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29.05.2013 Views

24 24 Daniela Bonino La reggia della Venaria, o Venatio Regia, deve il suo nome al motivo per cui fu edificata, vale a dire la caccia, che fu sempre una delle grandi passioni di Carlo Emanuele II di Savoia, che ne fu il promotore. Fu iniziata nel 1658, su progetto di Amedeo di Castellamonte, in località Alto Altessano, perché il duca riteneva che quello fosse il luogo in cui si sarebbe potuto praticare meglio che da qualunque altra parte l’arte venatoria, per la vicinanza di grandi boschi popolati da numerosa selvaggina. Solo per costruirla furono spesi due milioni di franchi, e la manutenzione richiedeva ingenti somme per la gran quantità di personale necessario per occuparsi dei duecento cavalli e delle altrettanto numerose mute di levrieri e cani da corsa, sotto il controllo di un “Gran Cacciatore”, che divenne una delle insigni cariche della Corona. In occasione di eventi o per la presenza di ospiti illustri venivano indette grandiose battute di caccia alle quali partecipava tutta la nobiltà, dame comprese, nelle quali ovviamente il duca amava essere al centro dell’attenzione. Ma anche nel resto del tempo l’attività venatoria era frequente: due volte la settimana si svolgeva la caccia al cervo, e il 3 novembre, giorno di Sant’Uberto, si cac- Venatio Regia ciava in onore del patrono con la partecipazione di tutta la famiglia reale; al termine si distribuivano le frattaglie delle prede ai cani e poi si festeggiava fra banchetti, brindisi e danze. Se la caccia fu una delle grandi passioni del duca, l’altra furono le donne. Forse perché, avendo avuto la ventura d’essere figlio della prima Madama Reale, Maria Cristina di Borbone, e marito della seconda, Maria Giovanna di Savoia Nemours, per reazione alla convivenza con queste due donne così ingombranti amò circondarsi di altre dame meno soffocanti. Carlo Emanuele era nato nel 1634 e a soli quattro anni, alla morte del padre Vittorio Amedeo I, aveva ereditato il trono. Naturalmente la madre aveva assunto la reggenza in suo nome, ma dovette trovarsi molto bene nel ruolo di sovrana perché, pur riconoscendo al figlio il diritto di regnare al compimento del quattordicesimo anno, come stabilivano gli Statuti della Corona, in effetti continuò a dettare legge fino alla morte, avvenuta nel 1663. Al giovane non era restato che far passare il tempo nel modo più dilettevole possibile, cosa che gli era riuscita benissimo, dedito ai piaceri più raffinati, immerso nello sfarzo più opulento. Il 1663 segnò un anno di svolta nella vita di Carlo Emanuele, e non solo perché salì al trono, ma anche perché in quell’anno sposò Francesca Maddalena d’Orléans chiamata, per la sua bellezza, dolcezza e grazia, “Colombina d’Amore”, della quale il duca era perdutamente innamorato. Carlo Emanuele si rivelò un buon sovrano: circondatosi di ottimi consiglieri, durante il suo regno risanò le finanze; promosse l’agricoltura, l’industria e il commercio; riordinò l’esercito; prescrisse che tutti i Comuni avessero dei maestri per l’educazione dei fanciulli; cercò di ridurre l’emigrazione di artisti e contadini; vietò la mendicità, indirizzando gli indigenti all’Ospedale della Carità; ampliò notevolmente la rete stradale; fece costruire piazze, portici e palazzi a Torino; a lui si deve la cappella della Sacra Sindone, dov’è sepolto. Purtroppo restò vedovo nel gennaio 1664, dopo dieci soli mesi di matrimonio. La necessità di avere un erede lo spinse a cercarsi un’altra moglie, e la scelta cadde su Maria Giovanna Savoia Nemours, quella che divenne poi la se- conda Madama Reale. Già alcuni anni prima del matrimonio con la “Colombina d’Amore” si era ventilata la possibilità di un’unione fra il duca e Maria Giovanna, ma la prima Madama Reale, temendo di veder ridotto il suo potere a causa della forte personalità della giovane, dell’influenza che su di lei aveva la madre, la vedova duchessa di Nemours, e soprattutto vedendo il figliolo invaghito della fanciulla, manovrò per distogliere l’attenzione di Carlo Emanuele. Conoscendone la volubilità, aveva chiama-

