97-115.<br />

Nash J.F.Jr., Equilibrium Points in N-person Games, «Procedings of the National Academy<br />

of Science», 36 (1950), 48-49.<br />

Orientamenti per lo studio e l’insegnamento <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> chiesa nella<br />

formazione sacerdotale, Edizioni Paoline, 1989.<br />

Samuelson P., Personal Communications with R. Leonard, 1991.<br />

Stone R., The Theory of Games, «The Economic Journal», 58 (1948), 185-201.


DANIELA PARISI<br />

RIFLESSIONI DELLO STORICO DEL PENSIERO ECONOMICO<br />

Alcune considerazioni introduttive<br />

La riflessione sull’attività degli uomini, l’osservazione <strong>della</strong> realtà che muta , l’analisi del<br />

comportamento degli operatori nella realtà, è svolta nei documenti del magistero <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong> non con specifico interesse conoscitivo ma per indicare quali conseguenze morali tali fatti<br />

e comportamenti abbiano per l’uomo, alla luce di un valore che deriva da una fonte esterna alla<br />

realtà oggettiva e soggettiva. I documenti del magistero hanno come obiettivo il richiamo con<br />

forza ad alcuni principi direttivi giudicati imprescindibili alla luce <strong>della</strong> rivelazione, per orientare il<br />

comportamento delle persone, per rendere conforme la condotta umana ai dettami <strong>della</strong><br />

rivelazione, custodita e tramandata dalla Sacra scrittura e dalla Sacra tradizione 66 .<br />

Il Magistero, facendo «riemergere il fondamento religioso dell’etica <strong>sociale</strong>», dà indicazioni di<br />

esigenze di carattere morale e umano in base a cui sviluppare i contenuti delle attività terrene: ci<br />

sono principi di carattere morale che vanno rispettati nelle cose temporali, che vanno incarnati<br />

nella storia; non si nasconde la difficoltà insita nell’individuazione dei gradi e delle forme in cui i<br />

principi e le direttive devono tradursi nella realtà e proprio per questo si riconosce che il problema<br />

dell’adeguamento <strong>della</strong> realtà alle esigenze superiori non prevede mai una soluzione definitiva.<br />

Come è stato recentemente scritto,<br />

l’oggetto formale dell’insegnamento <strong>sociale</strong> [<strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>] non è il problema umano individuale e<br />

<strong>sociale</strong>, nazionale o internazionale, in quanto tale, e le sue eventuali soluzioni tecniche, ma la luce che su<br />

questo problema proiettano la tradizione <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e la testimonianza evangelica che la ispira [...] la<br />

missione ed il dovere <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> non sono analizzare la realtà <strong>sociale</strong>, economica e politica, per poi<br />

proporre soluzioni sullo stesso piano di conoscenza e di analisi..., quanto piuttosto mostrare quali sono,<br />

nelle circostanze concrete, le esigenze che derivano dalla Parola di Dio, trasmessa dalla <strong>Chiesa</strong>, rispetto alla<br />

persona umana, al suo destino eterno,... chiamata a vivere in società con gli altri uomini e donne, con i<br />

diritti e i doveri di tutti 67 .<br />

Questo implica che nei fatti alla <strong>Chiesa</strong> non si chiede di avanzare soluzioni per i problemi che<br />

pone il fatto di vivere in società ma più propriamente implica che la <strong>Chiesa</strong> ponga in essere<br />

strumenti di evangelizzazione, proponendo un insegnamento <strong>sociale</strong> «unico, quanto ai principi, con<br />

piena avvertenza dei limiti temporali e locali delle sue applicazioni» 68 .<br />

66 «Proprio con il Vangelo va continuamente confrontata l’effettiva <strong>dottrina</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>... La funzione di<br />

una suprema autorità <strong>dottrina</strong>le in un determinato presente <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> può consistere unicamente nel<br />

richiamare la cristianità, sempre distratta dalle mutevoli mode delle diverse epoche, a questo Vangelo<br />

apostolico, che rappresenta il fondamento immutabile <strong>della</strong> sua fede... Tuttavia, in ogni caso, solo<br />

l’accoglienza di una dichiarazione <strong>dottrina</strong>le nella coscienza religiosa dell’intera <strong>Chiesa</strong> permette di<br />

riconoscere se tale asserzione ha realmente espresso la fede <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> nella sua totalità». Queste<br />

affermazioni sono state argomentate e discusse recentemente in W. Pannenberg, Riflessioni evangeliche<br />

sul ministero petrino del vescovo di Roma, in occasione dell’incontro promosso dal Dipartimento di<br />

scienze religiose dell’Università cattolica, nei giorni 15 e 22 gennaio 1997.<br />

67 J. Mejia, Temi di <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996, p.<br />

38. Ancora, l’autore afferma che da sempre la <strong>Chiesa</strong> cattolica è «depositaria di un insegnamento il cui<br />

contenuto può essere qualificato come <strong>sociale</strong>» (p. 28), che è mostrato, insegnato, esposto dai soggetti<br />

responsabili partendo «da ciò che essa insegna di se stessa, e dall’uomo...» (p. 54).<br />

68 Ibid., p.35.


In questo senso, la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, appartenendo al campo <strong>della</strong> teologia, non è<br />

direttamente oggetto <strong>della</strong> ricostruzione storica del pensiero economico. Però non si può<br />

escludere che i documenti che costituiscono il cammino compiuto dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong> 69 , il lavoro di preparazione da cui questi sono scaturiti e i dibattiti cui hanno dato luogo<br />

rientrino nel vasto campo <strong>della</strong> storia <strong>della</strong> riflessione sui temi economici.<br />

La produzione manualistica e le ricerche monografiche di storia del pensiero economico<br />

sarebbero più complete se rendessero conto, insomma, sia degli stimoli che dal dibattito<br />

scientifico la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> ha colto quando ha saputo capire i termini del dibattito<br />

in corso sul sistema economico, sia degli stimoli che alcuni economisti del passato hanno recepito<br />

nelle proprie ricerche dalla tradizione di cui la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> fa parte.<br />

Comprendere la considerazione di queste tematiche storiche nel proprio lavoro di ricostruzione<br />

del pensiero economico ha un significato profondo se si definisce la storia del pensiero<br />

economico non solo come storia degli strumenti di analisi ma anche come storia degli obiettivi;<br />

fare storia è dirigere l’attenzione sul lavoro compiuto dagli economisti del passato, anche sul loro<br />

travaglio dell’essere economisti, cioè scienziati <strong>sociali</strong>, in precisi momenti storici.<br />

Sull’impiego delle risultanze scientifiche dell’economia da parte <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

<strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>.<br />

La <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> - si è verificato attraverso l’indagine storica - ha dimostrato<br />

nel tempo maggiore o minore capacità di cogliere quali fossero gli interrogativi posti dalla realtà e<br />

ha dimostrato interesse o rifiuto nei confronti del mondo <strong>della</strong> scienza. Iniziando da fine<br />

Ottocento, quando cioè vennero abbandonate la diffidenza nei confronti <strong>della</strong> scienza e il progetto<br />

di costruire una scienza cristiana in armonia con una morale <strong>sociale</strong> cristiana, si iniziò a<br />

riconoscere il valore in sè del lavoro degli scienziati per la comprensione <strong>della</strong> realtà.<br />

Così oggi Giovanni Paolo II conferma che «il bisogno di dialogo e cooperazione tra scienza e<br />

fede è divenuto sempre più urgente e promettente» anche perché «la ricerca compiuta in<br />

maniera autenticamente scientifica e in accordo con le norme morali non è mai realmente in<br />

contrasto con la fede» 70 .<br />

La storiografia si è impegnata su alcuni aspetti di questa problematica: le ricerche condotte<br />

prima da Francesco Vito e poi da Francesca Duchini comprendono analisi approfondite tanto del<br />

rapporto tra insegnamento <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e scienza economica dalla fine dell’Ottocento alla<br />

metà del Novecento quanto delle valutazioni dei sistemi economici concreti espresse da parte del<br />

magistero 71 .<br />

69 La <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> non si esaurisce quindi nell’insegnamento del magistero (magistero<br />

che, in ogni caso, ha bisogno di genitivi specificativi e aggettivi qualificativi che ne delimitano l’esercizio e<br />

l’adesione, come ci ricorda G. Ravasi in «Il Sole-24 ore», 1 giugno 1997, p. 35), perché «l’orizzonte<br />

teologico è più vasto, perché è quello intero <strong>della</strong> rivelazione comprensivo dell’insegnamento del<br />

magistero, che notoriamente, secondo la precisazione <strong>della</strong> costituzione Dei verbum, n. 10, sta sotto e non<br />

sopra la Parola di Dio...». (G. Colombo, Il compito <strong>della</strong> teologia nella elaborazione dell’insegnamento<br />

<strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, in Il magistero <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>. Principi e nuovi contenuti, Vita e pensiero,<br />

Milano 1989, p. 31).<br />

70 Giovanni Paolo II, Quando la ricerca sembra sfiorare misteriose frontiere, il dialogo tra fede e<br />

scienza diviene più urgente e ricco di prospettive, Ai partecipanti ad una sessione di studio <strong>della</strong><br />

Pontificia Accademia delle <strong>Scienze</strong>, «L’Osservatore Romano», 30 novembre 1996.<br />

71 Ci si limita qui a ricordare i principali contributi in materia: F. Vito, Introduzione alle Encicliche e ai<br />

Messaggi <strong>sociali</strong> - Da Leone XIII a Giovanni XXIII, Vita e Pensiero, Milano 1962; F. Duchini,<br />

Insegnamento <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, scienza economica, attività economica. Alcune considerazioni sulle<br />

radici storiche del problema, in Il magistero <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>. Principi e nuovi contenuti, Vita e


In linea generale è evidente che il magistero non sembra richiamare esplicitamente nei propri<br />

documenti i contributi degli economisti. Io penso che semmai sia riscontrabile una consonanza tra<br />

le sensibilità dimostrate nell’affrontare tematiche economiche da parte del magistero e da parte di<br />

alcuni economisti, naturalmente sotto il profilo che è proprio a ciascuno dei due, quello morale e<br />

quello scientifico. Il magistero ha considerato moralmente rilevanti certe realtà e certi<br />

comportamenti e ha indicato i criteri imprescindibili cui la condotta umana deve ispirarsi, i confini<br />

entro cui le scelte adottate come economiche possono essere accolte e condivise dagli uomini di<br />

fede.<br />

Il cammino verso il riconoscimento dell’autonomia delle realtà terrene trova espressione più<br />

piena nella Gaudium et Spes con cui «alla scienza economica l’insegnamento <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong> chiede una sempre più approfondita conoscenza <strong>della</strong> complessa e interdipendente realtà<br />

economica» e con cui «alla scienza l’insegnamento <strong>sociale</strong> propone una concezione dell’uomo e<br />

<strong>della</strong> società sulla quale orientare gli interventi operativi» 72 .<br />

Il dovere dello scienziato è perciò quello di «scoprire, usare e ordinare» le realtà terrene, siano<br />

esse cose create o società - le quali hanno leggi e valori propri 73 .<br />

D’altro canto, se è opportuno rispettare le competenze, cioè se le dichiarazioni del magistero<br />

devono essere espresse sulla base anche di una umile e non unilaterale richiesta di consigli<br />

esperti, sarebbe interessante che lo storico del pensiero potesse indagare e ricostruire questo<br />

aspetto del lavoro di elaborazione dei documenti <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>, con una ricerca attenta<br />

delle fonti dei documenti.<br />

La storia comprende, infatti, anche l’analisi del ruolo che gli esperti - in quanto membri <strong>della</strong><br />

comunità cristiana, ma soprattutto proprio in quanto esperti - hanno ricoperto nell’elaborazione<br />

<strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> perché solo essi sono competenti nei propri àmbiti scientifici specifici: la<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> «non si elabora senza una riflessione critica sulla società nella sua figura storica e<br />

complementariamente senza l’impiego delle scienze analitiche <strong>della</strong> società» 74 . Questo perché la<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> non si deve staccare dalla questione reale rischiando di diventare ideologica o<br />

sterile.<br />

Sugli stimoli che gli economisti hanno ricavato dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>.<br />

Lo studio storico evidenzia che gli economisti hanno tratto stimoli per i propri studi dalla<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> almeno a due livelli:<br />

a) quando hanno definito l’ambito <strong>della</strong> propria disciplina;<br />

b) quando hanno scelto di orientare la propria ricerca verso alcune specifiche tematiche,<br />

privilegiandole anche perché centrali nei documenti del Magistero e nella propria formazione.<br />

Per quanto riguarda il primo livello, si deve osservare che quando si fa storia del pensiero<br />

economico si studia l’evoluzione del concetto di scienza economica e si scopre che questa è stata<br />

definita nel passato in termini diversi e molto distanti fra loro: è stata concepita come scienza<br />

fisica, scienza <strong>della</strong> ricchezza, scienza del benessere, scienza dell’economia politica nazionale.<br />

Pensiero, Milano 1989, pp. 115-146; Idem, Economicità ed economismo, in «La Rivista del Clero», febbraio<br />

1983, pp. 11-123.<br />

72 F. Duchini, Insegnamento <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e problematica economica: da Leone XIII a Pio XII,<br />

in L’insegnamento <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, Vita e pensiero, Milano 1988, p. 64.<br />

73 Gaudium et Spes, n. 36b.<br />

74 G. Colombo, Il compito <strong>della</strong> teologia nella elaborazione dell’insegnamento <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>,<br />

cit., p. 31-32.


Fa parte <strong>della</strong> storia del pensiero economico la storia <strong>della</strong> riflessione degli economisti sulla<br />

definizione di scienza e sul rapporto tra economia (elaborazione di teorie ma anche, per molti<br />

economisti, di regole di politica economica) e scelta delle ipotesi e valutazione dei fini.<br />

A puro titolo di esempio, basta ricordare alcune definizioni coeve di scienza economica. Alfred<br />

Marshall, nel 1890, nei suoi Principi di economia, definisce l’economia come «uno studio del<br />

genere umano negli affari ordinari <strong>della</strong> vita» e considera suo oggetto l’esame di quella parte<br />

dell’azione, individuale e <strong>sociale</strong>, che è connessa con il conseguimento e l’uso dei requisiti<br />

materiali del benessere; per Vilfredo Pareto l’economia è una scienza empirica che può<br />

verificare i propri risultati nella realtà come avviene per le scienze naturali; per Ludwig von<br />

Mises, nel 1940, la scienza economica è lo studio <strong>della</strong> struttura ideale dell’azione umana, <strong>della</strong><br />

logica delle scelte razionali e, nello stesso tempo, è una guida all’azione modificatrice <strong>della</strong><br />

politica economica 75 .<br />

Attraverso lo studio storico del pensiero economico si mette in luce l’esistenza da un lato di<br />

concezioni di scienza che richiamano problemi morali o, più precisamente, problemi di scelta e di<br />

valutazione <strong>della</strong> sua compatibilità con la visione antropologica cristiana centrata sulla persona,<br />

dall’altro di concezioni che non ammettono interferenze tra idee economiche e idee morali.<br />

Alcuni economisti hanno in passato proprio derivato dal riferimento alla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> il<br />

proprio interesse per l’elaborazione di una <strong>dottrina</strong> che rimetta l’ «economia a servizio<br />

dell’uomo»: certamente in questa direzione si mossero in Francia François Perroux e<br />

l’associazione «Economie et Humanisme» (1941) e in Italia gli economisti dell’Istituto di<br />

economia e quelli dell’Istituto di economia aziendale dell’Università cattolica, diretti da Francesco<br />

Vito e da Pasquale Saraceno. Senza dubbio questa linea di ricerca metodologica ha trovato<br />

stimolo nel dibattito sulla definizione di scienza economica avvenuto negli anni Trenta sulla scorta<br />

dell’ Essay on the Nature and Significance of Economic Science di Lionel Robbins (1932).<br />

Per quanto riguarda il secondo livello, la ricerca storica evidenzia che nel passato alcuni<br />

economisti hanno colto direttamente l’invito contenuto nei documenti del magistero ad<br />

approfondire l’analisi di temi economici specifici o hanno dato vita ad interessanti polemiche<br />

attorno ai contenuti dei documenti stessi.<br />

Tra questi economisti che hanno direttamente fatto riferimento nel proprio lavoro scientifico al<br />

magistero, vanno sicuramente ricordati e meriterebbero di una approfondita analisi:<br />

- i teorici europei che hanno definito i caratteri non tanto del «sistema economico corporativo»<br />

quanto dell’istituzione corporazione come forma associativa, come risposta alla naturale <strong>sociali</strong>tà<br />

dell’uomo (alla stregua dei sindacati di soli operai o misti) fin dalla fine dell’Ottocento e poi, con<br />

rinnovato interesse, negli anni Quaranta: alcuni di questi, senza aderire né alla concezione<br />

medievale né a quella dei corporativisti fascisti , hanno inquadrato la propria riflessione all’interno<br />

dell’analisi delle tendenze del sistema economico capitalistico; tra questi economisti vanno<br />

ricordati i ricercatori che si sono formati in Cattolica dai primi anni Venti sotto la guida di Angelo<br />

Mauri e poi di Francesco Vito maturando l’analisi sui limiti dell’ipotesi teorica <strong>della</strong> concorrenza<br />

perfetta;<br />

- il dibattito suscitato in Nordamerica sulle critiche mosse dall’economista Henry George<br />

all’impostazione <strong>della</strong> Rerum Novarum;<br />

- i teorici che, stimolati dall’esigenza di un «principio direttivo», hanno approfondito l’analisi<br />

dello strumento programmazione, all’interno di una visione <strong>della</strong> funzione ordinatrice ma<br />

sussidiaria dello Stato;<br />

- gli economisti che, sulla base dell’affermazione che «la <strong>Chiesa</strong> non propone sistemi o<br />

programmi economici o politici...purchè la dignità dell’uomo sia debitamente rispettata o<br />

75 Interessante è anche il confronto tra la concezione paretiana e quelle italiane di inizio Novecento, di<br />

Maffeo Pantaleoni, di Luigi Luzzatti, di Ulisse Gobbi, di Luigi Einaudi.


promossa», sono passati dal progetto di una società cristiana opposta a quella secolarizzata, alla<br />

denuncia dei sistemi che intaccano la dignità e la libertà <strong>della</strong> persona (Codice di Malines e<br />

cosiddetto Codice di Camaldoli; dibattito alla Costituente; dibattito sul lavoro e sulla funzione del<br />

sindacato nel sistema) e di quelli che negano i valori <strong>della</strong> solidarietà e <strong>della</strong> corresponsabilità<br />

internazionale (teorie dello sviluppo economico e dell’arretratezza, dalle prime formulazioni di<br />

Vito ai congressi internazionali sui problemi dello sviluppo del 1955 e 1956).<br />

Un caso interessante nella storia dei rapporti tra lavoro dell’economista e <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> è<br />

quello di Joseph Alois Schumpeter. Egli nel 1945 nel corso di una conferenza davanti<br />

all’Association professionelle des industriels di Montréal, evidenzia i pericoli di «decomposizione»<br />

in cui il sistema economico e politico può incorrere qualora continui ad essere gestito da operatori<br />

che agiscono in base ai principi di quella filosofia utilitarista che «non riconosce altro principio<br />

regolatore che quello dell’egoismo individuale” e che “esprime fin troppo bene lo spirito<br />

d’irresponsabilità <strong>sociale</strong> che caratterizza la passione e lo stato laico, o meglio laicista del secolo<br />

XIX» 76 .<br />

Egli si chiede se la «soluzione di questo grave problema scaturirà dallo statalismo ... (o) dal<br />

<strong>sociali</strong>smo democratico» e, rifiutando categoricamente queste due soluzioni, conclude<br />

affermando:<br />

Bisognerà ricorrere all’organizzazione corporativa nel senso auspicato dalla Quadragesimo Anno. Non<br />

spetta all’economista fare l’elogio del messaggio morale del Papa. Ma egli potrà trarne una <strong>dottrina</strong><br />

economica. Tale <strong>dottrina</strong> non fa appello a false teorie. Essa non si basa su pretese tendenze che non<br />

esistono. Riconosce tutti i fatti dell’economia moderna. E, pur portando rimedio alla riorganizzazione<br />

attuale, ci mostra le funzioni dell’iniziativa privata in un quadro nuovo. Il principio corporativo riorganizza<br />

ma non irreggimenta. Si oppone a ogni sistema <strong>sociale</strong> a tendenza centralizzatrice e a ogni irregimentazione<br />

burocratica; in effetti, è il solo modo per rendere impossibile quest’ultima....[Il Papa] Ci mostrava un<br />

metodo pratico per la soluzione di problemi pratici che, a causa dell’incapacità di risolverli del liberalismo<br />

economico, richiedono l’intervento del potere politico......l’azione corporativa delle associazioni<br />

professionali, per il fatto stesso che garantisce a ogni singola impresa che non sarà la sola a farsi avanti, e<br />

che di conseguenza essa troverà nella produzione delle altre la domanda per i propri prodotti, ne è il rimedio<br />

più naturale. Ne consegue che il corporativismo associativo eliminerebbe gli ostacoli più gravi che si<br />

oppongono alla cooperazione pacifica tra operaio e padrone. .... Ora, il corporativismo associativo non è<br />

una cosa meccanica. Non può essere imposto o creato dal potere legislativo. Non tende a realizzarsi da<br />

solo. Può nascere soltanto dall’azione degli uomini liberi e da una fede che li ispiri. Per fondarlo e<br />

garantirne il successo ci vogliono volontà, energia, un senso nuovo di responsabilità <strong>sociale</strong>....ma il suo<br />

problema fondamentale (...) si riassume nel fatto che, più ancora che una riforma economica e <strong>sociale</strong>, esso<br />

implica una riforma morale.<br />

Schumpeter abbandona qui qualsiasi pretesa di neutralità e sceglie di esprimersi in termini<br />

normativi. Nel 1949 ritornerà sull’argomento con una comunicazione al congresso dell’American<br />

Economic Association e l’anno successivo in The march into <strong>sociali</strong>sm: una riorganizzazione<br />

<strong>della</strong> società secondo le direttive dell’enciclica «fornirebbe senza dubbio un’alternativa al<br />

<strong>sociali</strong>smo che permetterebbe di evitare lo “stato onnipotente”» 77 , senza naturalmente<br />

confondere il corporativismo societario da quello di stato dei regimi fascisti.<br />

In sostanza egli, mantenendosi lontano dal modello di managerialismo tecnocratico che negli<br />

Stati Uniti e in parte dell’Europa stava diffondendosi e prevedendo la possibilità di un esito<br />

alternativo al <strong>sociali</strong>smo, guarda ad un ordine <strong>sociale</strong> imperniato «sulla figura dell’imprenditore<br />

del capitalismo concorrenziale, su strutture familiari solide anche se aperte ad un continuo<br />

76 Il discorso è stato pubblicato in italiano in: J. A. Schumpeter, L’imprenditore e la storia dell’impresa.<br />

Scritti 1927-1949, a cura di Alfredo Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 91-96.<br />

77 Questa affermazione è riportata nell’ Introduzione di Salsano a J. A. Schumpeter, L’imprenditore e la<br />

storia dell’impresa. Scritto 1927-1949, cit., p. XXIII.


icambio <strong>sociale</strong>, sulla realizzazione del benessere delle masse attraverso l’accumulazione resa<br />

possibile dal profitto imprenditoriale» 78 .<br />

Questa elaborazione di Schumpeter è interessante per diversi motivi. Innanzitutto perché è<br />

iniziata sotto lo stimolo diretto di una indicazione papale: Schumpeter si è sentito interpellato<br />

direttamente nella sua specifica professionalità. In secondo luogo per gli anni in cui si svolge<br />

questa vicenda: Schumpeter attribuisce a Pio XI una visione <strong>sociale</strong> che prevede una terza via<br />

come soluzione alle distorsioni del capitalismo e alle conseguenze nefaste del <strong>sociali</strong>smo; ed è<br />

proprio con la Quadragesimo Anno che la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> conclude il cammino delle proposte<br />

«integraliste» di una società cristiana in opposizione alla società secolarizzata. Negli anni in cui<br />

Schumpeter si esprime nel senso qui riportato non è ancora completamente rotto il ponte con<br />

l’idea <strong>della</strong> società cristiana, ma si sta aprendo una fase nuova, di cui il personalismo di Maritain<br />

e di Mounier sono espressione chiara.<br />

La <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> inizia cioè a non identificarsi più con un sistema <strong>sociale</strong> predeterminato in<br />

cui i principi dell’etica cristiana vengono direttamente tradotti in termini organizzativi.<br />

Osservazione conclusiva<br />

Se oggi la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> si può intendere, mi pare, come un ricco ed elaborato corpus<br />

strumento di evangelizzazione, se oggi si è chiamati a diffondere un senso <strong>della</strong> vita e a vivere<br />

esperienze che realizzino l’uomo in senso cristiano, se oggi lo scienziato è chiamato a partecipare<br />

a questo progetto perché anche le più alte espressioni <strong>della</strong> scienza fanno parte del vivere delle<br />

persone e <strong>della</strong> collettività, 79 allora mi pare che lo storico del pensiero possa con curiosità<br />

chiedersi come in passato e nelle diverse realtà sia stato espresso e colto questo messaggio che<br />

invita - in varie forme e con diverse accentuazioni nel tempo - a recepire l’interconnessione tra<br />

propria fede e cultura, che invita a porsi interrogativi partendo anche dalle situazioni e ad<br />

elaborare strumenti teorici per analizzare le situazioni.<br />

Al di là <strong>della</strong> possibilità di riconoscere che si sono stabilite nel passato relazioni dirette tra<br />

messaggi <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e lavoro degli economisti, vi è a mio giudizio un tema<br />

di carattere generale riguardante il rapporto tra scienza economica e concezione dell’uomo e<br />

<strong>della</strong> società desunta dalla rivelazione: è il tema del significato del diritto inalienabile di libertà<br />

espresso storicamente dal magistero e del rapporto tra il diritto dell’uomo di vivere libero (dai<br />

bisogni e dagli idoli) e la scala di valori sottesa ai sistemi teorici degli economisti e alle proposte<br />

concretamente avanzate per la risoluzione di nodi di carattere socio-economico. Mi sembra che<br />

questo tema di ricerca rientri tra quelli fondamentali <strong>della</strong> storia <strong>della</strong> scienza.<br />

78 Ibid., p. XXVI.<br />

79 Le espressioni qui utilizzate sono tratte dal testo del Progetto culturale orientato in senso cristiano.<br />

Una proposta di lavoro, a cura <strong>della</strong> Presidenza <strong>della</strong> Cei, 28-1-1997.


