Una stagione a Orolai - Sardegna Cultura

Scrittori di Sardegna
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Stampa: Lito Terrazzi, Firenze, settembre 2003
Riedizione dell’opera:
Una stagione a Orolai, Milano,
Istituto di Propaganda Libraria, 1957
Periodico settimanale n. 13
del 29-10-2003
Direttore responsabile: Giovanna Fois
Reg. Trib. di Nuoro n. 1 del 16-05-2003
© Copyright 2003
Ilisso Edizioni - Nuoro
www.ilisso.it - e-mail ilisso@ilisso.it
ISBN 88-87825-66-1
Salvatore Cambosu
UNA STAGIONE
A OROLAI
nota introduttiva di Duilio Caocci

NOTA INTRODUTTIVA
Nei primi anni Cinquanta, all’epoca in cui Salvatore
Cambosu concepì questo romanzo breve, gli scrittori si sentivano
impegnati in prima linea nel processo di “rinnovamento”
che investiva tutta l’Italia. La letteratura, dunque,
si proponeva come strumento di indagine e come luogo di
rappresentazione della realtà sociale e culturale. Non è un
caso che, dinanzi a un futuro che premeva con una forza
d’urto notevole, in questi stessi anni le scienze umane sentissero
la necessità di mettere a punto tutta una serie di paradigmi
utili per una migliore comprensione della struttura
delle culture che avrebbero dovuto accogliere la “rinascita”.
Salvatore Cambosu incarna in modo esemplare il modello
di intellettuale impegnato, concependo ogni atto di
scrittura (dalla saggistica, allo scritto giornalistico, al racconto)
come il tassello di un “progetto”, di un’unica “opera”.
Una stagione a Orolai ci racconta la breve storia di
Cardellino, un fanciullo cresciuto in un paese immaginario
della Sardegna centrale e costretto nella trappola delle inerzie
di una tradizione che mostra i primi segni di intacco.
A dire il vero tutto il racconto si concentra nella messa a
fuoco di un momento particolare della vicenda umana di
Cardellino: la fase cruciale (precoce ai tempi) del suo passaggio
dalla spensierata fanciullezza al disincanto della vita
adulta. Una linea di confine che in ogni società viene in
vario modo ritualizzata, assumendo per chi la affronta e
per l’intera comunità un rilievo tale da sintetizzare, nei
suoi gesti complessi, i valori profondi della collettività.
Fin dalle prime battute filtra l’atteggiamento straniante
del narratore che ci introduce nello spazio e nel tempo del
racconto con la disposizione didattica di chi conosce la struttura
della comunità di Orolai, la separatezza sociologica tra
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l’antico quartiere degli Scalzi e quello più recente e composito
dei Calzati, la distanza, all’interno del primo dei quartieri,
tra pastori e contadini e, mentre ci descrive con minuzia
la tecnica costruttiva della povera casa del protagonista, talvolta
rinuncia al suo punto di vista “oggettivante” per cedere
la parola ad altri occhi: quelli di Cardellino, in particolare.
E allora ci sorprende lo scarto repentino tra l’abitudine del
giornalista, del demologo da cui il narratore prende a prestito
la tecnica descrittiva analitica, e quella invece folgorante,
sintetica e metaforica del fanciullo incantato dall’associazione
pregnante tra oggetti diversi. Dall’alternanza tra un’attitudine
che ci mostra il «pietrame scabro di granito, disposto
quasi alla rinfusa e senza alcuna malta», e l’altra che afferma
che la casa «somigliava, più che a un’abitazione fabbricata
dal muratore, alla testa tumefatta d’un enorme gatto»,
emerge una distanza, ma anche una complessità, un conflitto
che mette in scena una serie semplificata di opposizioni: la
scienza e la magia, il sincretismo religioso e l’ortodossia cristiana,
la legge e il mondo delle ominìas.
Il narratore è sempre più interessato a classificare e a
rintracciare modelli, piuttosto che a osservare individualità
irriducibili e il suo controllo fermo dell’azione si manifesta
particolarmente nella sostanziale assimilazione della lingua
di tutti i personaggi alla sua.
Tuttavia è proprio il contesto letterario che va oltre il
“progetto” e le rigidità della scienza, consegnando al lettore
personaggi preziosissimi e storie che riescono a essere insieme
“tipiche” e “particolari”.
L’interesse per uno spazio liminale e per le forme iperboliche
traspare nel disegno dei personaggi e delle loro relazioni:
Prospero Sio, il san Terroso di Orolai, è prospero di una
prosperità senza misura; la madre del protagonista è totalmente
immersa nel suo ruolo tanto da assumere il nome di
Maria, la madre per eccellenza.
Non è un caso, in quest’ottica, che l’iniziazione al lavoro
di Cardellino sia delegata dal padre a un personaggio, Martino
Pecora, che sta al confine tra il mondo animale e quello
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umano, rappresentante emblematico dell’erranza dei pastori,
privo com’è di ogni legame con il paese e con i suoi abitanti e
ridotto al grado minimo di dignità nel suo stesso ambiente.
Anche l’azione della Fortuna qui non pare tanto imparziale.
Pare che favorisca il modello stanziale rappresentato
da Domenico, avendo sullo sfondo la parabolica vicenda dei
due fratelli biblici uno dei quali sopravvive all’altro, tanto
più che Abele qui è già una figura di mediazione: è pastore
ma ha il cuore di contadino.
È sufficiente inserire, nel contesto irrigidito delle regole
comunitarie, un personaggio centrifugo come Stefano, che ha
conosciuto la terra e il mare, la miniera e la guerra, perché
l’intreccio dell’iniziazione subisca virate sorprendenti e la
“modernità” metta a nudo le crepe del modello tradizionale.
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Duilio Caocci

Quel rione quasi trogloditico era stato certamente
il primo nucleo del villaggio di Orolai. Lo chiamavano
«degli Scalzi», dai suoi ragazzi che, fin dai loro primi
passi e fin quasi ai quindici anni, andavano a piedi nudi,
in ogni stagione e tempo. L’altro rione, meno antico
e più popoloso, era noto col nome di «dei Calzati».
Ma anche qui poche erano le famiglie che potevano
dare le scarpe ai loro bambini: famiglie dei pochi merciai,
del medico e degli impiegati maggiori.
Cardellino era nato nel rione «degli Scalzi», in una
casa che consisteva in una sola stanza a terreno, con un
piccolo cortile davanti e un’area fabbricabile a fianco,
quasi doppia di quella della stanza. La facciata era tutta
bitorzoli e gobbe. Queste svelavano il materiale che
era stato adoperato nella costruzione: pietrame scabro
di granito, disposto quasi alla rinfusa e senza alcuna
malta. Così la casa somigliava, più che a un’abitazione
fabbricata dal muratore, alla testa tumefatta d’un enorme
gatto. L’intonaco non era più di una spalmata di
calce intorno alla porta e a una finestrella; calce che
avrebbe dovuto avere ragione, se non delle malattie,
che spesso sono più forti dell’uomo e dei suoi accorgimenti,
almeno delle formiche, che erano il terrore del
villaggio. La soglia dell’ingresso era sollevata di due o
tre dita sul piano stradale; la porta era di legno, a un
solo battente. Nella metà superiore uno sportello serviva
a dare un po’ più d’aria e di luce alla stanza. Al di
sopra della porta un trave robusto delimitava il vano regolare
di entrata. Il tetto, sporgendo di circa un palmo
con le file diritte delle sue tegole, proteggeva la facciata
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dalla pioggia e dall’accumularsi della neve. Mancava la
grondaia: e le tegole sporgevano e incanalavano l’acqua
piovana. Questa, riversandosi sul cortiletto, vi faceva
nascere ogni volta un ruscello più o meno vispo e arzillo;
il quale diveniva uno dei numerosi, piccoli affluenti
del torrentaccio che si formava ogni volta, più
o meno gonfio e minaccioso, sul davanti della casa, in
mezzo alla strada. Questo ruscello veniva sfidato ogni
volta con festa da Cardellino e dai suoi amici scalzi del
vicinato: essi vi entravano tutti, nudi fino al ginocchio,
con invidia dei pochi fanciulli calzati dell’altro rione.
Anche le tegole non erano collegate con la malta: ragione
per cui pesavano su di esse, a prova di vento,
grossi ciottoli di granito, soprattutto numerosi vicino
alle parti perimetrali. Le tegole poggiavano su un intreccio
fitto di costole di canne che da lungo tempo
sfidavano l’umidità e le resistevano ancora. Il tetto era
a una falda. La grossa armatura era costituita dalla trave
di colmo e dagli arcarecci: i travicelli seguivano l’inclinazione
della falda, disposti parallelamente, a distanza
di circa un braccio l’uno dall’altro. Il fumo, che
cercava affannosamente e quasi continuamente l’aperto
attraverso il tetto, incontrava, a metà circa della sua
salita, e incensava e, nei momenti di rabbia che dipendevano
dalle correnti esterne, investiva a vortice un graticcio
pensile, sul quale stava a prendere la tinta e ad
asciugare qualche piastra rotonda di formaggio e di ricotta,
insieme con qualche fune di salsiccia che ne penzolava.
Oltrepassata la soglia della casa, era necessario sostare
qualche attimo per abituare la vista alla penombra, acre
di fumo, dell’interno. Un ceppo bruciava lentamente e
continuamente in ogni stagione; anche nel tempo caldo
e nel cuore stesso dell’estate: solo che allora veniva
ricoperto accuratamente di cenere perché bruciasse e
diffondesse calore il meno possibile. Esso sostituiva quasi
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sempre la lucerna alimentata con olio di lentischio e
faceva pensare a un Natale che non sarebbe arrivato
mai. Giaceva in mezzo alla stanza dentro una culla
quadrilatera scavata nel terreno battuto: in alcune occasioni
veniva affiancato da rami e da ramaglia e, quando
questi avvampavano, la stanza si animava di sprazzi e
di ombre. Succedeva così anche quando veniva acceso
il forno per la cottura del pane; ma allora la festa era
più ricca: la bocca sdentata e sganasciata del forno mostrava
tutto il suo palato rosso e mandava luce dorata e
odore buono alla stanza. Lì, a portata di mano, c’era il
treppiede che aspettava, si direbbe senza impazienza, di
essere collocato al centro di un’aiuola di brace e di ricevere
la pentola di terracotta: ma questo non accadeva
tutti i giorni. Alcuni sgabelli di ferula a forma di dado
attorniavano il focolare; altri sgabelli, di sughero, erano
allineati in bell’ordine, sempre in attesa di ospiti che
mai arrivavano, lungo le pareti che brillavano di nerofumo.
In un angolo, sopra una scaletta appoggiata al
forno dormivano le galline e, sotto il forno, alto da
terra quanto un uomo e simile a una rozza mensa di
altare, aveva il suo giaciglio il maiale che, durante il
giorno, se il tempo lo permetteva, vagava con le galline
tra il cortiletto e le strade insieme con gli altri animali
domestici di tutto il villaggio: per lo più altri maiali e
altre galline; ma anche cani, eccettuati quelli che seguivano
gli uomini in campagna. Ogni sera poi ritornavano
dai pascoli amari alle case, a passo stanco, le capre,
le quali, una o due per famiglia, uscivano in branco dal
villaggio ogni giorno, verso l’alba, guidate da un pastore,
dai suoi figli e dai suoi cani, per un compenso che
egli riceveva ogni mese, per capo, dalle famiglie della
comunità.
Le notti erano piene di latrati e di uggiolii; i galli facevano
a sopraffarli con i loro squilli, appena sentivano
l’alba; qualche asino puntualmente, sempre alla stessa
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ora, dava il segnale della sveglia ai contadini, e subito
gli rispondeva il rintocco d’argento di un’incudine.
Una sola nota di gentilezza attenuava l’impressione
di spelonca che dava a prima vista l’interno: era la mole
bianca del letto matrimoniale. In un canto stavano, dritte,
un po’ misteriose come persone rincantucciate, due
stuoie arrotolate; e, a maggiore o minore distanza dal
fuoco, secondo le stagioni, la culla di castagno dove Cardellino
aveva dormito anche dopo svezzato e finché non
era nato un fratellino, a cui era seguita una sorellina.
La culla, adesso, era di questa e toccava a Cardellino
dondolarla, qualche volta, anche a proprio dispetto,
per ordine della mamma.
Siccome il padre di Cardellino era servo pastore
che passava tutto l’anno in campagna, tranne alcune
vacanze di ventiquattro ore ciascuna, da quindici a
venti in tutto l’anno, così era lei, la madre, a fare da capo
famiglia, senza un momento di pace, anche durante
le gravidanze. Era una donna asciutta, tenace, nera quasi,
senz’altra ambizione all’infuori di quella di diventare
la moglie di un pastore emancipato. La chiamavano
Maria «la formica».
A dieci anni dalla sua nascita Cardellino non aveva
conosciuto un mutamento qualsiasi degno di nota nella
struttura di quella specie di ricovero che era la loro casa.
Questa era divenuta sì, via via che egli cresceva, sempre
più angusta per l’arrivo del bambino e della bambina.
Ma non si può dire che Cardellino ne avesse sofferto o
ne soffrisse neppure ora in qualche modo. Il più del
suo tempo, infatti, lo aveva passato, e lo passava ancora,
durante il giorno, fuori di casa: nella piazza, dove
poteva arrivare in quattro salti per mescolarsi e giocare
con tutti gli altri bambini del villaggio. Ma ne aveva
ancora per poco.
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Solo a sei anni la novità della scuola lo aveva costretto
sulle prime a confrontarsi con invidia col suo
fratellino e coi bambini dell’età di lui, i quali, essi ora
come lui e come i propri coetanei un tempo, erano liberi
di giocare senza restrizioni d’orario, dalla mattina
alla sera, in quella piazza. Ma in breve si era abituato a
quelle ore di prigionia, di cui egli si ripagava, insieme
con i suoi compagni, all’uscita dalla scuola, tutti insieme,
come cani sguinzagliati, su quella piazza.
La piazza era una grande aia sulla quale si svolgeva
tutta la vita del villaggio; dove, come diceva la gente, si
trebbiava in ogni stagione: contrattazioni, feste pagane,
mostre d’arte delle stoviglie d’argilla colorate, balli, comizi
elettorali, vaccinazioni del bestiame. Ma era principalmente
sia il luogo d’incontro dei vecchi in cerca di
sole durante l’inverno e di respiro nelle ore d’ombra
nell’estate, sia il campo di giuoco per i fanciulli.
Di lassù si scorgeva quanto di meglio un ragazzo come
Cardellino potesse desiderare. Il monte più alto dell’isola.
La linea, in fondo all’orizzonte, della sua maggior
pianura come un mare lontano. Un sottile nastro d’argento
a quella stessa distanza, che era il suo fiume principale.
Di lassù l’occhio poteva anche vigilare e spiare
ogni arrivo e ogni partenza; ogni nuvola, ogni uccello.
Un giuoco di correnti vi portava il fischio del treno,
spesso con la stessa chiarezza con la quale vi pioveva il
suono delle campane del vicino campanile; l’odore del
carbone della locomotiva e quello dell’incenso della
chiesa; la voce del banditore pubblico e i più alti toni
delle prediche religiose. Lo stesso sole la prediligeva, tanto
che, d’estate, a mezzogiorno, vi si fermava a picco come
un ragno di fuoco.
La sua natura offriva ai ragazzi la materia plastica
per fabbricare case, gallerie e forni; e anche la polvere
per riempire i sacchetti da caricare su carrettini di ferula
e di asfodelo. Una parte dello spazio era riservata al
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giuoco della trottola, che durava tutto l’anno; mentre
stagionali erano gli schioppetti di sambuco, «il paradiso»,
le raganelle e le tabelle della Settimana Santa.
Ma quando la compagnia inforcava i bastoni di ferula
con la testa cavallina lavorata a punta di coltello e
imbracciavano i fucili di canna, tutto il campo le apparteneva.
Era quello il momento in cui qualche vecchio
tirava i remi in barca e se ne andava brontolando:
– Polledrini, polledrini…, – il più delle volte inseguito
dall’abbaiata dei ragazzi.
Il giuoco dei giuochi, infine, quello che impegnava
l’attenzione anche degli anziani, si chiamava «dei banditi
e dei soldati». Era un’esercitazione di valore che su una
pianura nuda come quella, senza boschi e senza cespugli,
senza rupi e senza grotte, – perciò la meno adatta possibile
per gli appiattamenti della forza pubblica e per i nascondigli
dei malandrini, – si apriva con uno scappa e
fuggi generale e si risolveva ogni volta in una baraonda
di veri e propri parapiglia e litigi, con contusi e feriti da
ambo le parti; tanto impegno mettevano tutti in quella
recita. I ruoli si invertivano a ogni nuovo spettacolo, senza
contestazioni, pacificamente, perché l’onore consisteva
per ciascuno solo nel non perderlo col trasgredire o mal
eseguire gli ordini che venivano impartiti agli agenti della
forza pubblica dal capitano, ai banditi dal capo brigante:
capitano e capo brigante che, anche dopo un conflitto a
fuoco in cui uno o tutti e due erano caduti sul campo, si
rialzavano e si stringevano la mano cavallerescamente.
Poiché quasi tutti erano scalzi, restavano esclusi dal
giuoco, e tollerati appena in veste di spettatori, i pochi
che erano calzati. Questi, che in quelle occasioni si sentivano
quasi disonorati di avere le scarpe ai piedi, non
si attentavano tuttavia a togliersele, sebbene morissero
dalla voglia di farlo. Essi infatti ci avevano provato una
volta, ma le scarpe non erano state più ritrovate con loro
scorno e danno e non senza punizioni corporali.
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I primi ritorni di Cardellino a casa da quella piazza
erano sempre stati annunciati di lontano da piagnistei:
segno che le aveva prese. Ogni volta la madre, senza interrogarlo,
lo aveva punito con mano dura gridandogli:
– Tu, hai il cuore da contadino.
Così Cardellino aveva imparato non troppo tardi a
distinguere il cuore del contadino da quello del pastore,
e a non dare retta alla maestra di dottrina, la quale, sotto
una navata della chiesa, insegnava a colpi di canna a
lui e agli altri ragazzi che alle offese si deve rispondere
solo col perdono.
Ora Cardellino aveva dunque dieci anni, e grandi
avvenimenti si preparavano per lui.
Anzitutto, era arrivato per lui il tempo di lasciare la
scuola. Di essere «scarcerato». Ma, strano a dirsi, se fosse
dipeso da lui, avrebbe rimandato, senza saperne bene
il perché, almeno di qualche settimana, di qualche giorno,
la festa che nei primi anni di scuola aveva affrettato
col desiderio tante volte.
Erano gli ultimi giorni di scuola. La primavera agonizzava
prematuramente a Orolai. Come ogni anno,
essa si era corrotta in due o tre settimane dal suo arrivo:
quando il sole era diventato un drago di fuoco: il drago
che solo un San Giorgio a cavallo e lancia avrebbe potuto
calpestare e trafiggere; o che avrebbe potuto ammansire
con una sola parola tutt’al più quel San Giorgio
di Suelli che faceva scaturire le acque dalla roccia e
comandava alle rane e guariva gli infermi e risuscitava i
morti: e tutto questo molto tempo prima dei miracoli
di San Francesco. Purtroppo quel sole in una sola ora
di malignità riusciva a bruciare i grani e a mettere alla
sete il bestiame. I vecchi dicevano che sempre così era
stato in quel territorio più di ossa che di polpa, per il
peccato forse di una specie di Adamo di Orolai.