to a Torino quale damigella d’onore Giovanna Maria di Trecesson, una francese della Bretagna di nobile casato. La giovane era molto esperta in intrighi salottieri e non tardò ad insinuarsi nelle simpatie del giovane duca che presto arse furiosamente per lei, prodigandosi in galanterie, ricchi doni in gioielli, carrozze e quant’altro, con il tacito assenso della madre. Astutamente la Trecesson, per acquisire il massimo della presa su di lui, si atteggiava a persona dolce, sottomessa e riservata, tanto che una volta non gli parlò per un’intera settimana perché lui le aveva rivolto qualche parola sconveniente. Ovviamente il duca si dedicò a Giovanna Maria dimenticandosi di Maria Giovanna, la Savoia Nemours, che però gli tornò in mente dopo la vedovanza. Dopo che gli ambasciatori ebbero preso gli accordi per le nozze, la giovane lasciò Parigi alla volta di Torino, ma il duca era così impaziente di rivederla che la raggiunse a Chambery per completare il percorso con lei. Durante il viaggio, più volte cercò di entrare nelle sue stanze nelle ore notturne, ma la principessa si oppose strenuamente, anzi, fece aumentare la sorveglianza alle porte. Finalmente giunsero a Rivoli, dove venne steso il contratto matrimoniale, e poi ci fu il solenne ingresso in Torino con un immenso corteo di nobili, militari a piedi e a cavallo, tutti riccamente agghindati con oro, velluti e broccati, che precedevano e seguivano la carrozza della sposa affiancata dal duca raggiante. Ma la disillusione non deve aver tardato perché si racconta che poco tempo dopo, una sera, il duca aveva preceduto la consorte a letto e si era addormentato. Quando la sposa lo vide prese due tamburi alle Guardie svizzere, si accostò al letto con le sue damigelle e prese a battere sugli strumenti a più non posso, facendo sobbalzare il poveretto che cadde a terra. Ben presto, però, nacque il sospirato erede, Vittorio Amedeo, e il duca poté tornare alle care vecchie abitudini. Ma alla duchessa questo non andava giù, forse perché a lei quel marito affascinante che la sorte le aveva dato non dispiaceva af- Ritratto di Dauphin della famiglia reale fatto, forse per orgoglio ferito, fatto sta che le discussioni erano frequenti e finirono con lo sfociare in una scenata plateale che diede la stura ad flusso di pettegolezzi che ravvivò a lungo le conversazioni salottiere. Un giorno, il duca aveva lasciato il Palazzo Reale dicendo che andava alla Venaria a caccia col cugino, l’abate Visconti, che veniva da Milano. La duchessa non aveva manifestato alcuna contrarietà, anzi, aveva detto di non sentirsi bene, di sentirsi dei “vapori al cervello”, per cui si sarebbe messa a letto. Alle tre di quella stessa notte, però, piombò di sorpresa alla reggia in una berlina da viaggio, accompagnata da due governanti e seguita da quattro staffieri a cavallo. Vedendola, le guardie del palazzo impallidirono, la pregarono di non salire ma lei, a quel punto certa di quel che stava accadendo, si precipitò su per le scale, irrompendo come una furia nelle stanze del duca. Dalla grande camera da letto d’angolo, detta l’”Alcova delle tre Grazie” si udirono grandi strepiti: le strida della Trecesson, la voce convulsa del duca, quella della duchessa resa irriconoscibile per la rabbia. Poi Maria Giovanna uscì, risalì in carrozza e sparì. La Corte rimase annichilita; per cercare di tenere nascosta la clamorosa notizia della fuga della duchessa, in piazza Castello venne affisso un avviso nel quale si dichiarava che la sovrana era a letto sofferente e per implorare la sua guarigione si sarebbe celebrato un Te Deum al quale 25 25 si invitava tutta la popolazione a partecipare. Ma nessuno credette a quella commedia e i commenti malevoli si moltiplicavano; da Corte venne allora diffuso un nuovo avviso: la duchessa si era recata per qualche giorno a Chambery, ma presto sarebbe tornata. Ed effettivamente Maria Giovanna tornò, “convinta” dalla ragion di stato per evitare lo scandalo. La vicenda comunque non si esaurì, tant’è vero che divenne popolare una canzone, intitolata “La marchesa di Cavour”, che raccontava la vicenda, e anche Guido Gozzano la narrò in una novella con lo stesso titolo. Ma perché “La marchesa di Cavour”? Perché all’epoca le amanti ufficiali, quando smettevano di interessare il sovrano, venivano fatte sposare con gentiluomini compiacenti. Così accadde alla Trecesson, che andò sposa al II marchese di Cavour, Maurizio Pompilio Benso, avo di Camillo. Dopo la Trecesson vennero altre donne e parecchie di loro diedero figli al duca: tre li ebbe dalla Trecesson, uno da Gabriella di Mesmes de Marolles (alla quale, maritata al conte Carlo Amedeo delle Lanze, venne donato Palazzo Lascaris), uno da una donna di bassa condizione, detta la Piatta, chiamato Carlo ma conosciuto come Cavalier Carlino il quale, per la mancanza di quarti di nobiltà, almeno ufficiali, non poté essere riconosciuto, anche se gli fu assicurato un dignitoso avvenire nelle file dell’esercito sabaudo. Tanti figli ma uno solo legittimo, Vittorio Amedeo, e si narra che quando il piccolo cadde da cavallo provocò un tale spavento nel padre da farlo ammalare e poco dopo morire. I più maligni dicono che fu per il terrore di dover ricominciare a frequentare il letto della duchessa, se disgraziatamente l’erede fosse perito. Per fortuna a Vittorio Amedeo non accadde nulla di letale, anzi, successivamente divenne il primo re di Sardegna, quando riuscì a convincere la madre, la seconda Madama Reale, a cedergli il potere.