LUIGI PASINETTI<br />

LA SCIENZA ECONOMICA<br />

Cercherò in questa breve nota di dare succinte risposte ai tre quesiti che il Centro di ricerche<br />

per lo studio <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> ha proposto alla nostra riflessione.<br />

1. Il primo quesito chiede se i pronunciamenti <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> in materia di <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

abbiano avuto incidenza e/o fecondità sulla storia <strong>della</strong> nostra società.<br />

Mi sembra che a questo quesito non si possa che dare una risposta positiva.<br />

Di fronte, specialmente nella prima metà dell’Ottocento, ad un capitalismo liberale sfrenato, e,<br />

specialmente nella seconda metà dello stesso secolo, ad un diffuso disagio e malcontento nella<br />

classe operaia, stimolata anche da una critica radicale e rivoluzionaria proposta dal movimento<br />

<strong>sociali</strong>sta e da Marx, l’enciclica papale Rerum novarum ha senza dubbio aperto un vasto<br />

orizzonte e ha dato importanti contributi mirati ad una riconsiderazione dei rapporti <strong>sociali</strong> che<br />

non ignorasse gli abusi più preoccupanti del capitalismo ottocentesco e nello stesso tempo<br />

invitasse ad attuare riforme significative con spirito moderato e rispettoso delle questioni morali.<br />

2. Il secondo quesito chiede quali contributi di conoscenza scientifica la disciplina di cui sono<br />

cultore (ossia l’economia politica) abbia reso disponibili perché potessero essere utilizzati da<br />

parte <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>.<br />

Penso che la scienza economica dello scorso secolo, specialmente nella sua formulazione che,<br />

in reazione al marxismo, ha dato luogo alla elaborazione <strong>della</strong> teoria marginalista, non abbia<br />

portato grandi contributi di conoscenze utilizzabili ai fini di una effettiva applicazione <strong>della</strong><br />

giustizia <strong>sociale</strong> nei rapporti tra imprenditori e lavoratori e nella distribuzione del reddito e <strong>della</strong><br />

ricchezza.<br />

La teoria dominante alla fine del secolo scorso, e in gran parte dominante anche nel nostro<br />

secolo, fonda le proprie proposizioni sul principio del self-interest nel comportamento individuale<br />

e sostanzialmente su una filosofia utilitaristica.<br />

In altre parole, la teoria economica dominante ha fatto essenzialmente affidamento sul<br />

comportamento egoistico dei singoli nello svolgimento dell’attività economica, lasciando fuori dal<br />

comportamento economico il problema di come le risorse economiche sono originariamente<br />

distribuite tra i vari individui, gruppi <strong>sociali</strong> e nazioni. Tale distribuzione originaria delle risorse<br />

viene assunta come data. Si rimandano così alla sfera delle decisioni politiche i problemi degli<br />

interventi ritenuti necessari ad eventuali correzioni di situazioni palesemente inique o divenute tali.<br />

All’interno di tale impostazione risulta difficile andare oltre le raccomandazioni di volontaria<br />

beneficenza per sanare le situazioni più scabrose dal punto di vista <strong>della</strong> distribuzione <strong>della</strong><br />

ricchezza, salvo integrare tali azioni con politiche fiscali dell’autorità pubblica che non penalizzino<br />

i percettori dei redditi più bassi.<br />

In altre parole, quando le posizioni di efficienza vengono associate al comportamento<br />

economico egoistico dei singoli nella conduzione degli affari, mentre i problemi <strong>della</strong> giustizia<br />

<strong>sociale</strong> e i problemi <strong>della</strong> distribuzione del reddito e <strong>della</strong> ricchezza vengono riservati ad interventi<br />

fiscali mirati a tentativi redistributivi o affidati agli interventi del tutto volontari dei singoli, mi pare<br />

che si tenda a cercare di riparare alle ingiustizie <strong>sociali</strong> ricorrendo semplicemente ad<br />

atteggiamenti paternalistici. Con una battuta si potrebbe dire che l’idea sottostante tali<br />

atteggiamenti è quella di fare affidamento sull’egoismo dei singoli individui nella conduzione degli<br />

affari dal lunedì al venerdì, salvo poi fare affidamento sul loro altruismo il sabato e la domenica.


Da queste considerazioni dedurrei che c’è qualcosa di sbagliato o, in ogni caso, che c’è<br />

qualcosa che non va, nella teoria economica dominante.<br />

3. Il terzo quesito chiede quali ulteriori approfondimenti scientifici l’approccio economicopolitico<br />

possa ricavare dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>.<br />

Penso che le indicazioni che si possono trarre dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> siano di forte<br />

stimolo ad un radicale ripensamento e siano nella direzione dello sviluppo di una teoria<br />

economica su basi diverse da quelle utilitaristiche e da quelle che fanno affidamento<br />

esclusivamente sul comportamento egoistico dei singoli.


1. Definizione di marketing<br />

WALTER GIORGIO SCOTT<br />

IL MARKETING<br />

Per poter rispondere ai tre interrogativi proposti dal Centro di ricerche per lo studio <strong>della</strong><br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, è opportuno premettere alcune note volte a definire il significato di<br />

marketing, nonché a individuare alcuni del principali fenomeni che al termine suddetto possono<br />

essere collegati.<br />

Secondo una delle definizioni più diffuse, «Il marketing è il processo <strong>sociale</strong> e manageriale<br />

mediante il quale una persona o un gruppo ottiene ciò che costituisce oggetto dei propri bisogni e<br />

desideri creando, offrendo e scambiando prodotti e valore con altri» 80 .<br />

Occorre sottolineare come l'elemento centrale del processo in questione sia costituito dal<br />

soddisfacimento dei bisogni e dei desideri umani.<br />

A questo fine, nel generale processo di marketing trovano sviluppo i seguenti stadi<br />

fondamentali:<br />

1. identificazione e valutazione dei bisogni dei consumatori attuali e potenziali;<br />

2. sviluppo dei prodotti più idonei a soddisfare i bisogni attuali e potenziali;<br />

3. realizzazione di efficaci sistemi di distribuzione dei prodotti, materiali e immateriali 81 ;<br />

4. sviluppo di processi di comunicazione atti a favorire la diffusione dei prodotti;<br />

5. determinazione dei prezzi e delle condizioni di vendita dei prodotti;<br />

6. organizzazione di attività di assistenza ai clienti, prima, durante e dopo la vendita.<br />

2. Rilevanza attuale e prospettive del marketing<br />

Avendo definito la natura e la sostanza del termine marketing dobbiamo ora inquadrare il<br />

concetto in questione nel contesto dell’economia e <strong>della</strong> società contemporanea. A questo fine,<br />

va innanzitutto tenuto presente che il marketing in quanto rapporto organico fra imprese e<br />

mercati ha origine in una specifica fase dell’evoluzione delle economie di mercato: la transizione<br />

dall’industrializzazione di massa alla società dei consumi.<br />

Tale transizione, avviatasi negli Stati Uniti del New Deal e sviluppatasi in tutto il mondo<br />

occidentale nei «trent’anni gloriosi» intercorrenti fra il secondo dopoguerra e le crisi petrolifere<br />

degli anni ’70 82 , ha visto la progressiva trasformazione delle imprese, sempre più impegnate ad<br />

adattare la propria capacità di produrre valore sotto forma di beni e servizi alle situazioni di<br />

mercato, in primo luogo le esigenze ed i comportamenti dei consumatori. In questo contesto, le<br />

80 P. Kotler - W. G. Scott, Marketing management, Isedi, Torino 1993, 7 a ed. it., p. 5.<br />

81 Con il termine prodotto si definisce tutto ciò che può essere offerto a qualcuno per soddisfare un<br />

bisogno o un desiderio. Un prodotto può essere costituito da elementi materiali, come un’auto o un<br />

televisore, oppure immateriali, come nel caso di un’operazione bancaria o di uno spettacolo teatrale.<br />

Talvolta, si preferisce limitare l’uso del termine prodotto al campo dei beni materiali, designando con il<br />

termine servizi i beni immateriali.<br />

82 Sull’argomento, si rinvia a: W. G. Scott, Il concetto di marketing in un’epoca post-consumistica,<br />

«Giornale di marketing», 1 (1975); ripubblicato in W. G. Scott, Marketing in evoluzione, Vita e Pensiero,<br />

Milano 1988.


imprese hanno dedicato un’attenzione crescente agli strumenti <strong>della</strong> non-price competition<br />

teorizzata da E. H. Chamberlin, vale a dire l’«innovazione di prodotto» e lo «sforzo di vendita» 83 .<br />

Con l'intensificarsi delle dinamiche competitive di mercato, il ruolo e la natura del marketing<br />

tendono a modificarsi in modo sostanziale.<br />

In un mondo avviato alla globalizzazione, cioè alla progressiva scomparsa delle barriere di<br />

vario genere fra i mercati nazionali, il successo di un’impresa è sempre meno determinato dalle<br />

competenze chiave di cui essa dispone - pur indispensabili ed irrinunciabili - e sempre più dalla<br />

capacità di individuare e servire quelle manifestazioni di domanda che maggiormente apprezzano<br />

i valori realizzati dall’impresa stessa 84 . Saper pensare ed operare secondo i modelli del marketing<br />

diviene quindi la premessa dei comportamenti strategici ed operativi delle imprese.<br />

L’impresa, in quanto luogo e strumento <strong>della</strong> trasformazione delle risorse in strumenti per<br />

soddisfare i bisogni, non potrebbe infatti raggiungere livelli adeguati di efficienza operando al di<br />

fuori del paradigma di marketing.<br />

Da questo postulato deriva una importante conseguenza, e cioè la possibilità di applicare i<br />

principi e gli strumenti propri del marketing, non solo alle imprese operanti in vista del<br />

conseguimento del profitto, ma anche a quelle organizzazioni non profit, pubbliche e private, le<br />

quali svolgono attività volte a soddisfare bisogni individuali e collettivi in sostituzione e a<br />

integrazione degli esistenti meccanismi di mercato. A questo proposito, si pensi ai bisogni di<br />

salute, di assistenza, di istruzione, di servizi pubblici di qualità, di sicurezza e difesa, e così di<br />

seguito.<br />

È ormai un luogo comune il porre in evidenza il divario esistente in questi campi fra domanda e<br />

offerta, con un grado di soddisfacimento delle esigenze che in molti casi tende allo zero, se non a<br />

toccare addirittura valori negativi. Il fallimento delle economie pianificate dal centro, nonché la<br />

verificata impossibilità dello stato <strong>sociale</strong> di far fronte all’intero spettro di bisogni compresi fra «la<br />

culla e la bara», stanno aprendo oggi importanti prospettive alle attività del cosiddetto terzo<br />

settore, nella misura in cui queste siano in grado di conseguire i necessari livelli di efficienza<br />

nell'impiego di risorse, per definizione scarse, al fine di soddisfare esigenze, per definizione<br />

illimitate.<br />

A questo fine, gli strumenti elaborati in oltre mezzo secolo di sviluppo teorico e applicativo<br />

<strong>della</strong> disciplina del marketing possono fornire un contributo decisivo, come del resto pongono in<br />

evidenza le consistenti esperienze già realizzate altrove 85 .<br />

L’introduzione del marketing nel campo delle organizzazioni senza finalità di lucro non significa<br />

affatto aprire la strada a quei processi di privatizzazione che taluni paventano come l’anticamera<br />

del ritorno al capitalismo più selvaggio e spregiudicato. In realtà, le esperienze di privatizzazione<br />

sinora realizzate sono state la soluzione necessaria a porre rimedio a situazioni di clamorosa<br />

inefficienza nel gestire processi volti a sovvenire a esigenze e bisogni diffusi. Di queste situazioni<br />

è, purtroppo, particolarmente ricca la realtà italiana, il che conduce un numero crescente di<br />

83 Sul rapporto fra la teoria <strong>della</strong> concorrenza monopolistica formulata da Chamberlin e la teoria del<br />

marketing, si veda il cap. 2 di Marketing in evoluzione, cit.<br />

84 Per un adeguato approfondimento di questi aspetti si fa rinvio ai seguenti articoli dell’autore:<br />

Marketing più intelligente per consumatori più attenti, «L'Impresa», 1993, 2 e Oltre i confini del<br />

marketing di massa, «L'Impresa», 1994, 10, entrambi ripubblicati in: Marketing e competizione, Vita e<br />

Pensiero, Milano 1997.<br />

85 Un quadro esauriente in proposito è offerto da P. Kotler - A. R. Andreasen, Strategic Marketing for<br />

Non Profit Organizations, Prentice-Hall 1996. Tale opera, giunta ormai alla quinta edizione (la prima è del<br />

1975), costituisce una conferma quanto mai consistente dell’ormai conseguita maturità del marketing<br />

applicato ai settori non profit. Il volume citato - di cui è in preparazione l’edizione italiana presso Il Sole 24<br />

Ore-Libri - può essere utilmente integrato dall’opera di uno dei coautori, A. R. Andreasen, Marketing<br />

Social Change, Jossey-Bass, S. Francisco 1995.


osservatori ad auspicare una rapida acquisizione culturale e professionale di strumenti ed<br />

esperienze in grado di migliorare il nostro modo di gestire le risorse, private o pubbliche che esse<br />

siano 86 .<br />

3. Incidenza <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> sulla storia <strong>della</strong> nostra società<br />

Dare una risposta a questo interrogativo - naturalmente sulla base dell’elaborazione scientifica<br />

condotta nell’ambito <strong>della</strong> disciplina - non è affatto facile.<br />

Se si assume che la maggior parte dell’elaborazione in questione è stata effettuata secondo la<br />

visione, definita in precedenza, dell’approccio manageriale al marketing, si potrebbe rispondere<br />

che l’incidenza in questione è stata scarsa. A tal proposito va anche ricordato come, per ragioni<br />

che sarebbe oltremodo complesso richiamare in questa sede, lo sviluppo <strong>dottrina</strong>le <strong>della</strong> disciplina<br />

è stato sinora realizzato prevalentemente negli Stati Uniti. Quel che è certo è che in Italia gli<br />

studi relativi a questa area di fenomeni hanno sempre trovato ostacoli non facili da superare 87 .<br />

Se si assume invece la visione del «marketing <strong>sociale</strong>» la risposta può essere modificata,<br />

anche se di poco.<br />

Una prospettiva più ottimistica si potrebbe aprire per il futuro, nella misura in cui la <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong> verrà ulteriormente sviluppata e, soprattutto, comunicata (nel senso di fatta conoscere,<br />

concetto questo assai ben sviluppato nell’ambito del paradigma di marketing). Ad esempio, nel<br />

quarto capitolo <strong>della</strong> Centesimus annus vi sono concetti di fondamentale importanza per un<br />

orientamento delle attività d’impresa verso finalità sempre più riconosciute come corrispondenti<br />

all’interesse generale. Si consideri, ad esempio, l’inizio del n. 34 del capitolo suddetto:<br />

Sembra che, tanto a livello delle singole nazioni, quanto a quello dei rapporti internazionali, il libero<br />

mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni. Ciò,<br />

tuttavia, vale solo per quei bisogni che sono «solvibili», che dispongono di un potere d’acquisto, e per<br />

quelle risorse che sono «vendibili», in grado di ottenere un prezzo adeguato. Ma esistono numerosi<br />

bisogni umani che non hanno accesso al mercato 88 .<br />

Ed è precisamente a questo proposito che si possono trovare nuovi campi di applicazione dei<br />

principi o delle tecniche di marketing.<br />

86 Assai istruttiva, a questo proposito, può essere la lettura del volumetto di A. Quadrio Curzio, Noi,<br />

l’economia e l’Europa, Il Mulino, Bologna 1996. In esso viene efficacemente descritto il «ventennio di<br />

dissennatezza finanziaria», dall’inizio degli anni ’70 agli inizi degli anni ’90, nel corso del quale si è potuto<br />

assistere ad uno straordinario esempio di crescita economica basata sullo sviluppo dei consumi privati,<br />

combinato con una dissipazione finanziaria assurda e, quel che è peggio, senza alcun corrispettivo in<br />

termini di soddisfacimento dei bisogni collettivi. Con il risultato che siamo ai primi posti nella classifica<br />

mondiale dei consumi automobilistici - tenuto conto del numero degli abitanti, <strong>della</strong> densità demografica,<br />

<strong>della</strong> rete stradale, ecc. - e agli ultimi posti nelle classifiche <strong>della</strong> qualità dei servizi di civiltà: sanità,<br />

istruzione, ricerca, ecc.<br />

87 Per una panoramica dell’iniziale sviluppo del marketing nel sistema d’impresa italiano si vedano i<br />

capitoli quinto e settimo di Marketing in evoluzione cit.<br />

88 Lettera enciclica «Centesimus annus», Dehoniane, Bologna 1991. Per un’approfondita analisi<br />

dell’enciclica sotto il profilo del suo impatto sulla «cultura del mercato», si veda: D. Antiseri, Cattolici a<br />

difesa del mercato, Sei, Torino 1995, in particolare l’introduzione e i capitoli decimo e dodicesimo.


4. Impieghi delle risultanze scientifiche <strong>della</strong> disciplina del marketing da parte <strong>della</strong><br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

Da quanto emerge dalla letteratura specifica, nonché dall’analisi dei maggiori documenti nei<br />

quali viene sviluppata la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, non sembra possibile rilevare segni di<br />

rilievo di un consimile impiego.<br />

Ciò va considerato con preoccupazione. Infatti, nell’ambito assai vasto <strong>della</strong> disciplina possono<br />

essere individuati filoni specifici di grande importanza per lo sviluppo <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> in esame,<br />

come quello connesso allo studio dei comportamenti di consumo e <strong>della</strong> loro evoluzione in<br />

relazione ai vari fattori rilevanti. Altro filone ragguardevole è quello connesso ai processi <strong>della</strong><br />

comunicazione <strong>sociale</strong>.<br />

In altri termini, si ritiene che una miglior conoscenza <strong>della</strong> disciplina del marketing - senza che<br />

ciò comporti in alcun modo l’integrale o parziale accoglimento delle ipotesi che ne stanno alla<br />

base e dei postulati che ne derivano - non potrebbe che giovare a quanti si occupano da vicino<br />

<strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>.<br />

5. Indicazioni per ulteriori approfondimenti scientifici nell'ambito <strong>della</strong> disciplina del<br />

marketing stimolati dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong>.<br />

Su questo punto si può osservare che la <strong>dottrina</strong> in questione può fornire indicazioni molto<br />

importanti per l’ulteriore elaborazione, soprattutto nell’ambito <strong>della</strong> visione <strong>sociale</strong> del marketing,<br />

cioè ispirata al perseguimento di interessi legittimi e di rilevanza generale.<br />

«Il concetto di marketing <strong>sociale</strong> afferma che il compito di un’impresa è quello di determinare<br />

i bisogni, i desideri e gli interessi dei mercati; obiettivo è di procedere al loro soddisfacimento più<br />

efficacemente ed efficientemente dei concorrenti, secondo modalità che preservino o rafforzino il<br />

benessere del consumatore e <strong>della</strong> società» 89 .<br />

Nella suddetta definizione è contenuto un programma completo di ciò che attende gli studiosi<br />

nei prossimi anni, e cioè la modalità in base alle quali definire il benessere del consumatore e <strong>della</strong><br />

società. Se queste modalità non verranno definite, l’orientamento <strong>sociale</strong> del marketing resterà<br />

una espressione vuota di significato, ancorché altisonante e coinvolgente, come molte delle<br />

espressioni oggi di moda.<br />

Ma come definire queste modalità? Secondo quali modelli? Quello proprio del sistema<br />

capitalistico americano? Oppure quello proprio dell’economia <strong>sociale</strong> di mercato di stampo<br />

germanico? Oppure ancora quello enarchico delle «grandi scuole», basato su una stretta<br />

integrazione pubblico-privato ad elevati livelli di efficienza del sistema francese?<br />

In altri termini, occorre definire quelle regole del gioco che possono rendere le dinamiche<br />

competitive delle imprese - delle quali il marketing è l’espressione prima - corrispondenti nel<br />

contempo agli interessi delle imprese ed a quelli <strong>della</strong> società.<br />

Ed è a tal proposito che è possibile intravvedere un interessante campo di ricerca per uno<br />

sforzo combinato fra vari approcci disciplinari.<br />

89 P. Kotler - W. G. Scott, Marketing management, cit., p. 43.


ENRICO MARIA TACCHI<br />

LA SOCIOLOGIA:<br />

NOTE SU ALCUNE «GRANDI QUESTIONI» CULTURALI E SOCIALI<br />

Una riflessione sui rapporti che intercorrono tra la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e il proprio<br />

specifico campo di studi (in questo caso, la sociologia) tende inevitabilmente a sollecitare<br />

interessi che sono, ad un tempo, più estesi e più limitati rispetto agli standard usuali <strong>della</strong> ricerca<br />

scientifica.<br />

Da un lato infatti, al di là delle funzioni proprie di chi lavora nell’ambito universitario, la <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> interpella anche le dimensioni più fondative del credente e del cittadino,<br />

investendo così non solo l’aspetto professionale, ma anche la sfera religiosa e quella politica.<br />

D’altra parte, se rispetto all’estensione dei temi toccati si va un po’ oltre i confini consueti degli<br />

elaborati rigorosamente scientifici, rispetto al grado di approfondimento le pretese sono più<br />

ridotte. Infatti, per tali studi si richiederebbe: sotto il profilo sostanziale, l’inserimento <strong>della</strong><br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> in un congruo programma di ricerca (condizione questa che non si<br />

può certamente improvvisare); sotto il profilo formale, una certa soddisfazione <strong>della</strong> tradizionale<br />

aspettativa di esaurienti ricognizioni <strong>della</strong> letteratura sul tema, con ampio sfoggio di citazioni<br />

erudite.<br />

Entro questi limiti, si abbozzano qui di seguito alcune brevi considerazioni sui rapporti tra<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e sociologia, anche se in più punti emergeranno considerazioni<br />

collegate ad insegnamenti e ad iniziative <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> non strettamente riconducibili alla <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>. Si farà riferimento dunque a otto grandi questioni attualmente dibattute,<br />

pagando volentieri il prezzo di qualche schematismo, nell’intento di favorire una maggiore<br />

chiarezza e la comparabilità con eventuali tesi alternative.<br />

In una società complessa quale l’attuale, non meraviglieranno in questo percorso le difficoltà di<br />

applicazione di letture deterministiche, perché in molti casi sarebbe assai poco convincente<br />

presupporre rapporti di causa e di effetto tra <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, società e sociologia (o<br />

viceversa), mentre tutto induce ad ipotizzare piuttosto un’evoluzione congiunta di ambiti che si<br />

influenzano reciprocamente. Nella prospettiva accennata, si cercherà comunque di rispondere ad<br />

una duplice richiesta di valutazione: sia dell’incidenza <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> sulla<br />

società, sia dell’apporto <strong>della</strong> sociologia alla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>; si metteranno altresì in<br />

evidenza alcuni stimoli all’approfondimento scientifico, che la sociologia può ricavare dalla<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>.<br />