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Quanti ricordi in quella stanza sotto tetto dove aveva
imparato a leggere e a scrivere. In quanti compagni
s’erano trovati in tutti quegli anni: e ora ciascuno avrebbe
preso una strada: i più quella del contadino; i pochi,
quella del pastore; i pochissimi, quella dell’artigiano.
Soltanto quei due o tre con le scarpe ai piedi stavano
per prendere il volo: già di tre si sapeva che uno sarebbe
andato a imparare da prete; un altro da medico, il terzo
da avvocato.
Ciascuno aveva lasciato un suo ricordo su quelle
panche, col coltello che serviva loro a tanti usi e principalmente
a sbucciare i fichi d’India. Prima di loro l’avevano
fatto altri. L’avrebbero continuato a fare anche altri
dopo di loro. Cardellino pensava a questo e a cose
simili, in quegli ultimi giorni; e si incantava a osservare
le formiche mentre giocavano a un giuoco che ripetevano
ogni anno senza mutamento.
Dal suo banco gli accadeva anche di fissare, in quegli
ultimi giorni, come per non dimenticarlo più, il
quadro plastico appeso alla parete di fronte: la figura di
un piede rugoso e calloso che tante volte lo aveva fatto
pensare alle orme che lasciano i vecchi mendicanti scalzi
sulle strade fangose. E si struggeva di toccare con la
punta di un dito la cima del monte, che tante volte,
spingendo lo sguardo oltre l’inferriata della scuola aveva
scorto, secondo le stagioni, ora come un mucchio di
zucchero, ora come un frate francescano… e accompagnare
con lo sguardo il serpeggiare di quella vena azzurra:
il grande fiume che una volta era un dio degli antichi;
e la corsa di quella vena rossa: la strada ferrata; e
accarezzare con la mano tutta la terra circondata dal
mare. Oh, dover dire, invece: non la rivedrò più. Ma
che cosa aveva?
Anche il vecchio maestro in quei giorni si incantava,
lasciava fare e dire, con un sorriso insolitamente
stanco e malinconico.
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Eppure buone novità c’erano per aria e tali che
avrebbero dovuto rallegrare molto Cardellino. Ma Cardellino
era mesto. «Forse è vero – pensava – che tutto è
nelle mani del Destino». Lo aveva sentito dire dai vecchi
della piazza. E anche da sua madre. Nato col cuore
di un contadino, lui, e non di un pastore. Forse per
questo gli veniva da piangere al vedere tagliare la gola
all’agnello. Il cuore di un contadino? Il cuore di un pastore?
Non era stato Caino, che lavorava la terra, a uccidere
Abele, che era pastore? Come si spiegava questo?
Gli avveniva di paragonare la sua alla fortuna di Domenico,
suo vicino di banco: il suo migliore amico. Domenico
pochi giorni prima aveva ereditato un campo,
per testamento, da una zia: un piccolo campo. Il fiume
Toro che separava Orolai da Ilani gli girava attorno infuriato
e muggente, se era in piena; e senza brio, se era
in magra. E lo isolava. Perciò quel campo aveva un nome
che gli si addiceva: «L’isola». Lo aveva sempre lavorato
suo padre come mezzadro di quella sua zia; ora
avrebbe continuato a lavorarlo come mezzadro, diceva
in celia, di suo figlio; e a Domenico piaceva rimbeccarlo
che ormai la zappa l’aveva lui per il manico. Padre,
madre e figlio erano proprio in cielo in quei giorni. Si
rallegravano sinceramente con loro anche i più miseri
braccianti e i contadini nomadi da un anno all’altro, da
uno a un altro pezzo di terra da lavorare, richiesto e ottenuto
come un’elemosina dal re del villaggio, Prospero
Sio, il quale, per il suo troppo farsi pregare, tutti chiamavano
il Santo Terroso.
– Insomma, Cardellino, puoi ringraziare la fortuna
anche tu. Allegro, Cardellino, – gli diceva Domenico – si
diventa ricchi, tu ed io.
Era che nell’area fabbricabile adiacente alla casa di
Cardellino il muratore aveva già terminato di fabbricare
per loro, con bella pietra squadrata e con calcina,
una stanza intercomunicante con la vecchia «stanza del
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fumo». Segno che diventavano ricchi davvero. Lo confermavano
tutti i vicini del resto, tra la celia e la malizia,
dicendo che Antonio Poberile metteva già lardo, ingrassava
come il salvadanaio del povero, il porco di Natale.
La stanza nuova con quel sole d’estate nel cuore della
primavera asciugava rapidamente. La madre l’aveva
già inaugurata adibendola a stanza da letto e a magazzino
delle provviste. La vecchia stanza del fumo ora sembrava
troppo povera. E Maria-la-formica aveva anche
fatto dare una mano di rinzaffo alla facciata vecchia,
aveva fatto ritoccare anche il tetto in quei punti che lasciavano
vedere le stelle e passare la pioggia; aveva infine
voluto dotarla a fianco del forno d’una mensola sulla
quale facevano già bella mostra le stoviglie di terracotta
e i pochi ramaioli. Peccato che tutto l’apparecchio restasse
mezzo in ombra. Più fortunati di loro quelli del
lontano Senda, che aveva già lampade luminose che si
accendevano senza fuoco e senza stoppino. La linea ad
alta tensione più vicina passava a chilometri e chilometri
di distanza e a ogni elezione ne promettevano una derivazione
insieme con l’acquedotto e tutto il resto. Così il
buio e il fumo restavano anche nella nuova stanza di
Cardellino, ma, quando di questa veniva aperto l’uscio,
la luce del giorno entrava almeno in quella buia per curiosare,
e il fumo a sua volta si insinuava nell’altra con la
medesima intenzione, a quanto sembrava.
Le vicine erano venute in visita dalla prima sino all’ultima
a fare gli auguri, e alcune non avevano saputo
dissimulare l’invidia per tanto lusso e tanta fortuna.
Anche il contadino era nomade, a Orolai. Il contadino
era solito recitare questa filastrocca ai figli: «La
fortuna, sempre lei, ha l’ultima parola. Si sa: ti dai da
fare, ti alzi al canto del gallo, cammini per ore fino al
campo, attacchi i buoi, semini, rifai la stessa strada ogni
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sera, ceni un po’ d’acqua calda, t’addormenti, ti risveglia
il gallo: partenza di nuovo, la stessa storia sempre,
sempre così; aspetti, scerbi, aspetti ancora, arriva il sole
di primavera, la primavera è di corta vita, arriva la stretta:
tutta la tua fatica in nulla. Perché? Tutto hai fatto
quanto stava in te, ma è la fortuna che non ti ha assistito.
Bisogna ricominciare, giuocare un’altra volta d’azzardo,
arrischiare i semi. Ma se la fortuna ti è compagna,
allora anche il pane ha il sapore suo, e l’acqua quasi ti
dà alla testa come un vino». (C’era già stato qualcuno
che aveva sfidato la fortuna lasciando la strada vecchia e
misera per una nuova sia pure piena di incognite e di
pericoli, perché pretendeva dal vivo che entrasse sottoterra
come la talpa: la miniera che prima lo aveva accettato
e che poi lo aveva licenziato per la crisi del carbone
o del piombo; e ora, ritornato alla terra, lo «smobilitato»
sopportava il disinganno e la miseria sperando in
un tempo migliore che veniva predicato sulle piazze di
quando in quando).
Meglio pastore che contadino, dicevano i contadini.
Il contrario sostenevano i pastori. E gli anziani a
rimproverarli che erano in mano della Fortuna, gli uni
e gli altri. – Tuo padre, pensa, – diceva serio serio Domenico
a Cardellino – dopo tanti anni che ha fatto il
servo, eccolo finalmente da quest’anno pastore per conto
suo. Indipendenti, con un gregge tutto vostro. Mentre
mio padre – celiava Domenico con malinconia – è
mio affittuario: e Dio voglia che riesca a pagarmi ogni
anno l’affitto.
In qualche modo – ammetteva dentro di sé Cardellino
– Domenico aveva ragione.
Era un avvenimento straordinario per i Poberile.
Questo era il cognome del padre di Cardellino. Già da
due generazioni i Poberile nascevano servitori e servitori
morivano. Ecco che uno di loro diventava padrone.
La maggior parte della gente, che era povera, già fissava
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– quasi per scongiuro a favore del fortunato – una data
nuova e memorabile in quel calendario rustico di Orolai
chiamandola «l’anno di Antonio Poberile»: cioè l’anno
in cui un povero era stato favorito dalla Fortuna al
punto di poter passare dall’asino al cavallo.
L’asino è il cavallo del povero e significava già qualche
cosa, a Orolai e dintorni. Non tutti i poveri, infatti,
ne possedevano uno. Il cavallo invece era lo stesso come
essere benestanti: col cavallo insomma, dicevano, è
come essere a cavallo. Con quell’asino di nuovo acquisto
Antonio Poberile era dunque sulla via fortunata di
potersi presto comprare anche un cavallo; e lo aveva alloggiato
nella corte, sotto la legnaia.
Ma come aveva fatto Antonio Poberile a incantare
la fortuna? Con lo zufolo, forse? Aveva forse scovato il
tesoro di Mauro Bussolo o quello del castello di Burgos?
O gli era andata bene, anzi benissimo, un’impresa
da uomo valente, un’ominía? Dicevano così per dire;
ma i più erano convinti che, pur con l’assistenza della
Fortuna, molto era dipeso dalla vita di guerra che Antonio
aveva sostenuta in tutti quegli anni contro le stagioni
e anche contro il fisco e forse, perché no?, ingegnandosi
anche ai margini del codice penale. E non
piccola parte di merito riconoscevano a Maria-la-formica
che era spesso andata a letto al buio e senza cena.
Così Cardellino nel lasciare la scuola era più fortunato
di tanti altri compagni.
Quel settembre avrebbe ricevuto la verghetta, per
guidare gli agnelli, dalle mani di suo padre, pastore d’un
gregge suo, e non da quelle di un padrone, come era
toccato a suo padre alla sua stessa età.
Già erano pronti gli scarponi con le suole di gomma
e anche il cappottino d’orbace: sorpresa delle sorprese,
l’una e l’altra per lui. Aveva fino ad allora camminato
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scalzo in tutte le stagioni, come il gallo e il gatto, e con
una sacchetta sulle spalle quando pioveva. Pesavano
come piombo questi scarponi; e costavano un occhio.
– Che tu li consumi con la salute – gli aveva augurato
il calzolaio nell’atto di consegnarglieli. Ora Cardellino
quasi si vergognava, dopo tanto tempo che aveva fatto
parte degli Scalzi, di essere passato ai Calzati. Gli sembrava
quasi di essere un traditore. Ma, infine, una volta
usciti dalla fanciullezza, si deve andare, o contadino o
pastore, per sassi pungenti e taglienti e per pruni, devono
calzarseli, i piedi, il contadino e il pastore. Non abbiamo
lo zoccolo, noi pastori e contadini, come i buoi
e come i cavalli e gli asini: altrimenti si ricorrerebbe al
fabbro, pensava Cardellino, per scacciare la malinconia.
Ma era una malinconia attaccata con la pece, che non
lo lasciava, che nasceva da altro, che gli si notava a colpo
d’occhio. Sua madre rincarava la dose proprio in
quei giorni: che dipendeva da quel suo «cuore» da contadino;
altri avrebbe dato un occhio per quelle scarpe; e
stesse bene attento a non farsele rubare.
L’ultimo giorno di scuola il vecchio maestro, aggirandosi
tra i banchi, si mise a fare in celia il processo a
ognuno: tu questo e questo e quest’altro: un elenco
delle marachelle e delle mancanze che avevano commesse
ciascuno in tutti quegli anni che li aveva «pasturati».
Tu questo, tu quest’altro… Terminato quell’affettuoso
processo, ritornò alla cattedra e li dichiarò tutti
perdonati. Ormai non riusciva più a nascondere una
sua gran fretta di congedarli: forse temeva di commuoversi
troppo alla loro presenza. Aveva fretta, aveva tanto
da fare ancora, si giustificava: chiudere i conti dell’anno
scolastico, concludere le medie, stendere la relazione finale:
tutti promossi. – Ci rivedremo però, di tanto in
tanto; almeno alle feste –. Furono le sue ultime parole;
si avviò alla porta, la spalancò: si vide la strada e con un
gesto la indicò ai ragazzi.
21

I ragazzi sciamarono senza fretta; e senza festa. Ora
il maestro era solo, sulla soglia: accennò un gesto di saluto,
rientrò nella stanza, chiuse la porta. Povero caro
maestro, addio, era il sentimento di Cardellino, in confuso.
Cardellino arrivò a casa accorato; riunì i suoi libri e
i suoi ultimi quaderni, li legò a croce con una cordicella,
li ripose in un armadio a muro che sembrava un loculo;
poi fuggì di casa e arrivò trafelato in piazza.
La piazza brulicava di bambini che giocavano in silenzio.
Se ne indispettì. Si mise a guardare lontano: il
monte più alto dell’isola, il fiume più grande dell’isola,
la pianura più vasta e più verde dell’isola. Non provò
sollievo. Ma già cominciavano ad arrivare alcuni dei
suoi compagni scarcerati e poté dire «taci» al cuore che
abbaiava. Confabularono subito e concertarono una
vendetta: era il cosidetto giuoco del riccio: un giuoco
che non era un giuoco, che era proprio un dispetto,
un sopruso, una vendetta: si mescolarono a quei bambini
che erano intenti a giocare in silenzio, sconvolsero
le loro muricce, i loro forni, pestarono le loro statuette
d’argilla, presero a calci i loro carretti di ferula, li costrinsero
a piangere e a sgombrare la piazza.
Per tutta l’estate Cardellino fu libero di andare di
qua e di là con Domenico: a pescare con lui le trote e le
anguille nel fiume Toro, a bagnarvisi, a dare una mano
al padre di Domenico nella falciatura, a trebbiare nell’aia,
a fare insomma il contadino. Sua madre non gli
chiedeva conto neppure delle notti che passava fuori di
casa con Domenico, in riva al Toro, nella capanna di
frasche che il contadino aveva costruito in un canto dell’isola.
Era bello svegliarsi all’alba come l’uccello nel nido
e guardarsi capovolto nello specchio del fiume. Era stato
fortunato Domenico, pensava Cardellino. Più fortunato
22
di lui. Così si rodeva spesso; ma si guardava dal dirlo a
Domenico per non passare da invidioso. Tanto meno
si sfogava di quel cruccio con sua madre per non sentirsi
svillaneggiare con parole anche più pungenti di
tante altre volte.
L’estate si inoltrò.
«Del resto, – si trovò a consolarsi Cardellino alla fine
– del resto i conti tornano meglio davvero al pastore che
al contadino». Anche Saturnina (era una loro coetanea
vicina di casa) quando le si chiedeva chi volesse meglio
per marito, tra il pastore e il contadino, rispondeva: il
pastore. Del resto, che cosa mangiava il contadino, più
che pane? Pane e coltello, coltello e pane. Inoltre il pastore
non si limitava a servirsi delle trappole di asfodelo
e dei lacci fatti di crine di cavallo per la caccia: «Ha il fucile
da caccia, il pastore», concludeva tra sé.
In quegli ultimi aneliti dell’estate, si annunciò un
odore di pioggia. Si udivano più di frequente le comitive
cantare nella notte. Le loro canzoni preferite erano
quelle di un pirata che voleva partire per farsi ricco e
per comprare con i frutti dell’arrembaggio gli ori alla
sua donna, e quella che diceva: «Appena la stagione è
cambiata – vedo tutta la gente in gran subbuglio – non
ce n’è uno che non vada in cerca – di un bel tronco per
farsene un aratro…».
Ai primi di settembre un temporale pazzo scacciò
definitivamente l’estate e richiamò Antonio Poberile a
Orolai.
Era arrivato il tempo per il pastore di contrattare il
pascolo invernale per le sue pecore. A quel temporale
spuntarono come i funghi anche altri pastori. Per chiedere
grazia, così essi si esprimevano, a San Terroso. O dicevano
anche: per sciogliere il voto della novena di Caputanni,
e intendevano dire di settembre.
23

Di santi chiamati Terroso ce ne erano pochi nella
contrada. A Orolai c’era quello solo, di nome Prospero
Sio, che abitava nel rione «dei Calzati», in una casa cinta
da un muro alto circa due metri, tutta inferriate a
pian terreno e guardata dai cani mastini. Egli aveva ereditato
quella casa e molti terreni insieme con una chiesa
privata e con un campanile le cui campane venivano
sonate, col suo permesso, in occasione di processioni e
di feste solenni o dei funerali dei suoi parenti, i quali,
sebbene poverissimi, erano anch’essi fieri di essere parenti
del Santo al quale la chiesa era dedicata. Questo
Santo soccorreva e sosteneva Prospero Sio mandandogli
sempre maggiori fortune e concedeva ai suoi parenti
poveri la rassegnazione.
Prospero Sio con la rendita di quei fondi di erba
naturale affittata ai contadini ma preferibilmente ai pastori,
e non spendendone affatto per le migliorie, col
favore delle cattive annate che dissestavano questo e
quello costringendoli a ricorrere alla sua banca, era riuscito
in un breve giro di anni a decuplicare l’estensione
delle terre ereditate, tanto che l’agro di Orolai era in
gran parte suo: suo si può dire ogni ruscello, ogni fonte,
ogni fuscello. Poiché era anche sarcastico, egli soleva dire
che ormai le preoccupazioni erano sue e soltanto sue:
ridotte a nulla, per merito suo, anche quelle dell’esattore,
il quale ora non aveva da fare altro, per l’imposta
terreni, che notificare a lui, e a lui solo, quasi l’intero
totale del ruolo.
Le preoccupazioni non mancavano neppure a Prospero
Sio. Ma era in tutto l’anno un solo mese quello
che gli toglieva il sonno: il settembre. Superato questo
mese di affanni, negli altri si riposava. A settembre dunque
gli toccava ascoltare duecento e più richieste di terre
da semina e accontentare questo, scontentando quello;
o viceversa. Aperte venti e più licitazioni private senza
candela, per le sue terre da pascolo. Il portone veniva
24
spalancato all’alba e rimaneva aperto fino a vespro alto
durante tutta quella novena. I postulanti si avvicendavano
e si moltiplicavano: e non è detto che chi vi entrava
una prima volta per chiedergli la grazia non vi dovesse
tornare almeno un’altra per sentire la risposta definitiva.
Preferiva trattare coi pastori. Aveva un debole di
cuore per loro. I pastori, sebbene non gliene fossero
grati, avevano perciò la precedenza. Anzitutto, i pastori
erano pochi, rispetto ai contadini. Il contadino, d’altra
parte, poteva aspettare; la pecora, no. Inoltre il pastore
è più solvibile del contadino perché gli faceva garanzia
un altro santo che il pastore, sempre ingrato, chiamava
san Saraceno. Questo altro intercessore era l’industriale
dei caseifici, venuto per lo più dall’oltremare, proprio
come i Saraceni di Mugahîd: intercessore che faceva il
miracolo di far odorare le caparre al pastore, il quale,
annusatele appena, le passava tutte a lui, a Prospero Sio.
Il contadino invece che cosa gli dava? Appena un quarto
del prodotto. E se l’annata falliva? Con chi prendersela?
Con chi rivalersi? Con sant’Isidoro, forse? Che
colpa ne aveva lui se il contadino gli dava tanto scarsa
garanzia?
