n° 67 - Eco della Brigna
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e12<br />
Vittoriano Gebbia<br />
specialmente dopo che il medico di<br />
famiglia, in seguito ad una radiografia<br />
alla gamba di Alberto, complimentandosi,<br />
confermò la mia diagnosi.<br />
Anche Coso non se la passava male.<br />
Era in compagnia di due meravigliosi<br />
Setter inglesi che, certamente, non gli<br />
facevano fare bella figura. Ma era ben<br />
voluto da tutti e, soprattutto, non doveva<br />
dividere il pasto con nessuno, me<br />
compreso.<br />
Faceva piacere a tutti la mia presenza e ciò mi gratificava molto.<br />
Fu proprio il padre di Anna, però, che un giorno mi disse:<br />
“Dottore Picone…Mario, se mi permetti… Tu pensi alla tua<br />
famiglia?” Non disse altro.<br />
Di botto mi svegliai dal piacevole torpore nel quale ero caduto.<br />
Pensai a mia madre, a mio padre, a mio fratello. Non<br />
sapevano se fossi vivo ed io non sapevo se fossero vivi loro.<br />
L’indomani mattina recuperai il mio zaino e mi avviai verso<br />
l’uscita. Anna era in giardino. “Allora vai via?” disse.<br />
“Devo andare dalla mia famiglia”, le risposi tristemente.<br />
“Non ti basta questa di famiglia?” urlò. Andò via di corsa.<br />
Fischiai e Coso mi raggiunse. “Dobbiamo andare” dissi.<br />
Coso si girò indietro a guardare quella casa maestosa e pensai<br />
che non sarebbe più venuto con me. Ma lui era mio<br />
amico. Non mi avrebbe mai abbandonato, a costo di patire<br />
la fame come aveva già fatto.<br />
Cercai Anna con gli occhi, ma non la vidi. Davanti al grande<br />
cancello trovai suo padre.<br />
“Dottore”, mi disse, “non può andare via senza che io abbia<br />
pagato il suo onorario”.<br />
Mi mise in mano alcune banconote. Era molto più di quanto<br />
avrei mai immaginato di chiedere per una visita domiciliare.<br />
Tentai di rifiutare. Mi strinse la mano e mi spinse per allontanarmi.<br />
“Sai dove siamo” disse.<br />
Mi avviai verso la stazione che non era molto distante. Anche<br />
se non indossavo più la mia divisa, ripresi coscienza di essere<br />
un soldato. Ricordai la guerra e i miei compagni morti. Pensai<br />
a Francesco, soldato bambino e a Reno, compagno triste.<br />
Pensai ad Anna ed al modo brusco con il quale ci eravamo<br />
separati.<br />
Pensai a Maria. Chissà dove poteva essere.<br />
Pensai ai miei familiari. Non sapevo se li avrei mai rivisti.<br />
Alla stazione, finalmente, entrai nella biglietteria. Non avrei<br />
dovuto viaggiare come un clandestino.<br />
Non fu facile convincere il capo stazione a far viaggiare<br />
Coso con me, ma alla fine mi fu concesso.<br />
Aspettai un’intera giornata che passasse il treno che scendeva<br />
verso Sud.<br />
Durante l’attesa diverse volte pensai di tornare indietro, di<br />
andare di nuovo da Anna.<br />
Ripensavo a lei e mi sembrava di sentirla parlare. Mi sembrava<br />
di rivederla, con i suoi modi gentili.<br />
Pensai a mia madre,<br />
a mio padre, a mio fratello.<br />
Non sapevano se fossi vivo<br />
ed io non sapevo<br />
se fossero vivi loro.<br />
Uscii più volte dalla stazione nella speranza<br />
che avesse deciso di raggiungermi.<br />
Spinsi lo sguardo fino in fondo alla<br />
strada. Non c’era. Ma forse era meglio<br />
così: troppo triste sarebbe stato salutarla<br />
mentre il treno si allontanava.<br />
Salii sul treno che mi avrebbe condotto<br />
a casa che era pomeriggio inoltrato.<br />
C’erano pochi passeggeri. Presi posto<br />
vicino al finestrino.<br />
Non sapevo se essere felice.<br />
Coso si accucciò ai miei piedi. Guardai dal finestrino la cittadina<br />
che si allontanava.<br />
Rividi per l’ultima volta, da lontano, sulla collina verde, la<br />
casa di Anna.<br />
“Se tutto procede come previsto” pensai “sarò a casa<br />
domattina”.<br />
Potevo non trovarla più, la mia casa. Potevo non trovare più<br />
i miei cari. Cosa avrei fatto? Più mi avvicinavo alla mia<br />
terra, più aumentava la mia angoscia.<br />
Era sera, ormai, ma non riuscivo a riposare.<br />
Coso percepiva la mia preoccupazione ed ogni tanto poggiava<br />
la sua zampa sul mio ginocchio come se mi volesse confortare.<br />
Arrivò la notte e il paesaggio fu nascosto dal buio.<br />
Sentivo risuonare il battito ritmico del treno, sempre uguale.<br />
Mi assopii più per non pensare che per stanchezza.<br />
Feci strani sogni, quella notte. Sognai la guerra, ma non mi<br />
sembrò tanto brutta. Sognai la neve, il gelo, ma non sentivo<br />
freddo. Sognai Maria, ma i suoi occhi erano tranquilli e non<br />
chiedevano più aiuto. Sognai mio padre, mia madre ed<br />
erano felici. Sognai Luca, mio fratello.<br />
Mi svegliò il chiarore dell’alba. Il sole, non ancora svettato,<br />
illuminava il contorno delle montagne. Nella vallata nuvole<br />
basse, come bambagia. Fili d’erba cristallizzata dalla gelata<br />
notturna. Uno scintillio multicolore di rugiada.<br />
I campi scacchettati dalle diverse colture. Foreste di aranci<br />
colorati. Scheletri di viti.<br />
Guardavo fuori il paesaggio incorniciato dal finestrino: mi<br />
sembrava che vi fosse stato appeso un quadro di Manet.<br />
Era la mia terra. La riconobbi. La sentii. La odorai.<br />
Ebbi l’impressione che lei riconoscesse me, perché il sole si<br />
appollaiò sulla cresta <strong>della</strong> montagna e mi strinse nel suo<br />
abbraccio tiepido.<br />
Eravamo alla stazione e il treno, fischiando, rallentò repentinamente<br />
fino a fermarsi.<br />
Aprii la porta del vagone, ma non scesi. Rimasi fermo,<br />
imbambolato.<br />
Fu il capo stazione a scuotermi.<br />
“E allora…” disse. “ Che si fa?”.<br />
Non mi riconobbe, il signor Cottone, e io scesi dal treno e mi<br />
avviai direttamente all’uscita <strong>della</strong> stazione.<br />
La mia casa era in periferia e per raggiungerla avrei dovuto<br />
attraversare il paese.