1. Famiglia<br />

Vi sono pochi dubbi riguardo al fatto che il cristianesimo (e di riflesso la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong>) abbia permeato profondamente i modelli familiari delle società pre-industriali<br />

dell’occidente, con maggiore permanenza nel tempo dove l’economia e la società hanno<br />

mantenuto più a lungo caratteri almeno parzialmente agricoli. In seguito, dapprima per la<br />

diffusione ampia sul territorio di stili di vita urbano-industriali anche nelle zone ex-rurali, e<br />

successivamente per l’azione pervasiva dei mass media, alcuni fattori di incidenza <strong>della</strong><br />

tradizione cristiana sono fortemente diminuiti, mentre altri sembrano resistere meglio. Ad<br />

esempio:<br />

- si riduce l’area <strong>sociale</strong> di condivisione dei modelli familiari estesi, fondati sul matrimonio<br />

indissolubile, ad elevata prolificità (con implicita condanna delle pratiche abortive);


- resiste maggiormente il modello monogamico, l’affermazione (in linea di principio) <strong>della</strong> pari<br />

dignità tra i sessi e <strong>della</strong> responsabilità verso i figli.<br />

Su altri aspetti più propriamente morali (infedeltà coniugale, rapporti prematrimoniali, figli nati<br />

fuori del matrimonio, contraccezione ecc.) non si è certi, al di là delle affermazioni di principio,<br />

che davvero nelle pratiche <strong>sociali</strong> <strong>della</strong> cultura pre-industriale vi fosse il generale ossequio ai<br />

principi cristiani da taluni ipotizzato. Infatti, una cultura ufficiale forse meno trasgressiva nelle sue<br />

espressioni esterne non garantisce una corrispondente coerenza nei comportamenti concreti.<br />

In questa prospettiva, la sociologia può offrire alla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> elementi di<br />

riflessione sul mutamento <strong>della</strong> vita familiare in ordine ad esempio:<br />

- al passaggio da una famiglia intesa anche come unità produttiva economica a pura unità di<br />

consumo (per cui alcune proposte contingenti, quali il reddito familiare legato alla disponibilità di<br />

un podere per famiglia, sono state formulate quasi nel momento in cui cessavano di essere<br />

generalizzabili);<br />

- alla conseguente prevalenza degli elementi di costo collegati alla generazione dei figli, rispetto<br />

alle aspettative di sostegno economico a vantaggio <strong>della</strong> famiglia di origine;<br />

- alla valorizzazione dei momenti affettivi e dei rapporti primari interni alla famiglia, non più<br />

collegati armonicamente con la relazionalità esterna, ma spesso a difesa di intimità, identità, calore<br />

umano, contro ambienti resi minacciosi da produttivismo, competizione, freddezza, formalismo e<br />

superficialità;<br />

- alla necessità di integrare la <strong>sociali</strong>zzazione delle nuove generazioni e la tradizione culturale<br />

tra agenzie educative tradizionali (ad esempio nei rapporti tra famiglia, chiesa, scuola) e nuove<br />

(inclusi mass media, aziende, associazioni).<br />

Alla luce <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, andrebbe predisposta una corretta lettura<br />

sociologica di nuovi modelli familiari e di alternative alla famiglia che - per quanto discutibili - si<br />

renderanno sempre più evidenti in una società multiculturale. Ad esempio: poligamia e<br />

concezione <strong>della</strong> donna nel contesto islamico; convivenze eterosessuali e omosessuali; modelli di<br />

affido e di adozione; conseguenze <strong>sociali</strong> sui figli di apprendimenti primari in contesti particolari<br />

(famiglie mono-parentali o ricomposte; assenza di relazioni laterali con fratelli ecc.).<br />

In sintesi, si dovrebbe ripensare al configurarsi delle cellule fondamentali <strong>della</strong> convivenza<br />

<strong>sociale</strong>, ragionando serenamente sulla portata e sui limiti di forme alternative alla famiglia<br />

tradizionalmente intesa, con tutte le necessarie conseguenze morali e politiche.<br />

Infine, è appena il caso di accennare al complesso intreccio tra le problematiche familiari e<br />

alcune questioni bioetiche, delle quali si potrebbero verificare le implicanze anche a livello <strong>sociale</strong>,<br />

come suggerisce in modo evidente l’esito <strong>della</strong> Conferenza del Cairo 90 .<br />

2. Lavoro e impresa<br />

Si può ritenere che la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> abbia inciso durevolmente (e tuttora possa<br />

incidere molto, ad esempio nei paesi in via di sviluppo) nell’ambito <strong>della</strong> cultura economica, in<br />

particolare con il mettere in guardia dai limiti dei modelli ad economia di mercato e ad economia<br />

pianificata finora storicamente realizzati. La corrispondenza concreta delle indicazioni <strong>della</strong><br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> ad esigenze che man mano sono emerse si legge nelle revisioni<br />

<strong>dottrina</strong>li del capitalismo classico e nel riconosciuto fallimento di una pianificazione economica<br />

rigida e onnicomprensiva.<br />

Peraltro, andrebbe ben verificato e distinto:<br />

90 Cfr. infra, n. 6.


- quanto ha avuto semplicemente il valore di una «previsione corretta» <strong>della</strong> necessaria<br />

evoluzione dei rispettivi sistemi, magari favorita da correnti di pensiero non riconducibili alla<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>;<br />

- quanto potrebbe essere ricondotto davvero all’applicazione <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>,<br />

ad esempio nella difesa <strong>della</strong> proprietà privata, purché finalizzata socialmente nel quadro <strong>della</strong><br />

destinazione universale dei beni terreni.<br />

In particolare, deve essere sottolineata una certa affermazione, almeno teorica, del principio<br />

secondo cui «il lavoro è per l’uomo» (quindi, la persona non deve essere asservita all’economia):<br />

tuttavia, questo appare ancor oggi un obiettivo <strong>sociale</strong> non raggiunto, nonostante il coerente<br />

insegnamento <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> fin dalle origini.<br />

Si apre a questo punto un dibattito molto ampio sulle diverse forme di politica economica e del<br />

lavoro sperimentate o teorizzate con tali finalità: dal sistema ad economia mista applicato anche in<br />

Italia al sistema polacco proposto negli anni Ottanta da Solidarnosc; dal sistema tedesco a<br />

sussidiarietà diffusa ad altri sistemi co-gestionali e partecipativi ideati nel Nord Europa<br />

(laburismo, socialdemocrazia) e altrove (ex-Iugoslavia, Israele).<br />

Una realistica lettura delle trasformazioni dei mercati e dell’impresa, soprattutto dopo il crollo<br />

di quasi tutti i regimi a <strong>sociali</strong>smo reale, può indubbiamente favorire l’approfondimento <strong>della</strong><br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> riguardo al lavoro. La sociologia infatti è interessata all’analisi dei<br />

cambiamenti in atto, con diretto riferimento anche agli effetti <strong>sociali</strong> indotti al di fuori del sistema<br />

strettamente produttivo (ad esempio: l’incidenza delle tecnologie sull’uso <strong>sociale</strong> del tempo; gli<br />

effetti <strong>della</strong> terziarizzazione sulle pratiche abitative, familiari, ricreative; le forme di alienazione<br />

indotte dall’attività lavorativa; il trasferimento dei modelli di gestione propri dell’impresa sulle<br />

realtà associative, culturali, partitiche, sindacali ecc.).<br />

Come sia possibile tradurre in pratica i principi <strong>della</strong> solidarietà e <strong>della</strong> sussidiarietà nelle<br />

politiche economiche e nei modelli concreti di comportamento già sperimentati, o comunque<br />

proponibili, nella società odierna appare un’indicazione di approfondimento assai feconda, che la<br />

sociologia può ricavare dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>.<br />

Si pensi ad esempio agli attuali dibattiti sull’economia informale e sul cosiddetto «terzo<br />

settore», comprendente attività non profit di self help e di mutual help; alle imprese<br />

cooperative e allo studio dell’interazione tra partecipazione ed efficienza nelle imprese; ai<br />

meccanismi di regolazione <strong>sociale</strong> dell’economia.<br />

3. Organizzazione dello stato<br />

Per valutare l’incidenza <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> sulle diverse forme di<br />

organizzazione dello stato, andrebbe premesso che la <strong>Chiesa</strong>, molto opportunamente, si è di<br />

norma astenuta dal proporre modelli concreti di organizzazione statuale, trattandosi in linea<br />

tecnica di soluzioni strumentali, che possono essere finalizzate a disegni politici molto diversi.<br />

L’attenzione a tenere distinti i piani dell’azione pastorale e dell’azione politica sembrerebbe<br />

rafforzata nei tempi più recenti, fino ad una sostanziale separazione: ad esempio, il medesimo<br />

richiamo esplicito al principio di sussidiarietà recepito nel trattato di Maastricht e a livello di singoli<br />

Stati sembra avere poco a che vedere con la sostanza <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>.<br />

Analogamente, la difficoltà pratica di riproporre oggi ad esempio in Italia il corporativismo dopo<br />

l’esperienza fascista, oppure il federalismo dopo la lettura leghista, non toccano alla radice la<br />

possibilità teorica di creare attraverso quei principi organizzazioni statuali rispettose <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>; né viceversa esperienze pratiche come quella dei gesuiti in Paraguay<br />

assumono valore paradigmatico in altri tempi e luoghi.<br />

Se si procede oltre i modelli organizzativi, la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> di questi ultimi<br />

decenni risulta quasi sempre, nelle sue più compiute formulazioni, chiaramente incompatibile con


egimi irrispettosi <strong>della</strong> dignità umana sotto qualunque profilo; anche se la conseguente<br />

preferenza per ciò che si chiama spesso «democrazia« appare condizionata dalle diverse<br />

interpretazioni e varianti che si sono attribuite e si attribuiscono a questo concetto 91 .<br />

Se si osserva che l’organizzazione dello stato è oggetto di approfondimento specifico di<br />

numerose discipline (soprattutto giuridiche, politologiche e filosofiche), si può ben comprendere<br />

come la sociologia possa fornire un proprio specifico contributo solo raccordandosi con altre<br />

prospettive scientifiche. Alla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> potrebbe in particolare tornare utile un<br />

contributo critico per l’individuazione di modelli <strong>sociali</strong> e culturali simili in strutture statuali<br />

diverse, ovvero di differenze <strong>sociali</strong> profonde in strutture statuali simili: infatti, per i motivi sopra<br />

accennati, questi risultati di ricerca possono favorire una lettura non ideologica dei diversi<br />

ordinamenti, cogliendo all’interno di ciascuno i punti forti e le manchevolezze, ai fini <strong>della</strong> più<br />

completa promozione umana.<br />

Quanto alle indicazioni di approfondimento che la sociologia può ricavare dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

<strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, per le considerazioni appena esposte sembra più opportuno individuare gli ambiti più<br />

promettenti di studio empirico, anziché ricercare formulazioni teoriche di approfondimento<br />

particolarmente originali sul tema dell’organizzazione dello stato.<br />

Tra questi ambiti, fatta salva la solita riserva sulla esclusiva pertinenza alla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

<strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, andrebbero quanto meno ricordate le politiche riguardanti l’educazione, come<br />

processo che non si esaurisce nella polarità tra le famiglie e gli enti formativi pubblici, ma che si<br />

manifesta come luogo di convergenza di molte agenzie educative, non ultime la <strong>Chiesa</strong> stessa col<br />

suo magistero e (più modestamente, ma capillarmente) le istituzioni educative cristiane per la<br />

formazione scolastica ed extrascolastica. Indicazioni di approfondimento analoghe potrebbero<br />

essere suggerite per il settore socio-sanitario ed assistenziale, anche per le conseguenze relative<br />

al passaggio dal Welfare State tradizionale ad una Welfare Society in cui trovino integrazione<br />

corretta le diverse espressioni del privato <strong>sociale</strong>.<br />

4. Pace e guerra<br />

Per valutare l’incidenza <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> sulla società riguardo al tema <strong>della</strong><br />

pace, sembra anzitutto necessario distinguere tra le conseguenze indotte nell’ambito decisionale<br />

ristretto dei responsabili di governo e le conseguenze sull’opinione pubblica più generale.<br />

a) Nel primo caso la diplomazia vaticana, forse più direttamente che attraverso la <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, ma ovviamente in piena sintonia, ha tentato costantemente in questo secolo<br />

di difendere il bene <strong>della</strong> pace, attraverso il peso morale dell’autorità rappresentata.<br />

Ancora a livello di azione statuale, si potrebbe citare dopo la Seconda guerra mondiale<br />

l’apporto di numerosi governi europei, guidati da forze politiche di ispirazione cristiana, per<br />

favorire attraverso varie forme di cooperazione tra gli stati il venir meno delle occasioni di guerra<br />

che da secoli dilaniavano il continente.<br />

Il progressivo appannarsi del riferimento alla «guerra giusta» ha portato da un lato al rifiuto<br />

<strong>della</strong> guerra come momento di confronto tra stati (qui appare ovvio il riferimento a quanto<br />

recepito in Italia dalla Costituzione), dall’altro al principio recente di «ingerenza umanitaria», che<br />

presuppone però un’autorità internazionale in grado di garantire l’uso legittimo <strong>della</strong> forza in modi<br />

assimilabili alla legittima difesa sul piano privatistico e alle operazioni di polizia sul piano<br />

pubblicistico. Su queste linee di tendenza sembra raccogliersi un consenso importante: forse il<br />

rinnovato prestigio delle mediazioni vaticane nelle controversie tra gli stati, ad esempio in<br />

America Latina, si spiega anche così.<br />

91 Cfr. infra, n. 5.


) A proposito dell’opinione pubblica più generale, appare talvolta difficile distinguere tra<br />

l’efficacia degli insegnamenti <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e un pacifismo di altro genere. È<br />

appena il caso di ricordare in questo caso l’uso strumentale fatto delle posizioni umanitarie <strong>della</strong><br />

Santa Sede da diverse parti politiche, certamente poco interessate ad approfondire l’importanza<br />

del legame, considerato dalla <strong>Chiesa</strong> necessario, tra la pace e la giustizia. Deve essere<br />

comunque sottolineata in questi ultimi decenni l’enfasi sull’educazione alla pace, simbolicamente<br />

collocata dalla <strong>Chiesa</strong> al primo posto come tema di riflessione all’inizio di ogni nuovo anno.<br />

Sembra piuttosto arduo identificare gli apporti precisi che la sociologia potrebbe offrire alla<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> sul tema <strong>della</strong> pace: si tratta forse di un argomento dove al sociologo<br />

conviene piuttosto recepire lo stimolo all’approfondimento e alla ricerca, ad esempio sugli aspetti<br />

più vari <strong>della</strong> conflittualità. Il conflitto <strong>sociale</strong> è peraltro un tema classico di studio, che potrebbe<br />

essere interessante sviluppare sia a livello internazionale sia all’interno di singoli stati (si pensi<br />

oggi alle ricorrenti guerre civili in alcuni paesi africani).<br />

5. Democrazia<br />

Come già accennato, i principi democratici sono riecheggiati solo indirettamente nella <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> per un lungo periodo, stante la necessità di una compiuta riflessione sui<br />

diversi significati assunti dal termine (si pensi alle «democrazie popolari» dei paesi ex-comunisti).<br />

Ora il consolidamento dei principi democratico-formali a livello politico appare generalmente<br />

condiviso e la <strong>Chiesa</strong> in certe occasioni ha dato un impulso decisivo (ad esempio in Polonia o<br />

nelle Filippine) alla caduta di regimi dittatoriali. Ma ancor prima, alla fine <strong>della</strong> seconda guerra<br />

mondiale, forze politiche di ispirazione cristiana avevano guidato in Europa la ricostruzione dei<br />

rispettivi paesi, promuovendo in particolare il ritorno alla democrazia in Italia e in Germania.<br />

Si può ritenere che la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> abbia avuto ulteriori occasioni di incidere<br />

sul dibattito relativo alla democrazia economica, sia accettando fin dalle origini le organizzazioni<br />

sindacali, sia riconoscendo la validità di forme volontarie di cooperazione e mutualità, cogestione e<br />

autogestione.<br />

Il pensiero <strong>sociale</strong> di autorevoli scienziati <strong>sociali</strong> cattolici (si pensi per l’Italia, tra gli altri, a<br />

Toniolo o a Sturzo) appare fortemente collegato allo sviluppo <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>,<br />

tanto che in più casi appare arduo discernere la direzione dei reciproci influenzamenti. Le<br />

controverse interpretazioni delle forme di democrazia, dei modelli di partito, del conflitto<br />

industriale sono state talvolta esplicitamente discusse e valutate dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong>, che progressivamente ha sostenuto con sempre maggiore precisione i vantaggi <strong>della</strong><br />

partecipazione perché sia possibile superare un concetto puramente giuridico-formale dei<br />

meccanismi democratici. Non è stata accolta invece la radicalizzazione del conflitto fino a forme<br />

di lotta violenta, come dimostra il rifiuto delle interpretazioni sociologiche di derivazione marxiana,<br />

mentre la resistenza civile (ad esempio attraverso lo sciopero) è stata considerata ammissibile in<br />

certe circostanze.<br />

Tra gli stimoli alla ricerca sui temi <strong>della</strong> democrazia che la sociologia può ricavare dalla<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, si impongono oggi i necessari approfondimenti sul sistema dei mass<br />

media: da un lato, l’analisi di questa forma pervasiva di potere si collega direttamente al tema<br />

<strong>della</strong> comunicazione 92 ; dall’altro, si colloca sulla pista già esplorata del cammino verso una<br />

democrazia sostanziale.<br />

Infatti la sociologia, dopo gli studi sugli aspetti problematici <strong>della</strong> democrazia politica (si pensi,<br />

negli anni Quaranta, alle ricerche sull’autoritarismo; o ancora negli anni Cinquanta alle ricerche<br />

sulla segregazione razziale) e sulle accennate proposte di democrazia economica (soprattutto<br />

92 Cfr. infra, n. 7.


negli anni Sessanta e Settanta), si chiede oggi se la democrazia non corra i rischi maggiori<br />

attraverso processi di omologazione delle coscienze, resi possibili dal controllo tecnologico<br />

sull’informazione: si tratta di interrogativi emersi da tempo un po’ ovunque, con il coinvolgimento<br />

di studiosi autorevoli quali Popper, quindi senza presupporre una relazione necessaria con la<br />

situazione italiana.<br />

6. Sviluppo<br />

Riguardo ai temi dello sviluppo, si può affermare che la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> abbia<br />

avuto alcune importanti intuizioni, che gradualmente sono state universalmente recepite: se è<br />

difficile valutare l’incidenza diretta di documenti quali la Populorum progressio o la Sollicitudo<br />

rei <strong>sociali</strong>s sulle società contemporanee, si può comunque ammirare la grande capacità di<br />

cogliere e talvolta di anticipare le esigenze <strong>della</strong> realtà contemporanea: si pensi ad esempio al<br />

rifiuto di una concezione solo economica dello sviluppo, ormai fatta propria anche dalla stessa<br />

World Bank. Peraltro anche in questo caso è difficile attribuire questa positiva e innegabile<br />

concordanza ad un recepimento effettivo <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, piuttosto che ad un<br />

affinamento <strong>della</strong> gamma degli indicatori di sviluppo presi in considerazione dagli scienziati<br />

<strong>sociali</strong>.<br />

Come si è accennato 93 , il tema dello sviluppo si intreccia con aspetti culturali di base, quali ad<br />

esempio la concezione <strong>della</strong> famiglia.<br />

Reciprocamente, anche riguardo alla valutazione delle relazioni tra sociologia e <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

<strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> in tema di sviluppo, più che di apporto disciplinare per l’affinamento <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong>,<br />

sembra più appropriato parlare di consonanze. Ad esempio, non è certo dalla Scuola di<br />

Francoforte che la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> ha tratto ispirazione per mettere a tema la<br />

ricordata distinzione tra benessere economico e autentico sviluppo umano e <strong>sociale</strong>; tuttavia, le<br />

riflessioni dei francofortesi sui rapporti tra incivilimento (tecnico-scientifico) e cultura vera e<br />

propria (con un proprio corredo valoriale) mettono in evidenza l’assoluta irriducibilità <strong>della</strong><br />

seconda alla prima, come avevano potuto direttamente osservare gli studiosi tedeschi allontanati<br />

dal regime nazista, che pure era tecnologicamente all’avanguardia.<br />

Infine, quanto alle indicazioni di approfondimento che la sociologia può trarre dalla <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> in tema di sviluppo, in una prospettiva pienamente umanistica andrebbe<br />

ricordata l’incessante sfida lanciata a questa disciplina dall’obiettivo di riflettere sullo sviluppo<br />

dell’intera persona e di tutta la comunità umana. Ne è un singolare riflesso la tematica, molto<br />

attuale, <strong>della</strong> qualità <strong>della</strong> vita: dopo la ricerca dei beni e dei servizi più sofisticati, il desiderio di<br />

soddisfare ad esigenze post-materialistiche da un lato può celare le ulteriori finalità edonistiche di<br />

una società ormai opulenta, dall’altro può sottolineare l’insoddisfazione spirituale che permane<br />

dove l’avere, o anche solo l’apparire, fa premio sull’essere.<br />

7. Comunicazioni<br />

Per quanto non abbia avuto uno spazio importante nei primi documenti <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

<strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, il tema delle comunicazioni <strong>sociali</strong> è stato comunque affrontato dalla <strong>Chiesa</strong> con<br />

una certa tempestività a partire dagli anni Quaranta. Si può immaginare che in Europa le<br />

preoccupazioni per un uso distorto <strong>della</strong> comunicazione siano state enfatizzate dall’aperta<br />

strumentalizzazione <strong>della</strong> radio da parte delle dittature dell’epoca, mentre in America il «quarto<br />

potere» emergeva come contraltare delle autorità politiche sia nel bene (ad esempio, quando<br />

denunciava la corruzione) sia nel male (ad esempio, quando copriva l’illegalità).<br />

93 Cfr. supra, n. 1.


Più che a livello di <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, l’argomento è stato prevalentemente trattato<br />

all’inizio a livello di etica (e talvolta di deontologia). Si può pensare che anche per questo la<br />

<strong>Chiesa</strong> di questo secolo non abbia all’origine assunto un ruolo di guida nel rapido evolversi delle<br />

comunicazioni <strong>sociali</strong>, privilegiando di solito forme tradizionali di comunicazione, quali ad esempio<br />

i fogli informativi di limitata sofisticazione tecnica. Va notato però da un lato che tali canali hanno<br />

mantenuto una non trascurabile efficacia nella formazione popolare, mentre d’altro canto in certi<br />

casi la comunicazione <strong>sociale</strong> di ispirazione cattolica ha saputo recepire rapidamente tecnologie<br />

all’avanguardia e grandi capacità di gestione professionale: si pensi ad esempio al lavoro dei<br />

Paolini. In conclusione, vi è ora in genere molta più agilità operativa e confidenza coi media (in<br />

Italia, gli spot televisivi per le offerte deducibili ne sono un esempio) e quindi una migliore<br />

attitudine comunicativa, testimoniata in particolare dal buon livello raggiunto dall’editoria cattolica,<br />

da alcuni periodici e anche dai tentativi sperimentati in campo radio-televisivo. Tuttavia, per stare<br />

sul mercato dei media, i contenuti <strong>della</strong> comunicazione di massa risultano fortemente condizionati<br />

dalle esigenze tecniche <strong>della</strong> «notiziabilità», il che nella società contemporanea spesso non<br />

incoraggia un’adeguata diffusione dei messaggi connessi alla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>.<br />

Quanto all’aiuto che la sociologia potrebbe fornire alla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> in tema di<br />

comunicazione, a livello macro-sociologico non sembra opportuno indicare aspetti contenutistici<br />

particolarmente originali: per loro natura infatti le comunicazioni <strong>sociali</strong> riguardano temi di<br />

generale interesse. Si tratta allora di valorizzare, anche sul piano metodologico, le modalità<br />

espressive di alcuni comunicatori efficaci, capaci di educare a cogliere nei valori la possibilità di<br />

rispondere ad esigenze perenni, quindi degne di interesse anche per l’opinione pubblica di oggi:<br />

non si deve pensare solo al papa, ma anche a personalità quali i cardinali Martini e Tonini, padre<br />

Gheddo o mons. Ravasi.<br />

Enorme invece potrebbe essere, a livello micro-sociologico, l’aiuto alla <strong>Chiesa</strong> in generale per<br />

comunicare meglio nelle relazioni locali, di gruppo e «faccia a faccia». In questi casi, l’obiettivo<br />

può essere quello di elevare l’efficacia di forme comunicative tradizionali, ma capillarmente<br />

diffuse, quali la stampa cattolica minore o le stesse omelie festive.<br />

Anche riguardo alle indicazioni di approfondimento che la sociologia potrebbe ricavare dalla<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> in tema di comunicazione, occorre distinguere tra le diverse modalità<br />

comunicative utilizzate in contesti «faccia a faccia», di gruppo piccolo o grande, di massa. Si<br />

potrebbe ad esempio applicare l’analisi del contenuto alla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>,<br />

probabilmente con qualche interessante risultato di ricerca, ma con più modesti impatti <strong>sociali</strong>.<br />

Molto più utili sembrerebbero studi empirici sulle modalità di comunicazione diretta: nel primo<br />

annuncio, nella predicazione, nella missione, nella catechesi dell’iniziazione cristiana, nella<br />

formazione permanente, nella direzione spirituale…<br />

Sotto certi aspetti, sarebbe facile ipotizzare che la comunicazione ecclesiale (ma che dire<br />

allora <strong>della</strong> comunicazione accademica?) non risponde alle modalità, spettacolari e concitate,<br />

diffuse nei nostri tempi: l’abitudine fin da bambini all’uso del telecomando televisivo sembra<br />

privilegiare i messaggi brevi e sloganistici, le frasi ad effetto assai poco adatte a trasmettere<br />

valori alla società odierna. Tuttavia, non si deve affatto concludere affrettatamente che le forme<br />

espressive costruite nei più sofisticati laboratori comunicativi siano le migliori possibili, e<br />

nemmeno che siano vantaggiose nel lungo periodo, anche in termini di pura efficacia. Si possono<br />

anzi immaginare effetti di saturazione, insofferenza per la mancanza di spontaneità degli<br />

atteggiamenti, ricerca di occasioni per una personale rielaborazione di messaggi più impegnativi e<br />

meno commerciali: non a caso, il potere non effimero dei maestri di pensiero si manifesta ancor<br />

oggi nella tradizionale capacità di vincolare i loro ascoltatori a tempi, codici e forme retoriche<br />

<strong>della</strong> comunicazione quasi contrapposti a quelli appena accennati.