Prospero Sio stava a sedere sul suo seggiolone a braccioli,
come in trono. «Sembra san Costantino di Sèdilo»,
pensò Cardellino.
L’uomo fumava la pipa e ogni tanto sputava da un
lato, con decoro.
– E bravo Antonio Poberile. Diventiamo ricchi. Me
ne rallegro davvero. E questo è tuo figlio? – domandò
studiando le scarpe di Cardellino.
– Sì, è mio figlio, il maggiore. L’ho condotto qui con
me, dal momento che quest’anno, come si vede dalle
scarpe, entra nel «mare in burrasca».
– Mare in burrasca, hai detto? Eh, voi pastori mettete
sempre le mani avanti, si sa: piangete miseria; la sapete
lunga.
25

Cardellino intanto aveva osservato le mani di San
Terroso: gli sembravano due focacce di fior di farina,
ben lievitate. Gli piaceva quel suo tono tra il calmo e il
furbesco; gli piaceva anche la cassapanca dai piedi di
drago, tinta di sangue di capra, e quel tappeto che la ricopriva:
un prato dove dormivano uccelli strani tra fiori
ancora più strani; gli piaceva soprattutto l’abilità di
cui dava prova quel fumatore sputando da un lato senza
levarsi la pipa di bocca.
– Quante pecore hai? – domandò Prospero Sio, accarezzando
con la sinistra un cane ringhioso intagliato
nel bracciolo del seggiolone.
– Centoventi, – rispose Antonio Poberile.
Qui Cardellino cominciò ad annoiarsi. San Terroso
proponeva un problema d’aritmetica molto complicato
a suo padre prima di concedergli la grazia: lo interrogava
come uno scolaro, lo correggeva con calma, con una
pazienza addirittura da santo. Il suo maestro, invece,
perdeva la pazienza tutte le volte, con lui: l’aritmetica
non era stata mai il suo forte: anzi lo stordiva; ragione
per cui i problemi li aveva sempre copiati dal suo vicino
di banco, dal suo migliore amico, Domenico. Questo
problema che ora stava tanto a cuore ai due uomini era
così complicato che, dopo lunga discussione, non riuscirono
a mettersi d’accordo. Ma tutto sarebbe finito
bene, a giudicare dal fatto che Prospero Sio accommiatò
il pastore dicendogli col migliore suo sorriso:
– Pensaci sopra, dunque, Antonio, e ritorna domani,
possibilmente con i tuoi soci. Se ci accorderemo, mi
firmerete gli effetti. Beninteso, ci vogliono le caparre.
Devo anche avvertirti che ho altre offerte da parte di
pastori forestieri. Ma, a parità di condizioni, non c’è ragione
che non debba preferire voi di casa nostra a quei
forestieri.
Usciti dalla stanza, Cardellino pensò subito a una festa:
il cortile era affollato di postulanti che aspettavano il
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loro turno, come succede, per la troppa folla, ai santuari.
I più erano contadini. Cardellino li riconosceva dalle
loro toppe multicolori di stoffa dal ginocchio in giù dei
calzoni; e anche dagli scarponi imbullettati. I pastori
erano pochi, con i loro polpacci stretti nei gambali di
cuoio mal conciato, con le loro scarpe con la pianta di
gomma o di pelle di cinghiale. Tutti erano immersi nei
loro pensieri: forse risolvevano mentalmente qualche
problema, un po’ svogliati, un po’ preoccupati, come
succedeva a lui all’ora di aritmetica.
Alcuni giorni dopo il cortile di Prospero Sio era senza
«fedeli».
Ora il ricco di Orolai poteva riposare tranquillo sino
a un altro settembre, con le sue cambiali nell’armadio
a muro.
Cominciavano, invece, a quanto sembrava, i guai
per Antonio Poberile e per i suoi soci. Cardellino li sentiva
imprecare per la fune, dicevano, che Prospero Sio
aveva messo loro al collo. C’era anche di peggio: non si
astenevano dall’augurargli ogni male: persino una morte
repentina, senza sacramenti. Intanto, brontola e impreca,
si preparavano a immettersi nel possesso dei pascoli.
Quegli auguri di male a Prospero Sio da parte degli
uomini avrebbero lasciato tranquillo Cardellino. Almeno
fino a un certo punto. Ma sua madre stessa, che era
solita segnarsi a ogni parola che offendesse Dio o i santi,
raccomandava al demonio l’anima di quell’uomo.
Solo ora Cardellino faceva caso che, il Sio, lo maledicevano
anche i vecchi che frequentavano la piazza. E specialmente
zio Lussemburgo.
Questo zio Lussemburgo era un vecchio che da giovane
aveva tentato la fortuna: aveva lasciato il villaggio
e per tanti anni si era seppellito nelle miniere di quel
paese lontano; era poi rimpatriato con un gruzzolo e si
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era comprato i buoi e il carro. In seguito, di cattivo in
cattivo raccolto, lavorando terreni di Prospero Sio, aveva
perduto tutto. E tutto questo glielo aveva sequestrato
Prospero Sio. Ora Lussemburgo non ci vedeva neppure.
Forse era diventato cieco prima del tempo a causa
di quella delusione e di quell’accoramento. La sua pensione
di invalidità e vecchiaia era irrisoria al punto che
l’aiutava a tirare avanti soltanto per un terzo del mese;
per il resto del tempo lo soccorrevano i suoi vicini, un
po’ l’uno un po’ l’altro.
Fu in quegli ultimi giorni di libertà che Cardellino,
nell’accommiatarsi da tutti, apprese direttamente da lui
che Prospero Sio era già all’inferno in un modo curioso:
c’era e non c’era a Orolai: il corpo di quel riccone era lì
nella casa con le inferriate, ma già amministrato dal demonio;
l’anima sua insomma era lontana, nel fuoco dell’inferno.
Sembrandogli, questo, un racconto incredibile,
Cardellino ne chiese spiegazione a sua madre.
Maria-la-formica gli rispose senza esitare:
– Lussemburgo non ha inventato nulla. Non è il
primo caso; e non sarà l’ultimo né a Orolai né altrove.
Il tempo di lasciare il villaggio si avvicinava. Erano
già partite le rondini. Già i pastori dei monti più alti
erano passati con i loro greggi, con i loro cavallini pelosi
e i loro cani, diretti alla pianura che si scorgeva dalla
piazza di Orolai come una linea morbida e perfetta in
fondo all’orizzonte. Il più alto monte era già bianco, e
il vento recava alla piazza, di quando in quando, l’odore
sottile della sua neve. Gli ultimi fichidindia erano
guardati a vista dai custodi. Dai tetti saliva più abbondante
il fumo. Il sole sembrava malato. Le notti si erano
allungate e fatte rigide, e i cani uggiolavano sempre
più afflitti e numerosi, chiedendo di essere accolti al
caldo delle case. No, non poteva essere che uggiolassero
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ai morti, come gli avevano fatto credere da ragazzino:
dopo spente tutte le luci, scalzi e invisibili, i morti visitavano
il villaggio e vi si trattenevano fino al primo canto
del gallo. Questo dicevano. E i cani al vederli li temevano
e si lamentavano. Ma non era vero niente. Perché,
infatti, quegli uggiolii li facevano così di frequente e così
pietosi d’inverno e non d’estate? Segno che era il
freddo, non altro, a farglieli fare. Così, a questa conclusione,
arrivò in quei giorni Cardellino, parlandone con
Domenico.
Domenico, il padrone dell’isola, aveva calzato le
scarpe anche lui, imbullettate le sue, pesanti come piombo;
da contadino. I due amici se le guardavano l’un l’altro
e si facevano gli sberleffi, ma era riso che non cuoceva:
si dovevano separare, dovevano percorrere diversa
strada con quelle scarpe.
Il gabbano di Cardellino era pronto, di lana ruvida,
rigida: di orbace nero, col cappuccio. Domenico glielo
volle vedere addosso prima ancora della partenza e disse:
– Sembri un «mamuttone» –. Così era chiamata a
Orolai la maschera di carnevale, la cui allegria consisteva
nella tristezza. Anche Domenico era triste. La fanciullezza
se ne era volata.
Quella notte la madre di Cardellino non chiuse occhio
al pensiero che il ragazzo le usciva di casa a quell’età
per andare incontro ai disagi e ai pericoli del pastore
nomade. Sì, lo comprendeva: aveva il cuore da
contadina anche lei, quella notte. Poi, poi si sarebbe
consolata con l’altro figlio, con la bambina che dormiva
ancora in culla e con una creatura che già le batteva
dentro. Non si è mai contenti, si rimproverava. Va forse
in mano di un estraneo? Non va nemmeno in capo
al mondo. Dai pascoli di Pasada potrà sentire anche le
campane. Ma è un fatto che un bambino è sempre un
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ambino… e pensieri simili, incessanti, andavano e
venivano, si congedavano da lei, ritornavano a lei; così
per tutta la notte.
Cardellino invece dormì tranquillo finché non lo
svegliò l’asino di Quirico Pappa e non gli rispose subito
dalla legnaia il loro Pensamento, l’asino che doveva trasportare
all’ovile lui, un paiolo e il pane delle feste, che
la madre aveva voluto preparare per l’avvenimento. Come
faceva ogni madre quando il figlio partiva soldato.
Maria saltò dal letto, accese il fuoco, gli riscaldò del
caffè. Cantavano già i galli. Si udiva il rintocco d’argento
dell’incudine di Oreste Piana.
Poi lei si fece sull’uscio a guardare il cielo. Dopo le
piogge di quei giorni non c’era una nuvola: le stelle
erano brillanti, ma fredde e lontane. Disse a Cardellino:
– Metti il sellino a Pensamento –. Egli obbedì subito e
ritornò tirandosi dietro la sua cavalcatura. Gli caricarono
il paiolo, la bisaccia del pane. – Indossa il gabbano,
– disse lei. Cardellino obbedì: e si ricordò che Domenico
gli aveva dato della maschera triste per quell’indumento:
sorrise nell’ombra. – Ora va’ con Dio e con Maria,
– disse la madre. Cardellino s’avviò. Ma lei lo richiamò
subito e gli mise al collo il «sebèze»: era un sacchettino
legato a un cordoncino con dentro un frammento di
pietra nera: di quella pietra nera che a Orolai era venerata
fin dall’antichità perché aveva il potere di preservare
dagli sgambetti del demonio chi ne portava addosso.
E, dopo che gli ebbe attaccato al collo l’amuleto, si sentì
tranquilla, lo congedò definitivamente dicendo: – Va’ in
buon’ora, e Nostra Signora t’accompagni –. Poi soggiunse
mentalmente auguri su auguri: per il lavoro che fosse
ricompensato; per il corpo che fosse preservato dalle malattie;
per il bestiame che si moltiplicasse e non fosse mai
toccato dalla moria, dal malocchio, dalla bardana.
Intanto l’asino si era dileguato in fondo alla strada,
ma la madre non rientrò in casa finché al barlume delle
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stelle non fu scomparso il cappuccio puntuto, da folletto,
di Cardellino.
Ora la madre chiuse la porta, si sedette accanto al
focolare e s’accorse che piangeva. «Hai il cuore da contadina,
va’» si svillaneggiò. Così a poco a poco ritrovò il
suo cuore vero, quello di tutti i giorni, il cuore che le
obbediva subito, appena gli comandava di tacere.
Era già l’alba quando Cardellino fu in vista della capanna.
I cani dei soci gli abbaiarono furiosi; ma, a un
fischio, si rabbonirono dando segno d’aver compreso
che Cardellino era uno di casa e che da quel momento
gli dovevano obbedire.
Suo padre scaricò l’asino e disse a Martino Pecora:
– Questo è il mio ragazzo. Si chiama Vincenzo, ma tutti
lo conosciamo come Cardellino. Te lo affido, attento a
non guastarmelo con le tue storie sul Maligno.
Martino Pecora era vecchio e curvo. Si sollevò un
poco, si fece il segno della croce; poi rispose: – Anche
tu sei entrato nella «comarca» di Stalino?
Antonio Poberile gli rispose ridacchiando: – E che
ci avresti da perdere? Benvenuto sia a Orolai: lo ospiterebbe
alla grande Prospero Sio. Peccato, ti dico, che di
mezzo ci sia il mare.
Cardellino rideva di nascosto. Quante volte aveva
giocato a scrivere col carbone sulle parti bianche dei
muri lebbrosi di Orolai: W Stalin; a dispetto dei W ragaz-
zi «calzati» che invece scrivevano: Stalin. Per quelle
scritte col W dritto il parroco minacciava l’inferno, per
l’altro capovolto prometteva il paradiso.
Martino Pecora, invece, che era campagnolo effettivo,
riteneva per sentito dire che quel nome fosse l’ultimo
titolo che il demonio avesse assunto per sé: così, appena
lo sentiva, si segnava. – Il demonio si colloca sempre in
mezzo agli uomini, prende il posto che si è accaparrato
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il mercoledì in mezzo alla settimana – era solito dire.
– Dio di quando in quando si tira addirittura in disparte
– spiegava – per lasciarlo fare. È allora che arrivano
le alluvioni, la siccità, le morie, le tempeste di terra e di
mare, i ricatti, le estorsioni, ogni malanno –. Egli non
si rammentava quanto tempo fosse passato da quando,
all’età di Cardellino, era diventato pastorello anche lui.
Diceva: dal tempo del non-mai, e si stringeva nelle
spalle. Carriera non ne aveva fatta molta, neppure come
servo. Questo arrivò a considerarlo anche un pastorello
come Cardellino. Sapeva, sì, mungere le pecore, e
tosarle e curarle, era abile nel fare il formaggio, era insomma
un vero pastore, Martino; ma, niente salario: e
continuava a fare il pastorello per il boccone, quasi per
la carità, senza protestare, senza idea di meritare di più.
Era come la pecora, e Pecora perciò lo chiamavano: come
lei, che si accontenta dell’erba e riproduce in un anno,
se la stagione è propizia, tanto capitale quanto vale,
con il latte, la lana e l’agnello. Gli stava come dipinto
quel nomignolo a Martino. Al sentirselo dare egli si inteneriva
come per una carezza o una lode. Era nato da
una ragazza che, per essere caduta in fallo, era stata cacciata
di casa dai genitori e dai fratelli. Padre gli era stato
uno di quei pastori nomadi che appaiono una volta e
poi scompaiono come le comete, e come queste portano
male. Tant’è, la ragazza era morta in parto. Martino
era stato così raccolto dalla strada da un pastore che se
lo voleva allevare e addomesticare né più né meno come
un cane, per farsi servire gratis. Ma questo pastore
morì proprio quando Martino aveva raggiunto già l’età
giusta per sdebitarsi facendo il pastorello a patto di
boccone. Martino non restò in mezzo alla strada. Trovò
subito un pastore che lo assunse perché era candido e
perché non aveva nessuno che, dopo il suo tirocinio di
ragazzo, potesse avanzare pretese di salario per lui e tirarlo.
Martino non andò a scuola. Di lui si ricordarono
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solo quando fu di leva; fu riformato per deficienza di
statura, e da allora nessuno si rammentò più di lui;
nemmeno le malattie. Il suo parlare dopo tanti anni di
solitudine e di silenzio si avvicinava molto al belare:
strascicava la vocale e. Alla sua età e con la sua abilità
era ancora un pastorello al servizio di Nicola Meriagro,
uno dei soci di Antonio Poberile. Martino sapeva tanto
bene il fatto suo ed era tanto economico, fidato e parco
nel vitto, che Nicola Meriagro non lo avrebbe ceduto a
nessun prezzo, con la gelosia del cacciatore per il suo
prode cane da caccia. Il solo pericolo per il vecchio era
che presto cadesse sfinito, inabile e inservibile molto
prima della morte, col rischio di ricevere, come diceva
in casi simili la gente, la «paga del bue domito», cioè la
ricompensa che riceve il bue da lavoro, dopo essersi logorato
per anni: di essere mandato al beccaio che persino
il suo cuoio vende al conciatore, che a sua volta lo
riduce in strisce per la schiavitù di altri buoi, o in legacci
per gli scarponi dei nomadi. Martino, si intende,
non sospettava nemmeno un simile pericolo, e così viveva
senza l’assillo d’un domani incerto.
Ancora prima della sua iniziazione Cardellino aveva
visitato, con curiosità e con desiderio di abitarne una,
tante capanne. Ora che non aveva più motivo di sognarsela,
il suo cuore abbaiava alla casa di Orolai come
il cane alla luna. Forse perché le aveva dato l’addio solo
poche ore prima. Passerà, passerà, si diceva. E intanto
chiudendo gli occhi rivedeva Orolai. La casa, la casa di
pietra era in quel gregge, sia pure rognoso, di molte altre
case… Il pastore era il campanile. Alla prima voce
delle campane, tutte le mattine, ognuno apriva la porta
di strada, attizzava il fuoco che aveva dormito tutta la
notte sotto la cenere, lasciava uscire la capra. Talachè, la
loro capra, si incamminava verso la piazza: lì l’incontro
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con le sue compagne e a un fischio del pastore la partenza
del branco in subbuglio per i pascoli magri e
amari. Ci si poteva rivolgere la parola da porta a porta.
Ma qui? La loro capanna. Un’altra capanna laggiù, di
altri pastori come loro, che si movevano piccoli come
formiche nella distanza. E sua madre, la formica, che
cosa faceva a quell’ora? A quell’ora tutti i bambini cominciavano
a invadere la piazza. E questo sole di ora,
di qui, di Pasada, c’era anche lì, ma era più vicino, a
Orolai. Era già accorato e al punto di piangere.
– Che fai? – gli gridò qualcuno.
Era suo padre.
Cardellino si raggomitolò, vergognoso.
– Va’ ad appiccare il gabbano, piuttosto. E tu, santo
di legno, – continuò a gridare Antonio Poberile a Martino
– anche tu con le mani in mano. Ti manca il tempo
di interessarti del ragazzo? Non gli vuoi bene? Non
ti va a genio? Almeno per incominciare, insegnagli il
nome delle pecore. Chi lo può fare meglio di te?
Martino si raggomitolò per il piacere che gli faceva
sul dorso ingobbito quasi come una carezza la voce di
quel grande pastore che lo eleggeva istruttore di suo figlio.
Gli dava quella prova di fiducia Antonio Poberile,
grazie a Dio.
Martino aveva i pensieri pigri, le parole anche più
pigre. Poi si rizzò e disse: – Va bene, Antonio. Ora ci
siamo. Sempre che Nicola sia avvertito –. (Intendeva dire
il suo padrone).
Cardellino intanto si era liberato dal gabbano e lo
aveva appeso a un ramo forcuto, ficcato in terra, davanti
alla bocca della capanna. Era l’attaccapanni per i giorni
asciutti. Ne pendeva una mastruca un po’ spelacchiata,
e Martino indicandogliela disse: – È il mio gabbano.
Antonio Poberile intanto si era allontanato, e il vecchio
disse a Cardellino, indicandogli la capanna: – È la
nostra casa.
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Cardellino si mise a osservarla attentamente. Le altre
volte l’aveva guardata di sfuggita, nell’insieme. Ora che
doveva abitarla gli piaceva conoscerla, frugarla. Cominciò
a contarne i rami, le frasche, i fuscelli. Era come un
grosso nido, a forma di cono. (Come si trova il volume
del cono? Si trovò per un momento di nuovo a scuola.
