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26 26 Recensioni a cura di Claudio Racca Culhwch, apprendista eroe alla corte di Artù Miraggi Edizioni Torino 2010 Pagg. 148 - Euro 16,50 Nel momento stesso di accingermi alla fatica di presentare e commentare un libro sicuramente fuori dell’ordinario, che oserei definire genialmente stralunato, mi rendo conto di essere inadeguato all’impresa e di essermi imbarcato in un raffinato, ma egualmente doloroso, processo di autolesionismo. Come tutti sanno, non sono né diventerò mai un critico letterario, sia per manifesta incapacità, sia per ignoranza (anzi, repulsione innata) di quelle frasi vuote, di quei paroloni che nessuno capisce, di quei concetti oscuri anche a chi scrive, nei quali i critici in generale e i critici letterari in particolare, solitamente ec- di Andrea Roncaglione cellono. Cercherò comunque di costringervi ad apprezzare l’opera di Andrea Roncaglione, che non conosco personalmente, del quale però conosco il padre, Valter, già nostro collega in CRT per tanti anni, attualmente in pensione. Detto per inciso, Valter Roncaglione ha pubblicato sul sito del CRAL, settore Biblioteca, una recensione sul libro “Un’americana alla corte dei Savoia”, riportata pari pari nel numero di settembre della nostra Rivista, per gentile concessione. Il titolo esatto del libro è “Culhwch” e il sottotitolo è appunto “Apprendista eroe alla corte di Artù”. Già il titolo, e non solo quello, è poco facilmente pronunciabile e quindi se vi capiterà di consigliarne la lettura a qualche vostro amico utilizzate un appunto precompilato oppure memorizzate il sottotitolo. La storia che viene raccontata è molto singolare e viene ambientata nel tempo imprecisato dei miti come quello di Re Artù. Non è solo e semplicemente fantasia, in quanto l’Autore ha tratto spunto dal Mabìnogion, che è un “insieme di scritti di autori vari attraverso cui ci sono state tramandate, per parte gallese, alcune saghe e leggende celtiche”. Anzi, a tratti vengono riportati in corsivo alcuni brani contenuti nei testi richiamati, per palesare che esistono veramente e che sono stati tradotti in modo corretto. Che se anche non fosse così, credo che non cambierebbe molto, perché quasi tutta la storia è stata liberamente partorita dalla sfrenata fantasia dell’Autore, il quale però, molto responsabilmente, si assume “piena responsabilità” ed anzi mette le mani avanti con i Gallesi (“In attesa d’una risposta alla mia richiesta di gemellaggio con un abitante a caso del Galles, mi auguro che i Gallesi non se la prendano troppo per come ho giocato con le loro tradizioni. Se vogliono giocare con le mie, dichiaro fin da ora che non me la prenderò punto. Punto.”). Da queste prime battute avrete già capito alcune caratteristiche di Andrea Roncaglione: ha un grande senso dell’umorismo, che a volte traspare di primo acchito, a volte meno evidente se non alla seconda lettura; è di una originalità unica, riuscendo a suscitare interesse traendo spunto dalle tradizioni celtiche; dimostra pertanto di essere dotato di grandissima fantasia. La storia comincia con una citazione in corsivo, quindi originale. Kilydd, figlio del principe Kelyddon, volle una donna con cui condividere la vita e la sua scelta cadde su Goleuddydd, figlia del principe Anllawdd. Quand’essi si trovarono sotto lo stesso tetto, le genti del paese pregarono perché avessero un erede. Dopodiché comincia a correre la fantasia dell’Autore. Prima di procedere: ma che razza di nomi erano in voga presso gli antichi Gallesi? Troppe consonanti, poche vocali. Difficili da pronunciare, da
sentirsi la lingua attorcigliata. Ma tant’è: bisognerebbe avere una cultura superiore alla mia e, soprattutto, tenere in bocca un sassolino. Le preghiere del popolo (“pregarono Dio per continuare ad essere poveri in canna e avere un nuovo principe da servire”) vennero esaudite e Goleuddydd rimase incinta. Allora, la gente del paese fece colletta e comprò una culla da regalare alla giovane coppia. “L’artigiano che costruì la culla accettò i soldi degli umili e mandò il manufatto al principe, come regalo personale. La buona gente del paese trasse molto piacere da ciò – perché è nell’anonimato che risiede l’autentica gioia del donare – e, per espiare l’inaspettata fortuna, organizzò una pubblica flagellazione”. Bastano queste poche frasi, credo, per farvi comprendere la