8. Ambiente<br />

Si può sostenere che la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> abbia da sempre correttamente affrontato<br />

le tematiche ambientali, anche se all’inizio in forma implicita, attraverso l’invito a considerare la<br />

creazione come un sistema di risorse al servizio di tutta l’umanità, risorse che devono essere<br />

rispettate e trasmesse alle generazioni future. Tuttavia, l’incidenza <strong>sociale</strong> di questi principi sui<br />

comportamenti concreti appare problematica, perché non regge all’analisi critica il mito<br />

romantico di una società tradizionale rispettosa dell’ambiente e armonicamente inserita in esso.<br />

In forma più esplicita, come è noto, interventi papali ed episcopali recenti hanno messo a tema<br />

l’ambiente come risorsa non rinnovabile, che l’umanità ha in custodia e che appare minacciata da<br />

modalità scorrette di sviluppo. È evidente la necessità di rispondere con questo da un lato alle<br />

crescenti preoccupazioni ecologiche, dall’altro all’esigenza di evitare atteggiamenti fisiocentrici,<br />

dove la natura appare un idolo assoluto, a cui tutto va sottoposto, anche dimenticando l’uomo.<br />

Ancor oggi, dunque, l’incidenza <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> non sembra prevalere<br />

culturalmente e socialmente nel mondo contemporaneo. Si direbbe anzi che nella società odierna<br />

convivano schizofrenicamente: da un lato, un assoluto disprezzo e sfruttamento brutale<br />

dell’ambiente; dall’altro, un’esaltazione sfrenata dell’ambiente in sé, senza alcuna relazione con il<br />

bene dell’uomo. Vanno tuttavia riconosciuti alcuni risultati positivi ottenuti dalla Santa Sede nei<br />

consessi internazionali, in particolare quando si è trattato di collocare entro contesti più corretti e<br />

completi i dati sulla crescita demografica, rifiutando i toni catastrofistici di certo ecologismo<br />

occidentale.<br />

Per valutare l’entità dell’apporto <strong>della</strong> sociologia ambientale (o eco-sociologia) alla <strong>dottrina</strong><br />

<strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, occorre premettere che questo sotto-settore disciplinare di ricerca è<br />

relativamente giovane, ed è indirizzato per il momento all’esplorazione di temi di analisi collegati<br />

solo indirettamente alla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> vera e propria. Tuttavia, nella forma<br />

dell’ecologia umana, l’analisi sociologica ha messo in evidenza fin dalle sue origini le situazioni di<br />

marginalità e di esclusione <strong>sociale</strong> esistenti sul territorio: si può dunque affermare che, collegando<br />

l’ambiente fisico (naturale o urbanizzato) con l’ambiente <strong>sociale</strong> e relazionale, si pongono alcune<br />

premesse importanti per affrontare problematiche di grande rilevanza ai fini di una promozione<br />

umana compatibile con i diritti delle generazioni future.<br />

Quanto alle indicazioni di approfondimento che la sociologia ambientale può ricavare dalla<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, è probabile che un miglioramento del modesto livello di interazione<br />

si potrebbe ottenere se la sociologia mettesse maggiormente a tema aspetti etici e normativi di<br />

base, collegati a problemi quali lo sviluppo sostenibile, la biodiversità, il consumo energetico,<br />

l’approvvigionamento alimentare e idrico. In conclusione, l’etica ambientale appare oggi come un<br />

ponte di importanza strategica tra la sociologia e la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>. Così come<br />

osservato per i media, anche a proposito di ambiente si intravedono per questa via alcune<br />

strategie interessanti di politica internazionale, che aprono grandi prospettive di intervento nelle<br />

società globali che si vanno consolidando.


FRANCESCO VILLA<br />

LA QUESTIONE DELLA SUSSIDIARIETÀ NELLE POLITICHE SOCIALI<br />

L’analisi dei rapporti che intercorrono tra il principio di sussidiarietà ed i criteri che regolano<br />

l’organizzazione delle politiche <strong>sociali</strong> può essere sviluppata secondo una molteplicità di interessi<br />

e di approcci 94 . In questo contesto, mi limiterò a richiamare per sommi capi:<br />

- l’incidenza del principio di sussidiarietà nella storia di alcune società occidentali, con<br />

particolare riguardo al settore delle politiche <strong>sociali</strong> in Italia, in Germania, nell’Unione Europea e<br />

negli Stati Uniti d’America;<br />

- il riferimento nel quinto capitolo <strong>della</strong> Centesimus annus ad alcune teorie di politica <strong>sociale</strong>,<br />

con particolare attenzione all’analisi scientifica <strong>della</strong> crisi dello stato assistenziale;<br />

- alcune indicazioni per ulteriori approfondimenti, che è possibile ricavare dall’insegnamento<br />

<strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, per quanto riguarda l’approccio disciplinare delle politiche <strong>sociali</strong>, in<br />

relazione alla tematica dell’autonomia <strong>sociale</strong> delle comunità.<br />

1. Sussidiarietà e politiche <strong>sociali</strong> in Italia, in Germania, nell’Unione Europea e negli<br />

Stati Uniti d’America<br />

L’ordinamento politico e delle politiche <strong>sociali</strong> in Italia, Germania, nell’Unione Europea e negli<br />

Stati Uniti d’America possono essere presi in considerazione come casi emblematici di<br />

realizzazione - o meno - del principio di sussidiarietà, con diversi gradi e forme di consapevolezza<br />

e di istituzionalizzazione. Procederemo, di seguito, ad una breve analisi delle situazioni richiamate,<br />

cercando di individuare in ciascuna di esse gli elementi tipici e le caratteristiche più rilevanti.<br />

1.1. Il caso italiano<br />

Come è noto, in Italia il principio di sussidiarietà è stato in parte recepito tra gli enunciati<br />

fondamentali <strong>della</strong> Costituzione repubblicana; in particolare l’art. 2 riconosce le formazioni <strong>sociali</strong><br />

(o comunità) in cui la persona è inserita come «originarie», anteriori o comunque non subordinate<br />

- in termini assiologici - nei confronti dello Stato: ciò rappresenta una garanzia costituzionale per<br />

la loro valorizzazione prioritaria, secondo quanto stabilito dal principio di sussidiarietà. Purtroppo,<br />

nè questo principio, inteso come principio teologico-morale, nè i diritti delle formazioni <strong>sociali</strong> di<br />

cui parla il secondo articolo <strong>della</strong> Costituzione sono stati tenuti troppo in conto dal legislatore, che<br />

pure era chiamato ad ottemperare al dettato costituzionale nella sua attività di progressivo<br />

ordinamento <strong>della</strong> vita e delle istituzioni pubbliche <strong>della</strong> nazione. In particolare, questa<br />

inosservanza risulta evidente nel settore delle politiche <strong>sociali</strong>, dove - a partire dal secondo<br />

dopoguerra - si possono distinguere alcune fasi di sviluppo, che è opportuno ripercorrere per<br />

evidenziare la scarsa considerazione in cui è stato tenuto finora il principio di sussidiarietà:<br />

a) Nel periodo che va dalla conclusione <strong>della</strong> seconda guerra mondiale fino agli inizi degli anni<br />

’60, la società italiana rispecchia un modello di società liberale aperta ed orientata alla<br />

ricostruzione post-bellica che, nel campo dei servizi <strong>sociali</strong>, eredita tutti gli apparati di carattere<br />

previdenziale già messi in atto dal regime fascista, entro un modello di stato assistenziale che è<br />

ancora residuale e che si muove lentamente verso un modello istituzionale. Si discute del<br />

94 Vedi, a questo riguardo, quanto documentato nella tesi di diploma di Daniela Contini, Sussidiarietà e<br />

politiche <strong>sociali</strong>, Scuola diretta a fini speciali per assistenti <strong>sociali</strong> <strong>della</strong> Università Cattolica di Milano,<br />

Anno accademico 1993/94.


principio di sussidiarietà, anche a seguito dei lavori dell’Assemblea costituente, senza che tuttavia<br />

esso venga preso in seria considerazione per l’organizzazione delle politiche <strong>sociali</strong>.<br />

b) Nel periodo che va dall’inizio degli anni ’60 fino al 1970, prende avvio un processo di<br />

transizione in cui si cominciano ad attuare nuove leggi sui diritti <strong>sociali</strong> previsti dalla Costituzione<br />

(ad es.: obbligo scolastico) e si dibattono alcuni nodi cruciali per il successivo sviluppo delle<br />

politiche <strong>sociali</strong>, quali i temi <strong>della</strong> programmazione e del decentramento amministrativo delle<br />

funzioni socio-assistenziali alle autonomie locali, anche a seguito delle veementi critiche sorte<br />

dalla contestazione sessantottesca all’assetto tradizionale <strong>della</strong> assistenza, accusato di essere<br />

settoriale, categorizzante, paternalistico ed esclusivamente riparativo. I riferimenti al principio di<br />

sussidiarietà diventano sempre più irrilevanti e la validità stessa dell’insegnamento <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong> viene messa in discussione; anche tra i teologi c’è chi ne parla come di un evento<br />

linguistico ormai superato.<br />

c) Nel periodo 1970-75, con l’attuazione dell’ordinamento regionale, si creano le premesse per<br />

realizzare il decentramento delle funzioni socio-assistenziali dallo stato alle regioni, secondo<br />

quanto previsto dalla Costituzione agli artt. 117 e 118. I decreti del 1972 (in particolare il Dpr<br />

14.1.72, n. 1, ed altri decreti del giugno dello stesso anno, attuativi dell’art. 17 <strong>della</strong> legge n.<br />

281/1970) già prefigurano una riorganizzazione complessiva dei servizi <strong>sociali</strong> secondo il principio<br />

che deve essere l’ente locale (in primo luogo il comune, nell’ambito <strong>della</strong> funzione di<br />

programmazione e coordinamento <strong>della</strong> regione) a gestire globalmente i servizi, attraverso<br />

prestazioni uniformi, universalistiche ed orientate alla prevenzione del bisogno ed alla<br />

partecipazione dei cittadini. Il principio di sussidiarietà rimane latente, sia in ambito teorico, sia sul<br />

piano giuridico-applicativo. L’attenzione degli studiosi viene attratta dalla esperienza inglese del<br />

Welfare State, in pieno sviluppo in quegli anni.<br />

d) Con la seconda legislatura regionale (1975-80) si apre il periodo delle prime riforme<br />

sostanziali che prende avvio con la legge nazionale n. 382/1975 («norme sull’ordinamento<br />

regionale e sull’organizzazione <strong>della</strong> pubblica amministrazione»), la cui finalità è di dare<br />

un’organica sistemazione alle materie trasferite alle regioni dai decreti delegati del 1972, e,<br />

soprattutto, si concretizza con il Dpr n. 616/1977, che pone le fondamenta per la riorganizzazione<br />

dei servizi sanitari, assistenziali e di beneficienza trasferiti agli Enti locali. La legge n. 833/1978,<br />

istitutiva del Servizio sanitario nazionale, rappresenta in un certo senso il momento più<br />

significativo e rilevante di questa quarta fase; a questo punto, il disegno complessivo di riforma<br />

dei servizi <strong>sociali</strong> risulta delineato, anche se deve ancora essere completato con la legge quadro<br />

nazionale sull’assistenza, che deve risolvere annose questioni, come quella delle Ipab e del<br />

ministero competente in materia. C’è chi sostiene la necessità di pubblicizzare tutte le forme di<br />

assistenza, in chiara polemica con chi difende la libertà e il pluralismo delle istituzioni in campo<br />

socio-assistenziale. Alcuni tentativi di riparlare del principio di sussidiarietà rimangono<br />

condizionati dalle perduranti contestazioni nei confronti <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, la cui<br />

stessa dizione viene abbandonata o comunque relativizzata, in quanto «ormai legata ad un<br />

periodo storico e a un contenuto ben determinato» 95 .<br />

e) All’inizio degli anni Ottanta prende avvio una fase di risperimentazione del modello<br />

istituzionale, come conseguenza <strong>della</strong> rinuncia a livello nazionale all’attuazione di politiche<br />

totalizzanti di Welfare State, nonché <strong>della</strong> sperimentazione negli ambiti regionali del modello<br />

istituzionale, con la codificazione di nuovi rapporti di collaborazione e di integrazione tra pubblico<br />

e privato. Indici di tale fase possono essere considerate le difficoltà di attuazione <strong>della</strong> riforma<br />

sanitaria, le esigenze di una «riforma <strong>della</strong> riforma» sempre in campo sanitario, con ripetuti<br />

95 M. D. Chenu, La <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>. Origine e sviluppo (1891-1971), Queriniana, Brescia<br />

1977, p. 9.


tentativi di approvazione di nuove norme legislative, la persistente assenza di una legge-quadro<br />

dell’assistenza a livello nazionale, il varo da parte delle Regioni di leggi di riordino dei servizio<br />

socio-assistenziali, che danno ampio spazio alle iniziative di privato-<strong>sociale</strong> e di volontariato. Le<br />

incertezze sul piano istituzionale e il fallimento pratico <strong>della</strong> riforma sanitaria, soprattutto per le<br />

sue implicazioni di natura finanziaria, creano gli spazi perché si possa ritornare a parlare e a<br />

discutere attorno al principio di sussidiarietà.<br />

f) Una nuova fase si apre con gli anni Novanta, a seguito dell’approvazione a livello nazionale<br />

<strong>della</strong> legge di riforma degli enti locali (n. 142/90), di quelle sul volontariato (n. 266/91) e sulle<br />

cooperative <strong>sociali</strong> (n. 381/91), oltre che dei decreti di riforma del servizio sanitario nazionale<br />

(DD.LL. n. 502/92 e 517/93). Ci si rende conto dell’importanza <strong>della</strong> collaborazione tra pubblico<br />

e privato, in particolare delle iniziative di privato <strong>sociale</strong> e di terzo settore, delle risorse del<br />

volontariato e <strong>della</strong> cooperazione <strong>sociale</strong>. Aumenta l’attenzione nei confronti del principio di<br />

sussidiarietà, che da taluni viene teorizzato in chiave liberista, da altri in chiave solidaristica, come<br />

un possibile riferimento per superare la burocratizzazione, gli sprechi e le inefficienze dei servizi<br />

pubblici, attraverso nuovi assetti istituzionali e organizzativi, da ipotizzare e predisporre per le<br />

necessarie sperimentazioni.<br />

In sintesi, il caso italiano può essere letto come una situazione in cui il principio di sussidiarietà<br />

è stato in parte recepito dall’ordinamento costituzionale, per poi essere ignorato o contraddetto<br />

nelle scelte fondamentali di politica <strong>sociale</strong> ed, infine, riscoperto di fronte alla crisi di uno stato<br />

<strong>sociale</strong> che è degenerato in forme clientelari di assistenzialismo, di burocratizzazione e di spreco<br />

delle risorse pubbliche.<br />

1.2. Il caso tedesco<br />

In Germania, l’organizzazione dei servizi <strong>sociali</strong> è esplicitamente regolamentata dal principio di<br />

sussidiarietà. All’interno di una concezione <strong>sociale</strong> dello stato, già presente nella Legge<br />

fondamentale <strong>della</strong> Repubblica federale tedesca (l’equivalente <strong>della</strong> nostra costituzione), una<br />

sentenza del tribunale costituzionale federale, che risale al 1967, ha dato applicazione sistematica<br />

al principio di sussidiarietà, stabilendo criteri di priorità e di coordinamento con le istituzioni<br />

pubbliche per le libere associazioni di pubblica assistenza - Freie Wohlfahrtspflege 96 - che<br />

rappresentano, pertanto, il canale principale di erogazione dei servizi <strong>sociali</strong> in Germania.<br />

Va ricordato, inoltre, che il 2 dicembre 1992, in connessione con le vicende relative<br />

all’approvazione del Trattato di Maastricht, il Parlamento federale (Bundestag) ha approvato un<br />

nuovo articolo <strong>della</strong> Legge fondamentale (art. 23), nel cui primo paragrafo viene menzionato<br />

espressamente il principio di sussidiarietà : «La Repubblica federale di Germania collabora alla<br />

realizzazione di un’Europa unita sostenendo lo sviluppo dell’Unione europea, che è tenuta al<br />

rispetto dei principi democratici e dello stato di diritto, di quelli <strong>sociali</strong> e federali e al principio di<br />

sussidiarietà...» 97 . Contemporaneamente, la discussione sul principio di sussidiarietà ha trovato<br />

riscontro in un Memorandum del governo federale (18.9.1992), nei dibattiti del consiglio federale<br />

(Bundesrat), nella stampa quotidiana e settimanale, nelle cronache dei convegni, mettendo in<br />

ombra tutti i precedenti dibattiti di questo tipo nella storia <strong>della</strong> Repubblica federale 98 .<br />

96 Abbiamo tradotto il tedesco Freie Wohlfahrtspflege con «Associazioni libere di pubblica assistenza»,<br />

anziché con il più letterale «libere opere assistenziali», per meglio rendere l’attuale caratteristica<br />

istituzionale di tale associazioni, che sono gestite da enti privati, ma svolgono un importante ruolo<br />

pubblico nel campo assistenziale e dei servizi <strong>sociali</strong>.<br />

97 M. Spieker, Il principio di sussidiarietà: presupposti antropologici e conseguenze politiche, in «La<br />

Società», 1, pp. 35-50: ved. p. 37.<br />

98 Ibid., pp. 36-37.


Tutto ciò ha ulteriormente legittimato una organizzazione dei servizi <strong>sociali</strong> regolamentata dal<br />

principio di sussidiarietà, secondo cui gli enti pubblici - comuni, stati regionali (Länder) e stato<br />

federale (Bund) - intervengono con proprie iniziative in settori specifici, come gli ambiti di<br />

competenza giudiziaria, ed eventualmente in quei settori che risultano scoperti dalle<br />

Wohlfahrtspflege, limitandosi per il resto a svolgere non trascurabili funzioni di finanziamento<br />

(parziale) e di controllo nei confronti delle libere associazioni e delle loro attività assistenziali,<br />

socio-pedagogiche e di servizio <strong>sociale</strong>.<br />

Il principio di sussidiarietà viene inoltre fatto valere nei confronti di chi chiede aiuto, per<br />

invitare i cittadini innanzitutto a cercare di risolvere da sè i propri problemi, oppure con<br />

l’intervento di coloro che hanno legami <strong>sociali</strong> diretti con l’interessato. Attualmente in Germania<br />

sono sei le associazioni che coprono l’intera gamma dei servizi <strong>sociali</strong> erogati in forma<br />

organizzata. Si tratta di associazioni collegate tra di loro in forma federativa, nel senso che<br />

ciascuna è autonoma per legge, ma fa parte di una lega che le rappresenta unitariamente nei<br />

confronti dello stato e ne coordina l’azione sul territorio, aggregando alle sei associazioni<br />

principali anche altre organizzazioni minori.<br />

Queste sei associazioni attualmente sono rappresentate da una associazione di estrazione<br />

sindacale (Awo), dalla Caritas cattolica tedesca (Dcw), da un’associazione paritetica che<br />

raggruppa diversi enti, anche di natura politica e in particolare collegati al partito<br />

socialdemocratico (Dpwv), dalla Croce rossa tedesca (Drk), dalla Diaconia <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong><br />

evangelica (Dw) e dalla Associazione degli Ebrei in Germania (Zwst). Tutte queste associazioni,<br />

che hanno come fine un lavoro in comune, collaborano con i servizi pubblici per creare una rete<br />

di risorse il più possibile rispondente alla varietà di bisogni esistenti, tenendo conto anche del<br />

pluralismo culturale e <strong>della</strong> varietà di convinzioni e di fedi presenti nella società tedesca.<br />

Poiché il lavoro svolto da queste associazioni rappresenta un contributo molto importante ed al<br />

quale non si potrebbe rinunciare per l’organizzazione dei servizi <strong>sociali</strong>, esse hanno diritto a<br />

ricevere sussidi dallo stato, dai comuni e dalle regioni. Per l’attuazione dei propri compiti, tuttavia,<br />

le associazioni investono anche mezzi propri, reperiti tramite quote associative, donazioni, lasciti<br />

testamentari, libere offerte dei cittadini, soprattutto in occasione di campagne pubbliche per la<br />

raccolta dei fondi (ogni associazione ha la possibilità di fare, una volta l’anno, una raccolta di<br />

fondi per un’intera settimana, organizzata in luoghi pubblici, oppure passando di casa in casa).<br />

Alcune associazioni ricevono contributi da istituzioni con le quali sono collegate, come la Caritas<br />

cattolica e la Diaconia protestante, proprio perché non si tratta solo di libere associazioni di<br />

pubblica assistenza, ma anche di organismi appartenenti alle Chiese, dalle quali ricevono parte<br />

dell’introito delle tasse per il culto. Un’altra fonte di finanziamento è l’emissione e la vendita di<br />

francobolli validi per l’affrancatura <strong>della</strong> corrispondenza 99 .<br />

Va segnalato che alcuni autori interpretano e inquadrano il caso tedesco nel modello<br />

corporatista (corporatist model), o modello neo-corporativo, in quanto lo stato delegherebbe<br />

quasi la totalità dei compiti assistenziali ad associazioni private, incorporandole però in una<br />

organizzazione che prevede rigide norme di finanziamento e di controllo, oltre che una scarsa o<br />

nulla possibilità di accessione autonoma da parte di nuove soggettività <strong>sociali</strong> 100 . In altri termini, ci<br />

si troverebbe di fronte ad una variante neo-corporativa dello stato liberal-democratico, il<br />

99 Ved. M. Reinhard, Il sistema dei servizi <strong>sociali</strong> in Germania, in «Politiche <strong>sociali</strong> e servizi», 1993, 1,<br />

pp. 203-210.<br />

100 Ved. W. Lorenz, Social Work in a Changing Europe, Routledge, London-New York 1994, pp. 24-26;<br />

ved. anche L. Boccaccin, Il terzo settore in Germania e in Italia: elementi per una comparazione, in<br />

«Studi di sociologia», XXXI (1993), 3, pp. 269-281.


cosiddetto Corporate State 101 che, ben lontano dal corporativismo fascista o da altre forme<br />

storiche di corporativismo, fa riferimento alla tendenza degli apparati pubblici ad incorporare<br />

realtà istituzionali e associative che rappresentano interessi rilevanti <strong>della</strong> società civile, mediante<br />

meccanismi di cooptazione e di controllo, fino ad arrivare a forme di consociazione nei processi<br />

politico-decisionali 102 .<br />

Nonostante queste considerazioni di natura critica - accanto ad altre che si potrebbero dedurre<br />

dalle caratteristiche specifiche <strong>della</strong> società tedesca - riteniamo che le scelte di politica <strong>sociale</strong> e<br />

di organizzazione dei servizi praticate in Germania rappresentino una realizzazione del principio di<br />

sussidiarietà su cui valga la pena di riflettere, per cercare di risolvere almeno qualche elemento<br />

<strong>della</strong> crisi dello stato <strong>sociale</strong>, che sta dilagando non solo in Italia, ma anche negli altri paesi<br />

europei, con un incremento minaccioso dei rispettivi disavanzi <strong>della</strong> spesa pubblica. A questo<br />

proposito vale la pena di ricordare che, secondo alcune interpretazioni, oltre agli indubbi benefici<br />

che l’applicazione del principio di sussidiarietà determina per la sorte delle finanze pubbliche, in<br />

Germania sarebbe diffusa la convinzione che le libere associazioni sono in grado di svolgere i<br />

compiti ad esse assegnati anche meglio delle strutture pubbliche, con la ovvia conclusione che<br />

questa sarebbe la soluzione migliore anche per i cittadini 103 .<br />

1.3. Il principio di sussidiarietà nel Trattato dell’Unione europea<br />

Il Trattato dell’Unione europea, sottoscritto a Maastricht il 7 febbraio 1992, prevede che gli<br />

obiettivi dell’Unione siano perseguiti nel rispetto del principio di sussidiarietà. In particolare, nelle<br />

disposizioni che modificano il Trattato che istituisce la Comunità economica europea per creare la<br />