Eppure quei banchi, quella lavagna, quei compagni…
Basta, non ci voleva pensare, non doveva. – Taci – disse
al cuore dandosi alla parte sinistra del petto un leggero
colpo con la mano aperta). La base quasi circolare era di
terra battuta. Sopra vi sonnecchiava, come nello scasso
rettangolare nel pavimento, anch’esso di terra battuta,
della casa di Orolai, il ceppo. Alcuni sgabelli lo attorniavano
formati di pale di sughero sovrapposte. Tronchi e
tronchi aguzzati erano conficcati nel terreno lungo la
circonferenza. Era allegro, adesso, Cardellino. Era quasi
tentato di ridere alle spalle del vecchio servo, facendogli
delle domande di geometria o anche di storia. (– Ma
non è bello – lo rimproverò sua madre in quel momento,
quasi gli fosse arrivata vicino come in un sogno, –
zio Martino non è andato mai a scuola; è stato meno
fortunato di te, è buono, è onesto, è un vecchio da rispettare
–). I tronchi si incontravano alto al vertice del
cono. Di lassù pendeva sulla linea dell’altezza, a perpendicolo
sul focolare, un fil di ferro che reggeva una tavola,
più povera del graticcio che faceva da baldacchino
nella casa del fumo di Orolai, e sul quale prendevano
fumo e asciugavano alcune fiscelle di formaggio fresco.
Alcune stuoie di biodo erano arrotolate, dritte, in un
canto. Non un pezzo di specchio, non un’unghia di sapone,
non un’immagine di santo, non un Crocifisso.
Solo due ferri consunti di cavallo e un paio di corna a
luna, secche, di bue modicano. In una specie di nicchia
scoprì il mastello della salamoia. In un altro, lì accanto,
spiedi e posate di legno e bicchieri di sughero e una saliera,
pure di sughero. Cardellino fermò lo sguardo più a
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lungo su due fucili e due cartuccere che pendevano da
un cavicchio: disse fra sé allegramente: – Un giorno o
l’altro verrà a visitarci Domenico; e andremo insieme a
caccia –. Lì dentro non c’era più niente da vedere. Uscì
dalla capanna. In corrispondenza del piede dei rami
conficcati nel terreno erano appoggiate pesanti pietre
che dovevano impedire al vento di sradicare la capanna
e di portarsela in braccio; così come, a sfidare e vincere
il vento che tentava di scoperchiare le case di Orolai,
erano le pietre che pesavano sulle tegole. Lo scheletro
era rivestito, intessuto di paglia, verso la cima, di oleandro
ai lati, di rovo alla base. Non era una casa, non era
neppure un nido. Era una cuccia, meno di una cuccia.
Ma i pastori antichi non avevano case forti? Essi certo
erano giganti, avevano quattro occhi e quattro braccia:
almeno così erano dipinti nel diario scolastico. E così
lui, Cardellino, se li era immaginati fatti, per tanto tempo,
finché il maestro non aveva loro spiegato che quelle
erano fotografie di statuette di bronzo conservate come
reliquie nel Museo di una grande città lontana che
specchiava i suoi palazzi e le sue torri nel mare: immagini
di guerrieri e di comandanti antichi, simboli della
forza che essi avevano e dell’intelligenza di moltiplicarla
con le loro macchine elementari come rulli e piani
inclinati, per trasportare fin sulle alture massi, anche di
tonnellate, con cui innalzavano le loro case ciclopiche,
quelle torri cave, quei loro castelli. Dal tetto a volta di
questi, al quale si saliva per una scala interna, si potevano
scorgere altre torri e, dall’una all’altra, con le lingue
del fuoco che vi accendevano sul tetto, parlavano, gridavano,
si avvertivano l’un l’altro delle allegrezze e soprattutto
dei pericoli che correvano in comune, quando
arrivava dal mare lo straniero per farla da padrone o
per predare. Così, a Cardellino tornava a mente la lezione
del maestro del villaggio. Così, egli ora comprendeva
quanto sia bello sapere le cose antiche; così,
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rimpiangeva un tempo che se ne era volato come l’uccello
della primavera.
Nella distanza Cardellino scorse uno di quei castelli
antichi. Martino gli disse che quello era la casa dell’orco;
ma che, essendo l’orco morto da più di un secolo
senza eredi, era passato di mano in mano, anche in potere
di banditi, finché se l’era appropriato Prospero Sio
insieme con tutta la contrada.
Cardellino pensò alle mani di Prospero Sio, focacce
gonfie e bianche; le paragonò con quelle del vecchio
Martino che erano lì sotto i suoi occhi come due foglie
grandi di quercia: solo che il verde era molto stinto,
sbiancato dal molto loro pescare nel latte e nel siero bollente.
– Ora, andiamo, – disse Martino e gli fece strada
verso il chiuso mandriano. Il sole era già alto e aveva
asciugato in parte dalla rugiada le erbe. Le pecore avevano
riposato durante la notte ed erano impazienti di
uscire per sfamarsi.
– Non dare retta alla pecora, Cardellino: la pecora è
matta. Se non ha fame, le piace far la signora. Solo la
fame la scuote e la manda a pascolare e allora, a lasciarla
fare, non bada neppure all’erba bagnata che le fa male
–. E, mentre così parlava, metteva da parte alcuni rami
e alcune pietre poggiati su un fascio di rovi. Poi
sollevò questo fascio con una forca, e così la breccia fu
aperta. – La vedi, – disse, – questa che fa di tutto per
essere la prima a uscire? Si chiama Semprinventana.
Il gregge straripò belando. Erano quasi tutte bianche,
col pelo un po’ ispido e con un ciuffo in testa. Le
teste erano leggere; le facce corte ed esili; le orecchie
piccole e mobilissime e le portavano dritte, quasi tutte.
Alcune erano senza corna, altre armate. Gli arieti con le
corna rivolte a spira camminavano superbi. Già alcune
erano ferme a brucare; le più si spargevano a ventaglio.
Il loro collo era esile, il torace un po’ stretto, l’addome
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sviluppato, gli arti un po’ lunghi e sottili con forti articolazioni.
Le loro unghie lasciavano il segno sul terreno
tanto erano dure.
– Camminano e camminano, – disse Martino, –
da levante a ponente e da ponente a levante; va la pecora
matta e non si stanca mai –. E sorrideva come un
bambino contento, segno che le diceva matte, ma voleva
loro bene. Cominciò poi a indicargliele a una a
una. Quella che le piaceva sbandarsi era Spassiosa: la
migliore mammella. E quella nera Fagabbona che, prima
di lasciarsi mungere, bisognava prometterle il trifoglio,
altrimenti faceva bizzarrie. E quella di pelo giallo
era Safantasima. E quella col naso dipinto Nasipintada.
E Corruttosa quella che non rideva mai, non faceva
ghiribizzi ed era nera come una vedova, più nera di
Santicca…
E l’elenco continuava. Cardellino ascoltava quella
lezione nuova col cuore da pastore e insieme col puntiglio
di potere, dopo avere imparato quella lezione, fare
una sorpresa a suo padre al più presto, dandogli un saggio
della sua forte memoria.
Giornata, quella, piena, densa di impressioni nuove.
Sulla sera Cardellino si trovò stanco, col cuore gonfio
di nostalgia. Il sole si era messo a rotolare, e un freddo
ventaglio di ombre si era aperto sulla campagna.
Non era rimasto vivo alla fine che un punto rosso, là in
fondo: il fuoco dei pastori della capanna lontana; e qui
il loro fuoco, nella loro capanna, fuoco allegro, senza
fiamme. Di tanto in tanto, ora, i cani guaivano. Non
una stella. Desiderò di vedere la luna: e gli tornarono
subito in mente le filastrocche che sua madre gli aveva
insegnate; che lei poi aveva insegnate al secondo nato e
ora ripeteva alla bambina. La luna porta fortuna se la
scorgiamo stando in piedi, sottile come una falce. Alla
luna si può chiedere tutto: la salute, la forza del ferro,
l’abilità del muflone. E si prometteva di farlo alla prima
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occasione; ma bisognava indovinare l’ora, che vale più
che l’alzarsi presto, come diceva zio Lussemburgo. Martino
stava accanto al fuoco con le mani parate come fa il
prete all’altare in certi momenti della messa: sembrava
gli raccomandasse di essere buono. I pensieri di Cardellino
erano già sul punto di prendere di nuovo il volo
verso la casa di Orolai, quando i cani, tutti insieme,
ruppero ad abbaiare festosi e si slanciarono nel buio.
Erano suo padre e Bernardo Gosio e un terzo uomo
che dapprima egli non riconobbe. Quello sconosciuto
era Nicola Meriagro, il terzo socio, padrone di Martino.
Questo Nicola Meriagro possedeva, oltre le sue
centotrenta pecore, anche una piccola vigna, qualche
centinaio di ceppi che erano gran cosa in un villaggio
dove i più non ne possedevano alcuno. Essi costituivano
una grave preoccupazione per lui, al tempo dell’uva
matura. Non per le volpi che non vi arrivavano, ma per
i ragazzi che allora le giravano attorno (l’aveva fatto anche
Cardellino) con l’idea di saccheggiarla e l’avrebbero
invasa e spogliata in poco tempo, se il guardiano salariato
non fosse stato lì pronto a minacciare d’impallinarli
col fucile di Nicola Meriagro. Questi reggeva a
spalla una bisaccia di pelo di capra tessuta in un paese
montanino, dove si mangia ancora, soprattutto in tempo
di carestia, un pane di penitenza fatto con argilla
rossa e ghiande. Chi ne mangia, diceva la gente, vive fino
a cent’anni, se non muore prima. Quando entrarono,
salutarono Martino con un brontolio cagnesco, al
quale il vecchio rispose: – Ave Maria.
Nel tempo che Cardellino mise a considerare l’angustia
della capanna per cinque persone, Nicola Meriagro
aveva già tratto dalla bisaccia salsicce e focacce e le
aveva deposte su un tagliere che aveva prelevato dall’armadio
a nicchia. Ne aveva tirato fuori anche una piccola
damigiana e l’aveva posata con estrema delicatezza alla
sua destra, non molto distante dal fuoco.
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Martino, dopo averla guardata a lungo, disse, strizzando
un occhio a Cardellino e subito dopo alla damigiana:
– Abbiamo festa, cuore mio –. Ma nessuno degli
uomini lo degnò di una risposta. La loro fisionomia, anzi,
escludeva che avesse qualche fondamento la conclusione
pigra, un po’ golosa e insieme infantile di Martino.
Ma Martino che era sicuro del fatto suo, insistette
dicendo: – Col vino si canta, si balla, si ride –. Lo lasciarono
senza risposta anche questa volta.
Aggiunsero tutti, un po’ l’uno un po’ l’altro, come
compissero un rito, della legna e della ramaglia al fuoco.
Le fiamme si alzarono allegre, arruffate come galli.
Si sedettero intorno, sugli sgabelli.
A un tratto Bernardo Gosio, col diritto che gli dava
l’essere, dei tre, il più anziano, si rivolse a Cardellino e
gli disse con voce tra solenne e buffonesca:
– Alzati e ascolta, pastore-da-fare.
Cardellino obbedì subito, quasi di soprassalto.
Bernardo stese una mano verso un angolo, raccolse
una verghetta di olivastro forcuta, gliela mostrò e gli domandò
con cipiglio:
– Vincenzo, figlio di Antonio Poberile e di Mariala-formica,
vuoi tu in legittima moglie questa cornuta
per pasturare gli agnelli?
Cardellino restò. Zio Bernardo, nonostante fosse aggrottato,
forse aveva voglia e solo voglia di canzonarlo.
Ma erano seri, quasi minacciosi anche gli altri due; persino
Martino si dava un’aria d’importanza.
– Allora? – domandò Bernardo Gosio, serio come
prima.
Cardellino, con l’animo ormai preparato a ricevere
la beffa, rispose timido:
– Sì, che la voglio.
Rimase deluso. Nessuno rise.
Bernardo gli consegnò la verghetta.
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– Ognuno di noi, – riprese con voce grave, – è passato
per queste strette. Press’a poco all’età tua. Ma tu,
grazie a Dio, più fortunato di noi, ricevi la verghetta di
guardiano, come figlio di pastore proprietario indipendente.
Noi cominciammo per il pane e per la fetta di
latte cagliato. Pasturerai agnelli tuoi. In questo mare in
burrasca, mettitelo bene in testa, non ti dovrai più ricordare
della casa dove sei nato, se non quelle due o tre
volte l’anno: Natale, Carnevale, Pasqua. Questo, il primo
punto. Secondo, se il cuore abbaia, lascialo abbaiare;
se lui abbaia ancora, e tu ordinagli di tacere come al
cane quando brontola senza motivo. Intesi? Ognuno
ha la sua sorte segnata cento e più anni prima della sua
nascita. Chi ha stabilito così è un giudice senza appello
e che sa il fatto suo… Presto avrai un asino tutto per te:
sarà il tuo compagno di viaggio. Farete insieme la spola
tra l’ovile e il caseificio. E trattalo bene, che vale quanto
pesa, per questo servizio.
A questo punto Nicola Meriagro sturò la damigiana
piena di vino: la piegò, ne versò in un cucchiaione di
sughero, da questo ne fece scorrere un po’ sul fuoco augurando:
– Buona fortuna allo sposo –. Gli altri fecero
eco: – Buona fortuna.
Poi, prima «lo sposo» e via via gli altri, in ordine di
età, cominciando da Martino, si passarono in cerchio il
cucchiaione e sorseggiarono di quel vino.
A questo punto, Bernardo riprese la parola:
– Ci hanno insegnato i nostri padri che qui c’è una
legge che vale per tutte: «Hai occhi e sei cieco, hai orecchie
e sei sordo, hai lingua e sei muto». Se ti interroga
la Giustizia, fa’ il tonto, lo stupido, il melenso, il cascato
dalla luna: hai il cervello di ricotta. Ti domanda se
hai visto? E tu: no. Se hai udito, e tu: no. Hai la lingua?
E tu: no. Sempre no. Sempre negare, negare tutto. Coi
no, non si stende verbale… Ce la fecero giurare sul
fuoco i nostri padri questa legge; giurala anche tu.
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Cardellino stese la mano sul fuoco e disse:
– Giuro.
Allora i tre uomini uscirono in coro in un oh!, con i
volti rischiarati. Anzi Nicola gridò subito ilare che Martino
aveva ragione: essere davvero festa grande. Soggiunse
malinconico: – Considerati fortunato, Antonio,
sei proprio fortunato –. Gli passò sul volto un velo di
tristezza. La ragione era che il suo matrimonio era rimasto
senza frutto. Promesse a Santi, rimedi magici: tutto
inutile. Sfortunato si sentiva in quel momento anche
Bernardo, al quale la casa si era riempita di femmine, e
quel maschio che gli era nato gli era morto che appena
cominciava a mettere i primi passi.
Intanto Martino aveva tratto brace di sotto al ceppo
e ora la sparpagliava con un tizzone in modo da formare
un’aiuola ardente; poi vi posò sopra una graticola, e
su questa mise ad arrostire le salsicce. Al buon odore i
cani misero tutti il muso alla bocca della capanna.
Cardellino ora si sentiva cresciuto di statura. Quasi
pronto per la leva, – gli venne da pensare con ilarità.
Era già entrato nel loro cerchio di vecchi soldati, di valenti,
come dicevano, di bassa forza. Bastava il più piccolo
pretesto, un po’ d’allegria perché si raccontassero le
loro avventure di guerra, e le loro storie di reduci, essi,
salvo Martino che, lo sapevano tutti, era stato riformato.
– Beato te, Martino, che non hai conosciuto quel
fuoco – gli dicevano, ora. Essi, invece, erano passati per
quell’inferno e ne erano usciti vivi come la salamandra.
Conclusione: ne erano ritornati con un pugno di mosche,
maledetta la guerra. Cardellino, sul filo dell’idea
di quelle guerre, al veder bruciare nel fuoco che aveva
davanti un fuscello che ora si torceva e da rosso già moriva
nero, si rammentò della lapide dei caduti, con tanti
nomi: là, nella piazza di Orolai; e si rammentò di sua
madre… Disse al cuore: – Taci – e sollevò gli occhi dal
fuoco. Di fronte scorse un chiarore oltre la bocca della
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capanna, un chiarore come d’una lampada a olio, grande,
immensa. Comprese che cosa era e, con la mente di
nuovo a sua madre, che forse in quel momento pensava
a lui, si alzò con la verghetta forcuta in mano e si affacciò
alla bocca della capanna. Qualche stella era come
brace in mezzo al cielo di cenere. Una falce di luna affilatissima
appariva, scompariva, finché entrò in un campo
pulito, mietuto. Cardellino fece come sua madre;
accennò un segno di croce e chiese alla giovane luna,
sottovoce come pregasse, la salute ferma, la forza del
ferro, l’agilità del muflone.
Ma già lo richiamavano a prendere parte alla cena.
Rientrò, occupò il suo posto. Seduti in cerchio, ora masticavano
in silenzio e di tanto in tanto si passavano in
cerchio il cucchiaione di vino. E Cardellino non poteva
rifiutare. Il vino non tardò a lavorarlo: così sentì presto
un ronzio di macina nella testa e poi un languore, un
sonno, un così gran sonno che cadde dallo sgabello.
Suo padre disse ridendo:
– Non prenderà moglie quest’anno.
Bernardo barbugliò, cercando di celiare:
– Come hai detto? Ma se si è sposato. Guarda la
tua nuora, – e indicava la verghetta che ancora Cardellino
teneva in pugno, immerso nel sonno.
Allora Nicola cominciò a cantare, a improvvisare
versi, a combinare ottave, diceva. E in ottave approssimative
gli rispondevano ora l’uno ora l’altro dei due soci.
E tutto il succo dei loro canti era che Antonio Poberile
era l’uomo più fortunato della terra perché aveva un
figlio, un figlio maschio, uno che sarebbe stato un uomo,
un uomo che si scaccerebbe le mosche, un valente
nelle «ominias». Antonio teneva loro testa con gli argomenti
dell’eremita di san Teodoro che a tutti, anche a
quelli che gli lesinavano l’obolo, prometteva (o minacciava?)
che Dio, presto o tardi, si rammenta di ogni cristiano.
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Pochi giorni dopo venne a trovarli un pastore che
pascolava il suo gregge a poca distanza. Era anche lui
un «fedele» di Prospero Sio, uno dei tanti pastori da lui
messi in croce. Aveva in mano una Bibbia e uno scapolare.
Cercava un suo maialetto. – Come andato in fumo,
– concluse.
Martino si scoprì senza invito per primo e stese la
mano sul libro pronunciando queste parole: – Né visto
né fatto né consigliato –. Altrettanto fecero e dissero il
padre di Cardellino e i suoi soci. Al giuramento purgativo
partecipò col cuore tranquillo anche Cardellino.
Il ricercatore riprese la sua strada per continuare
l’inchiesta. Ripassò da loro sulla sera e, dato conto del
risultato delle sue ricerche dicendo: – Sarà stato il Maligno
–, passò oltre, diretto al suo ovile.
L’uomo non s’era allontanato di molti passi che Martino
disse a Cardellino: – È di faccia nera e cornuto, coi
piedi di capra e con la coda di bue, e puzza di zolfo. Dicono
che parli, ma non è vero: è muto. Opera. Sa farsi
cane, acqua, vento, fuoco; ma Dio, no. A sua volta, Dio
può fare di lui quello che vuole, solo che non lo può
cambiare da quello che è diventato.
E mentre così diceva, teneva il piede sinistro accavallato
sul destro, per tenerlo lontano da sé e dagli altri.