grande ironia che pervade tutta la storia. Forse non sempre così sottile e trasparente, in qualche caso più grossolana, ma sempre dimostrazione di spiccato senso dell’umorismo. La principessa incinta fu presa da follia fin dall’inizio della gravidanza, a causa delle urla di dolore dei flagellanti, urla che dal paese salivano a lambire le mura del castello. “Il figlio del principe ordinò allora che i flagellanti la smettessero. Perlomeno d’urlare. Questo piacque molto agli umili, che presero a fustigarsi nelle campagne e in silenzio. Ma ormai Goleuddydd era impazzita”. La principessa vagò nelle campagne e, giunto il tempo di partorire, trovò riparo tra i porci d’allevamento, rinsavì del tutto, si spaventò e partorì. Dal che, il nome del bambino: Culhwch, che in antico gallese significa “riparo di porci”. Il bambino è un eroe, non c’è dubbio. Gli eroi, nel Galles del mito, si annunciano sempre facendo impazzire la madre durante la gravidanza. Siccome, però, gli eroi hanno come destino la sofferenza, propria e degli altri, la madre – pacifista per natura e amante dei fiori – si ammalò e morì, lasciando un marito pazzo sanguinario e un figlioletto affetto da eroismo. Rimasto vedovo, il principe Kilydd decise di sposare “la moglie del re Doged, che accolse la notizia con imbarazzata perplessità. Poi il suo castello venne cinto d’assedio ed espugnato, e fu Kilydd in persona che si occupò di strozzare il re. Nascoste dietro una cassapanca di mogano, la moglie e la figlia di Doged assistevano alla scena con disapprovazione”. Basta così, altrimenti più nessuno sentirà il desiderio di acquistare il pregevole libro. Tra l’altro, ha un prezzo accessibile ed è facilmente acquistabile anche su Internet, ha diffusione nazionale e si può trovare nei migliori negozi. Leggete attentamente la locandina. Il nostro eroe (Culhwch, appunto), diventato per parte di matrigna cugino di re Artù, viene colpito da una maledizione (sempre di mezzo la matrigna che è una strega) che lo obbliga ad amare la figlia di Yspaddadden, il Capo dei Giganti, pur non avendola mai vista. Va però detto che Olwen (il nome facilmente pronunciabile della sposa obbligata) è definita “la donna più bella del mondo”, anche se si scoprirà che non è affatto vero. Non brutta, ma carina normale. Culhwch si mette in viaggio con una armatura e accessori di oro massiccio, fra le proteste del suo saggio cavallo parlante, che risponde al nome di Cwll (pronuncia Caval, ma non ne sono del tutto sicuro). Incontra un cavaliere, Peredùr, di origini e cultura francese, 27 27 con il quale si accompagnerà per tutte le avventure che la storia gli riserva. Dopo comiche vicissitudini, incontri strampalati ed improbabili (ad esempio un fantomatico Cavaliere Nero che li attacca all’improvviso e che soccombe per un colpo della spada d’oro nella schiena, quindi a tradimento, altro che codice cavalleresco!), riferimenti fuori epoca tipo il cauto attraversamento di una linea ferroviaria, i due protagonisti arrivano alla corte di Artù, personaggio mitico dalle molte virtù secondo l’immagine che ci viene solitamente tramandata, raffigurato in modo ben diverso dal nostro Autore, che lo ridimensiona e addirittura lo ridicolizza, come per il vezzo di tagliare i capelli a tutti e in modo diverso. Artù accede alla richiesta di Culhwch di aiutarlo a soddisfare le assurde condizioni poste dal padre dell’amata (il Capo dei Giganti, ricordate?) per concedere la mano della figlia e convoca un esercito di Cavalieri, moltissimi dei quali si stanno sollazzando presso la sua Corte, per inseguire e distruggere dei terribili cinghiali, depositari di grandi ricchezze. La raffigurazione della Corte di Re Artù e dei fantasiosi personaggi che la compongono è gustosa, anche se un po’ insistita e molto caricaturata. Spero di avervi dato anche solo una pallida idea dello stile del nostro Autore, che a me è piaciuto moltissimo. Naturalmente il libro di Andrea Roncaglione non è un romanzo di Liala e va letto con una buona predisposizione d’animo. Se chi legge ritiene di avere un buon senso dell’umorismo gli consiglio di gustarlo appieno leggendolo almeno due volte (tranquilli: sono 148 pagine, intercalate da stilizzati disegni dello stesso Autore), per cogliere particolari piacevolissimi che possono essere sfuggiti ad una prima, meno attenta lettura.
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