Comunità europea (titolo II), si precisa che<br />

nei settori che non sono di sua esclusiva competenza, la Comunità interviene secondo il principio di sussidiarietà soltanto se e nella misura<br />

misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli stati membri e possono dunque, a motivo delle<br />

dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario (art. 3b).<br />

Come è noto, va attribuito a Jacques Delors, oltre che alle pressioni del governo federale e<br />

dei presidenti dei Länder tedeschi 104 , il merito di aver fatto emergere sulla scena dell’Europa,<br />

protesa verso la propria integrazione, nonostante ricorrenti crisi e difficoltà crescenti, il principio<br />

di sussidiarietà, facendone - con felice intuizione - uno dei cardini dell’organizzazione comunitaria<br />

e dei rapporti tra Comunità e stati membri. Anche se è troppo presto per valutare l’efficacia<br />

operativa di tale principio, non possiamo sottovalutare l’importanza del riconoscimento ufficiale<br />

che esso ha avuto a livello europeo, anche per le ripercussioni che potrà avere nel dibattito in<br />

corso sulle prospettive di unificazione del vecchio continente.<br />

In particolare, sarà interessante verificare le applicazioni del principio di sussidiarietà nel campo<br />

delle politiche <strong>sociali</strong>, che nell’accezione comunitaria comprendono anche le politiche del lavoro.<br />

Il Libro Verde, redatto dalla Commissione delle comunità europee 105 , prevede per le politiche<br />

<strong>sociali</strong> l’ingresso in una fase decisiva, in quanto il Trattato sull’unione avrebbe aperto nuove<br />

101 Sul Corporate State si possono vedere i testi citati in A. Ardigò, Crisi di governabilità e mondi<br />

vitali, Cappelli, Bologna 1980, pp. 137-139.<br />

102 Dal punto di vista concettuale è tuttavia importante distinguere tra Corporate State, tradotto con<br />

stato neo-corporativo, e Corporatist Model applicato all’organizzazione dei servizi <strong>sociali</strong> e tradotto con<br />

l’italiano «modello corporatista». Va inoltre osservato che in italiano il termine «corporatista» risulta meno<br />

equivoco dei termini «corporativo» o «neo-corporativo», per designare i processi di incorporazione nello<br />

stato delle organizzazioni assistenziali e di servizio <strong>sociale</strong>.<br />

103 Ved. M. Reinhard, Il sistema dei servizi <strong>sociali</strong> in Germania, cit., p. 210.<br />

104 Ved. J. Delors, Entwiklungsperspektiven der Europäische Gemeinschaft, in «Aus Politik und<br />

Zeitgeschichte», 1993, 1, pp. 3-18.<br />

105 Commissione delle comunità europee - direzione generale occupazione, relazioni industriali e affari<br />

<strong>sociali</strong>, Libro Verde, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità Europee, Lussemburgo 1994.


possibilità all’intervento comunitario in campo <strong>sociale</strong>, in particolare assegnando un ruolo<br />

maggiore alle parti <strong>sociali</strong>, mentre la situazione socio-economica in trasformazione, riflessa<br />

segnatamente nel grave livello di disoccupazione, esige un riesame dei collegamenti tra politiche<br />

economiche e <strong>sociali</strong>, a livello sia nazionale sia comunitario.<br />

La politica <strong>sociale</strong> comunitaria, oltre che l’obiettivo di favorire la convergenza delle diverse<br />

politiche <strong>sociali</strong> nazionali, comprende un’ampia gamma di aree, quali la parità di opportunità, i<br />

problemi <strong>della</strong> sicurezza e <strong>della</strong> salute, l’occupazione e il diritto del lavoro, la protezione <strong>sociale</strong> e<br />

la sicurezza <strong>sociale</strong>, nonché specifici problemi fatti oggetto di interventi mirati, come la lotta<br />

contro la povertà e l’esclusione <strong>sociale</strong> (in termini sia di prevenzione sia di riabilitazione), le<br />

opportunità e i rischi per i giovani, il ruolo <strong>sociale</strong> ed economico degli anziani, la parità di<br />

opportunità per gli immigrati provenienti da paesi terzi, l’integrazione dei portatori di handicap.<br />

Di fronte a questa molteplicità di obiettivi, sarà interessante - come già si osservava - analizzare<br />

le applicazioni del principio di sussidiarietà, a partire dalle interpretazioni che ne verranno fatte<br />

per la gestione del Fondo <strong>sociale</strong> europeo, che rappresenta già un’occasione per dimostrare che<br />

un’unione di stati democratici non può funzionare senza strumenti che favoriscano la coesione<br />

economica tra regioni ricche e povere, nonché la solidarietà tra categorie <strong>sociali</strong> fortunate e meno<br />

fortunate.<br />

1.4. L’organizzazione dei servizi <strong>sociali</strong> negli Stati Uniti d’America<br />

Nonostante negli Stati Uniti non sia stato teorizzato alcun riferimento al principio di<br />

sussidiarietà, può essere utile dare uno sguardo ai criteri che presiedono in questo paese la<br />

programmazione delle politiche <strong>sociali</strong> e l’organizzazione dei relativi servizi, in quanto da tali<br />

criteri emergono alcuni spunti interessanti di analisi e di comparazione sul piano internazionale 106 .<br />

La realtà dei servizi <strong>sociali</strong>, negli Stati Uniti, è stata organizzata in prevalenza secondo criteri più<br />

pragmatici di quelli adottati in Europa, affidandone la gestione ad organismi che rientrano nella<br />

vasta categoria delle non profit organization. In genere si tratta di realtà che hanno una<br />

tradizione consolidata, risultano relativamente autonome dal punto di vista gestionaleorganizzativo<br />

e svolgono funzioni e compiti di pubblica utilità. Per questo ottengono donazioni e<br />

contributi da parte dei privati, accanto al finanziamento pubblico, che varia secondo gli stati e la<br />

tipologia dei servizi offerti, i cui costi gravano in parte anche sugli utenti-beneficiari.<br />

Per questi organismi i rapporti con le autorità pubbliche non risultano affatto semplici, in quanto<br />

gli stati tendono - attraverso un complesso meccanismo di autorizzazioni, di erogazioni di fondi e<br />

di controlli burocratici - a concepire tali organizzazioni come strutture incorporate nello stato,<br />

secondo il modello già richiamato del Corporate State. In tale contesto, pesantemente<br />

condizionato dai controlli pubblici, accanto al volontariato personale, si è sviluppato un consistente<br />

volontariato economico. Se si tiene presente, ad esempio, che solo la metà dei costi relativi ai<br />

servizi gestiti dalle Catholic Charities di Chicago grava sulle amministrazioni locali e statali<br />

(comuni, stato dell’Illinois e governo federale), è facile calcolare quanto il pubblico risparmi<br />

attraverso questo sistema di organizzazione dei servizi, che vede il concorso economico degli<br />

utenti e quello volontario di molti cittadini, di aziende e di organismi per la raccolta di fondi da<br />

destinare a scopi assistenziali e di servizio <strong>sociale</strong>, come la United Way 107 .<br />

Pur tenendo conto <strong>della</strong> varietà di situazioni presenti nella realtà complessiva degli Stati Uniti<br />

(ad esempio, nel distretto federale di Washington esiste una discreta organizzazione di servizi<br />

106 Un quadro esauriente, anche se purtroppo non interamente aggiornato, dell’organizzazione dei<br />

servizi <strong>sociali</strong> negli Stati Uniti si può trovare in S.B. Kamermann - A.J. Kahn, Social Services in the United<br />

States, Temple University Press, Philadelphia 1976: si veda in particolare il cap. VII, alle pp. 435-501.<br />

107 Ved. E. Conway, Uno sguardo sintetico sulla storia e l’attività <strong>della</strong> Caritas di Chicago, in<br />

«Politiche <strong>sociali</strong> e servizi», 1993, 2, pp. 141-165.


<strong>sociali</strong> pubblici), il quadro generale emergente è quello di una copertura molto parziale e<br />

pragmatica dei bisogni <strong>sociali</strong> più rilevanti da parte degli enti pubblici, che si avvalgono comunque<br />

<strong>della</strong> collaborazione di organizzazioni private senza fini di lucro. A queste stesse organizzazioni<br />

spetta poi il compito di procurarsi i mezzi per far fronte ai bisogni che rimangono inevasi, secondo<br />

la propria sensibilità, capacità e orientamento culturale. Siamo ben lontani, pertanto, dai modelli<br />

universalistici di politica <strong>sociale</strong> che si è cercato di realizzare in Europa. L’impressione è che la<br />

cultura dominante negli Stati Uniti, fortemente influenzata dai principi del liberismo economico e<br />

politico, incida anche in misura consistente sui criteri e sulle modalità di realizzazione del<br />

benessere <strong>sociale</strong>. In questa situazione, a fronte dello svantaggio derivante dal fatto che alcuni<br />

bisogni rimangono inevasi, si registra l’indubbio vantaggio di una mobilitazione ed una<br />

valorizzazione sul piano istituzionale di tutte le forze che possono contribuire, anche mediante<br />

risorse autonome, a realizzare politiche ed interventi di welfare.<br />

Si può pertanto sostenere che in molti stati dell’Unione sia praticato un principio di «liberismoinclusivo»,<br />

riconducibile a tendenze corporatiste, di incorporazione cioè nello stato di organismi<br />

assistenziali privati. La quota dell’80% dei servizi <strong>sociali</strong> dell’Illinois, gestiti dalla Caritas<br />

diocesana di Chicago, ben documenta come lo stato, rispettando i principi del liberismo politico,<br />

non intenda intervenire con proprie strutture in un settore dove iniziative private siano in grado di<br />

rispondere in modo efficace e generoso ai bisogni <strong>sociali</strong> <strong>della</strong> popolazione, consentendo<br />

oltretutto un risparmio di denaro pubblico di circa il 50% 108 .<br />

A questa posizione «liberale» corrisponde tuttavia una viva (e forse un po’ eccessiva)<br />

preoccupazione da parte dello Stato di controllare l’autonomia e di garantire la laicità di queste<br />

iniziative, quasi che - rinunciando ad una gestione in proprio - le autorità statali vogliano poi<br />

assimilare nei loro apparati istituzionali almeno ciò che contribuiscono a finanziare. Se questa<br />

interpretazione è corretta, accanto al paradosso in cui si vengono a trovare i servizi privati senza<br />

fini di lucro, si può parlare anche di una situazione paradossale in cui versano le politiche <strong>sociali</strong><br />

negli Stati Uniti, che accettano la libera iniziativa in campo assistenziale, ma tendono poi ad<br />

«incorporarla« attraverso complessi meccanismi di finanziamento e di controllo.<br />

Può essere interessante mettere a confronto il «liberismo-inclusivo» statunitense con il<br />

principio di «sussidiarietà» praticato in Germania, cominciando col notare come in questa nazione<br />

esista un maggior rispetto dell’autonomia e dell’identità delle libere associazioni di assistenza<br />

(Freie Wolfhartspflege) da parte dello stato, che si concepisce come «stato <strong>sociale</strong>»<br />

(Sozialstaat) in base al dettato costituzionale, a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti,<br />

dove il fallimento del progetto di riforma sanitaria, proposto dall’amministrazione Clinton nel 1994<br />

(Health Security Act), ha ulteriormente confermato il carattere settoriale e residuale delle<br />

politiche di welfare. In rapporto a queste due esperienze - che andrebbero in ogni caso<br />

ulteriormente analizzate e descritte - l’Italia si trova nella condizione di poter evitare gli errori già<br />

commessi e di mettere a frutto tutto ciò che di positivo è stato invece realizzato.<br />

Una delle strade da percorrere potrebbe essere quella di reperire le modalità per migliorare la<br />

quantità e la qualità dei servizi, anche senza ulteriori aggravi di spesa per lo stato (che in ogni<br />

caso deve fare la sua parte, soprattutto in campo fiscale), studiando le forme più pertinenti e<br />

idonee per consentire allo stato e agli enti locali di valorizzare le risorse solidaristiche presenti nel<br />

nostro paese, forse in misura maggiore che non negli Stati Uniti e in Germania. Se si decidesse di<br />

percorrere questa strada, all’interno di una concezione dello stato che non può essere diversa da<br />

quello dello stato <strong>sociale</strong> presente nella nostra costituzione, forse saremmo in grado di trovare<br />

modalità originali per coniugare l’intervento pubblico con i mondi <strong>della</strong> solidarietà, del volontariato<br />

e del privato-<strong>sociale</strong>.<br />

108 Ibid.


La stessa elaborazione giuridica del concetto di privato-<strong>sociale</strong> 109 , accanto ad una legge<br />

sull’associazionismo, dopo quelle sul volontariato e sulla cooperazione <strong>sociale</strong>, potrebbe segnare<br />

dei decisivi passi in avanti sulla strada di una definizione <strong>della</strong> collaborazione tra pubblico e<br />

privato, da far ruotare attorno al principio di sussidiarietà, interpretato attraverso il criterio <strong>della</strong><br />

«autonomia <strong>sociale</strong> delle comunità» 110 . Questo criterio di politica <strong>sociale</strong>, che fa riferimento alla<br />

necessità di valorizzare i rapporti primari nei quali l’individuo è inserito - accanto alle diverse<br />

forme di associazionismo, di volontariato e di solidarietà <strong>sociale</strong> presenti nel terzo settore - come<br />

prima possibilità di soluzione e/o di autogestione delle risposte ai problemi esistenti, può forse<br />

entrare in competizione dialettica con il «liberismo-inclusivo» statunitense e con la versione<br />

corporatista tedesca del principio di sussidiarietà, nell’elaborazione di scenari ottimali per le<br />

politiche <strong>sociali</strong> e l’organizzazione dei servizi, in alternativa agli insuccessi e ai fallimenti dello<br />

stato assistenziale.<br />

2. Sussidiarietà e stato assistenziale nella Centesimus annus<br />

I riferimenti dell’insegnamento <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> alle tematiche del Welfare State e <strong>della</strong><br />

sua crisi sono oggetto di analisi sempre più frequenti 111 . Tra tali riferimenti, un’importanza<br />

particolare riveste il paragrafo 48 dell’enciclica Centesimus annus che, analizzando il ruolo dello<br />

stato nelle moderne società industriali, rileva come si sia verificato un vasto ampliamento <strong>della</strong><br />

sua sfera d’intervento, che ha portato a costituire, in qualche modo, uno stato di nuovo tipo, lo<br />

stato del benessere (o Welfare State) ed osserva:<br />

Questi sviluppi si sono avuti in alcuni stati per rispondere in modo più adeguato a molte necessità e bisogni, ponendo rimedio a forme di<br />

povertà e di privazione indegne <strong>della</strong> persona umana. Non sono, però, mancati eccessi ed abusi che hanno provocato, specialmente negli anni<br />

più recenti, dure critiche allo stato del benessere, qualificato come stato assistenziale. Disfunzioni e difetti dello stato assistenziale derivano da<br />

un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una<br />

società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve<br />

piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti <strong>sociali</strong>, in vista del bene<br />

comune. Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento<br />

esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle<br />

spese (n. 48).<br />

Abbiamo riportato per esteso questo brano perché contiene riferimenti emblematici, che<br />

dimostrano come le critiche nei confronti dello stato assistenziale, sviluppatesi a partire dalle<br />

analisi di politica <strong>sociale</strong> degli ultimi decenni, per irraggiarsi poi anche nel dibattito politico attuale,<br />

siano servite all’insegnamento <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> per riaffermare il valore del principio di<br />

sussidiarietà, a sessant’anni di distanza dalla sua formulazione organica nella Quadragesimo<br />

anno di Pio XI ed a cent’anni dalla sua implicita enunciazione nella Rerum novarum di Leone<br />

XIII. Vale la pena, allora, richiamare di seguito alcune di tali analisi per meglio evidenziare le<br />

risultanze scientifiche utilizzate in questo contesto dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> cristiana.<br />

109 Come è noto, si tratta di un concetto formulato in ambito sociologico da Pierpaolo Donati, che<br />

attende ancora di essere adeguatamente elaborato dal punto di vista giuridico e recepito in modo<br />

sostanziale - e non occasionale - dall’ordinamento dei servizi. Cfr. P. Donati, Pubblico e privato: fine di<br />

un’alternativa?, Cappelli, Bologna 1978; P. Donati, La cittadinanza societaria, Laterza, Bari 1993, in<br />

particolare il cap. II.<br />

110 Una iniziale trattazione di questo principio può essere reperita in F. Villa, Dimensioni del servizio<br />

<strong>sociale</strong>, Vita e Pensiero, Milano 1992, pp. 75-93. Il tema dell’autonomia <strong>sociale</strong> è stato ampiamente<br />

analizzato da P. Donati, La cittadinanza, cit., cap. III.<br />

111 Ved. M. Toso, <strong>Chiesa</strong> e Welfare State, Libreria Ateneo Salesiano, Roma 1987; Welfare Society.<br />

L’apporto dei pontefici da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Libreria Ateneo Salesiano, Roma 1994;<br />

Prospettive di soluzione <strong>della</strong> crisi delle Stato del benessere alla luce <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong><br />

<strong>Chiesa</strong>, in «La Società» , 1995, 1, pp. 79-107. Ved. anche I. Colozzi, Le politiche <strong>sociali</strong> dopo la crisi del<br />

Welfare State, in «La Società», 1995, 1, pp. 109-122.


Tra le prime critiche nei confronti dello Stato del benessere, possiamo ricordare quelle che<br />

sono state formulate nell’ambito <strong>della</strong> sociologia tedesca, con analisi molto radicali e soprattutto<br />

attente agli aspetti economici e di classe delle politiche <strong>sociali</strong>. Alcuni autori, come Habermas 112<br />

e Offe 113 , hanno considerato il Welfare State come il prodotto di un compromesso - più o meno<br />

precario - tra capitalismo e democrazia di massa, ritenuti tradizionalmente incompatibili dal<br />

marxismo. Il conflitto di classe, secondo queste analisi, si sarebbe trasferito dai rapporti di<br />

produzione alle forme <strong>della</strong> redistribuzione sulla base del compromesso suggerito da J. M.<br />

Keynes 114 e delle sue politiche d’intervento statale in economia. Secondo queste interpretazioni, il<br />

capitalismo non si sarebbe tuttavia modificato nei suoi principi fondamentali e le sue<br />

contraddizioni interne e latenti sarebbero riemerse specialmente nei periodi di recessione<br />

economica. In altri termini, lo «Stato assistenziale keynesiano» 115 non sarebbe riuscito più a<br />

legittimare e riequilibrare il sistema, riparando i guasti prodotti dalle contraddizioni e dall’anarchia<br />

del mercato capitalistico, per cui - secondo una visione rivelatasi storicamente inadeguata - la<br />

crisi strutturale del tardo capitalismo non avrebbe avuto alcuna via d’uscita, anche a causa <strong>della</strong><br />

continua proliferazione di politiche economiche e <strong>sociali</strong> viziate dall’assistenzialismo.<br />

Senza passare in rassegna analiticamente altre celebri critiche di diversa matrice, come quelle<br />

di H. Wilensky, D. Bell, N. Luhmann, P. Rosanvallon, R. Nozick 116 , può essere utile richiamare<br />

la distinzione tematizzata da Cesareo tra modello riformista e modello assistenziale di Stato del<br />

benessere, che tiene conto anche di alcuni indicatori proposti dagli autori citati:<br />

a) mentre nel modello riformista l’impegno complessivo dello stato sul piano finanziario resta<br />

relativamente scarso per voci di spesa come l’assistenza sanitaria, le pensioni di vecchiaia e<br />

d’invalidità, le indennità di disoccupazione, l’assitenza a famiglie e individui in stato d’indigenza,<br />

nello stato assistenziale tale impegno si presenta elevato; in particolare crescono gli stanziamenti<br />

per la sanità, che si configura come un settore emblematico, fino a superare gli stanziamenti<br />

previsti per l’istruzione; non a caso l’istruzione risulta, invece, una forte voce di spesa nello stato<br />

riformista, che mira non tanto a determinare condizioni di uguaglianza effettiva, quanto di<br />

opportunità e di possibilità per la mobilità <strong>sociale</strong>, nella presunzione che la scuola rappresenti una<br />

di tali possibilità.<br />

b) La concezione duale dei bisogni distingue tra bisogni poveri, che si riferiscono a situazioni<br />

d’indigenza, e bisogni ricchi, che riguardano la sfera affettivo-psicologica, politica, culturale;<br />

compito dello stato, nel modello riformista, è quello d’intervenire sui bisogni poveri lasciando ai<br />

processi di autorealizzazione personale l’appagamento dei bisogni ricchi; lo stato assistenziale,<br />

invece, tende ad occuparsi di tutti i bisogni, materiali e non, di ogni cittadino, senza limite o<br />

preclusione («dalla culla alla bara», come si era soliti dire a proposito del caso svedese).<br />

c) Nello stato riformista l’erogazione delle prestazioni è commisurata al reddito dell’individuo<br />

in quanto lavoratore ed avviene attraverso azioni protettive di tipo reintegrativo; al contrario, nello<br />

stato assistenziale prevale una concezione degli interventi di tipo preventivo, che si basa su criteri<br />

politico-amministrativi che portano a considerare l’individuo come cittadino e non come semplice<br />

lavoratore, secondo criteri di razionalità meramente economica.<br />

496.<br />

112 J. Habermas, La crisi <strong>della</strong> razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Bari 1975.<br />

113 C. Offe, Lo stato nel capitalismo maturo, Etas Libri, Milano 1977.<br />

114 J.M. Keynes, The End of Laissez-faire, Wolf, London 1926.<br />

115 C. Offe, Democrazia partitica e stato assistenziale, in «Stato e mercato», 1981, 3, pp. 476-496: ved. p.<br />

116 Vedi, a questo proposito, l’analisi delle teorie degli autori citati in F. Villa, Dimensioni del servizio<br />

<strong>sociale</strong>, cit., pp. 127-158.


d) Nello stato riformista, come già accennato, il fine delle politiche <strong>sociali</strong> è l’eguaglianza delle<br />

opportunità offerte ai singoli cittadini; nello stato assistenziale l’obiettivo è l’eguaglianza completa<br />

ed effettiva, con una valutazione negativa <strong>della</strong> meritocrazia tipica delle politiche riformistiche.<br />

e) Lo stato, nel modello riformista, risulta marginale nella soddisfazione dei bisogni, rispetto ad<br />

altre «agenzie», prime fra tutte le famiglie e le imprese (cioè, l’economia di mercato); questa<br />

concezione residuale dell’azione statale nel modello assistenziale viene sostituita da un’altra<br />

concezione che implica il trasferimento delle competenze, nel soddisfacimento dei bisogni, dalle<br />

famiglie e dalle imprese verso le istituzioni politiche; lo stato occupa tutti gli spazi <strong>della</strong> società, in<br />

analogia a quanto avviene nel modello «totale» di Welfare State 117 .<br />

Può essere utile ricordare, infine, che lo stato assistenziale, nella sua versione italiana, è stato<br />

indagato, all’interno di una prospettiva di tipo sociologico, da diversi autori, tra i quali possiamo<br />

ricordare Ugo Ascoli, Massimo Paci e Maurizio Ferrera; quest’ultimo utilizza un metodo di tipo<br />

più specificatamente storico, o meglio di storia politica e socio-economica. Ascoli, riprendendo in<br />

modo originale la tipologia di Titmuss (1958), propone di distinguere tra modello residuale,<br />

modello meritocratico-particolaristico-corporativo, modello meritocratico-particolaristicoclientelare<br />

e modello istituzionale-redistributivo di Stato del benessere. Massimo Paci concorda<br />

con Ascoli nel sostenere l’esistenza di una tradizione particolaristico-clientelare nel sistema<br />

italiano di welfare, che necessiterebbe pertanto di una riforma in senso universalisticoegualitario.<br />

All’interno di un’ampia analisi storico-<strong>sociale</strong>, Maurizio Ferrera sottopone a verifica<br />

empirica le ipotesi del particolarismo-meritocratico e dell’universalismo-egualitario, confermando<br />

la validità euristica del modello particolaristico-clientelare - già utilizzato da Ascoli e da Paci - per<br />

interpretare la forma storica e le caratteristiche strutturali del Welfare State all’italiana.<br />

Senza procedere oltre nell’analisi e nella discussione delle teorie che abbiamo ricordato, ci<br />

sembra che non sia difficile ammettere una certa connessione tra i teoremi e i paradigmi <strong>della</strong><br />

crisi del Welfare State, elaborati prevalentemente in ambito sociologico 118 , e le critiche <strong>della</strong><br />

Centesimus annus nei confronti di una concezione assistenziale dello stato.<br />