Gli altri erano stati a sentire in atteggiamento ironico,
ma dentro ciascuno s’era risvegliato il ragazzo che ha
paura del Nemico. Quasi a loro insaputa si trovarono
anch’essi, senza invito di Martino, col piede sinistro accavallato
sul destro. E Cardellino aveva fatto altrettanto.
Bernardo attizzò il fuoco alla fine e disse:
– E noi, per disperdere le belve, ricorrevamo al fuoco
acceso. Quando eravamo in Africa, intendo dire.
– Andate tutti all’inferno, – ridacchiò Nicola Meriagro.
– Io dico che con questo fuoco si può fare di
meglio: arrostire per esempio del lardo e delle salsicce.
Che puzzo e puzzo di zolfo; discorsi da tenere di notte.
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La notte è fatta per riposare, beninteso, dopo che si è
cenato bene.
Nel tempo che Nicola andò dicendo tutto questo,
Martino aveva già preparato la graticola. Non tardò a levarsi
nel silenzio il buon odore dell’arrosto con lo scoppiettio
del grasso sulla brace. I cani mendicavano quell’odore
all’usciolo della capanna.
Sempre lui, Nicola Meriagro, mescolò il nero col
bianco dicendo: – Questo odore consola i vivi e anche i
morti.
A questo punto chiamò di fuori una voce. I cani
abbaiarono furiosamente: gente che non conoscevano.
Bernardo imbracciò il fucile, s’affacciò a metà di fuori,
fece tacere i cani con un fischio, gridò:
– Chi è?
Dall’ombra uscì uno gridando allegramente:
– Non mi riconosci, fratello? Non sono forse uno
di famiglia?
– Vieni avanti, vieni; ma chi ti aspettava stanotte? –
rispose Bernardo e disse a quei di dentro: – È Stefano.
Stefano, appena entrato, si liberò da una mantella
corta. Era monco del braccio destro e molto più giovane
di suo fratello. Data quella sua mutilazione, si era
assoggettato a fare l’aiutante di suo fratello e veniva a
prendere servizio, col consenso degli altri due soci, alla
pari quasi con Cardellino; come mezzo uomo, quanto
al salario.
L’arrivo di Stefano fu una festa per Cardellino. Stefano
sapeva cantare, ridere, imbracciare il fucile, fare
quasi tutto anche senza quel braccio. Era agilissimo:
saltava, a forza di schiena e a piè pari, le muricce alte a
petto d’uomo. Gli piaceva sbalordire Cardellino facendo
il verso di molti animali domestici e della selva; ma
spesso si rannuvolava e si appartava standosene, muto
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e nero, con gli occhi fissi a terra, come a meditare una
vendetta. Bastava allora chiamarlo o toccarlo che si rivoltava
come un cane infido. Cardellino gli voleva bene
per tutte quelle sue abilità e per quel braccio che aveva
perduto. Era curioso di sapere come gli fosse capitata
quella disgrazia, ma non osava fargli quella domanda.
Aspettava che fosse lui a parlargliene per primo. Quel
momento, però, non arrivava mai: e così, un giorno
che Stefano gli sembrò più disposto del solito alle confidenze,
si fece coraggio e gli domandò come «quello»
gli fosse successo. Stefano si rabbuiò, lo guardò torvo;
poi si ricompose e disse amaro: – Cosa da nulla. Lo
scherzo di una bomba.
Cardellino pensò subito a un mutilato di guerra di
Orolai che ogni mese, appena riscuoteva la pensione, e
finché non le aveva dato fondo, faceva baldoria e nei
fumi del vino gridava le parole più ingiuriose a nemici
invisibili.
Stefano lo chiamò vicino a sé.
– La conosco meglio di tutti questa storia. Un giorno
o l’altro qualcuno te la racconterebbe a modo suo.
Avrai sentito dire di me che non ho la testa a posto.
Ad albero caduto… Basta, mio padre era contadino.
Ho incominciato da contadino, io; non da pastorello.
Eravamo due fratelli, Bernardo ed io e tre sorelle. Nostro
padre faceva il contadino al cinque uno, perché
non possedeva nemmeno un’unghia di terra. Vita da
non augurare a nessuno, nemmeno al cane, quella del
senzaterra. Un anno qui, un altro là, come un’anima di
penitenza… Li avrai sentiti qualche volta, i contadini
raminghi, scalpitare come cavalli, nelle mattine gelate,
battendo il selciato con i loro scarponi ferrati. «Alzati,
Stefano» chiamava mio padre. Potevo avere tutto al più
dieci anni. Cantavano a quell’ora i primi galli. Dovevamo
arrivare al campo prima dell’alba. Cominciai da allora
le mie marce. Dovevano venire le altre… Arrivavamo
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al campo. Lavorare fino a vespro inoltrato con la sola
interruzione a mezzogiorno, il tempo d’ingoiare un
boccone, pane e basta. Poi un’altra marcia e si era di
nuovo a casa. Cena di acqua calda, scalzarti, gettarti
sulla stuoia; il letto era per loro: mio padre, mia madre.
Un altro, nascosto da un lenzuolo appeso, era per le sorelle.
Bernardo era già pastorello ed era stato slattato, come
te ora; io, sulla stuoia, coi piedi nudi rivolti al fuoco.
Sonno di pietra. «Alzati, è tardi» chiamava mio padre.
Possibile che fosse già l’ora? Qualche volta che mi ribellavo,
lui perdeva la pazienza e mi scrollava. E così di alba
in alba, questa era la semina, e questa è ancora per i
senzaterra. Quanta acqua non è passata nel Toro, eppure
i senzaterra ci sono ancora, ci sono sempre stati e
sempre ci saranno, finché non saremo fatti terra noi e
quelli che verranno. Mi fanno ridere quelli che ascoltano
le promesse di oggi. Promesse oggi, promesse domani.
Basta; dicevo che la semina è terminata. Ma c’è un
però. Salvo che la Fortuna nelle settimane che seguono
non ti combini lo scherzo, lo scherzo di far del dicembre
un mese di estate, col sole che spacca: allora, la terra
va in polvere, e gli uccelli si beccano i semi. La semina
sprecata. Tutto da capo. Senz’unghia di colpa tua.
Altro seme da arrischiare. Alzati, Stefano, e alzati, che è
tardi… Questo ci accadde, e non una volta sola. Le cattive
annate insomma vincevano le buone… E noi sempre
a combattere con la mala sorte… Poi morì mio padre:
io continuai da contadino, Bernardo tentò da servo
pastore. Proprio verso quel tempo scoppiò la guerra.
Bernardo non lo presero per l’ernia. Poi venne il mio
turno. Mi prendono, mi vestono; per farla breve eccomi
di tappa in tappa nel paese di Stalin. Tutto neve: una neve
alta come le case di Orolai. Toccavi il ferro e ti bruciava,
toccavi la pietra e ti spellava… Una neve speciale:
un freddo rovente. Adesso mi chiederai: come hai fatto
a salvarti? E io ti rispondo: camminando camminando,
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come fanno i morti ogni notte, almeno quelli dei nostri
paesi che hanno questa abitudine, lo avrai sentito dire.
Camminando camminando, mi addormentai. Quando
mi svegliai, ero in un convento: e facevo domande a
me stesso, come se io fossi un altro: in che modo sei diventato
frate e quando, Stefano? Questo è l’altro mondo,
mi rispondevo. Questa è l’infermeria del paradiso.
Insomma non facevo che parlare a me stesso, e io mi
ascoltavo come se dovessi rispondere. Meglio non so
spiegartelo. Passò tanto tempo e sentivo i frati cantare…
Poi mi raccapezzai: il delirio della febbre era passato:
mi dissero dopo un lungo riposo che la guerra era
terminata e che potevo tornare. Mi rimisi in marcia e
cammina cammina arrivai al mare. Lì mi presero sul
piroscafo e per mare e per terra arrivo a Orolai. Mi aveva
preceduto a cavallo, indovina chi? Non lo indovineresti
mai: mastro Giovanni. Spero che tu sappia come è
fatto. E allora, secondo i suoi ordini, mangiavamo erba:
era una magnifica stagione di trifoglio: e mio fratello e
gli altri pastori se lo lasciavano rubare dalle donne e
non avevano il cuore di denunciarle, per pascolo abusivo,
secondo la legge… Che cosa resti a fare qui, Stefano,
mi dico alla fine. Qui, a breve scadenza, ci lasci
quella pelle che hai riportato bene o male dall’Ucraina.
Ed ecco che vengo a sapere di certi posti disponibili
nelle miniere. Dico: lì ci si seppellisce vivi, ma si guadagna,
si mangia, ci si diverte pure. È così che presi e mi
feci minatore. Altro cristiano nato con la camicia, il
minatore. Un diavolo condannato. Un borghese in
trincea. Sempre odore di morte sente il minatore: ogni
momento a chiedersi: sarò vivo nel tempo che conto fino
a dieci? C’erano i turni: chi entrava di notte, chi di
giorno. Io entravo di giorno e così, addio sole. È un
brutto momento quando ti accorgi che la notte non è
più notte e il giorno non è più giorno, sempre le ossa
rotte, sempre la morte intorno. Questa è la canzone del
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minatore, e non fa allegria a cantarla. Non ero io il solo
contadino per la verità che dopo la guerra avesse tentato
quell’altra guerra. Negli stanzoni eravamo in tanti.
Nei momenti più tristi, stesi a letto, si pensava alle nostre
case e, con tutto che esse sono quello che sono, le
sospiravamo mille volte perché almeno lì, nei nostri
paesi, c’era un fuoco a cui parare le mani. Basta. Ma,
ora che ci ripenso, in miniera almeno si mangiava e si
poteva fare anche qualche passo più lungo di quello
della gamba di un contadino. Di turno in turno, di
rimpianto in rimpianto; un giorno ci chiamano e ci dicono:
dovete avere pazienza, il carbone non si vende
più, colpa della crisi, che è la malattia degli affari, delle
vendite e delle compere. A casa, a casa, si smobilita. Era
un secondo dopoguerra per tanti di noi: soprattutto
per i minatori improvvisati come eravamo noi, pastori,
contadini, pescatori che avevamo lasciato chi questo
paese chi quello… Mi fa uno di Terra: «A passo a passo
arriviamo a Terra che ha il mare vicino e anche le peschiere.
Ci siamo improvvisati minatori, potremo fare
anche più facilmente i pescatori. Lì c’è il fiume con le
trote e le anguille. C’è una peschiera con le capanne a
riva. Li conosci i tucul?» mi chiese. Lui che aveva fatto
la campagna contro il Negus diceva non c’era grande
differenza tra gli uni e le altre. Ora lo so anch’io che cosa
sono i tucul. Somigliano molto a queste nostre capanne.
Arrivati là: «Di chi è questo mare?» gli chiedo.
«È d’un tale che l’affitta ai pescatori» mi risponde. Dico:
«È come Prospero Sio che al mio paese affitta il suo
mare d’erba». Come questo succeda e glielo lascino fare
oggi che è oggi non l’ho ancora compreso: un re antico,
pare, glielo ha permesso. E chi non aveva per pescare
l’autorizzazione dai suoi agenti non pescava e, chi sì,
questi del pescato gli doveva versare un quarto. Hanno
un santo da pregare anche i pescatori. San Pescoso, ah,
ah! Allora il mio amico mi fa: «Conosco un minatore
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delle miniere di piombo qui vicino che mi può buscare
dinamite». Gli faccio: «E io ci sto, ma se ci va male?».
«Pazienza», mi dice. «E sia, pazienza», rispondo. Così io
ci ho perduto una mano; lui, più pratico e forse più
fortunato di me, la vita…
In pochi giorni Cardellino si impadronì dei nomi e
delle abitudini delle pecore, dei segreti del caglio, della
temperatura giusta del latte da cagliare, della maniera
di far la pasta col poco latte che lavoravano aspettando
il molto dopo la nascita degli agnelli e il moltissimo
dopo il loro svezzamento. Anche Stefano si divertiva a
imparare da pastore.
Era un novembre incredibile. Una primavera fuori
stagione. A certe ore il sole scottava come d’estate. – Questo
sole – diceva Martino – non è buono.
Quel sole durò settimane. Le pecore pregne cominciarono
a cercare l’acqua avidamente. L’erba era come
salata. Il prato brucato prendeva il colore dell’estate: del
campo bruciato da un incendio. Tutti cominciarono ad
impensierirsi.
Era la siccità, il flagello ciclico che da secoli e secoli
inaridiva le erbe e le coltivazioni e decimava il bestiame.
Ma il suo tempo vero era da aprile a settembre, più
deleterio al contadino che al pastore.
Si misero a spiare il cielo, gli uomini e il ragazzo. Facevano
sogni arruffati e la mattina se li riferivano l’un
l’altro e ne davano un’interpretazione luttuosa. I giorni
seguirono asciutti ad altri anche più asciutti.
Una sera Cardellino rabbrividì di paura: Bernardo
aveva in mano un teschio che aveva prelevato dall’ossario
del cimitero di Orolai con l’intenzione di rimetterlo
al suo posto dopo la pioggia. Andarono insieme al Toro.
Il letto del fiume sembrava un ossario. Immersero il
teschio in una pozza fangosa con tutte le precauzioni e
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tutti gli accorgimenti, in maniera che a un improvviso
rovescio del cielo la corrente non lo travolgesse e trasportasse
fino al mare.
Il giorno dopo fu Cardellino a scorgere una nuvola
gentile nel cielo azzurro e a darne avviso agli uomini.
Bernardo gridò: – Ecco il lievito –. In poco, infatti, si
aggiunsero a quella nuvoletta due o tre batuffoli di lana
sporca che in breve fermentarono e si gonfiarono. Poche
ore dopo il cielo era carico e teso. Come inebriati
dall’odore della pioggia, parlavano con gli occhi accesi,
parlavano e discutevano senza mai fermarsi. E Cardellino
ascoltava col cuore in festa. Altre volte il miracolo
non era venuto; congetturavano: forse perché il teschio
non era di un cristiano morto in grazia di Dio. Questa
volta, invece, per merito di quello sconosciuto, la pioggia
non si sarebbe fatta aspettare. Già brontolava il tuono
tra balenii di fulmini. Uno scroscio e fumo. Ma sul
più bello si levò un vento che spazzò tutto di colpo.
Nel cielo un sole accecante che asciugò ogni goccia.
Venne la notte, e le stelle nel cielo sgombro sembravano
cresciute di numero. I traditi non si sapevano né
rassegnare né consolare: si alzavano di ora in ora per
spiare quel cielo e sempre lo trovavano stellato.
Giorni e notti asciutti si aggiunsero a notti e giorni
asciutti. A Orolai e dintorni si faceva di tutto per richiamare
le nuvole. Anche in altri villaggi e in altre contrade
lontane. Si ricorse inutilmente a sant’Isidoro che, essendo
stato lavoratore della terra, era, dei santi, quello
che più potesse comprendere i bisogni del contadino.
Che cosa rispose sant’Isidoro? Nulla. Ricorsero a san
Francesco che, dei Santi, è quello che più conosce le tribolazioni
dei pastori. Che cosa rispose san Francesco?
Nulla. Ricorsero allora alle preghiere antiche, alle più
antiche che si conoscessero, più antiche dello stesso Gesù
Cristo: invocavano Maimone e gli ricordavano che
l’erba moriva e morivano i semi, e così sarebbero morti
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anche gli agnelli e insieme i fanciulli. Che cosa rispose
Maimone? Nulla. Invocarono san Giorgio cavaliere e gli
promettevano grandi focacce. Che cosa rispose san
Giorgio? Nulla. Immersero teschi e teschi in altre pozze.
E non ne fu nulla. Allora conclusero finalmente che era
un anno di quelli scritti nel calendario di mastro Giovanni,
l’uomo dal cavallo nero sellato, ambasciatore della
fame. Era certo in arrivo un altro anno Dodici, quando
la gente povera non ci vede più alla luce del sole.
Solo a metà dicembre, quando nacquero i primi
agnelli, si levò un vento ilare che si cacciò avanti a urli
e a fischi un gregge di nuvole. La gente diceva: – Si salverebbe
il salvabile –. Poi, quel vento incalzò tanto il
suo gregge di pecorelle che lo spinse oltre l’orizzonte lasciandosi
dietro un arcobaleno. Pastori e contadini con
le loro donne e i loro bambini, fuori di sé tutti dalla
rabbia, lo maledicevano per quella beffa.
Solo allora parvero rendersi conto che ogni filo d’erba
era bruciato, che i sentieri erano polverosi, che lo
stesso Bambino sarebbe nato in un’estate stralunata.
– Un bel Natale, non c’è che dire – bofonchiavano.
E si sfogavano alle spalle di chi ha le entrate sicure in
bello e brutto tempo: l’impiegato, il parroco, e i giudici
e il prefetto e più ancora Prospero Sio e il padrone dei
caseifici, Italo Bini. – Noi, peccatori; essi no – concludevano
con sarcasmo. E non levavano più gli occhi a
quel cielo sterile.
Cominciarono a nascere gli agnelli. Per contratto
essi dovevano passare ad Italo Bini che li spediva ogni
anno ai grandi mercati; ma Italo Bini questa volta li rifiutava
perché erano rachitici. Così veniva a mancare ai
pastori una parte dell’entrata. I pastori si abbassarono a
rubare a Prospero Sio le pale carnose e succulente dei
fichidindia e le davano come mangime alle pecore: così
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dovettero impegnarsi a pagargliele a parte, se volevano
evitarsi una denuncia penale. Gli agnelli furono sacrificati
di pochi giorni, purché si salvassero le madri.
Cardellino storceva lo sguardo da tanto sangue. Li
sgozzavano e li vendevano al macellaio a poco prezzo.
Poiché era vicino il Natale egli si rammentava che Erode
aveva fatto fare una strage di bambini. Ma era un’altra
cosa, lo comprendeva bene: Erode non era stato uno
preso, afferrato alla gola dall’urgenza di salvare le madri
degli innocenti. Ma perché, proprio quell’anno in cui
cominciavano una nuova vita da pastori indipendenti,
Dio aveva permesso all’inferno quel brutto scherzo?
Farselo spiegare forse da suo padre e dai suoi soci che
erano diventati muti? Solo Stefano avrebbe potuto rispondergli,
ma infine era forse lui il più intrattabile di
tutti: lui, che se ne andava ogni giorno lungo il Toro e
non faceva che cantare brutte canzoni.
La vigilia di Natale Cardellino portò a dorso d’asino
a Orolai sei agnelli sgozzati, tutti pelle e ossa: due
per ciascuna delle loro famiglie.
Sua madre non gli fece nessuna domanda e gli permise
di portare a Domenico uno di quegli agnelli.
Domenico non era in casa, in quel momento. La
madre di lui appese quei pochi chili di carne magra e
pallida a un cavicchio e gli contraccambiò il regalo con
una focaccia di uva passa. Cardellino ringraziò, le augurò
il buon Natale e corse via in cerca del suo migliore
amico. Sperava d’incontrarlo in piazza. E così fu.
Il loro incontro non fu festoso. Mastro Giovanni
non era in nessun luogo ed era dappertutto, persino i
più piccini ne sentivano la presenza; l’odore suo: di corno
bruciato. Subito concertarono di andare alla messa
del gallo insieme. Intanto potevano scendere all’isola del
Toro. Volevano lasciare di proposito la piazza, perché i
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loro giuochi erano finiti. Passarono davanti alla porta
della scuola: la guardarono, non si dissero nulla, tirarono
dritto, presero il sentiero dell’isola.
