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GiusePPe Troiano Quel 10 settembre del 1943 ... - Studi Cassinati

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poche cose appresso e in altre zone, era una risoluzione che si rinviava<br />

in continuazione, nella speranza che avvenisse chissà quale<br />

miracolo.<br />

La gente temeva i bombardamenti, ma, essendo divenuti quotidiani,<br />

vi si era assuefatta. Aveva trovato anche il modo di sopravvivere<br />

agli scoppi <strong>del</strong>le bombe, rifugiandosi in posti ritenuti più<br />

sicuri <strong>del</strong>le case. Non avevano, però, consapevolezza che la guerra<br />

non conosce regole, che essa non cessa se non con lo sterminio<br />

<strong>del</strong>l’altra parte, e l’altra parte erano le truppe tedesche fortificate<br />

nel cassinate e gli abitanti dei luoghi dove si trovavano queste fortificazioni.<br />

In breve, l’illusione di sopravvivere in mezzo alle avversità e l’attaccamento<br />

alle cose possedute impedivano che la città si svuotasse.<br />

Vi era, inoltre, in molte famiglie, la convinzione che la guerra<br />

si sarebbe arrestata alle soglie <strong>del</strong> monastero di Montecassino, che<br />

la sua sacralità avrebbe fatto da usbergo a chi avesse chiesto ospitalità<br />

ai monaci. Frotte di famiglie cassinati presero a premere sull’abate,<br />

Dom Gregorio Diamare, e sui monaci benedettini affinché<br />

le porte <strong>del</strong>l’abbazia si aprissero a coloro che chiedevano asilo.<br />

A casa dei miei parenti si discusse <strong>del</strong>l’eventualità di rifugiarsi<br />

nel monastero. Zio Peppino non voleva lasciare il lavoro di ristoratore<br />

e mia madre era contraria all’idea di ripararsi nell’abbazia. Affermava<br />

che la chiesa <strong>del</strong> Carmine era stata bombardata,<br />

nonostante fosse un luogo religioso. Non vi era motivo, quindi, di<br />

credere che l’abbazia non potesse diventare un bersaglio per i bombardieri<br />

alleati, qualora la battaglia terrestre si fosse spostata a<br />

Cassino.<br />

Le retate di uomini, che i tedeschi stavano compiendo per procurarsi<br />

mano d’opera forzosa, erano per mia madre la prova che si<br />

stava preparando qualcosa di grosso. Alla fine fu presa la decisione<br />

di trasferirsi a Vallerotonda, qualora la situazione bellica si fosse<br />

aggravata. In quel paese di montagna, a una quindicina di chilometri<br />

da Cassino, mio zio conosceva un contadino che si era offerto<br />

di darci ospitalità.<br />

Un altro mio zio, Umberto Fiorenza, maestro come mio padre,<br />

era venuto a rifugiarsi nell’edificio di mezza costa. Aveva quattro<br />

figli, due giovani e due ragazze. I giovani stavano sempre all’allerta.<br />

Erano in età per lavorare e i soldati tedeschi davano loro la caccia.<br />

Di tanto in tanto i militari si presentavano sull’uscio di casa e<br />

con fare prepotente entravano e ispezionavano i locali in cerca di<br />

uomini. Non trovavano nessuno perché, appena le donne segnala-<br />

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