3. Dalla sussidiarietà all’autonomia <strong>sociale</strong> delle comunità<br />

Partendo dalla sussidiarietà, come principio di teologia morale 119 , cercheremo di sviluppare<br />

qualche indicazione per ulteriori approfondimenti scientifici da effettuare nel campo nelle<br />

politiche <strong>sociali</strong>, al fine di individuare le applicazioni più pertinenti che se ne possono effettuare,<br />

sia in termini teorici sia pratici. A questo proposito ci sembra interessante documentare la<br />

corrispondenza tra il principio di sussidiarietà e quello dell’autonomia <strong>sociale</strong> delle comunità, già<br />

teorizzato in Italia nel dibattito sulla costituzione 120 ed attualmente in fase di studio e di<br />

discussione nell’ambito del servizio <strong>sociale</strong> e delle politiche <strong>sociali</strong> 121 .<br />

L’ipotesi che ci guida è che dal principio di sussidiarietà si possano ricavare elementi teoricopratici<br />

di approfondimento e di confronto con il correlativo principio di politica <strong>sociale</strong>, che fa<br />

riferimento al valore dell’autonomia <strong>sociale</strong> delle comunità. In altri termini, ci sembra che lo<br />

117 Ved. V. Cesareo, Espansione e crisi dello “stato del benessere” in Italia, in Stato e senso dello<br />

stato oggi in Italia, Vita e Pensiero, Milano 1981, pp.178-212.<br />

118 Ved. P. Donati, Risposte alla crisi dello stato <strong>sociale</strong>, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 35-53.<br />

119 Cfr. Sollicitudo rei <strong>sociali</strong>s, n. 41.<br />

120 Ved. G. La Pira, Il valore <strong>della</strong> costituzione italiana, in «Cronache <strong>sociali</strong>», 1948, 2, pp. 1-3.<br />

121 Ved. F. Villa, Dimensioni del servizio <strong>sociale</strong>, cit. e P. Donati, La cittadinanza societaria, cit.


stesso dibattito sulle dimensioni negative e positive del principio di sussidiarietà 122 possa trovare<br />

nel valore finalistico dell’autonomia <strong>sociale</strong> - che ovviamente non può prescindere dal bene<br />

comune - un importante elemento concettuale di chiarimento, in stretta connessione con l’origine<br />

etimologica del termine sussidiarietà che, come è noto, fa riferimento al latino subsidium afferre.<br />

Da una declinazione del principio di sussidiarietà in rapporto a quello di autonomia <strong>sociale</strong> si può<br />

forse sperare, inoltre, di ricavarne una interpretazione autonomista, da sperimentare come «via<br />

italiana», all’interno di un confronto di natura competitiva con altre concezioni, in particolare con<br />

quella corporatista che sembra invece prevalere in Germania e con il liberismo-inclusivo<br />

caratteristico degli Stati Uniti.<br />

Per questo, può essere opportuno partire da una prima definizione del concetto di autonomia<br />

<strong>sociale</strong>, precisando che nell’orizzonte delle politiche <strong>sociali</strong>, con tale concetto ci si intende riferire,<br />

innanzitutto, alla sfera dei rapporti <strong>sociali</strong> primari nei quali la persona è inserita ed alle risorse di<br />

cui è possibile disporre di volta in volta per rispondere ai bisogni <strong>sociali</strong> emergenti. La famiglia e<br />

le reti di parentela, come prime comunità naturali, gli amici, il vicinato, le comunità elettive, con<br />

varie forme di esperienze associative e di appartenenza <strong>sociale</strong>, vengono considerate come<br />

altrettante occasioni di autonomia e di possibile autogestione <strong>della</strong> risposta ai bisogni presenti in<br />

ogni convivenza umana.<br />

L’essere umano, inteso come persona, rappresenta il riferimento antropologico di questo<br />

concetto di autonomia <strong>sociale</strong>. Ciò rende necessario essere consapevoli <strong>della</strong> complessità del<br />

dibattito sul personalismo che si è sviluppato nell’ambito <strong>della</strong> cultura contemporanea, partendo<br />

comunque da radici ben più remote. In tale prospettiva, è doveroso ricordare che si è soliti<br />

definire con il concetto di persona la singolarità dell’essere umano in rapporto agli altri esseri<br />

viventi, ma è necessario evidenziare anche che tale singolarità non è sempre stata riconosciuta<br />

nello stesso modo 123 . Uno degli esiti ai quali è arrivato il dibattito sul personalismo, oggi, è la<br />

contrapposizione semantico-critica tra i termini individuo e persona: l’individuo viene inteso,<br />

secondo le versioni più radicali dell’individualismo, come un essere autonomo ed autosufficiente,<br />

distinto e dotato di uno spirito ostile e di sopraffazione nei confronti degli altri individui; la persona<br />

viene intesa, invece, come dotata di una naturale e costante apertura nei confronti degli altri,<br />

attraverso cui si realizza l’innata <strong>sociali</strong>tà dell’essere umano 124 .<br />

In rapporto a questi riferimenti di natura antropologica, l’autonomia <strong>sociale</strong> viene interpretata<br />

come manifestazione <strong>della</strong> naturale e innata relazionalità <strong>della</strong> persona ed implica una dimensione<br />

assiologica che ci induce a proporla come un valore etico, da cui possono essere ricavati i<br />

principi giuridici per costruire l’ordinamento politico <strong>della</strong> società. In tal senso risulta correlativa al<br />

principio di sussidiarietà che, come si è già avuto modo di notare, è stato in parte recepito dalla<br />

nostra costituzione. Giova ricordare, infatti, che nella costituzione il principio dell’autonomia<br />

<strong>sociale</strong> rappresenta il corrispettivo a livello sociologico <strong>della</strong> concezione metafisica che sostiene<br />

l’anteriorità <strong>della</strong> persona umana rispetto alla società e allo Stato 125 . In particolare l’art. 2 <strong>della</strong><br />

costituzione riconosce le formazioni <strong>sociali</strong> (o comunità) in cui la persona è inserita come<br />

originarie, anteriori o comunque non subordinate allo stato: ciò rappresenta una garanzia<br />

costituzionale per la loro valorizzazione. A tale proposito è stato giustamente osservato che si<br />

tratta, in definitiva, di una garanzia costituzionale che riconosce e tutela le autonomie <strong>sociali</strong>, la<br />

122 Ved. L. Rosa, Il «principio di sussidiarietà» nell’insegnamento <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, in<br />

«Aggiornamenti <strong>sociali</strong>», 1962, 11, pp. 4-21 e M. Spieker, Il principio di sussidiarietà, cit.<br />

123 Ved. F. Villa, Dimensioni del servizio <strong>sociale</strong>, cit., pp. 80-81 e 221-224.<br />

124 Ved. F. Villa, Presentazione dell’edizione italiana, in H. Falk, La prospettiva dell’appartenenza nel<br />

servizio <strong>sociale</strong>, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. XI-XIV.<br />

125 Cfr. G. La Pira, Il valore <strong>della</strong> costituzione italiana, cit.


libertà delle singole comunità, allo stesso modo in cui riconosce e tutela l’autonomia personale, la<br />

libertà delle persone singole 126 .<br />

La persona, come soggetto <strong>della</strong> relazione <strong>sociale</strong>, e le relazioni interpersonali che si<br />

esprimono attraverso diverse forme di autonomia <strong>sociale</strong> trovano dunque un fondamento<br />

giuridico di natura complementare nella nostra costituzione. In altri termini, l’ordinamento<br />

giuridico dello stato riconosce e garantisce non soltanto i diritti dell’uomo singolo come inviolabili,<br />

cioè caratterizzati da un fondamento anteriore allo stesso ordinamento giuridico positivo, ma<br />

anche i diritti dei singoli associati nelle comunità, alle quali viene così garantita l’autonomia e il<br />

necessario sostegno (subsidium) da parte dello stato. Questa garanzia costituzionale delle<br />

autonomie <strong>sociali</strong> è la base del principio del pluralismo, senza il quale non è possibile parlare<br />

seriamente di stato democratico. L’uomo nella costituzione italiana risulta pertanto qualificato<br />

come persona e non come individuo, in quanto lo si concepisce come dotato di una naturale<br />

apertura verso i suoi simili e gli si attribuisce un dovere inderogabile di solidarietà nei confronti<br />

degli altri uomini.<br />

È opportuno sottolineare, inoltre, che le autonomie <strong>sociali</strong> hanno il loro corrispettivo più<br />

prossimo a livello istituzionale e territoriale nelle autonomie locali, con tutto ciò che questo<br />

comporta in termini di decentramento amministrativo e nella gestione dei servizi. È necessario,<br />

tuttavia, non confondere l’autonomia <strong>sociale</strong> con l’autonomia locale, dal momento che la seconda<br />

deve essere concepita come derivata dalla prima, di cui è indispensabile riconoscere<br />

l’originarietà. Interpretare, invece, l’autonomia locale semplicemente come una forma di<br />

decentramento dello stato, anziché come risultato e sintesi delle autonomie <strong>sociali</strong>, può indurre a<br />

negare il valore originario di queste ultime, che deve invece essere riconosciuto e legittimato<br />

giuridicamente dagli ordinamenti dello stato, oltre che implementato dalle politiche <strong>sociali</strong>.<br />

In termini di filosofia politica, l’autonomia <strong>sociale</strong> delle comunità, che ha il suo presupposto<br />

nella natura personalista dell’essere umano, implica una ben precisa interpretazione <strong>della</strong> società,<br />

contrapposta alle concezioni di tipo assolutistico, come quella di Hobbes, dell’idealismo hegeliano,<br />

del marxismo-leninismo, di alcune forme di liberalismo idealistico e in tutte le dittature e i<br />

totalitarismi. Secondo questa concezione lo stato è depositario dei valori <strong>della</strong> convivenza civile e<br />

deve dettare le norme e i contenuti ai quali si deve attenere la società nel suo complesso: la<br />

persona e i gruppi <strong>sociali</strong> risultano pertanto inferiori e sottoposti allo stato, che viene concepito -<br />

nella maggior parte dei casi - come uno stato etico.<br />

Il principio dell’autonomia <strong>sociale</strong> delle comunità presuppone invece - come già evidenziato -<br />

l’originarietà e l’anteriorità <strong>della</strong> persona rispetto allo stato, con la conseguenza che anche i gruppi<br />

<strong>sociali</strong> e le comunità «vengono prima» di qualsiasi ordinamento statale. Allo stato spetta<br />

l’importante responsabilità e il compito di riconoscere i valori presenti nelle aggregazioni <strong>sociali</strong> e<br />

di consentirne l’espressione, lo sviluppo e il libero confronto, finalizzato alla costruzione del bene<br />

comune. L’anteriorità <strong>della</strong> persona rispetto allo stato risulta pertanto la discriminante filosofica<br />

che fonda il principio dell’autonomia <strong>sociale</strong> delle comunità, che in ogni caso - giova ricordarlo -<br />

risulta alternativo anche nei confronti dell’individualismo, costitutivo di varie forme di liberismo.<br />

Passando ora a considerare in modo più specifico il campo delle politiche <strong>sociali</strong>, possiamo<br />

innanzitutto osservare che una corretta realizzazione del principio dell’autonomia <strong>sociale</strong> delle<br />

comunità presuppone una concezione <strong>sociale</strong> dello stato, che faccia riferimento innanzitutto ad<br />

una corretta articolazione funzionale tra stato e società, nel senso che lo stato deve riflettere, per<br />

quanto possibile, le diverse posizioni presenti nella società (concezione pluralista dello stato) ed<br />

ogni gruppo o parte <strong>sociale</strong> di un certo rilievo, in particolar modo i cittadini meno abbienti, devono<br />

partecipare alla redistribuzione del reddito operata dallo stato. In altre parole, lo stato <strong>sociale</strong> è<br />

126 Ved. G. Garancini, Strutture <strong>sociali</strong> e «prassi di libertà» nella costituzione italiana, in «Cristiani e<br />

società italiana», 1978, 7, pp. 1-22.


per sua natura uno stato democratico poiché, a differenza dello stato liberale, di tipo tradizionale,<br />

che limitava la cittadinanza attiva ai più abbienti, nel suo ambito nessun gruppo o parte <strong>sociale</strong><br />

può essere esclusa dalla rappresentanza politica o essere privata <strong>della</strong> possibilità di esprimere la<br />

propria soggettività <strong>sociale</strong> e d’influire al pari degli altri sulle decisioni pubbliche.<br />

Inoltre, lo stato <strong>sociale</strong> è uno stato interventista poiché, contrariamente allo stato liberale che si<br />

asteneva dall’intervenire nel sistema socio-economico, quello <strong>sociale</strong> si ispira alla filosofia<br />

opposta di svolgere un ruolo attivo nei rapporti economico-<strong>sociali</strong>, in particolare regolando e<br />

correggendo - se necessario - il funzionamento del mercato e dei meccanismi <strong>della</strong> libera<br />

concorrenza, nonché determinando la redistribuzione del reddito nazionale attraverso una<br />

molteplicità di canali, tra i quali possiamo ricordare: la politica fiscale e dei prezzi, i servizi <strong>sociali</strong><br />

e sanitari (in particolare a favore dei meno abbienti e dei disabili) la garanzia del diritto allo studio<br />

e gli indispensabili provvedimenti a favore dell’occupazione, sempre più minacciata dalle logiche<br />

di mercato, dagli sviluppi tecnologici e dai processi di internazionalizzazione <strong>della</strong> economia.<br />

Per poter realizzare forme adeguate di autonomia <strong>sociale</strong>, all’interno di una concezione <strong>sociale</strong><br />

dello stato, è necessario elaborare nuovi modelli di politica <strong>sociale</strong> capaci di realizzare una forte<br />

interazione relazionale fra le tre modalità fondamentali di allocazione delle risorse: quella privata<br />

(mercato), quella pubblica (stato) e quella di privato-<strong>sociale</strong> (terzo settore), che rappresenta per<br />

certi aspetti la forma da privilegiare per potenziare e valorizzare l’autonomia <strong>sociale</strong> delle<br />

comunità. Per questo occorre un accumulo di approfondimenti teorici e di sperimentazioni che<br />

consentano la predisposizione di nuovi scenari e di inevitabili mutamenti istituzionali e<br />

organizzativi. Inoltre, il valore <strong>della</strong> solidarietà, richiamato dalle leggi del nostro stato soprattutto<br />

nello spazio riconosciuto al volontariato e alla cooperazione <strong>sociale</strong>, propone nuove frontiere per<br />

la realizzazione di quegli stessi diritti civili, politici e <strong>sociali</strong>, che rischiano di impoverirsi,<br />

deligittimarsi e regredire nell’orizzonte burocratico del stato assistenziale, ma che possono essere<br />

implementati e valorizzati da uno stato <strong>sociale</strong> che riconosca ed attui a tutti i livelli istituzionali il<br />

valore dell’autonomia <strong>sociale</strong> delle comunità.<br />

I necessari approfondimenti teorici possono far riferimento alla linea di ricerche tracciata da<br />

Donati, che ha già avviato un’indagine sul tema dell’autonomia <strong>sociale</strong> e delle sue implicazioni<br />

«im-politiche» sulla cittadinanza, in rapporto alle dinamiche culturali del post-moderno, come<br />

fenomeno da cui emergono nuove forme di autopoiesi <strong>sociale</strong>, nonché alle difficoltà, alle obiezioni,<br />

alle resistenze, alle ambivalenze, ai paradossi dell’autonomia nelle società democratiche<br />

contemporanee ed alle molteplici esigenze di riorganizzazione delle comunità personali e di nuove<br />

soggettività <strong>sociali</strong> all’interno di una società civile delle autonomie <strong>sociali</strong>. In particolare Donati ha<br />

individuato esigenze emergenti di autonomia nella famiglia, nella scuola, nei servizi <strong>sociali</strong> e<br />

sanitari, nella pubblica amministrazione, nelle imprese, nelle associazioni, nel terzo settore (dove il<br />

privato <strong>sociale</strong> potrebbe rappresentare una forma innovativa di gestione per tutti i servizi di<br />

pubblica utilità), nel sistema dei mass-media e nelle comunità locali 127 .<br />

Le sperimentazioni possono invece riferirsi in modo più immediato ad una tipologia di casi di<br />

autonomia <strong>sociale</strong> che comprendono la famiglia, la famiglia di servizio, l’autogestione dei servizi,<br />

il volontariato e la cooperazione. Riteniamo utile, a tale proposito, riproporre un elenco elaborato<br />

da Raffaella Sutter 128 :<br />

a) La famiglia può essere considerata come una forma di autonomia <strong>sociale</strong> e come un’unità<br />

primaria di servizi, in quanto luogo in cui si soddisfano i bisogni personali primari e in cui il lavoro<br />

domestico sostituisce, compensa e integra i servizi <strong>sociali</strong>. Tutta la legislazione <strong>sociale</strong> e sanitaria<br />

attuale, «i cui principi cardine sono la deistituzionalizzazione, la territorializzazione, la<br />

127 Ved. P. Donati, La cittadinanza societaria, cit., pp. 143-195.<br />

128 R. Sutter, Strumenti solidaristici nelle nuove politiche <strong>sociali</strong>, in Le frontiere <strong>della</strong> politica <strong>sociale</strong>,<br />

a cura di P. Donati, cit., pp. 373-404.


desegregazione, implica necessariamente la valorizzazione <strong>della</strong> famiglia o più in generale <strong>della</strong><br />

forma famiglia» 129 . Gli strumenti per tale valorizzazione possono essere:<br />

1. Strumenti monetari. Si possono citare, come esempi, l’esperienza tedesca (RFT) degli<br />

«assegni educazione» e quella finlandese dell’indennità per allevare in famiglia i figli piccoli 130 .<br />

Ricordiamo anche l’importanza degli assegni familiari, la proposta dei buoni scuola per la libera<br />

educazione dei figli e quella degli assegni per il mantenimento presso le famiglie degli anziani<br />

inabili.<br />

2. Part-time. L’incremento delle forme di lavoro part-time può facilitare un’organizzazione più<br />

flessibile <strong>della</strong> vita familiare e consentire la riorganizzazione del tempo di lavoro in rapporto alle<br />

esigenze <strong>della</strong> famiglia e dei bisogni dei suoi membri più deboli.<br />

3. Assistenza domiciliare. Si tratta, come è noto, di uno dei servizi di sostegno alla famiglia,<br />

alternativi alla istituzionalizzazione, tra i più diffusi in Europa ed ormai anche nel nostro Paese. In<br />

generale ha l’obiettivo di aiutare la persona in difficoltà (anziano, handicappato, malato mentale,<br />

minore in difficoltà, ecc.) a rimanere nel proprio nucleo familiare e nel proprio ambiente.<br />

Presenta i seguenti vantaggi: è meno costosa di qualsiasi forma di istituzionalizzazione; è<br />

sufficientemente flessibile da potersi adeguare alle diverse esigenze delle famiglie; non tende a<br />

sostituirsi alle persone, ma ad aiutarle ad essere autosufficienti. Nelle diverse realtà il servizio<br />

può essere gestito dal pubblico o dal privato-<strong>sociale</strong>, in collaborazione con il volontariato e può<br />

essere gratuito, semi-gratuito o a pagamento, in rapporto ai diversi criteri di redistribuzione di<br />

volta in volta adottati dai decisori delle politiche <strong>sociali</strong>.<br />

4. Servizi semi-residenziali. Possono contribuire a fare in modo che una famiglia con grossi<br />

problemi possa mantenere al suo interno i propri membri: ci si riferisce in particolare alle forme di<br />

ospedalizzazione diurna per anziani ed ai centri diurni per handicappati, malati di mente, ecc.<br />

b) Famiglia di servizio: comprende diverse esperienze, quali la famiglia come alternativa al<br />

nido, la famiglia affidataria, il gruppo famiglia:<br />

1. Famiglia come alternativa al nido. Sutter analizza due esperienze, quella svedese del Famil<br />

jedaghem e quella tedesca <strong>della</strong> Tagesmutter; in entrambi i casi si tratta di un’alternativa<br />

all’asilo nido che permette alle madri con figli piccoli di accudire al proprio domicilio figli di altre<br />

madri che lavorano, fino ad un massimo di quattro-cinque bambini. In generale, nelle<br />

sperimentazioni considerate, è stato notato un migliore sviluppo socio-affettivo dei bambini<br />

affidati ad altra famiglia rispetto ai bambini affidati agli asili; inoltre l’esperienza ha reso possibile<br />

una soddisfacente elaborazione <strong>sociale</strong> del ruolo di casalinga, favorendo la possibilità di contatti<br />

<strong>sociali</strong>, di professionalizzazione e valorizzazione delle proprie capacità, nonché il crearsi di forme<br />

di solidarietà tra donne.<br />

2. Famiglia affidataria. Sotto questa voce è possibile comprendere diverse forme di<br />

integrazione e/o sostituzione <strong>della</strong> famiglia d’origine, quando questa non ci sia o sia ritenuta<br />

inidonea a svolgere i propri compiti nei confronti dei minori:<br />

- l’affidamento familiare come strumento privilegiato <strong>della</strong> legge per garantire la sostituzione,<br />

limitata nel tempo, <strong>della</strong> famiglia d’origine;<br />

- la famiglia d’appoggio come strumento alternativo all’affidamento familiare vero e proprio,<br />

con compiti di sostituzione e/o di sostegno <strong>della</strong> famiglia d’origine per brevi periodi o per una<br />

parte <strong>della</strong> giornata;<br />

- la persona di riferimento, nel caso di adolescenti devianti, di minori in libertà provvisoria, di<br />

handicappati, di etilisti che necessitano di una persona adulta con funzioni di sostegno e di<br />

controllo; Sutter ricorda che in Svezia la persona di riferimento, regolarmente pagata, è uno<br />

strumento molto usato nei casi di devianza minorile e di etilismo.<br />

129 Ibid., p. 384.<br />

130 Ibid., p. 385.


3. Gruppo famiglia. Può essere di due tipi:<br />

- una famiglia che si rende disponibile ad accogliere individui, in prevalenza minori, in<br />

situazione di bisogno e svolge come «professione» tale servizio, sia stabilmente, sia in situazioni<br />

di emergenza;<br />

- famiglia di operatori che svolgono un ruolo di educatori per piccoli gruppi (bambini,<br />

adolescenti, handicappati, ecc.) proponendo un modello di vita familiare.<br />

c) Autogestione dei servizi. Si ha quando un gruppo di persone che ha un problema ne gestisce<br />

insieme le modalità di risposta. La gamma di tali modalità può andare dalle forme più pure di selfhelp<br />

alle forme di cogestione. Un esempio del primo tipo può essere un centro per handicappati<br />

autogestito dalle famiglie interessate, mentre un esempio del secondo tipo può essere un comitato<br />

di gestione di anziani in una casa di riposo, che si occupa di alcuni aspetti organizzativi <strong>della</strong><br />

struttura.<br />

d) Volontariato. Ricordiamo le seguenti forme di volontariato socio-assistenziale, in parte<br />

regolamentate dalla legge nazionale n. 266/91 e da diverse leggi regionali:<br />

-volontariato che si esercita a livello istituzionale nelle strutture pubbliche;<br />

-volontariato di privato-<strong>sociale</strong> che può esercitarsi entro istituzioni e associazioni, caratterizzato<br />

da varie forme di convenzione con l’ente pubblico;<br />

- volontariato riconosciuto come utile dall’ente pubblico, ma che non accede allo strumento<br />

<strong>della</strong> convenzione e quindi non entra nei sistemi di controllo pubblico;<br />

- volontariato privato spontaneo, non formalmente strutturato, che si muove al di fuori di<br />

qualsiasi forma istituzionale di rapporto con il pubblico.<br />

e) Cooperazione. Sia le cooperative di servizio in senso stretto, sia le cooperative di produzione<br />

e lavoro di tipo solidaristico hanno trovato un supporto legislativo nella legge n. 381/91. Le prime<br />

si sono sviluppate sul concetto di mutualità allargata, secondo il quale destinatari dell’attività<br />

cooperativa possono essere, oltre ai soci, tutti gli appartenenti al gruppo <strong>sociale</strong> di riferimento<br />

<strong>della</strong> singola cooperativa: anziani, minori, handicappati, tossicodipendenti, ecc. Nella seconda il<br />

lavoro e la produzione sono strumenti per sostenere la <strong>sociali</strong>zzazione e la riabilitazione di fasce<br />

di popolazione con problemi, in particolare handicappati, malati mentali, ex tossicodipendenti.<br />

Come si può notare, con la famiglia di servizio, le varie forme di autogestione dei servizi, il<br />

volontariato e la cooperazione <strong>sociale</strong> ci troviamo di fronte a manifestazioni dell’autonomia<br />

<strong>sociale</strong> che possono essere considerate a pieno titolo anche elementi costitutivi del terzo settore,<br />

la cui valorizzazione può - a sua volta - implementare ulteriormente l’autonomia <strong>sociale</strong> delle<br />

comunità. Il terzo settore può allora essere considerato contemporaneamente manifestazione e<br />

strumento di tale autonomia, intesa come un’attuazione finalisticamente corretta del principio di<br />

sussidiarietà nel campo delle politiche <strong>sociali</strong>. In tal modo, è possibile evidenziare una connessione<br />

organica tra l’insegnamento <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> e la necessità di valorizzare le iniziative<br />

solidaristiche - come quelle sopra elencate - che fanno parte integrante del terzo settore.<br />