Il sentiero precipitava a valle. A destra e a sinistra i
seminati erano aridi, polverosi. Non un uomo. Non una
voce. Soltanto stornelli, striduli, affamati, a stormi.
– Tutto beccato – disse Domenico.
Traversarono il Toro quasi a piede asciutto e arrivarono
nell’isola. Vi trovarono il contadino: era invecchiato,
stanco, eppure si dava da fare con una latta piena
di acqua. – Per non restare solo coi pensieri – spiegò
– prendo l’acqua al fiume e la spargo –. Il padre di Domenico
aveva gli occhi da febbricitante: sembrava un
uomo che fosse tornato a un giuoco che facevano i
bambini del villaggio, il giuoco dell’ortolano.
– Abbiamo l’agnello per Natale, padre, – disse Domenico.
– Ce lo ha portato Cardellino.
L’uomo disse con una voce lontana:
– Non sarà sempre così. Tornerà il bel tempo. Anzi,
– si corresse, – è persino troppo bello.
Tutta l’isola era in polvere. Era necessario seminarla
di nuovo. L’uomo faceva quasi paura, ora, versando
quella poca acqua sui semi morti.
Poi i ragazzi si bagnarono nel fiume. Si asciugarono
al sole. Avevano come perduto la lingua. Non sapevano
che dirsi. Solo di una prossima visita di Domenico alla
capanna parlarono due o tre volte, e Cardellino se la fece
promettere e ripromettere. Si accommiatarono infine
dall’uomo. Il contadino rimase lì con la sua latta in
mano a guardarli. A un tratto parve risentirsi, posò la
latta, gridò: – Diteglielo voi al Bambino che ci aiuti almeno
nella seconda semina –. Essi gli fecero cenno di
sì, ripresero il sentiero, un po’ sollevati.
Ritornati a Orolai, non si divisero. Aspettarono insieme
la sera, per lo più taciturni, pensando alla stella
di Oriente.
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Al primo tocco la trovarono alla porta della chiesa:
era già pronta a salpare. E salpò a un segnale come di
gregge scampanellante. Era la ruota di campanelle della
chiesa. Sul tabernacolo una tendina nascondeva una
piccola stalla. Era tutto pronto quello che occorre per
festeggiare l’arrivo del Bambino. Era alle mosse di cantare
anche il cieco Raimondo che da anni e anni faceva il
primo corista. Ma non c’era il cuore di altri anni: non
c’era la speranza del seme che sarà come una fiamma
verde al primo sole di primavera; né quella delle agnelle
che sopravvivono e crescono per diventare le madri di
altri agnelli da sgozzare. Forse la stella non sarebbe arrivata
all’altare, tutto era possibile quell’anno.
Ma la stella viaggiava per gioco di fili, lenta, a lente
tappe. A mezzanotte scoppiò un tuono di fucilate, come
se fossero arrivati i briganti: e la stella era all’altare.
Allora Raimondo intonò un’antica nenia: la Madre raccomandava
al Bambino di non lamentarsi dei leggeri
panni, perché verrebbe per lui un tempo anche più doloroso:
quello dei chiodi alle mani e ai piedi, e della corona
di spine, e della lancia al costato, e degli sputi, e
dell’aceto mescolato a calcina.
Era nato il Bambino, e la Madre già lo piangeva
morto. E Cardellino pensava agli agnelli di corta vita, e
Domenico ai semi morti, bruciati dal sole.
Il giorno degli Innocenti restò nell’ovile col vecchio
Martino soltanto Stefano, che non aveva voluto saperne
di seguirli in città. Con quel congresso avrebbero
fatto un buco nell’acqua; questo il suo pronostico.
Partiti a cavallo alla prima alba, imbacuccati nei loro
cappotti di orbace nero, con i cappucci puntuti rialzati
sembravano gente di inferno. Neri anche i cavalli,
finché non fu come se qualcuno fosse riuscito a incendiare,
a levante, il bosco umido. Era l’aurora.
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Cardellino non stava nella pelle, nonostante la tristezza
muta dei tre uomini. In groppa a Savia, la giumenta
montata da suo padre, ogni tanto ritraeva bruscamente
indietro la faccia, perché il ruvido panno del
cappotto del cavaliere in sella gli raspava il naso. Anche
questo faceva parte del divertimento, in quella
mattina rigida. Era la prima volta che andava in città,
Cardellino. Finalmente. L’aveva sognato tante volte
quel viaggio, lui; da fare insieme col suo migliore amico
Domenico: e l’avevano rimandato d’accordo di volta
in volta concludendo che «c’era più tempo che non
acqua». Ed ecco che Cardellino era un po’ maliconico,
ora, solo perché il fiume del tempo era passato e continuava
a passare, e Domenico non faceva quel viaggio
con lui. Tutto non si può avere a questo mondo, pensava.
Domenico era padrone di un’isola, era contadino,
poteva starsene al villaggio, allontanarsene per il
suo lavoro, ritornare la sera, rivedere la mamma, dormire
sul materasso e non sulla stuoia come era toccato
a lui. Era un’altra sorte, quella di Domenico. Ognuno
per la sua strada.
Ed ecco i cavalli camminavano, camminavano; solerti,
per riscaldarsi. I piedi non se li sentiva, nonostante
le pezze di lino e gli scarponcini, Cardellino. Certo
loro, lui e Domenico, quel viaggio in città se lo erano
sempre sognato in circostanze meno tristi. E col trenino,
non a cavallo. Col trenino chiuso, che mangia carbone
per biada e urla come un porco scannato, specialmente
ai passaggi a livello. Aveva sentito dire che gli
alberi fuggono, che le cantoniere anche, che la gente
dentro le vetture non fa che raccontare, ciascuno, i suoi
mali al vicino. Ma infine, arrivare si sarebbe arrivati lo
stesso, quella mattina, in quella città con prefetto, vescovo,
tribunale, carceri e caserme. Peccato, – si diceva
in segreto – peccato che Domenico non sia figlio di pastore.
Ci saremmo incontrati oggi al congresso. Ma che
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era propriamente quel congresso? Un buco nell’acqua,
aveva detto Stefano.
Ora il sole era salito e metteva davanti agli occhi di
Cardellino i campi morti, nudi di erba, un disastro in
ogni luogo. Gli spigriva i pensieri: non era annata quella
di erba che facesse da pane alla pecora e diventasse il
sangue-bianco che il pastore si sogna nei grandi caldai
del caseificio. Ché ogni pensiero del pastore è lì, nella
mammella gonfia della pecora, e nel belato del suo
agnello che nasce prospero, e nell’abbondanza del sangue-bianco
da versare all’industriale che gli ha dato gli
anticipi «da odorare», come diceva Stefano, e da passare
subito a Prospero Sio per i pascoli. E piace al pastore anche
tuffarci dentro le mani nella quantità che amministra
per il formaggio da provvista per casa, per il companatico:
le belle piastre e le belle pere di formaggio messe
poi ad affumicare come le salsicce sopra il canniccio della
casa del fumo. Di buone mani il pastore, come di
buone mani la sua donna, come sua madre che preparava
il pane biscotto e più e più quello delle feste. E vedeva
la bocca spalancata del forno e il suo palato d’oro alla
luce della fiamma. E, dentro, i bei palloni gonfi che poi
l’assistente dell’infornatrice apre orlo orlo a punta di
coltello, come si tagliano i fogli del libro nuovo: così da
ogni pallone due lune sottili che lei sovrappone e che
luna su luna formano via via un cilindro.
A un tratto i cavalli nitrirono. Erano sbucati da una
scorciatoia altri cavalieri, imbacuccati anch’essi, anch’essi
diretti al congresso, tristi in volto. Si scambiarono
grugniti di saluto. Poi un drappello si distanziò dall’altro
lungo la scorciatoia maggiore verso la città, come
andassero a conquistarla, a saccheggiarla con i loro fucili
sull’arcione. Erano tristi, muti. E Cardellino non aveva
più voglia di inseguire i pensieri suoi di poco prima.
Si mise a fare il lutto anche lui. Un buco nell’acqua?
Ma perché Stefano aveva detto così? Povero Stefano.
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Forse Stefano voleva che le cose andassero bene, ma temeva
la Sorte che quell’anno s’era svegliata di malumore,
e non c’erano stati santi che l’avessero convertita.
Forse Stefano l’aveva detto per rabbia, lui che non le
perdonava di averlo macinato e pestato nel mortaio, e
poi gli aveva fatto perdere una mano, e macchiato gli
aveva anche il cartellino penale. Aveva il cuore gonfio,
ora, Cardellino, tanto che quasi piangeva; no, non era
né il bruciore della sbucciatura alla punta del naso né le
morsicature dell’aria rigida, no. Era quel pensiero del
rio pescoso, della bomba della peschiera proibita che
lo faceva lacrimare, e meno male che poteva nascondersi
dietro le spalle di suo padre. Cuore da contadino,
taci, cuore da cane. In quel punto suo padre si voltò un
poco di fianco e senza guardarlo disse portando la mano
alla punta del cappuccio per un accenno di saluto:
– Il Redentore –. E gli mostrava con la mano un albero
nudo, distinto in mezzo al bosco, sulla cresta alberata.
Cardellino si portò anche lui la mano alla punta del
cappuccio: il cuore gli balzò nel petto. Ne aveva sentito
parlare tante volte di quella statua alta sette metri, che
con la punta della croce imbracciata come una bandiera
toccava le nuvole del cielo. Scorse di lì a poco i due
campanili della città che facevano la guardia alla grande
chiesa cattedrale tutta di zucchero e col tetto di corallo.
Udì una campana suonare ad agonia, battere uno,
due… otto colpi. Tale quale, come quando ad Orolai
spirava un’anima. Le otto. I cavalli ora erano impazienti,
sentivano forse odore di greppia venire dalle case del
quartiere rustico della città, di nome Agresto, che già si
scorgeva come un armento vecchio da svendere al macello.
Già si leggeva l’ora sul quadrante dell’orologio,
dell’orologio di tutti. A Orolai invece erano senza torre,
erano senza orologio. Lì facevano da orologio gli asini e
i galli e l’incudine di Oreste Piana. O si andava a chiedere
l’ora a casa del parroco che aveva una pendola della
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forma di una cassa da morto messa di dritto. O dalla
serva di Prospero Sio che possedeva un Rosckoff a tegamino,
ma era preciso, come la Morte.
Erano in città. Presero una straduccia; una delle straducce
selciate. I ferri dei cavalli le battevano, e gente
s’affacciava agli usci. Arrivarono dall’amico che abitava
appunto in quel quartiere rustico, e che si chiamava
Raimondo Benena.
Raimondo Benena si fece subito in quattro, li aiutò
a ricoverare i cavalli sudati sotto una tettoia e ad approvendarli;
offrì agli amici dell’acquavite e ne fece bere
anche a Cardellino dicendogli: – Bevi, diavoletto, che
mette sangue –. Poi comparvero la moglie di zio Raimondo
Benena, Lorenza, con una corona di figlie vestite
di porpora e col viso da melagrana, come quelle
dell’orco Malfante; e dicevano, una dopo l’altra, con un
inchino: – Benvenuto agli ospiti –. Poi, i quattro uscirono,
e Cardellino li seguì come al guinzaglio.
Il bello cominciò proprio allora per quella strada lastricata,
pietra scalpellata accostata a pietra scalpellata
come al pavimento della chiesa di Orolai, e palazzi, ai
fianchi che la casa di Prospero Sio al confronto era da
povero. Gli uomini col cappuccio (ora, tutti lo avevano
calato) non si contavano più: tutti pastori rovinati che
si salutavano appena, come bofonchiassero. Era una
processione senza croce, senza santo, senza canti, e la
chiesa era quella, con la scritta grande: Cinema-teatro.
C’erano lì, all’ingresso, cartelli colorati: indiani con i
fucili issati correvano alla sfrenata e urlanti come cavalieri
alla festa di San Domenico a Orolai.
Entrarono. Una voce scandiva alto uno due tre, uno
due tre. C’era per altare un palco che molto somigliava
a quello che a Orolai preparavano per farvi salire i grandi
poeti improvvisatori d’ottave, sempre alla festa di San
Domenico. C’erano un’asta di metallo lucente che riceveva
la voce di quello che contava uno due tre e che
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gliela torceva come lino; e nella sala sedie e sedie come
nemmeno in casa Sio, e ognuno vi prendeva posto, chi
primo arrivava, senza preferenze. Anche loro, i quattro
pastori, con in testa Raimondo Benena che sembrava
di casa. – Siedi qui, Cardellino, – gli disse. Era caldo lì
dentro: c’era odore di sigaro e di pipa, e con tanta gente
venuta direttamente dagli ovili anche odore di siero e
di caseificio.
Da quel momento tutto fu strano per Cardellino.
Salì sul palco una vedova che sembrava Nostra Signora
dei Sette Dolori e disse all’orecchio dell’asta metallica
che aveva perduto le pecore e che aveva mandato i figli,
il maggiore aveva quindici anni, a cercarsi il pane,
di porta in porta. Disse e si chiuse la bocca con la sua
benda nera.
Salì un pastore: le sue pecore avevano perduto il
senno di madri, non riconoscevano i figli nati rachitici
e li respingevano lontano da sé a colpi di muso, con
odio. Disse, si fece da parte e restò lì in mezzo al palco
come impalato.
Salì un altro, e poi un altro e un altro ancora: e dicevano
la loro storia di cambiali, di falliti, finché tutti
gli altri in sala ruppero a urlare: – Basta, basta, vogliamo
mangimi. Abbiamo firmato le cambiali. Mangimi,
mangimi –. Fece in tempo uno a gridare al microfono:
– E se no, qualcuno seguirà la sorte di Massimo Ru.
Cardellino, anche lui, sapeva che Massimo Ru aveva
già la testa d’oro: cinque milioni di taglia sulla testa.
O portarlo legato vivo, o anche morto: cinque milioni
per la pelle di Massimo Ru.
Ora tutti sfollavano brontolando e minacciando, e
Cardellino temeva che si fosse fatto davvero un buco
nell’acqua, come aveva pronosticato Stefano. Avrebbe
anche pianto, se non si fosse trovato in mezzo a tanti
pastori dal cuore coraggioso che si preparavano a ritornare
agli ovili per la strada per la quale erano venuti.
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Al suo ritorno all’ovile, Cardellino trovò una sorpresa:
un uomo gigantesco, con gli occhi azzurri e con
un mitra sulle ginocchia sedeva fuori della capanna.
Suo padre lo tirò in disparte e gli disse: – È Massimo
Ru –. Fin da ragazzo lo chiamavano Valentia. Era di
Quilica, villaggio soprattutto di pastori che svernavano
ogni anno con grandi greggi alle marine lasciando, nelle
case, prigionieri della neve, i loro vecchi ormai inabili,
i figli minori e le donne. A tutto pensavano queste,
con coraggio e con parsimonia, durante la loro assenza.
Il loro ritorno era una festa, più o meno spensierata, secondo
la fortuna della «campagna» dell’anno.
L’uomo aveva incominciato sotto il sospetto di avere
partecipato a una rapina a mano armata nella pianura
che si scorgeva in fondo all’orizzonte dalla piazza di
Orolai. Chiamato in caserma perché si giustificasse,
aveva preferito darsi alla latitanza per meglio, a quanto
diceva, prepararsi il piano di difesa. Non risultarono
prove contro di lui; ma lo cercavano lo stesso per mandarlo,
come sospetto, in un’isola lontana. Massimo Ru,
però, isola per isola, preferì non passare il mare, anche
a costo di dover fare la vita del cinghiale braccato. Passava
il tempo, e non lo prendevano. Intanto i furti e le
estorsioni, che da lungo tempo erano sporadici, si facevano
di mese in mese più frequenti e temerari. Molti
venivano attribuiti ai giovani reduci, che, partiti alcuni
anni prima senz’arte né parte, ora o erano svogliati, o
nudi come vermi per disoccupazione: tutti, comunque,
esasperati e non disposti a morire, come dicevano, nella
cenere. Non erano rispettati nemmeno i buoi da lavoro
dei contadini, tutto il loro bene. Fossero o no autori di
tali imprese quei giovani, un Massimo Ru latitante aveva
le spalle larghe tanto che le più gliele addebitavano o
in proprio o come capo di quelle bande. Massimo, a
quanto si sapeva, aveva ammonito questo e quello di
non lanciare il sasso e poi nascondere la mano. Uno di
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questi, certo Morosino, il quale, secondo lui, era un
furfante da strapazzo e per di più confidente dei «fratelli
Branca»; stanco così di vivere. Glielo mandò a dire
non una sola volta. Ed ecco che Massimo, ormai stanco
di avvertirlo, gli si mette alle calcagna e lo sorprende
una sera in flagrante con la refurtiva: un giogo da lavoro
d’un padre di famiglia. Morosino si vede perduto: fa
l’atto di uccidere Massimo con una roncola dal manico
lungo e si prende una sventagliata di mitra. Era quello,
sembra, il primo omicidio di Massimo che se lo addossò
mandando a dire alla Giustizia di averlo commesso
per purgare la campagna di quella vergogna di ladro e
di confidente. Di qui la sua rovina. Gli misero un prezzo:
la taglia cominciò a far gola a questo e a quello:
Massimo li attendeva al varco e li uccideva prima di
farsi uccidere. La taglia così era salita alle stelle.
Ora, quell’uomo che Cardellino si vedeva davanti
aveva «la testa d’oro». Sedeva lì, tranquillo, senza peccati
sulla coscienza, stando almeno alle apparenze, senza rimorsi.
Forse lo aveva spinto fin là la nostalgia del vicino
Natale. Certo sapeva che gli uomini della capanna mai
si sarebbero macchiati di tradimento. Erano uomini di
onore Antonio Poberile e i suoi soci. Un cane nero e peloso
gli stava vicino in allarme, anche se il suo padrone
si fidava tanto. Ma forse era soltanto, la sua, diffidenza
verso i cani dell’ovile che a buon conto si erano aggruppati
e stavano attenti agli ordini dei padroni.
L’uomo con la testa d’oro si era informato a monosillabi
dei loro guai e aveva trovato parole di simpatia.
Loro non gliele avevano contraccambiate. Poi si era ammutolito.
Imbruniva. Si alzò di scatto. Chiamò Bernardo da
parte e gli parlò brevemente all’orecchio. Bernardo gli
rispose sottovoce portandosi la mano al petto. L’altro accennò
un gesto di saluto a tutti, partì veloce seguito dal
suo cane, disparve.
62
Poco dopo arrivò Stefano con una fascina sulle spalle
e sembrava, nell’ombra, un cespuglio che camminasse.
I tre uomini lo circondarono tempestandolo di domande,
svillaneggiandolo, maledicendolo, minacciandolo
d’impiccarlo a un albero. Il più accanito dei tre
era il fratello, Bernardo, che lo chiamava la vergogna
del parentado.
Cardellino aveva il cuore in gola per Stefano. Suo
padre, scopertolo rincantucciato in fondo alla capanna,
gli gridò: – E tu guardati bene dall’avvicinarti da
oggi a questo straccio, capito? –. Poi, come pentito di
avere detto troppo, soggiunse con voce meno alterata:
– A ogni buon conto, tu non hai visto, né sentito nulla;
intesi? –. Cardellino si raggomitolò ancora di più, e quelli
ripresero a fare il processo a Stefano. Dalle loro frasi
rotte e sibilline afferrò dal suo nascondiglio l’accusa che
gli movevano: Massimo Ru era stato da loro poco prima
per chiedere che mettessero le pastoie a quel polledro
matto di Stefano, il quale gli risultava che avesse avvicinato
certi giovinastri che macchinavano di fargli la pelle
per così riscuotere «il denaro di Giuda». E quando tutta
la tempesta si fu sfogata su Stefano, saltò a difenderlo
Antonio Poberile: – Ora può anche bastare. Stefano, dopo
tutto, è un uomo d’onore, non una spia. È stata
un’alzata di testa. Lo ha cavalcato Malabestia. Può succedere
a chiunque. Specialmente nel dopoguerra. Ne sappiamo
tutti qualche cosa, no?