to a Torino quale damigella d’onore Giovanna<br />

Maria di Trecesson, una francese<br />

della Bretagna di nobile casato. La giovane<br />

era molto esperta in intrighi salottieri<br />

e non tardò ad insinuarsi nelle simpatie<br />

del giovane duca che presto arse<br />

furiosamente per lei, prodigandosi in<br />

galanterie, ricchi doni in gioielli, carrozze<br />

e quant’altro, con il tac<strong>it</strong>o assenso<br />

della madre. Astutamente la Trecesson,<br />

per acquisire il massimo della presa su<br />

di lui, si atteggiava a persona dolce, sottomessa<br />

e riservata, tanto che una volta<br />

non gli parlò per un’intera settimana perché<br />

lui le aveva rivolto qualche parola<br />

sconveniente. Ovviamente il duca si dedicò<br />

a Giovanna Maria dimenticandosi<br />

di Maria Giovanna, la Savoia Nemours,<br />

che però gli tornò in mente dopo la vedovanza.<br />

Dopo che gli ambasciatori ebbero preso<br />

gli accordi per le nozze, la giovane lasciò<br />

Parigi alla volta di Torino, ma il duca<br />

era così impaziente di rivederla che la<br />

raggiunse a Chambery per completare il<br />

percorso con lei. Durante il viaggio, più<br />

volte cercò di entrare nelle sue stanze<br />

nelle ore notturne, ma la principessa si<br />

oppose strenuamente, anzi, fece aumentare<br />

la sorveglianza alle porte. Finalmente<br />

giunsero a Rivoli, dove venne steso il<br />

contratto matrimoniale, e poi ci fu il solenne<br />

ingresso in Torino con un immenso<br />

corteo di nobili, mil<strong>it</strong>ari a piedi e a<br />

cavallo, tutti riccamente agghindati con<br />

oro, velluti e broccati, che precedevano<br />

e seguivano la carrozza della sposa affiancata<br />

dal duca raggiante. Ma la disillusione<br />

non deve aver tardato perché si<br />

racconta che poco tempo dopo, una sera,<br />

il duca aveva preceduto la consorte a letto<br />

e si era addormentato. Quando la sposa<br />

lo vide prese due tamburi alle Guardie<br />

svizzere, si accostò al letto con le sue<br />

damigelle e prese a battere sugli strumenti<br />

a più non posso, facendo sobbalzare il<br />

poveretto che cadde a terra.<br />

Ben presto, però, nacque il sospirato erede,<br />

V<strong>it</strong>torio Amedeo, e il duca poté tornare<br />

alle care vecchie ab<strong>it</strong>udini. Ma alla<br />

duchessa questo non andava giù, forse<br />

perché a lei quel mar<strong>it</strong>o affascinante che<br />

la sorte le aveva dato non dispiaceva af-<br />

R<strong>it</strong>ratto di Dauphin della famiglia reale<br />

fatto, forse per orgoglio fer<strong>it</strong>o, fatto sta<br />

che le discussioni erano frequenti e finirono<br />

con lo sfociare in una scenata plateale<br />

che diede la stura ad flusso di pettegolezzi<br />

che ravvivò a lungo le conversazioni<br />

salottiere. Un giorno, il duca aveva<br />

lasciato il Palazzo Reale dicendo che<br />

andava alla Venaria a caccia col cugino,<br />

l’abate Visconti, che veniva da Milano.<br />

La duchessa non aveva manifestato alcuna<br />

contrarietà, anzi, aveva detto di non<br />

sentirsi bene, di sentirsi dei “vapori al<br />

cervello”, per cui si sarebbe messa a letto.<br />

Alle tre di quella stessa notte, però,<br />

piombò di sorpresa alla reggia in una<br />

berlina da viaggio, accompagnata da due<br />

governanti e segu<strong>it</strong>a da quattro staffieri<br />

a cavallo. Vedendola, le guardie del palazzo<br />