La riscoperta e valorizzazione del terzo settore, accanto allo Stato e al mercato, può dunque<br />

essere ricondotta ad una nuova lettura <strong>della</strong> tradizione solidaristica preesistente all’intervento<br />

pubblico in campo socio-assistenziale, che riemerge nella società contemporanea con particolare<br />

vigore e con espressioni variegate e molteplici. Per alcuni autori, infatti, la riproduzione del terzo<br />

settore è inevitabile nelle attuali società complesse, sia per gli eccessivi costi di transazione di<br />

certi servizi, sia per lo scadimento <strong>della</strong> qualità dei servizi pubblici e per l’eccessivo costo di quelli<br />

offerti dal mercato 131 , sia per la continua, molteplice e differenziata espansione <strong>della</strong> domanda,<br />

131 Ved. A.O. Hirschman, Lealtà, defezione, protesta, Bompiani, Milano 1982 (ed. or. 1970).


che rimane insoddisfatta e che fa emergere, in modo sempre più evidente, la funzione<br />

anticipatoria e insostituibile dei gruppi di volontariato 132 .<br />

In altri termini, si ha come l’impressione di trovarsi di fronte ad uno sviluppo <strong>sociale</strong> in cui si<br />

riscopre l’importanza di alcuni elementi culturali ed operativi preesistenti, di cui si era come<br />

dimenticata l’esistenza e che, in alcuni casi, si era anche cercato (invano) di espellere dalla<br />

storia. Ci sembra pertanto legittimo sostenere che per poter superare l’attuale crisi dello Stato<br />

<strong>sociale</strong> è indispensabile recuperare in modo adeguato tali elementi, secondo il vero senso del<br />

principio di sussidiarietà. In questo contesto interpretativo, diventa legittimo sostenere che «il<br />

terzo diventa primo» 133 , in quanto le iniziative solidaristiche che nelle società complesse vengono<br />

fatte rientrare sotto la denominazione di terzo settore, non rappresentano altro che il riemergere<br />

del protagonismo originario dei soggetti <strong>sociali</strong>, che non deve essere usurpato, bensì<br />

implementato secondo la logica del principio di sussidiarietà e di quello dell’autonomia <strong>sociale</strong><br />

delle comunità -inteso in senso solidaristico 134 - all’interno di contesti storici, culturali e istituzionali<br />

spesso contraddittori, nel quadro dei grandi cambiamenti che stanno investendo la società<br />

contemporanea 135 .<br />

È importante, infine, sottolineare che con la promozione di queste forme di autonomia <strong>sociale</strong><br />

non si intende affatto proporre una riduzione quantitativa dell’impegno, soprattutto economico,<br />

dello Stato nel campo dei servizi <strong>sociali</strong>, bensì una sua mutazione qualitativa, per meglio<br />

rispondere agli innumerevoli bisogni presenti nella società, alcuni dei quali rimangono inevasi<br />

anche a causa degli sprechi esistenti. In altri termini, rimane irrinunciabile il ruolo dell’ente<br />

pubblico, in rapporto ai compiti di programmazione, finanziamento, sostegno, coordinamento e<br />

controllo delle molteplici forme di autonomia e di autogestione che scaturiscono dalle aree di<br />

intervento che abbiamo richiamato. Si tratta, allora, di trovare le forme e le modalità più idonee<br />

per attivare forme sempre più compiute di autonomia <strong>sociale</strong>, valorizzando tutte le risorse<br />

presenti nella società, soprattutto nel contesto attuale, connotato sempre più da un’elevata<br />

competitività, che induce comportamenti e orientamenti di natura individualistica, oppure<br />

marginalità, emarginazione e devianza, come spesso capita per i più deboli e per i più deprivati<br />

dal punto di vista ascrittivo.<br />

In questo contesto, che ovviamente implica anche una ridefinizione dei compiti dello stato,<br />

diventa sempre più urgente «reincastrare la solidarietà nella società» 136 e «rifondare la<br />

solidarietà» 137 , al fine di conquistare orizzonti contemporaneamente post-liberali e postsocialdemocratici,<br />

meno ambivalenti e conflittuali di quelli <strong>della</strong> pura logica del mercato e meno<br />

burocratici, anonimi ed assistenziali di quelli del Welfare State, bensì più consoni ai principi di<br />

sussidiarietà e di autonomia <strong>sociale</strong>, nonché alle caratteristiche dello stato <strong>sociale</strong> presente nella<br />

nostra Carta costituzionale.<br />

132 Ved. B. Weisbrod, The Voluntary Non-profit Sector, Lexington Books, New York 1977.<br />

133 Ved. F. Villa, I terzi saranno i primi? Terzo settore e logica <strong>della</strong> solidarietà,, in «Orientamenti», n.<br />

8-9, pp. 53-76.<br />

134 Ved. F. Villa, Solidarietà e sussidiarietà, in «Fogli di informazione e di coordinamento Mo. Vi.», 1,<br />

1996, pp. 5-9.<br />

135 Cfr. L. Boccaccin, La sinergia <strong>della</strong> differenza, Angeli, Milano 1993; A. Colozzi-Bassi, La solidarietà<br />

efficiente, La Nuova Italia, Firenze 1995; Sociologia del terzo settore, a cura di P. Donati, Nis, Roma 1996.<br />

105.<br />

136 Ved. P. Rosanvallon, Lo stato provvidenza tra liberalismo e <strong>sociali</strong>smo, Armando, Roma 1984, p.<br />

137 Ved. P. Rosanvallon, 1995, pp. 13-102.


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LAURA ZANFRINI<br />

LO SVILUPPO: INDICAZIONI PER LA RICERCA SOCIOLOGICA<br />

Il punto di partenza per queste brevi note di riflessione è rappresentato dalla caduta del<br />

consenso lungamente attribuito alla categoria dello sviluppo, sviluppo inteso fondamentalmente<br />

come crescita economica perseguibile attraverso l’industrializzazione.<br />

A partire dal secolo XIX le società occidentali, e parecchie altre al loro contatto, hanno riposto la loro speranza in un progresso<br />

continuamente rinnovato, indefinito. Questo progresso appariva loro come lo sforzo di liberazione dell’uomo nei confronti delle necessità <strong>della</strong><br />

natura e delle coartazioni <strong>sociali</strong>; era la condizione e la misura <strong>della</strong> libertà umana. Diffuso dai mezzi moderni di informazione e dallo stimolo<br />

del sapere e di consumi più estesi, il progresso diventa una ideologia onnipresente. Tuttavia un dubbio nasce oggi sia sul suo valore sia sulla<br />

sua riuscita. Che significa questa caccia inesorabile d’un progresso che sfugge ogni volta che si è persuasi di averlo conquistato? Non dominato,<br />

esso lascia insoddisfatti. Senza dubbio si sono denunciati, a giusto titolo, i limiti e anche i danni di una crescita economica puramente<br />

quantitativa, e ci si auspica di raggiungere anche obiettivi di ordine qualitativo (Octogesima adveniens, n. 41).<br />

Ma all’epoca di Paolo VI - ha scritto l’attuale pontefice nella Sollicitudo rei <strong>sociali</strong>s - era<br />

ancora diffuso un certo ottimismo circa la possibilità di colmare, senza sforzi eccessivi, il ritardo<br />

economico dei popoli poveri, di dotarli di infrastrutture ed assisterli nel processo di<br />

industrializzazione. La presente situazione del mondo offre invece un’impressione piuttosto<br />

negativa, ed evidenzia un approfondimento del divario tra paesi ricchi e paesi poveri, ed altresì<br />

una diffusione - che coinvolge lo stesso mondo sviluppato - delle situazioni di sottosviluppo «non<br />

soltanto economico, ma anche culturale, politico e semplicemente umano» (Sollicitudo rei<br />

<strong>sociali</strong>s, n. 15).<br />

La sociologia, e più in generale le scienze <strong>sociali</strong>, hanno indubbiamente contribuito dapprima<br />

ad alimentare la fiducia incondizionata nello sviluppo, e poi a sopprimerne i presupposti culturali e<br />

<strong>sociali</strong>. Dalla concezione di uno sviluppo unilineare e continuo, destinato a coinvolgere, attraverso<br />

la diffusione <strong>della</strong> cosiddetta «modernizzazione», tutte le regioni del pianeta, si è<br />

progressivamente lasciato spazio a una visione dello sviluppo come processo problematico,<br />

contraddittorio, portatore di conseguenze non sempre di segno positivo. «Lo sviluppo non è un<br />

processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, come se, a certe condizioni, il genere<br />

umano debba camminare spedito verso una specie di perfezione indefinita» (Sollicitudo rei<br />

<strong>sociali</strong>s, n. 27). Lo sviluppo, quindi, non può essere interamente affidato alle forze del mercato e<br />

dell’emulazione, ma reclama la capacità di selezionare gli obiettivi e di controllarne gli effetti<br />

perversi, cioè in sintesi reclama una capacità di regolazione politica: «Non consiste il vero<br />

progresso» - afferma ancora Paolo VI nella Octogesima adveniens - «nello sviluppo <strong>della</strong><br />

coscienza morale che condurrà l’uomo ad assumersi solidarietà allargate e ad aprirsi liberamente<br />

agli altri e a Dio?».<br />

Nell’economia di questa nostra breve riflessione ci sembra utile concentrare l’attenzione su<br />

alcune specifiche declinazioni di quanto precede.<br />

1. Una prima declinazione è rappresentata dalla consapevolezza delle interdipendenze che<br />

strutturano l’attuale sistema economico mondiale. Nella storia <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong><br />

questa consapevolezza è per la prima volta espressa in forma esplicita da Giovanni XXIII nella<br />

Mater et magistra e poi ulteriormente sottolineata da Paolo VI nella Populorum progressio<br />

dove lo sviluppo è assunto a nuovo nome <strong>della</strong> pace.<br />

Le scienze <strong>sociali</strong> hanno inizialmente preteso di descrivere questa situazione attraverso le<br />

«teorie <strong>della</strong> dipendenza», rivelatesi peraltro incapaci (al pari degli approcci più ottimisti circa le<br />

sorti del mondo sottosviluppato, a partire dalla nota teoria degli stadi di sviluppo) di dare conto di<br />

esperienze di sviluppo atipiche rispetto ai modelli consolidati, o impreviste.<br />

Oggi appare vieppiù chiaro come l’interpretazione dello sviluppo - e del sottosviluppo, nella<br />

misura in cui ha ancora senso ricorrere a questa espressione - non possa più risolversi nella


contrapposizione tra regioni e paesi ricchi e regioni e paesi poveri. La nuova geografia<br />

economica mondiale tende a evidenziare l’esistenza di una sorta di gerarchia di territori dotati di<br />

differenti capacità di integrare efficacemente risorse (materiali e immateriali) endogene ed<br />

esogene e, soprattutto, di accedere ai network internazionali attraverso i quali avviene la<br />

circolazione delle informazioni e <strong>della</strong> ricchezza. Le «città globali», quelle cioè in cui si<br />

concentrano le funzioni terziarie maggiormente qualificate, fungono da nodi nel contesto di tali<br />

network, ma questa loro posizione privilegiata, che rende possibile l’integrazione del sistema<br />

economico mondiale, sembra andare a discapito <strong>della</strong> capacità di irrorare proficuamente la<br />

periferia più immediata. La frontiera tra sviluppo e sottosviluppo, denunciano le encicliche più<br />

recenti, attraversa gli stessi paesi ricchi: questo ammonimento delinea un ambito ancora in buona<br />

parte inesplorato dagli scienziati <strong>sociali</strong>, e comunque non affermato con sufficiente forza. Quale<br />

ruolo verrà ad assumere ciascun territorio nel contesto <strong>della</strong> cosiddetta «nuova divisione<br />

internazionale del lavoro»? Quali potenzialità fertilizzatrici sono connesse con le più innovative<br />

concentrazioni di attività ad elevata tecnologia (i parchi tecnologici, per esempio)? Qual è il grado<br />

di reversibilità dell’attuale distribuzione <strong>della</strong> ricchezza e del sapere? Quali correttivi possono<br />

essere adottati per contenere gli squilibri <strong>sociali</strong> e territoriali di cui sono foriere le nuove<br />

dinamiche di sviluppo fondate sul controllo delle tecnologie più sofisticate? Qual è la reale<br />

capacità inclusiva - o viceversa il rischio di marginalizzazione - che contraddistingue i sistemi<br />

produttivi post-fordisti?<br />

Un ambito in qualche modo idealtipico per l’analisi di queste problematiche è indubbiamente<br />

rappresentato dalle grandi città, che da un lato adempiono, come si è appena ricordato, al ruolo di<br />

nodi connettori, un ruolo fondamentale per il funzionamento dell’economia mondiale, ma dall’altro<br />

incarnano i limiti e le contraddizioni degli attuali modelli di sviluppo. Nelle metropoli mondiali si<br />

contrappongono l’élite avvantaggiata dai processi di internazionalizzazione e l’underclass non<br />

soltanto esclusa ma spesso vittima dei processi di sviluppo 138 . Alla luce di questa situazione, che<br />

coinvolge le stesse capitali dei paesi più ricchi del mondo, il monito di Giovanni Paolo II acquista<br />

il suo più pieno significato: «dovrebbe esser pacifico che lo sviluppo o diventa comune a tutte le<br />

parti del mondo o subisce un processo di retrocessione anche nelle zone segnate da un costante<br />

progresso. Fenomeno, questo, particolarmente indicativo <strong>della</strong> natura dell’autentico sviluppo: o vi<br />

partecipano tutte le Nazioni del mondo, o non sarà veramente tale» (Sollicitudo rei <strong>sociali</strong>s,<br />

n.17).<br />

2. Uno degli indicatori più emblematici delle conseguenze <strong>della</strong> globalizzazione dell’economia è<br />

quello delle migrazioni internazionali. A questo proposito va sottolineato come i documenti<br />

pontifici, enfatizzando la libertà di movimento che discende dal fondamentale principio <strong>della</strong><br />

dignità dell’uomo, implicitamente denunciano la limitatezza delle cosiddette «visioni idrauliche» di<br />

questo problema, cioè del tipo di interpretazione che, limitandosi a un solo esempio eloquente, ha<br />

informato lo stesso documento preparatorio ai lavori <strong>della</strong> Conferenza mondiale <strong>della</strong> popolazione<br />

svoltasi al Cairo nel 1995. Visioni, cioè, che enfatizzano unilateralmente il ruolo dei cosiddetti<br />

138 «Tappa indubbiamente irreversibile nello sviluppo delle società umane, l’urbanesimo pone all’uomo<br />

difficili problemi: come determinare la crescita, regolarne l’organizzazione, ottenerne l’animazione per il<br />

bene di tutti. In questa crescita disordinata nascono, infatti, nuovi proletariati. Essi s’installano nel cuore<br />

delle città, talora abbandonate dai ricchi; si accampano nelle periferie, cintura di miseria che già assedia in<br />

una protesta ancora silenziosa il lusso troppo sfacciato delle città consumistiche e sovente scialacquatrici.<br />

Invece di favorire l’incontro fraterno e l’aiuto vicendevole, la città sviluppa le discriminazioni e anche<br />

l’indifferenza; fomenta nuove forme di sfruttamento e di dominio, dove certuni, speculando sulle necessità<br />

degli altri, traggono profili inammissibili. Dietro le facciate si celano molte miserie, ignote anche ai più<br />

vicini; altre si ostentano dove intristisce la dignità dell’uomo: delinquenza, criminalità, droga, erotismo»<br />

(Octogesima adveniens, n. 10).


«fattori di spinta», primo fra tutti la pressione demografica, trascurando il ruolo dei fattori<br />

d’attrazione.<br />

Porre al centro dell’analisi di questa questione l’intenzionalità del soggetto che emigra, così<br />

come suggerisce il magistero <strong>sociale</strong>, implica viceversa lo sviluppo di un approccio relazionale.<br />

Implica cioè la considerazione del complesso delle determinanti storiche, <strong>sociali</strong>, culturali e<br />

psicologiche che ne sono alla base, che stabiliscono un legame tra il paese d’origine e quello di<br />

immigrazione e che generano un complesso di aspettative in capo al soggetto migrante. Tra le<br />

tante implicazioni di un approccio relazionale allo studio delle migrazioni se ne possono qui<br />

ricordare due, particolarmente significative e strettamente connesse al tema dello sviluppo.<br />

La prima è quella espressa dal concetto di «<strong>sociali</strong>zzazione anticipatoria», che si realizza<br />

principalmente attraverso l’azione dei mass-media che veicolano l’immagine di società opulente<br />

ed eccezionalmente inclusive, un’immagine che si ripercuote sull’immaginario del potenziale<br />

migrante (i ripetuti sbarchi di albanesi in Italia ne costituiscono una drammatica testimonianza).<br />

Di qui un certo tipo di progetto migratorio - peraltro fortunatamente non generalizzabile -,<br />

orientato all’emulazione dei modelli di consumo occidentali più che al risparmio e al<br />

reinvestimento in patria; un progetto che esprime una rottura con l’ambiente d’origine<br />

acriticamente giudicato inferiore a quello d’adozione (salvo poi dovere affrontare le tante<br />

difficoltà e le disillusioni che un simile progetto inevitabilmente porta con sé).<br />

La seconda implicazione è rappresentata dalla funzione di specchio che l’immigrazione<br />

adempie, mettendo a fuoco le caratteristiche positive e negative, e soprattutto le contraddizioni,<br />

<strong>della</strong> società ospite e del suo modello di sviluppo. Evidente, nell’esperienza italiana, il dato<br />

dell’eterogeneità territoriale <strong>della</strong> condizione degli immigrati (che riflette la differente dotazione di<br />

risorse economiche e progettuali delle varie aree del paese) nonché quello del crescente scarto<br />

tra modello economico e modello <strong>sociale</strong> di sviluppo, che spiega come migliaia di lavoratori<br />

stranieri abbiano potuto trovare una collocazione nel mercato del lavoro regolare pur in presenza<br />

di significativi tassi di disoccupazione autoctona. D’altro canto, è questo stesso attributo del<br />

fenomeno migratorio a configurarlo come una risorsa, oltre che economica e culturale, in termini<br />

di policy, offrendo alle società ospiti una peculiare occasione di ripensare su se stesse e di<br />

progettare il proprio futuro; dal punto di vista delle comunità ecclesiali la presenza straniera<br />

costituisce, come ha avuto modo di sottolineare il card. Martini, una «formidabile occasione<br />

salvifico-profetica».<br />

Come verrà più avanti precisato, l’analisi <strong>della</strong> struttura delle relazioni possiede una valenza<br />

euristica di assai ampia portata, ben oltre la fenomenologia migratoria, e attualmente giustamente<br />

rivalorizzata dagli scienziati <strong>sociali</strong>. Da questo punto di vista, l’attenzione che la <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

da sempre sollecita per le dimensioni <strong>sociali</strong> ed umane <strong>della</strong> fenomenologia economica appare<br />

precorritrice di una sensibilità che solo ora comincia a dimostrare le sue reali potenzialità<br />

interpretative.<br />

3. Un altro tema che merita di essere ricordato è quello <strong>della</strong> regolazione politica e <strong>sociale</strong><br />

dell’economia.<br />

Un motivo costante, nel magistero <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, è rappresentato dalla sottolineatura<br />

<strong>della</strong> necessaria presenza dello stato nella vita economica, ed accanto ad esso del ruolo dei c.d.<br />

«corpi intermedi» - a partire dalla famiglia - a sostegno dell’integrazione <strong>sociale</strong>. Dalla<br />

compresenza di queste due categorie di attori <strong>della</strong> regolazione discende l’indicazione del<br />

principio di sussidiarietà inteso come criterio fondamentale per la distribuzione delle competenze<br />

tra i vari livelli di governo e tra le varie agenzie <strong>della</strong> <strong>sociali</strong>zzazione.<br />

Rispetto alle prospettive <strong>della</strong> riflessione sociologica numerosi sono indubbiamente i temi che<br />

meriterebbero un particolare approfondimento. Ne ricordiamo solo alcuni.


Un primo tema è strettamente connesso con l’evoluzione, più sopra richiamata, che produce la<br />

diffusione di situazioni di sottosviluppo anche nel contesto del mondo sviluppato: la Sollicitudo<br />

rei <strong>sociali</strong>s individua tra gli indici specifici di questo fenomeno la crisi degli alloggi e il fenomeno<br />

<strong>della</strong> disoccupazione e <strong>della</strong> sotto occupazione. Queste questioni configurano un terreno<br />

ampiamente battuto dagli scienziati <strong>sociali</strong>, ma tuttora degno di attenzione. Importa soprattutto<br />

sottolineare il dibattito in corso sulla riformulazione del modello di assistenza e di protezione<br />

<strong>sociale</strong>, nella direzione di un passaggio dal Welfare State - la forma tipicamente associata<br />

all’epoca fordista - alla Welfare Community, con tutte le implicazioni che questo passaggio<br />

comporta nei vari ambiti di tradizionale intervento dello stato <strong>sociale</strong> (politiche del lavoro, politiche<br />

alloggiative, politiche socio-sanitarie e così via).<br />

In un senso più ampio, i meccanismi di regolazione costituiscono al giorno d’oggi una<br />

componente fondamentale del funzionamento dell’economia, la cui rilevanza appare rafforzata,<br />

rispetto all’epoca fordista, in considerazione del non determinismo delle nuove tecnologie. Il<br />

quadro istituzionale, la fisionomia assunta dalle relazioni tra i diversi attori, la configurazione<br />

internazionale dei rapporti tra le nazioni, le opzioni politiche di fondo disegneranno in gran parte il<br />

futuro dell’economia e <strong>della</strong> società in forme che potranno risultare più o meno egualitarie e<br />

democratiche.<br />

È opportuno, in particolare, sottolineare la necessità che l’azione degli attori politici si qualifichi<br />

tramite l’assunzione di obiettivi di interesse generale, ciò che indubbiamente garantisce una<br />

maggiore capacità inclusiva a un determinato modello di sviluppo, svincolando questa stessa<br />

azione dalle richieste particolaristiche - situazione che, come eloquentemente dimostra<br />

l’esperienza del Mezzogiorno d’Italia, produce gravi effetti perversi. Il perseguimento di interessi<br />

collettivi appare tuttavia vieppiù difficile, data l’attuale evoluzione in direzione di una crescente<br />

diversificazione dei bisogni e delle aspettative: risulta pertanto necessario ed urgente<br />

approfondire la riflessione degli scienziati <strong>sociali</strong> in ordine ai criteri atti all’individuazione di ciò<br />

che le encicliche definiscono tradizionalmente come bene comune 139 .<br />

Un’attenzione particolare merita, da questo punto di vista, il già richiamato principio di<br />

sussidiarietà, idoneo a regolare l’attribuzione dei poteri in funzione di un contenimento degli<br />

squilibri presenti a livello locale, nazionale e internazionale. Nella sua accezione più modesta,<br />

quello di sussidiarietà è un principio tecnico, funzionale all’efficace suddivisione delle competenze<br />

tra i diversi livelli territoriali. Ma, assunto in un’accezione più profonda, la nozione di sussidiarietà<br />

possiede un’indubbia dimensione etica e politica. Anche questo principio deve però essere<br />

ripensato, in ragione di una progressiva perdita di pertinenza dei tradizionali livelli di governo, e<br />

<strong>della</strong> necessità di sostituire una suddivisione basata su territori fisici con una basata sugli spazi,<br />

eventualmente virtuali, nei quali si strutturano le reti relazionali. Se infatti si assume, secondo<br />

139 «L’attività economica (...) rischia di assorbire, se eccede, le forze e la libertà. È la ragione per cui si<br />

palesa necessario il passaggio dall’economia alla politica. È vero che sotto il termine “politica” sono<br />

possibili molte confusioni che devono essere chiarite, ma ciascuno sente che nel settore <strong>sociale</strong> ed<br />

economico, sia nazionale che internazionale, l’ultima decisione spetta al potere politico.<br />

Codesto, in quanto è il vincolo naturale e necessario per assicurare la coesione del corpo <strong>sociale</strong>, deve<br />

avere per scopo la realizzazione del bene comune. Esso agisce nel rispetto delle legittime libertà degli<br />

individui, delle famiglie e dei gruppi sussidiari, al fine di creare efficacemente e a vantaggio di tutti le<br />

condizioni richieste per raggiungere il vero e completo bene dell’uomo, ivi compreso il suo fine spirituale.<br />

Esso si muove nei limiti <strong>della</strong> sua competenza, che possono essere diversi secondo i paesi e i popoli; e<br />

interviene sempre nella sollecitudine <strong>della</strong> giustizia e <strong>della</strong> dedizione al bene comune, di cui ha<br />

responsabilità ultima. Tuttavia non elimina così il campo d’azione e le responsabilità degli individui e dei<br />

corpi intermedi, onde questi concorrono alla realizzazione del bene comune (...).<br />