Gli altri due non dicevano nulla. Era un silenzio di
approvazione. Ora Stefano aveva rialzato la testa e li
guardava in faccia da pari a pari. Il cielo si era rasserenato
sopra di lui: lo comprendeva dal modo come tutti
gli guardavano la manica floscia della giacchetta: ormai
la colpa essi, compreso lo stesso Cardellino, che fino a
ieri giocava in piazza, la attribuivano in cuor loro alle
avversità, alle persecuzioni della sorte, a quella guerra
che continuava silenziosa. Persino il vecchio servo aveva
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vagamente compreso nella sua semplicità di uomo degradato
a sereno animale, e con accento tremulo, molto
vicino al belato, fece eco a parole ai pensieri dei tre pastori
e di Stefano, e al sentimento di Cardellino: – Maledetta
la guerra da Dio e dai Santi, come ha detto tante
volte l’eremitano di san Teodoro –. Era, questo eremitano,
il custode di quella chiesa di campagna, il quale viveva
di elemosina e passava ogni anno anche negli ovili,
col suo Santo in una cassetta a vetri. Passava l’eremitano,
riponeva nella bisaccia viveri e denaro, lasciava la benedizione
del Santo, invitava alla festa ognuno, chi rispondeva
alla sua cerca e chi no. Era san Teodoro uno dei molti
santi di campagna, piccoli e modesti, che hanno una sola
giornata di sole in tutto l’anno. E questo avviene
quando appunto i festaioli col pievano in testa vanno a
trovarlo nel giorno del suo genetliaco, e gli dicono messa,
e gli cantano le lodi in coro, e poi gli fanno banchetti
e balli intorno a suon di fisarmonica sino alle funzioni
del vespro; dopo le quali, lo salutano sommessamente e
gli promettono di rivisitarlo a distanza di un anno.
Quello che accadde di straordinario subito dopo le
parole di Martino Pecora (ma forse tutto era incominciato
durante il processo) finì con il suggellare quella loro
alleanza contro un nemico comune e insieme a riconciliarli
con Dio, con Stefano, con se stessi. Un brontolio
lontano. Uscirono all’aperto. Quel cielo sterile da tanto
tempo e fuori di stagione, quella specie di specchio stregato
era già percorso da torme di nuvole a cui faceva da
lume la luna che nasceva. La luna saliva veloce con altre
e altre nuvole. Si udì un brontolio lontano. Arrivò un
odore incredibile.
Tutti ora guardavano le nuvole che fermentavano
rapidamente. Brontolò il tuono e cominciò una festa di
serpi d’argento. La pioggia non tardò a scrosciare. Si ripararono
nella capanna, cenarono; pioveva ininterrottamente;
si distesero sulle stuoie. Pioveva allegramente.
64
Cardellino non poteva prendere sonno. Era contento.
La pace era ritornata. Anche l’isola di Domenico ecco
che si impastava come una torta. La torta fu portata
sul vassoio di legno sulla tavola di Domenico, che era
una grande lastra di granito, in mezzo all’isola con le
fiammelle verdi degli steli già spuntati alla pioggia nuova.
Passò di lì a poco Massimo Ru che andava a caccia
col suo cane; ma le volpi e le lepri gli passavano sotto il
naso: il cane non ubbidiva, il mitra faceva sempre cilecca.
Poi stanco, avvilito, Massimo disse: – Stefano è morto
–: e giù uno scroscio di pianto.
Si svegliò. La pioggia cadeva a dirotto. Si raccapezzò
quasi subito. Stefano era lì, supino, accanto a lui: il suo
petto si alzava e si abbassava; non era fermo come quello
dei morti che aveva veduti altre volte nelle case di
Orolai, distesi sopra un tavolo, vestiti a festa coi piedi rivolti
alla porta, sempre lì e già tanto lontani.
Così l’anno vecchio si congedava con la pioggia
senza essere salutato e rimpianto, e la gente invece salutò
il primo giorno piovoso dell’anno nuovo, meno
sfiduciata per il detto dei loro antichi: «Dall’alba conosci
il giorno e anche l’anno». I contadini già si ritrovavano
il coraggio di rischiare altro seme. Ma i pastori
erano sotto l’incubo delle cambiali che erano nelle mani
di Prospero Sio, di Luigi Perete, di Lorenzo Muzi, di
Gianuario Musa e di pochi altri come loro, in villaggi
come Orolai.
Bernardino Gosio in quei giorni era partito per Austalé,
dove era re e dòmino Luigi Perete, il quale faceva
anche il banchiere al trenta uno, e lo aspettavano di ritorno
al più tardi la notte dei tre Re. Questa volta c’era
aria di funerale nella capanna: anche Stefano era soprappensiero.
Il tempo non passava mai; erano taciturni;
ogni tanto uno esplorava da un’altura il riapparire
65

di Bernardo. Arrivò così anche la notte dei tre Re e di
Bernardo nemmeno l’ombra. Erano tutti tristi, tristi
come la notte, quella sera, muti attorno al fuoco. Se
non ci fosse stato Martino, che ogni tanto aggiungeva
un ramo, il fuoco forse si sarebbe spento. Stavano sul
punto di srotolare le stuoie e di buttarsi distesi, ed ecco,
potevano essere le undici, Bernardo. I cani gli fecero
festa nel buio correndogli incontro all’odore. Gli
amici gli fecero largo posto nella capanna come non
mai: lui gettò il cappotto in un canto e disse senza attendere
domande: – Voi avrete già cenato; io no –.
Avendogli Martino risposto che no, che non avevano
cenato neanche loro nell’aspettarlo, Bernardo fece un
viso allegro. Graticola al fuoco, solito arrosto di salsicce,
pane e vino.
Cenato, Bernardo trasse dalla casacca di orbace un
portafoglio bisunto di cuoio, e, apertolo, da quella specie
di fisarmonica cavò un foglietto rettangolare che
subito fece passare dall’uno all’altro in cerchio, raccomandando
a ciascuno, con grande serietà, di odorarlo.
A Cardellino, per motivi di età, arrivò per ultimo. Era la
prima volta che Cardellino vedeva un’immaginetta simile,
con bollo tondo e scrittura a stampa e parole e cifra
scritte a mano: sotto, questo era il più bello, la firma di
Bernardo Gosio dal basso verso l’alto, come un solco
storto; e a sinistra anche le zampe di mosca della firma
di suo padre: Antonio Poberile. E quando la ebbe odorata
né più né meno degli altri, Bernardo gli domandò:
– Che odore hai sentito? –. Cardellino non rispose, proprio
non sapeva che rispondere. Ma Bernardo lo trasse
d’impaccio: – Dio ti dia la fortuna di non trovarti nella
necessità di firmarne mai una in vita tua. Dopo che hai
fatto l’esperienza di averne firmato almeno una, allora
cominci a sentire il suo vero odore, che non è odore di
carta e di inchiostro, ma è odore tra di corno bruciato e
di sangue di povero. E ora, coraggio, gettala nel fuoco
66
come una cattiva fattura, di quelle che «legano» uomini
e animali e gli levano ogni energia. Su, coraggio.
Cardellino la gettò nel fuoco, e tutti gli occhi fissarono
il fuoco che la divorava.
A questo punto Bernardino Gosio si tirò su la casacca
col gesto del sacerdote che mette la cappa e cominciò
a predicare:
– C’era una volta ad Austalé, terra di pastori afflitti,
un ricco, anzi un riccone, che si chiamava Luigi Perete.
Possedeva bestiame di ogni genia, con corna e senza
corna, e terre sue in sovrabbondanza dove pascolarle.
Era venuto dal nulla, come Toti Merre, altro riccone,
di cui era figlioccio di battesimo e suo pulcino. E chi
era questo Toti Merre? Era, come ho detto, il primo di
Austalé e dintorni, al tempo che Luigi Perete camminava
scalzo; scalzo come i galli e come i ragazzi di nascita
bassa di Orolai. Allora sì, quelli erano tempi che erano
in fiore le grandi razzie e gli assalti alle diligenze a cavalli;
tempi che arrivarono prosperi e fortunati sino alla
maturità di Luigi Perete. Muore Toti Merre, e chi ne
prende il posto? Naturalmente, il suo figlioccio di battesimo,
il suo pulcino, Luigi Perete. Ma i Coia avevano
aumentato la forza nelle caserme: bracci-di-re a piedi e
a cavallo e anche fantaccini, di quelli di cui, poi, col
grigioverde, abbiamo fatto parte noi, col nome di Buffa.
E così Luigi Perete, sempre innocente come l’acqua,
sedette più volte al banco degli imputati, ma con buoni
avvocati e con la lezione degli alibi che aveva imparata
dalla buonanima del suo padrino, la sua innocenza
usciva dalla curia ogni volta chiara come il sole. Ora,
Luigi Perete ha i suoi anni, s’è messo con Dio, è del
partito dell’ordine, la sua voce è la più alta nel coro di
quelli che gridano che è tempo di ritornare alle forche
dei boia per impiccare i malfattori. Ma poi, quando si è
sfogato a parole, il cuore lo tradisce. I meriti sono meriti.
Luigi Perete è un cuore d’oro. Prova ne sia che, se
67

uno ha un debito antico da pagare, come ne aveva uno
una volta Bernardino Gosio di Orolai (carico di figlie e
senza un figlio maschio: che non lo poteva soffrire), un
debito, dico, verso Lorenzo Muzi e, se questo Lorenzo
Muzi non vuol saperne più di pazientare, e solo è disposto
a dare respiro se il trenta uno (tutto costa sempre
più caro) Bernardino accetta che sia portato al quaranta…
allora che accade? Accade che Bernardino Gosio
prende tempo per pensarci, corre a cavallo da Luigi Perete
che è un cuore d’oro e infatti gli dà il denaro al
trenta uno con cambiale avallata da Antonio Poberile,
ritira la cambiale da Lorenzo Muzi, corre a cavallo perché
ha fatto tardi: lo aspettano i soci per la notte dei tre
Re, bruciano la fattura, si mettono a cenare, bevono, e
Bernardino si mette a predicare: «C’era una volta ad
Austalé…».
Scoppiò un coro di risa. Rise anche Cardellino, perché
anche lui aveva compreso, se non tutto tutto, almeno
questo: che le cambiali legano come le «fatture» e
che non basta il sebeze, (quel sebeze che sua madre gli
aveva messo al collo la mattina che aveva incominciato
la vita del pastore), non basta, no, a ritirare le cambiali.
E così pensando si immalinconì: gli era presente quella
mattina…
Ma già erano ricominciati gli onori alla damigiana: si
passavano la ciotola in cerchio e di mano in mano arrivò
fino a lui che ce n’era un sorso; ma era il meglio, perché
chi beve allo stesso bicchiere al quale hanno bevuto altri
come fratelli, ebbene l’ultimo, chi sa poi se era vero,
verrà ad apprendere presto o tardi tutti i loro segreti.
A un tratto i cani abbaiarono. Che era che non era,
a quell’ora? Stefano con gli occhi lucidi disse: – Saranno
i re Magi –. I cani erano furiosi. Una voce di fuori:
– Siamo amici! Aspettate amici? –. Bernardo si fece sull’usciolo,
richiamò i cani, rispose: – Benvenuti gli amici,
avanzate –. Sbucarono dal buio due incappucciati.
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Erano due pastori della capanna lontana: uno di essi,
entrando, disse allegramente, indicando la damigiana:
– A quanto sembra, siamo arrivati in buon punto –. Fu
fatto loro posto ed entrarono subito in allegria anche
loro. Bernardo riempì la ciotola e la passò a uno dei
due che bevve e subito la passò al compagno. Restituita
la ciotola a Bernardo, questi disse, forbendosi la bocca
col dorso della mano, e con voce incolore: – Avrete saputo
la novità anche voi, hanno sequestrato il figlio di
Cosimo Pegusino, questo pomeriggio. Ne vogliono tre
milioni –. Commentò Antonio Poberile: – Proprio a
lui doveva toccare. Ricco è ricco, ma è un pastore che
paga pascoli, e liquido non ne deve avere tanto, specie
in queste circostanze…
Il commento cadde nel vuoto. Un’altra volta Martino
armeggiava: graticola, arrosto di salsicce, in onore
degli ospiti. Il vino al calore del fuoco li lavorò molto
presto. Uno degli ospiti cominciò a mugolare; a poco a
poco fissando il fuoco presero a mugolare prima l’uno,
poi l’altro, poi l’altro ancora: tutti ora mugolavano in
coro, facevano organo: e uno, quello che aveva recato la
notizia del sequestro del bambino, intonava con una
bella voce squillante: «I tre re dell’Oriente con apparato
mai visto portan doni a Gesù Cristo di argento mirra e
oro… il Bambino, diridoro, il Bambino diridoro…».
Nessuno si avvide che Cardellino era all’usciolo della
capanna dando loro le spalle. Il freddo della notte gli
snebbiava la mente. Ascoltava quel coro che non sapeva
se fosse di allegria o di vendetta e pensava accorato a
quel bambino prigioniero, sulla cui testa pesava una taglia
da scriversi con tanti zeri, molto vicina a quella che
valeva la vita di Massimo Ru. «Il Bambino diridoro, il
Bambino diridoro…» continuavano a cantare gli uomini
alle sue spalle, fermi su quelle parole sole, da quando
vi erano arrivati: e di là non avanzavano né ritornavano
indietro come legati da una fattura. Quel bambino di
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Gurule, quella taglia, l’altra taglia, quella del bandito
che braccavano come un cinghiale che danneggia gli
orzi, quel suo cane nero sempre in allarme, quel buio
davanti alla capanna che sembrava pece d’inferno…
Questa volta il cuore lo tradì, e forse anche il vino: e si
mise a piangere, poteva farlo di nascosto. I singulti lo
scotevano: anche se quegli uomini avessero badato a
lui, certo avrebbero pensato che cantasse con loro la
canzone di quel viaggio antico e che segnasse il ritmo
agitando le spalle.
Nei giorni seguenti arrivarono alla capanna altre notizie
di quel bambino prigioniero, ma vaghe, confuse,
contraddittorie.
A Orolai e in tutta la contrada non c’era altro argomento,
ma veniva trattato sottovoce dagli adulti e dagli
stessi ragazzi. Questi ultimi si mettevano nei panni dell’ostaggio,
senza tuttavia arrivare a figurarsi il terrore
che egli potesse avere provato e il pericolo che correva.
Piuttosto facevano confronti con i casi di rapimento di
cui era arrivata notizia persino a Orolai da città d’Europa
e d’America. Ora andavano a sentire la radio del
parroco e ascoltavano la lettura del giornale del medico.
L’una e l’altra dicevano che era tempo di farla finita con
tutta quella contrada; che ci voleva un carabiniere per
ogni abitante; che anzi si rendeva urgente deportare
Gurulesi, Astulesi, Orolesi con tutti i loro vicini, dai
vecchi ai lattanti e poi bruciarne le case. I ragazzi erano
contenti di tutto quel chiasso, di quel finimondo. Stefano
diceva a Cardellino che, secondo lui, tutto era
questione di lasciar passare il tempo, e che il ragazzo sarebbe
stato restituito purché suo padre, che se non era
denaroso aveva buone terre per garantire anche prestiti
alla Perete, e che sapeva le buone usanze, non avesse
fatto causa comune con la Giustizia.
70
Passavano i giorni. La famiglia dell’ostaggio, a quanto
si diceva, s’era messa segretamente nelle mani di
«amici», un comitato clandestino di agenti investigativi
privati per trattare il riscatto e ottenere una ragionevole
riduzione della taglia. La polizia e i carabinieri lavoravano,
invece, a sorprendere i malviventi e a tagliare la strada
agli «amici», pur sapendo che in un probabile conflitto
a fuoco Gianuario Pegusino poteva rimanerci.
Ma Gianuario Pegusino fu protetto da qualche santo.
Cardellino lo seppe da Domenico il quale, approfittando
delle secche di gennaio, mantenne la promessa
che aveva fatto a Cardellino il giorno di Natale. Mancavano
pochi giorni a carnevale. Tutti gli fecero un’accoglienza
festosa. Stefano lo salutò addirittura come «re
dell’isola del Toro». E, dicevano gli altri, il titolo gli
spettava di diritto, secondo catasto. Lo fecero sedere su
uno sgabello e gli si misero davanti, seduti anche loro,
in atteggiamento di ascolto. Domenico ebbe appena
cominciato a raccontare che essi, come si fossero dati
una voce, estrassero da una saccoccia ciascuno un coltello.
I coltelli erano affilati e appuntiti, col manico
d’osso: e si diedero a scorticare verghette di olivastro
che a mano a mano gettavano via come cose inutili.
Dunque Gianuario Pegusino era stato ritrovato alla
fontana del pioppo. Domenico aveva visto con i suoi
occhi il camion sul quale veniva trasportato alle carceri
giudiziarie, dette La Rotonda, un uomo che aveva i polsi
tanto larghi, che le manette appena bastavano a prenderglieli.
– Il camion era piccolo per uno come lui, – diceva
Domenico.
Gli uomini uscirono in uno studiato grido di stupore
come si fossero dati la voce. Domenico insistette
che era la verità. Allora Stefano in celia: – Eh, voi contadini
avete la fantasia sbrigliata, siete portati a esagerare,
si sa, a fare di una mosca un elefante –. Bernardo gli
diede sulla voce: – Lasciatelo terminare, figli di Dio; ne
71

ho conosciuto uno io, quando ero ragazzo, di ladri di
bambini che, allora, è vero, non c’erano ancora i camion,
eppure per corporatura dava punti all’orco Malfante.
Basta; continua pure, Domenico.
– Dunque, – riprese Domenico, – fu lungo la strada
asfaltata che erano scaglionati, nascosti, un trecento fucili:
quasi tutti cacciatori. Era così l’ordine della polizia.
Le operazioni le principiarono di notte. I ricattatori volevano
che la somma fosse loro consegnata dallo zio del
ragazzo. E infatti Ignazio Pegusino, zio del ragazzo, ordine
sempre dei valenti, si mise a percorrere la strada da
Gurule a Ospile. Il cavallo doveva essere bianco, così era
prescritto nella lettera, nella lettera anonima: e bianco
era. Là, a Ospile, il trenino trova la salita, lo sapete bene:
e là, prima di affrontarla, fa provvista d’acqua alla maniera
del cammello. Così diceva il nostro maestro: ti
rammenti, Cardellino? Basta, a questo punto l’uomo del
cavallo, sempre camminando lungo l’asfaltata, doveva
arrivare all’alba. Sempre secondo gli ordini.
Gli uomini si guardarono negli occhi e Stefano commentò:
– Bella zuppa.
– Il cavallo bianco, – riprese Domenico, – percorreva
quella strada. La notte non era tanto scura. Chi l’ha
visto dice che il cavallo sembrava un fantasma. Ignazio
Pegusino faceva il tonto in mezzo a tanti fucili scaglionati.