impallidirono, la pregarono di non<br />

salire ma lei, a quel punto certa di quel<br />

che stava accadendo, si precip<strong>it</strong>ò su per<br />

le scale, irrompendo come una furia nelle<br />

stanze del duca. Dalla grande camera<br />

da letto d’angolo, detta l’”Alcova delle<br />

tre Grazie” si udirono grandi strep<strong>it</strong>i: le<br />

strida della Trecesson, la voce convulsa<br />

del duca, quella della duchessa resa irriconoscibile<br />

per la rabbia. Poi Maria Giovanna<br />

uscì, risalì in carrozza e sparì. La<br />

Corte rimase annichil<strong>it</strong>a; per cercare di<br />

tenere nascosta la clamorosa notizia della<br />

fuga della duchessa, in piazza Castello<br />

venne affisso un avviso nel quale si<br />

dichiarava che la sovrana era a letto sofferente<br />

e per implorare la sua guarigione<br />

si sarebbe celebrato un Te Deum al quale<br />

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si inv<strong>it</strong>ava tutta la popolazione<br />

a partecipare. Ma nessuno<br />

credette a quella commedia e i<br />

commenti malevoli si moltiplicavano;<br />

da Corte venne allora<br />

diffuso un nuovo avviso: la<br />

duchessa si era recata per qualche<br />

giorno a Chambery, ma<br />

presto sarebbe tornata. Ed effettivamente<br />

Maria Giovanna<br />

tornò, “convinta” dalla ragion<br />

di stato per ev<strong>it</strong>are lo scandalo.<br />

La vicenda comunque non<br />

si esaurì, tant’è vero che divenne<br />

popolare una canzone, int<strong>it</strong>olata<br />

“La marchesa di Cavour”,<br />

che raccontava la vicenda,<br />

e anche Guido Gozzano la narrò in<br />

una novella con lo stesso t<strong>it</strong>olo. Ma perché<br />

“La marchesa di Cavour”? Perché<br />

all’epoca le amanti ufficiali, quando<br />

smettevano di interessare il sovrano, venivano<br />

fatte sposare con gentiluomini<br />

compiacenti. Così accadde alla Trecesson,<br />

che andò sposa al II marchese di<br />

Cavour, Maurizio Pompilio Benso, avo<br />

di Camillo. Dopo la Trecesson vennero<br />

altre donne e parecchie di loro diedero<br />

figli al duca: tre li ebbe dalla Trecesson,<br />

uno da Gabriella di Mesmes de Marolles<br />

(alla quale, mar<strong>it</strong>ata al conte Carlo Amedeo<br />

delle Lanze, venne donato Palazzo<br />

Lascaris), uno da una donna di bassa condizione,<br />

detta la Piatta, chiamato Carlo<br />

ma conosciuto come Cavalier Carlino il<br />

quale, per la mancanza di quarti di nobiltà,<br />

almeno ufficiali, non poté essere<br />

riconosciuto, anche se gli fu assicurato<br />

un dign<strong>it</strong>oso avvenire nelle file dell’eserc<strong>it</strong>o<br />

sabaudo. Tanti figli ma uno solo leg<strong>it</strong>timo,<br />

V<strong>it</strong>torio Amedeo, e si narra che<br />

quando il piccolo cadde da cavallo provocò<br />

un tale spavento nel padre da farlo<br />

ammalare e poco dopo morire. I più maligni<br />

dicono che fu per il terrore di dover<br />

ricominciare a frequentare il letto della<br />

duchessa, se disgraziatamente l’erede<br />

fosse per<strong>it</strong>o. Per fortuna a V<strong>it</strong>torio Amedeo<br />

non accadde nulla di letale, anzi, successivamente<br />

divenne il primo re di Sardegna,<br />

quando riuscì a convincere la<br />

madre, la seconda Madama Reale, a cedergli<br />

il potere.

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