Conforme alla propria vocazione, il potere politico deve sapersi disimpegnare dagli interessi particolari<br />

per considerare attentamente la propria responsabilità nei riguardi del bene di tutti, superando anche i limiti<br />

nazionali» (Octogesima adveniens, n. 46).


l’insegnamento che proviene dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, che il fondamentale compito <strong>della</strong><br />

politica sia quello di edificare il massimo bene possibile per l’uomo, si deduce che tale compito<br />

richiede la capacità di discernere - certamente col supporto degli uomini di scienza - gli spazi<br />

d’azione storicamente e geograficamente più efficaci. La stessa mitizzazione delle società locali,<br />

in cui sembra essere incorsa parte <strong>della</strong> letteratura elaborata nel recente passato dalle scienze<br />

<strong>sociali</strong>, deve allora essere problematizzata, segnatamente alla luce di una rinnovata esigenza di<br />

solidarietà che limiti e corregga la selettività - territoriale e <strong>sociale</strong> - delle attuali dinamiche di<br />

crescita.<br />

4. Un’ultima provocazione che può essere tratta dalla <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> - e che sta<br />

sullo sfondo di tutte le considerazioni che qui abbiamo svolto - è la necessità di non limitarsi a<br />

considerare la dimensione economica dello sviluppo, approfondendone viceversa altresì i<br />

presupposti e le conseguenze di diversa natura. Questa necessità è strettamente connessa, come<br />

ha bene posto in evidenza l’enciclica Populorum progressio, con la consapevolezza<br />

dell’interdipendenza universale che costringe a modificare la concezione stessa dello sviluppo: «Il<br />

vero sviluppo non può consistere nella semplice accumulazione di ricchezza e nella maggiore<br />

disponibilità di beni e servizi, se ciò si ottiene a prezzo del sottosviluppo delle moltitudini, e senza<br />

la dovuta considerazione per le dimensioni <strong>sociali</strong>, culturali e spirituali dell’essere umano»<br />

(Sollicitudo rei <strong>sociali</strong>s, n. 9).<br />

Ora, questa multidimensionalità <strong>della</strong> questione dello sviluppo è stata generalmente indagata<br />

soprattutto con riguardo agli effetti perversi di una concezione strettamente economicista dello<br />

sviluppo stesso, oppure con riguardo alla possibilità di coniugare proficuamente sviluppo<br />

economico e sviluppo <strong>sociale</strong> dando vita ad iniziative imprenditoriali atipiche (si pensi al vasto<br />

settore <strong>della</strong> cosiddetta economia <strong>sociale</strong>) e comunque considerate di importanza marginale<br />

rispetto ai percorsi di crescita del sistema economico complessivo.<br />

È significativo invece sottolineare come negli ultimi anni stia sempre più prendendo piede la<br />

consapevolezza dell’importanza delle relazioni - e quindi, se si vuole, dello sviluppo <strong>sociale</strong> - in<br />

ordine alla stessa crescita economica. Non si tratta soltanto di decretare il definitivo superamento<br />

<strong>della</strong> divisione tra la fabbrica e la società imposta dal modello produttivo fordista, ma altresì di<br />

riconoscere come l’intera fenomenologia economica non possa essere adeguatamente compresa<br />

prescindendo da un’analisi delle componenti umane e <strong>sociali</strong> che ne sono alla base, e in<br />

particolare da un’analisi delle relazioni, non soltanto di natura mercantile, che strutturano il<br />

funzionamento dei sistemi economici contemporanei.<br />

L’ipotesi, ancora in gran parte da esplorare, concerne la proponibilità di una sorta di<br />

«paradigma relazionale» dello sviluppo, cioè di un modello interpretativo, costruito sull’importanza<br />

dell’elemento relazionale, nel quale si possano fare convergere una serie di processi che vanno<br />

dall’evoluzione delle concezioni dell’imprenditorialità e dell’innovazione all’affermazione di<br />

modalità organizzative post-fordiste, dalle nuove configurazioni spaziali dei sistemi produttivi al<br />

ripensamento del ruolo <strong>della</strong> regolazione politica dell’economia e così via 140 . Un modello, in altri<br />

termini, che definisca un sistema economico e la sua competitività a partire dalla sua dotazione di<br />

beni relazionali.<br />

La stessa fenomenologia delle cosiddette nuove povertà può in gran parte essere letta<br />

attraverso una condizione di esclusione dalle reti di relazioni: i nuovi poveri sono gli homeless, gli<br />

immigrati stranieri privi del sostegno dei connazionali, ma sono anche gli abitanti delle periferie<br />

urbane degradate, i disoccupati di lunga durata, gli psicolabili incapaci di relazionarsi agli altri in<br />

140 La natura squisitamente relazionale dell’agire economico è suggestivamente espressa da questo<br />

passo contenuto nella prefazione <strong>della</strong> Laborem exercens: «Il lavoro porta su di sé un particolare segno<br />

dell’uomo e dell’umanità, il segno di una persona operante in una comunità di persone».


maniera normale, e così via, cioè in definitiva chi non ha voce, neppure per esprimere richieste<br />

d’aiuto. Per altro verso, le stesse politiche assistenziali, nella misura in cui tendono verso il<br />

modello che abbiamo ricordato <strong>della</strong> Welfare Community, investono strategicamente sulla<br />

promozione delle relazioni quali strumenti privilegiati di inserimento socioeconomico.


EUGENIO ZUCCHETTI<br />

LAVORO E RUOLO DELLE ISTITUZIONI<br />

1. Quella del corretto rapporto tra istituzioni e attori economici e <strong>sociali</strong> costituisce una<br />

questione di indubbia rilevanza in ordine al lavoro e alla sua regolazione.<br />

Da qualche tempo si è operata una ridiscussione dei paradigmi tradizionali, per approdare ad<br />

una lettura <strong>della</strong> regolazione dei processi economici e del lavoro che va oltre la considerazione<br />

esclusiva del mercato. Accanto e insieme a quest’ultimo, come hanno insegnato Polanyi e altri<br />

studiosi di discipline sociologiche, agiscono altri istituti regolatori come lo stato e la comunità. Con<br />

riferimento più specifico al mercato del lavoro, gli agenti regolatori sono costituiti certo dal<br />

mercato individualistico ma insieme, e forse più, dalla contrattazione collettiva, dall’istituzione<br />

statale, dalle relazioni comunitarie. Tali istituti regolatori <strong>della</strong> distribuzione e dell’organizzazione<br />

del lavoro agiscono contestualmente dentro una formazione <strong>sociale</strong> in un mix variabile sotto il<br />

profilo temporale e spaziale.<br />

Per altro verso, tutto il dibattito attorno alla degenerazione assistenziale dello stato <strong>sociale</strong> ha<br />

messo in luce il rischio di uno slittamento in senso statalistico del modello di organizzazione<br />

<strong>sociale</strong>, per cui lo stato stesso diventa produttore, erogatore, gestore e amministratore. Sul<br />

versante <strong>della</strong> politica del lavoro, in particolare, esso ha agito secondo un disegno centralizzatore<br />

e monopolistico.<br />

La pluralità dei soggetti coinvolti e interagenti nella complessità organizzativa delle società<br />

avanzate e l’esistenza quindi di processi di forte interdipendenza nelle economie moderne<br />

costituiscono, d’altra parte, gli aspetti maggiormente evidenziati dal recente dibattito in sede<br />

scientifica. Anche rispetto al lavoro e al suo governo è stata adottata un’ottica pluralista,<br />

mettendo in luce il ruolo dei diversi soggetti <strong>sociali</strong>, privati e pubblici. La complementarietà tra le<br />

diverse azioni e competenze si specifica nel senso del riconoscimento/valorizzazione <strong>della</strong><br />

soggettività <strong>sociale</strong> e del ripensamento del ruolo <strong>della</strong> stato, come definitore di ambiti, garante di<br />

orizzonti di bene comune, compensatore di squilibri, oltre una sua declinazione in termini<br />

assistenziali ed erogatori. Proprio i più recenti orientamenti in tema di politiche del lavoro fanno<br />

propri l’assunzione di una metodologia di cooperazione tra i soggetti <strong>sociali</strong>, che privilegia un<br />

gioco cooperativo e non conflittuale per la soluzione dei problemi concreti del mercato del lavoro<br />

e <strong>della</strong> formazione professionale, e la ricerca dell’integrazione tra le istituzioni coinvolte e/o<br />

competenti 141 .<br />

È questa una tematica che sta al centro <strong>della</strong> <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong>, se è vero che il<br />

senso dell’insegnamento in merito al rapporto tra lavoro e istituzioni può essere racchiuso nella<br />

parabola, temporale e di riflessione, esplicitata dalle affermazioni seguenti:<br />

- l’organizzazione del lavoro spetta ai soggetti direttamente interessati, datori di lavoro e<br />

operai, non allo stato, se non in via di supplenza 142 ;<br />

- l’economia di mercato è pienamente accettabile a patto che essa sia opportunamente<br />

controllata «dalle forze <strong>sociali</strong> e dallo stato, in modo da garantire la soddisfazione delle esigenze<br />

fondamentali di tutta la società» (Centesimus annus, n. 35);<br />

- esiste, accanto a un datore di lavoro diretto, un datore di lavoro indiretto, ovvero persone e<br />

istituzioni, ma anche principi di comportamento capaci di determinare l’intero sistema socioeconomico<br />

e quindi di influire sui rapporti e sulle condizioni di lavoro (Laborem exercens, n. 16).<br />

141 Cfr. E. Zucchetti, Politica del lavoro e dimensione locale, Angeli, Milano 1996.<br />

142 Cfr. Pio XII, Radiomessaggio nel 50° <strong>della</strong> «Rerum novarum».


Viene pertanto affermato il primato <strong>della</strong> persona, titolare del diritto-dovere al lavoro, e si indica<br />

nel riferimento al bene comune ciò che giustifica l’intervento dello stato: si potrebbe dire che vi si<br />

afferma il ruolo regolativo <strong>della</strong> politica, e non meramente sanzionatorio dei processi <strong>sociali</strong> e dei<br />

rapporti di forza esistenti. Emerge, dunque, l’immagine di uno stato che si rivolge verso la società<br />

e l’economia ricercando un rapporto equilibrato, capace di fornire un quadro di riferimento solido<br />

e una guida politica, ma senza indulgere a dilatazioni dei propri compiti foriere di confusioni e<br />

problemi. Usualmente si denomina tale presunto equilibrio come principio di sussidiarietà, che non<br />

a caso viene diffusamente fatto proprio anche a livello dell’Unione europea, come nel Libro<br />

bianco di Delors dedicato appunto alle tematiche <strong>della</strong> competitività economica e<br />

dell’occupazione nelle società avanzate dell’Europa.<br />

2. Una seconda questione può essere introdotta e riguarda l’approccio da assumere nella<br />

lettura dei problemi economici, del mercato del lavoro e del governo di quest’ultimo. Negli ultimi<br />

anni si è molto insistito sull’adozione di un’ottica locale che valorizza le risorse, economiche e<br />

metaeconomiche, esistenti e quindi i diversi soggetti <strong>sociali</strong> e istituzionali.<br />

Quella locale appare l’ottica privilegiata da assumere, in specie per quanto concerne il governo<br />

dei problemi economici e del lavoro. D’altra parte, l’ipotesi in merito all’esistenza di mercati del<br />

lavoro locali è stata da tempo formulata 143 . Il mercato del lavoro, più di altri mercati, deve essere<br />

considerato una vera e propria istituzione <strong>sociale</strong>: il suo funzionamento dipende essenzialmente<br />

da quanto ritenuto accettabile da entrambi le parti in causa nelle relazioni di lavoro e nelle<br />

questioni occupazionali 144 . Nel funzionamento del mercato del lavoro operano vincoli dovuti alle<br />

regole di comportamento <strong>sociale</strong>, che differenziano il mercato stesso sul piano territoriale e sotto<br />

il profilo temporale.<br />

Nel momento presente le politiche del lavoro promosse dalle istituzioni pubbliche tendono così<br />

a un ricentraggio su base locale e a perdere i caratteri universalistici e garantisti rispetto<br />

all’offerta. Esse diventano promozionali e si specificano in rapporto ai sistemi di<br />

vincoli/opportunità rappresentati dai diversi contesti locali 145 . C’è ragione di ritenere dunque che<br />

le politiche del lavoro si configurino come «un mix di azioni sempre più radicate nel livello locale,<br />

rispetto al quale l’intervento da parte dei governi centrali assume come obiettivi limitati la<br />

definizione degli ambiti di azione e gli interventi compensativi diretti ad evitare il rischio di<br />

un’accentuazione <strong>della</strong> regionalizzazione degli squilibri preesistenti» 146 .<br />

In generale non sembra esplicitamente assunta nell’insegnamento <strong>sociale</strong> la prospettiva locale,<br />

pur se sono diversi i riferimenti che richiamano in qualche modo il senso e i paradigmi<br />

dell’approccio locale. Può essere qui opportunamente riproposta la sottolineatura operata dalla<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> circa il ruolo regolativo <strong>della</strong> politica a salvaguardia del bene comune, che<br />

conduce a porre attenzione alle interdipendenze (tra regioni diverse, tra nord e sud) specialmente<br />

nel programmare la politica economica e del lavoro. Così come l’assunzione di un modello di<br />

sviluppo pluralistico non fa che valorizzare quella soggettività <strong>sociale</strong> e ricchezza istituzionale<br />

enfatizzate dalla stessa <strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> <strong>Chiesa</strong> a proposito dell’organizzazione societaria.<br />

3. Qualche ulteriore considerazione è possibile formulare circa le caratteristiche e i contenuti<br />

delle politiche del lavoro. Nell’ultimo decennio le difficoltà sul versante economico e soprattutto la<br />

gravità e i nuovi termini assunti dalla crisi occupazionale hanno certamente indotto profonde<br />

modificazioni per ciò che concerne le politiche del lavoro. In primo luogo, si registra il passaggio<br />

143 Cfr. E. Zucchetti, Il legame ritrovato, Vita e Pensiero, Milano 1991.<br />

144 Cfr. R.M. Solow, Il mercato del lavoro come istituzione <strong>sociale</strong>, Mulino, Bologna 1994.<br />

145 Cfr. E. Zucchetti, Politica del lavoro e dimensione locale, cit.<br />

146 Ved. M. Colasanto, Paradigmi dello sviluppo, Vita e Pensiero, Milano 1993, p. 126.


da politiche regolative a politiche promozionali: alle politiche tradizionalmente prevalenti di tipo<br />

burocratico-garantista e di tipo assistenziale si sono sostituite le cosiddette politiche attive del<br />

lavoro, ovvero interventi miranti a favorire l’incontro fra la domanda e l’offerta di lavoro e a<br />

sostenere i soggetti più deboli (giovani, donne, cassintegrati, disoccupati di lungo periodo).<br />

La politica attiva del lavoro si è andata inoltre sviluppando attraverso un’ampia gamma di<br />

interventi; selettività e differenziazione si sono affermate in maniera crescente come elementi<br />

essenziali delle azioni realizzate. La disomogeneità e la frammentazione <strong>della</strong> domanda e<br />

dell’offerta di lavoro aprono un vasto campo di azione e richiedono ormai sul piano delle politiche<br />

una cassetta degli attrezzi variegata e ricca: orientamento e formazione professionale,<br />

innanzitutto; contratti di formazione e lavoro; contratti di lavoro atipici; osservazione del mercato<br />

del lavoro; incentivazione economica e normativa delle assunzioni dei soggetti deboli; lavori<br />

socialmente utili; sostegno alla nuova imprenditorialità.<br />

Il livello locale, in terzo luogo, è divenuto progressivamente, come si è osservato, quello<br />

privilegiato per gli interventi di politica attiva del lavoro. La consapevolezza <strong>della</strong> specificità dei<br />

diversi mercati del lavoro locali produce provvedimenti flessibili, adattabili cioè ai differenti<br />

contesti territoriali; provvedimenti che comunque dovrebbero mirare ad attivare risorse locali,<br />

umane e finanziarie, altrimenti inutilizzate, e a promuovere altresì la capacità dei soggetti locali di<br />

assumere un atteggiamento attivo nei confronti del problema del mercato del lavoro. C’è ragione<br />

di ritenere che è il contesto locale a determinare sia la tipologia dell’intervento di politica del<br />

lavoro sia soprattutto le modalità e l’assetto organizzativo dell’intervento stesso. La variabile<br />

interveniente è costituita dal ruolo svolto localmente dagli attori <strong>sociali</strong>: oltre al soggetto<br />

istituzionale locale promotore, gli altri enti locali competenti, le parti <strong>sociali</strong> imprenditoriali e<br />

sindacali, camere di commercio, associazioni, ecc. In tale quadro si profila un ulteriore aspetto,<br />

ovvero la consistente mobilitazione di risorse in materia di politica del lavoro da parte <strong>della</strong><br />

pubblica amministrazione, a tutti i suoi livelli: dal potere centrale alle regioni, che hanno dato vita<br />

a una vera e propria politica regionale del lavoro, alle province fino ad arrivare ai comuni.<br />

L’attenzione alle fasce deboli del mercato del lavoro, come compito privilegiato dell’istituzione<br />

pubblica, costituisce, come è noto, un’opzione forte dell’insegnamento <strong>sociale</strong>: lo stato, come<br />

primo datore di lavoro indiretto, deve condurre una giusta ed eticamente corretta politica del<br />

lavoro, che rispetti cioè i diritti oggettivi del lavoratore e di tutti i lavoratori e che metta al centro il<br />

compito fondamentale <strong>della</strong> promozione dell’occupazione. Il termine politica del lavoro, tuttavia,<br />

viene usato in un’accezione molto ampia e generale, fino a farla coincidere con le politiche<br />

economiche e dell’occupazione a livello macro, aventi a che fare con gli squilibri su scala<br />

mondiale tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. Per contro non si trova un riferimento<br />

specifico alle politiche attive del lavoro, che si inscrivono peraltro dentro una prospettiva<br />

promozionale, non assistenziale, dell’intervento pubblico, teso quindi a quella promozione <strong>della</strong><br />

persona (in particolar modo quella più debole) e dei differenti soggetti <strong>sociali</strong> così cara alla<br />

<strong>dottrina</strong> <strong>sociale</strong><br />

Non è inutile ribadire inoltre la necessità di distinguere tra politiche del lavoro e politiche<br />

dell’occupazione. La distinzione consente di fare ordine sul piano concettuale e di offrire criteri<br />

per un uso più corretto delle risorse attivate. La distinzione non può essere intesa nel senso di<br />

una posizione ancillare delle politiche del lavoro stesse rispetto alle politiche dell’occupazione<br />

impostate e realizzate a livello macroeconomico 147 . Come ha ricordato il Libro bianco di Delors,<br />

la strada per creare occupazione passa dalla ripresa <strong>della</strong> crescita economica, dagli interventi<br />

strutturali per accrescere la competitività dell’industria europea, ma anche dagli interventi<br />

regolativi di tipo micro garantiti da una adeguata politica attiva del lavoro. Una politica attiva che,<br />

147 Cfr. L. Frey, Significato e limiti delle politiche del lavoro, in «Quaderni di economia del lavoro», 46<br />

(1993), pp. 11-44.


come spesso si è sottolineato in questi anni, faciliti l’accesso all’occupazione <strong>della</strong> forza lavoro<br />

disponibile, sviluppi le competenze e le professionalità richieste nei processi di ristrutturazione,<br />

migliori il funzionamento del mercato del lavoro rendendo più efficaci le attività di ricerca del<br />

posto da parte dei lavoratori e dei lavoratori da parte delle aziende 148 .<br />

4. Il riconoscimento del ruolo delle risorse umane nell’impresa e nella crescita dei sistemi<br />

economico-produttivi avanzati appare un tratto caratteristico negli scenari prospettati dagli<br />

analisti <strong>sociali</strong>. Il panorama europeo offre una serie di indicazioni utili e convergenti; la<br />

prospettiva generale che emerge è quella di contemperare in modo contestuale due linee di<br />

intervento: da una parte, l’esigenza di contrastare una disoccupazione di nuovo allarmante,<br />

puntando l’attenzione sulle forme di possibile reinserimento delle fasce deboli e di sostegno<br />

all’assunzione dei giovani; dall’altra, la necessità di favorire la ripresa, attraverso forme di<br />

abbattimento del costo del lavoro, strumenti di flessibilizzazione dell’orario di lavoro, azioni di<br />

formazione e di consulenza perché le imprese trovino le competenze di cui necessitano, sostegni<br />

all’innovazione. In altri termini, accanto a una permanenza e anzi a una ripresa di interventi<br />

finalizzati all’incentivazione dell’assunzione di soggetti deboli in cerca di lavoro, si fa strada e<br />

acquista consistenza un intervento finalizzato a sostenere la ripresa delle imprese in una fase di<br />

difficoltà.<br />

La centralità delle strategie formative appare negli anni novanta l’elemento caratterizzante<br />

delle politiche del lavoro. L’obiettivo fondamentale non è solo la lotta contro la disoccupazione,<br />

bensì quello di favorire la partecipazione attiva di tutti al sistema economico e <strong>sociale</strong>: la<br />

valorizzazione delle risorse umane disponibili e l’investimento in capitale umano, attraverso la<br />

formazione di base e gli interventi di qualificazione e riqualificazione professionale, diventano<br />

pertanto linee strategiche decisive per i prossimi anni 149 . La spinta è certamente verso risorse<br />

umane sempre più qualificate, pur se non si possono trascurare i segnali ambivalenti emergenti<br />

nei contesti produttivi più avanzati, come la crescita anche dell’area dei lavori scarsamente<br />

qualificati e al limite precari. D’altra parte, come è stato notato, le relazioni industriali e il sistema<br />

formativo non sono probabilmente le uniche variabili istituzionali esplicative delle divaricazioni<br />

delle diverse regioni forti; ve ne sono altre, inerenti ai differenti modelli di sviluppo locale e<br />

precisamente ai diversi modelli di strategia delle imprese sul mercato e alla conseguente<br />

differenziazione delle risorse umane di cui esse hanno bisogno 150 . Ciò comporterebbe non solo la<br />

garanzia di un’istruzione formale più lunga, quanto piuttosto la differenziazione, nel senso del<br />

policentrismo e <strong>della</strong> discontinuità, del sistema formativo, così che ad ogni livello di ingresso nel<br />

mercato del lavoro sia assicurato un adeguato grado di formazione professionale.<br />

Non è mancato certo nel più recente insegnamento <strong>sociale</strong> <strong>della</strong> chiesa il riconoscimento del<br />

ruolo e del valore delle risorse umane nelle economie avanzate, ma debole sembra la percezione<br />

delle implicazioni che conseguono da tale centralità. Emblematico, ad esempio, è il riferimento -<br />

nella forma di debole accenno, appunto - al ruolo del sistema di istruzione in relazione ai processi<br />

lavorativi e all’occupazione 151 . Per contro, decisivo si rivelerebbe l’investimento da parte delle<br />

politiche pubbliche in tale direzione, se è vero soprattutto che necessita la coltivazione<br />

dell’integrazione tra gli strumenti di intervento, per la complementarietà che esiste tra i servizi per<br />

148 Cfr. Dell’Aringa C., La disoccupazione nelle società avanzate, in «Il Mulino», XLIII (1995), 1, pp.<br />

103-111.<br />

149 Cfr. L. Frey, Significato e limiti delle politiche del lavoro, cit.; cfr. anche M. Colasanto, La<br />

formazione professionale come governo del mercato del lavoro, in «Professionalità», 20, 1994, pp. 15-22.<br />

150 Cfr. M. Regini, Domanda di risorse umane e istituzioni formative, in «Impresa e Stato», 28, 1994, pp.<br />

20-26.<br />

151 Cfr. Laborem Exercens, n. 18.


l’impiego, le funzioni di orientamento e formazione professionale e le misure di politica<br />

dell’occupazione.<br />

Riferimenti bibliografici<br />

Colasanto M., La formazione professionale come governo del mercato del lavoro, in<br />

«Professionalità», 20, 1994, pp.15-22.<br />

Colasanto M., Paradigmi dello sviluppo, Vita e Pensiero, Milano 1993.<br />

Dell’Aringa C., La disoccupazione nelle società avanzate, in «Il Mulino», XLIII (1995), 1,<br />

pp.103-111.<br />

Frey L., Significato e limiti delle politiche del lavoro, in «Quaderni di economia del lavoro»,<br />

46, 1993, pp.11-44.<br />

Regini M., Domanda di risorse umane e istituzioni formative, in «Impresa e Stato», 28,<br />

1994, pp.20-26.<br />

Solow R.M., Il mercato del lavoro come istituzione <strong>sociale</strong>, Il Mulino, Bologna 1994.<br />

Zucchetti E., Il legame ritrovato, Vita e Pensiero, Milano 1991.<br />

Zucchetti E., Politica del lavoro e dimensione locale, Angeli, Milano 1996.

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