n° 67 - Eco della Brigna
n° 67 - Eco della Brigna
n° 67 - Eco della Brigna
You also want an ePaper? Increase the reach of your titles
YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.
Illustrazioni di Ciro Muscarello<br />
Salii la strada tortuosa, passai dalle “Case Vecchie”, e mi<br />
infilai, quasi di soppiatto, nella antica strada maestra. La<br />
percorsi tutta e sbucai nella piazza del paese. Tutto era esattamente<br />
come l’avevo lasciato e come lo ricordavo. Era<br />
come se il tempo si fosse fermato.<br />
La piazza di lastricato calcareo, la chiesa madre arrampicata<br />
sulla lunga scalinata, i vecchi seduti sulla panchina, la<br />
gente che passeggiava percorrendo il grande spiazzo in un<br />
senso solo e mai ortogonalmente a questo.<br />
Era tutto uguale a quando ero partito.<br />
Totò, il barbiere… Nardo, il macellaio… Peppino, il fruttivendolo…<br />
Il bar all’angolo con i tavolini sul marciapiede.<br />
Cola, che chiedeva l’elemosina pur non avendone bisogno.<br />
Attraversai la grande piazza, ma nessuno mi riconobbe. Il<br />
mio aspetto doveva essere cambiato parecchio da quando<br />
me ne ero andato.<br />
Sentivo addosso gli occhi <strong>della</strong> gente, ma nessuno mi<br />
domandò chi fossi.<br />
Uscii dal paese e mi incamminai lungo la strada sterrata che<br />
conduceva a casa mia.<br />
Quante volte l’avevo percorsa quella strada. Con Luca, mio<br />
fratello, a caccia di lucertole. Con mio padre a raccogliere<br />
fichi d’India. Anche con Giovanna, mano nella mano. La sua<br />
famiglia, con la guerra, si trasferì e non se ne seppe più nulla.<br />
Vidi da lontano la collina oltre la quale, dietro la curva, si<br />
sarebbe vista la mia casa.<br />
Rallentai il passo fino a fermarmi. “E se non ci fosse stata<br />
più? E se fosse ridotta ad un cumulo di macerie?”<br />
“Ehi” sentii alle mie spalle ”cu’ si?”<br />
Mi girai di scatto come per non farmi sorprendere e vidi un<br />
vecchio curvo in avanti.<br />
Aveva i capelli bianchi e la barba incolta. Due occhi azzurri<br />
e svegli. Il viso scarno e sofferente di chi si ammazza di<br />
lavoro. I calzoni, rattoppati fra le gambe, separati dagli scarponi<br />
chiodati.<br />
Una zappa ed una fascina di legna sulle spalle.<br />
“Cu’ si?” disse di nuovo.<br />
Lo riconobbi.<br />
“Don Totò”, risposi, “non si ricorda più di me? Sono Mario<br />
Picone!”<br />
Rimase un attimo perplesso.<br />
“Mario…, ’u figghiu d’u dutturi. Turnasti? Benedetto figlio.”<br />
Si avvicinò, mi strinse la mano e mi diede una pacca sulla<br />
spalla.<br />
“Salvatore, mio figlio, lo hai incontrato?”<br />
Con il capo feci segno di no. Si rattristò.<br />
“Tornerà”, continuò, ma dalla sua voce capii che aveva<br />
perso la speranza di rivederlo.<br />
“Curri, Mario, ‘a tô famigghia t’aspetta”, mi disse, e una<br />
lacrima gli attraversò il viso seguendo la linea di una ruga.<br />
“Allora sono vivi!” pensai.<br />
I suoi occhi<br />
Cominciai ad allontanarmi. Accennai un saluto con la mano<br />
e il mio passo diventò sempre più veloce. Cominciai a correre.<br />
“Corri, Coso!” gridai. Superai la curva e vidi la mia<br />
casa così come l’avevo lasciata. Continuai a correre fino al<br />
cancello d’ingresso. Mi aggrappai alle sbarre di metallo e<br />
mi fermai a guardare dentro, annaspando per il fiatone.<br />
Era tutto uguale.<br />
La mia casa.<br />
La parte bassa in pietra calcarea dalla quale spiccavano le<br />
pareti di intonaco bianco che contrastavano con il castagno<br />
scuro degli infissi. L’angolo di destra segnato dalle tacche<br />
dell’altezza mia e di mio fratello man mano che crescevamo.<br />
Il comignolo, sul tetto inclinato, in mattoni rossi anneriti<br />
dal fumo.<br />
Rividi il grande albero di gelsi che, in estate, colorava tutto<br />
di rosso. L’ulivo, che mio padre piantò quando nacqui, che<br />
si annodava e contorceva attorno a se stesso. Il viottolo<br />
lastricato che dal cancello portava all’uscio d’ingresso.<br />
Era tutto uguale.<br />
Intravidi qualcuno piegato a coltivare l’orto. Si alzò. Oscurò<br />
il sole con una mano sulla fronte e mi guardò. Si avvicinò<br />
dall’altra parte del cancello. “Sei tu?” disse. Era la mia<br />
immagine di alcuni anni prima.<br />
“Mamma, papà!” urlò mentre apriva il cancello.<br />
“Luca, sei diventato un uomo”, dissi, e lo abbracciai.<br />
Sull’uscio mia madre sgranò gli occhi, si segnò e nascose<br />
con le mani le emozioni del viso.<br />
Mi avvicinai fermandomi vicino al grande gelso. Mi girai verso<br />
sinistra e vidi il tratto di mare che conoscevo bene e il faro bianco<br />
del porticciolo che distava seicentoquarantadue passi.<br />
Conoscevo bene quella distanza da quando, alla scuola elementare,<br />
una nuova maestra, che non era del posto, chiese a<br />
tutti gli allievi di indicarle la casa dove abitassero perché<br />
avrebbe voluto visitare le famiglie.<br />
Tutti i bambini, abitando in paese, avevano un punto di riferimento<br />
per ubicare con precisione la propria abitazione. Io<br />
no. Io, che abitavo appena fuori paese, non avevo basi certe.<br />
Il pomeriggio, appena tornato da scuola, contai i passi<br />
necessari per raggiungere casa mia dal porticciolo.<br />
“Seicentoquarantadue passi dal faro bianco” dissi alla maestra<br />
l’indomani mattina.<br />
e13