Passo passo, col denaro che portava in una bisaccia,
un bel pacco di biglietti da mille, duemila ne volevano i
ricattatori non uno di meno, lo zio del ragazzo viaggiò
sempre, e nessuno lo fermava. «Accidenti», dicevano i
fucili, «sta’ a vedere che li vogliono proprio al rifornitore,
i duemila biglietti». E così fu. Giusto all’alba Ignazio Pegusino
era lì e si sente chiamare. Si guarda attorno: e chi
c’era? C’era un uomo, quel gigante; proprio quello che
ho visto io che col suo peso faceva scricchiolare il camion.
Poteva passare per un carbonaio, perché la faccia
se la era tinta con la fuliggine. «Accidenti, come è grande
72
quest’uomo nero» fa Ignazio Pegusino smontando da
cavallo. «Hai con te il denaro?» fa quello. «E come no?»
gli risponde Ignazio Pegusino. «L’ho qui nella bisaccia.
Ecco il pacchetto». L’altro prende il pacchetto, se lo fa
ballare in mano, dice: «Magari che tu non mi prenda per
tonto. Ma due milioni, qui, non ci sono. Avete sbagliato
contando?». «Sbagliato? Non abbiamo sbagliato», fa l’altro,
«ma era la prima cosa che volevo dirti e non me ne
hai dato il tempo. Infatti solo la metà ne abbiamo rimediato».
«Poveretti, vi comprendo, vi siete rovinati», disse
l’uomo nero. «Ma cerca di comprendere» gli spiegò Ignazio
Pegusino. «Lo sapete bene che mio fratello non è ricco
di liquido: che l’ha colpito la siccità dell’altr’anno e
anche quella di quest’inverno: e che il bestiame glielo ha
messo in terra la nevicata, e che ha perduto una lite per
colpa di falsi testimoni». «Accidenti, come avvocato, dico
io, puoi dare dei punti al primo. Ma la verità è un’altra:
che il padre del ragazzo, sua madre, tu, tutti voi, malanno
che vi prenda, il bambino lo avete valutato a prezzo
di montone. Vi si è chiesto della carta, dopo tutto; non
dell’oro. Va’, va’ al diavolo tu con tutto il tuo parentado».
Ma a questo punto, eccone un altro, ma piccolo, questo,
e con la faccia pulita: «Lascia correre», dice «prendi questi
per ora, purché s’impegnino a versare la differenza fra
un mese, facciamo anche tre, ma che li versino». L’uomo
nero gli diede retta, ma prese lui il pacchetto, lo slegò,
contò, disse: «L’acconto è giusto e puoi andartene». «Come,
e il ragazzo?» fa Ignazio Pegusino. «Secondo te, dovevamo
portartelo nella bisaccia. Spero saprai che pesa
più del tuo pacchetto», disse l’uomo nero e ridacchiò.
«Se non vi è d’incomodo andate a prendervelo alla fontana
del pioppo» e, senz’ascoltare altre domande che
Ignazio Pegusino gli faceva, s’avviò col suo socio verso il
bosco. Ignazio Pegusino allora che fa? A passo a passo
torna verso il suo cavallo: gli è vicino, finge d’inciampare,
si getta a terra bocconi. Proprio in quell’istante parte
73

una scarica di mitra e qualche colpo di moschetto. L’uomo
piccolo cadde e non si rialzò più. L’uomo nero vistosi
perduto cominciò a chiedere misericordia; belava come
un agnello e prima sembrava un leone. E poi legato e
ammanettato fece da guida fino al nascondiglio e trovarono
Genuario. Il bello è che ieri notte a Gurule tutti
quei trecento armati e altri di Gurule fecero banchetto.
A mezzanotte non ce n’era uno che potesse stare su una
gamba sola. E così quando il padre del ragazzo diede lui
il segnale con uno sparo del suo fucile, non ci pensarono
su troppo gli altri a scaricare i loro a gloria, come fosse la
notte di Natale.
Cardellino aspettò che gli uomini facessero qualche
commento, ora che il suo amico aveva finito di raccontare.
Ma neppure Stefano aprì bocca. Erano neri, corrucciati,
muti, come se non fossero per nulla contenti
che le cose fossero andate come erano andate.
Pochi giorni dopo, una visita inaspettata all’ovile:
sua madre e la zia Maddalena. Che era mai successo?
Cardellino non tardò a comprendere che sua madre
si era mossa dal villaggio solo per accompagnare l’amica.
La zia Maddalena e suo marito Bernardo ora si erano
appartati sotto la quercia che era poco distante dalla
capanna. Parlottavano. Presto alzarono la voce: lei
raccomandandogli di abbassarla e di non fare scandali;
lui urlando che lo scandalo era bell’e pronto e che non
lo facesse ridere. Loro? Li avrebbe scannati tutti e due.
– La galera? – urlava. – Una buona volta sarà finita.
– Ormai la cosa è fatta, – insisteva la zia Maddalena.
– Ah, sì? E li difendi anche? E il denaro dove lo
trovi?
– Il denaro? Proprio quest’anno non ci voleva certo,
– disse lei remissiva. – Siamo giustificati dall’annata,
Bernardo. Lo faremo all’alba, come gente in lutto.
74
L’uomo continuò a brontolare, ma come fa il tuono
dopo la tempesta; si aggiustò il cappotto; tornarono insieme
tranquilli alla capanna.
Cardellino vide col cuore in festa che ormai erano
rassegnati, anzi, contenti l’uno e l’altra, di essere nonni.
Fu anzi sua madre a congratularsi in celia, annunziando
persino che anche lei ne sentiva battere uno dentro.
Cardellino a questa notizia arrossì, corse via, si accovacciò
dietro un cespuglio come una lepre, bocconi. Vide
alcuni timidi fili d’erba. Erano nati dal cuore della terra,
a quella pioggia tardiva; doveva nascere il figlio della
figlia dello zio Bernardo e della zia Maddalena: Elena,
fidanzata di Serafino. Sarebbe arrivato un ospite anche
in casa sua e sarebbero stati così in quattro figli. Il quarto
battesimo. Restava solo da sapere se sarebbe stato un
fratellino o una sorellina.
Qualche settimana dopo Cardellino notò con tenerezza
che erano spuntati molti altri fili d’erba. Nasceva
con loro un’altra volta la speranza. Martino afferrava le
bestie per il collo a una a una, se le cacciava tra le gambe,
si curvava e, alzando loro le poppe, le mungeva torcendo
i capezzoli verso il secchio. La pecora munta s’imbrancava
di nuovo con un mezzo belato. Così una dopo
l’altra. Stefano lo aiutava nella mungitura, e faceva del
suo meglio con quella sola mano.
Cardellino partiva con l’asino ogni mattina per il
caseificio più vicino, che era uno dei tanti gestiti da Italo
Bini. Pensamento era grasso e potente e il trasporto
di quei bidoni pieni gli era un giuoco. Secondo Stefano,
lui e il ragazzo sembravano fatti l’uno per l’altro, contenti
insieme di fare la spola tra l’ovile e il caseificio e viceversa.
Cardellino era solito cantare lungo il sentiero,
anche nelle giornate di maltempo. Ogni mattina arrivava
di buon umore a quella specie di chiesa campestre
75

che era il caseificio: solo che odorava di siero, anziché di
incenso. Vi si davano convegno altri asini e anche cavalli
pelosi con i loro conducenti, in prevalenza giovani e
ragazzi. Era possibile barattarsi l’un l’altro un giornale e
qualche rotocalco, ognuno ritirava la bolletta del latte
conferito, riceveva notizie, ne dava, riprendeva la strada.
Cardellino era impaziente di conoscere Italo Bini.
Ma Italo Bini aveva i suoi agenti e non si faceva vedere.
Allora ne chiese a Onorato Bellapè, un giovane pastore
che tutti chiamavano Cremlino, perché era dalla parte
dei «rossi». – Italo Bini, – gli disse Bellapè – sta bene
dove sta. Che ci guadagnerebbe a venire da queste parti
quando abita a Roma in un grande palazzo? Giuro che
gli darebbe nausea questo odore di siero e grande noia
questo fumo verde. Gli basta che sia presente per lui
Giuliano Bersè, che avrai visto qualche volta col giacchettone
di pelle: uomo venuto di fuori alla nuda, ora
può buttare milioni dalla finestra, e ha anche un figlio
avvocato, il quale va predicando per le piazze che il
mondo è malato e che per guarirlo occorre ritornare a
Cristo. Ma ti dico io che Cristo era povero come noi,
mentre Giuliano Bersè gli affari continuerà a farseli lo
stesso prendendo al collo i pastori, per quanto il figlio
vada predicando la povertà; e sono mezzo convinto che
alla eredità non ci rinuncerà quel suo figlio come fece
invece da parte sua san Francesco. Sai che cosa ci vorrebbe?
Invece di chiacchiere, ci vorrebbe «lui». Ma c’è
di mezzo il mare. E intanto il tempo passa; ma chi sa
che dopo un’altra guerra vinta da chi dico io le cose
non vadano come dovrebbero andare.
Ma che cosa voleva di preciso Onorato Bellapè? Mettere
tutto in comune?
Discorso lungo, da non parlarne ai ragazzini, gli disse
Bellapè. Se ne voleva sapere di più, o averne qualche
idea, ne chiedesse a Martino Pecora che era un pastore
all’antica e che forse aveva sentito parlare di un tempo,
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in cui i contadini e i pastori formavano una sola famiglia
a Orolai e altrove.
Cardellino si rivolse al vecchio Martino, e Martino
gli rispose: – Sì, c’è stata la repubblica, quando ciascuno
poteva fare tutto quello che gli veniva in mente senza
però disturbare il vicino. Ma allora non c’erano i treni
come adesso, non c’erano i caseifici, non c’erano i
fucili a retrocarica. Quelli sì che eran tempi.
Il giorno di sant’Antonio Stefano si recò a Orolai
per riscaldarsi al grande fuoco che veniva ogni anno acceso
in piazza con la legna che ogni famiglia offriva sottraendola
volentieri dalla sua provvista invernale. Per lui
i santi c’erano e ci dovevano restare. Era stato sant’Antonio
a salvarlo durante la pesca da un peggiore infortunio,
e, giacché il voto lo aveva fatto, ora era andato a
scioglierlo. Era bella quella fiamma, dolce quel calore.
Ognuno vi si poteva accostare, ognuno alla fine poteva
portarsi a casa qualche carbone spento e un po’ di cenere,
con i quali tenere a distanza il demonio e le malattie
lente e sottili.
Quella sera invece Cardellino si sentiva come orfano.
Aggiungeva al fuoco ogni tanto un qualche fuscello
che fiammeggiasse: lo vedeva farsi verme d’oro che si
torceva, impallidiva, si inceneriva. Era quella la sua festa
di sant’Antonio, quell’anno. Una volta, quando era
bambino e non aveva ancora giurato in nome della lingua,
degli occhi, dell’udito, del cuore come non più suoi
– quanto tempo era passato da allora? – una volta anche
lui s’era riscaldato a quel fuoco di tutti. Beato Stefano.
Ma anche, povero Stefano, che aveva perduto un braccio
e non se lo meritava. Aveva toccato la neve che scotta
come il fuoco, era andato da ponente a levante e da
levante a ponente sino a lavorare sottoterra e nelle acque
vietate. Così pensava Cardellino. E lo rivedeva andare
77

lungo il Toro, e gli sembrava di sentirlo cantare, anche se
era assente, quella sera, lungo il fiume, come se piangesse
o imprecasse. Domani, al suo ritorno, si sarebbe fatto
raccontare com’era andata la festa, e questo lo consolava.
Arriva la sera del domani, e Stefano non si vede.
Aspetta aspetta, e Stefano non si fa vivo. Cardellino
avrebbe voluto chiederne a suo padre o a uno degli altri
uomini. Ma poiché nessuno ne parlava più, nessuno se
ne ricordava più, forse era meglio non immischiarsene.
Questo per una settimana.
Una mattina, finalmente ecco Stefano di nuovo in
riva al Toro che cantava e abbeverava una cavalla col suo
polledrino. Era una cavalla baia, balzana ai posteriori; il
figlio era sauro, di padre orientale.
Cardellino s’innamorò subito del piccolo polledro,
che però era troppo bisbetico e non si lasciava accarezzare.
– Ti piacerebbe giocarci? – gli domandò Stefano.
– Troppo presto, troppo presto. Ma ti piace davvero?
– Certo, – rispose Cardellino. – Magari fosse mio.
– Chi sa, – disse Stefano sibillinamente, avviando al
bosco la cavalla.
La cavalla riluttava, ma Stefano la mise presto alla
ragione. Cardellino li vide scomparire tra gli alberi. Inseguendo
un suo pensiero, ritornò alla capanna. Prese
e controllò i documenti di proprietà. Quei due animali
non vi erano registrati. In quelle loro carte figurava il
bestiame legittimo. La cavalla e il cavallino, Stefano
dunque li aveva portati via a qualcuno? Era una brutta
storia; e se passava «la colonna» che era tanto meticolosa
nell’esaminare quei libretti?
Da quel momento Cardellino si lasciò prendere dalla
curiosità di vedere il nascondiglio che Stefano aveva
scelto. Lasciò passare un giorno e notò che Stefano trascorreva
buona parte delle notti fuori della capanna.
Quella mattina, vinto ormai dalla curiosità, Cardellino
entrò nel bosco. Il bosco era silenzioso come una
78
chiesa al momento dell’Elevazione. A mano a mano
che vi si inoltrava sentiva bisbigli di gente nascosta chi
sa dove, chi sa in quale cespuglio, sopra quale albero.
Le querce toccavano il cielo: alcune, antiche, sembravano
di pietra, altre, dell’età almeno dei nonni che cercavano
ora il sole ora il fresco sulla piazza di Orolai. I quercioli
erano immobili, qua e là così fitti da dissuaderlo
dall’inoltrarsi in cerca della cavalla e del suo polledrino.
Le difficoltà di farsi strada in quell’intrico cominciavano
già ad attenuarsi: gli occhi gli si andavano abituando via
via alla penombra. Ma presto s’avvide d’essersi troppo
inoltrato. Era prigioniero. Il sentiero? Sparito. Da quale
parte era venuto? Non c’era uno a cui rivolgersi. Andò
avanti come a tentoni. Gli occhi non gli servivano più.
Pensò per un attimo a Lussemburgo, pensò ai minatori,
a Stefano quando s’era fatto talpa. Dov’era Stefano?
Comprese alla fine che non gli restava altro se non di
chiamarlo. Il cuore gli saltò in gola a uno strido d’uccello:
la paura gli fece gridare alto il nome di Stefano.
Il silenzio sembrò più grande. Gridò ancora. Nessuna
risposta. Si voltò e scorse un chiarore incerto: era la
bocca di una grotta. Che fare? Chiamò un’altra volta.
Silenzio. Rabbrividì: sempre le grotte sono abitate da
spiriti. Ma una volta aveva letto che le grotte sono abitate
da pipistrelli e da animali ciechi; e anche che le grotte
gli scienziati le esplorano. Chiamò ancora più forte: questa
volta gli sembrò che il bosco si fosse messo in ascolto
con tutti i suoi alberi alzatisi in punta di piedi. Guardò
in alto: scorse uno spicchio sottile di cielo. All’improvviso
scoppiò un nitrito dalla parte della grotta, ma un nitrito
sbagliato. Subito dopo un’ombra e un nitrito: era
Stefano, che, dopo averlo beffato, rincarò: – Coraggio,
Cardellino, attento agli spiriti maligni: un’altra volta bada
ai fatti tuoi, però. La prima si perdona, comunque.
Seguimi –. E così dicendo si diresse verso la grotta. All’imboccatura
Stefano armeggiò nel buio: accese una
79

lampada da minatore e riprese la strada facendogli lume
di tratto in tratto. Non era una strada, era piuttosto una
callaia, fiancheggiata di rovi. Passo passo si trovarono di
fronte a una parete. Dall’alto, come dal parapetto di un
pozzo scendeva una fune di luce: Cardellino spinse lo
sguardo quanto più poté verso l’alto: vide alcune stelle.
Come era arrivata la notte se fuori aveva lasciato il sole a
molte e molte ore lontano dal tramonto? Questo poteva
succedere solo in caso di eclissi.
– Non è notte, non temere – gli fece Stefano. – È cosa
che capita in ogni caso simile a chi guarda dal fondo
di un pozzo. E a proposito tu, qui, ci sei stato e non ci
sei stato; tu non hai veduto nulla, va bene? –. – Va bene
– rispose Cardellino e subito Stefano mutò registro e con
vera allegria si mise a cantare dirigendosi con la lampada
accesa in mano, verso l’uscita. Così, si trovarono nel bosco
e a Cardellino sembrò di essersi svegliato da un sogno,
dopo quanto aveva visto e perché si trovò davanti la
cavalla e il polledrino, in mezzo agli alberi: esso sciolto,
essa impastoiata.
Stefano spense la lampada, imboccò senza esitazione
un sentiero e furono presto all’aperto. Li aspettava una
sorpresa: Martino Pecora li avvertì che Massimo Ru era
stato ucciso. Glielo aveva riferito uno sconosciuto che
era passato poco prima, facendo il nome del «buon valente»:
Gerolamo Murrazza.
No, non era stato Gerolamo Murrazza a far la pelle
a Massimo Ru. La gente diceva che quasi di certo Dio
aveva concesso a quel «figlio di mala sorte» di entrare in
Purgatorio. Questo, perché pochi momenti prima di essere
ucciso, Massimo aveva fatto una buona azione. Per
una buona azione Dio apre le grandi braccia al peccatore
e non gli nega un posto in Purgatorio. Se non avesse
dato retta al cuore, Massimo non si sarebbe fidato tanto
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del pastore né si sarebbe lasciato sorprendere e uccidere
da lui. Tutti sapevano il nome di questo pastore, ma
nessuno lo pronunciava: lo nominavano per allusione o
per perifrasi: «quello, il buon valente, il rivale» e simili;
così come, invece di dire il demonio, dicevano, per tenerlo
lontano, «la bestia, la volpe, lo zio» e simili. Dicevano
anche: – Uccidere un cristiano è mestiere della
Morte, ed è ufficio suo, datole da Dio –. E poi qui c’era
di mezzo il tradimento, con l’avidità del denaro della
taglia. E questo non riuscivano a perdonarlo all’uccisore.
Sì, Massimo ne aveva fatto a piedi e a cavallo, ma infine
da quale punto era partito? Quanti senza montura
avevano cercato di ucciderlo? Uno della Giustizia, sì, è
pagato per questo, è il suo dovere. Ma uno che non veste
divisa, un cittadino privato che uccide per lucro è
un verme della terra. Così concludevano.
Dal racconto della vecchia Raimonda e da altre fonti
s’era potuto ricostruire come fossero andate le cose
quella notte. Era una notte di tempesta, e Massimo Ru
andava a Selvaplana. Al bivio di Selvaplana, all’alba, lo
aspettava il suo caro amico Teodoro Padente, un amico
d’infanzia, il quale gli aveva mandato a dire che doveva
avvertirlo in un orecchio di un agguato che gli si stava
preparando. Questo caro amico, tutti ora lo giuravano,
lo aspettava, invece, per fargli la pelle, per decorarlo di
medaglia di piombo: e così riscuotere la taglia. Massimo
era stato avvertito in tempo del tranello (anche questo
si era saputo da qualcuno che lo aveva avvertito in
tempo, che era poi la sua amante). E Massimo, tra credere
e non credere, si voleva sincerare e si era diretto
quella sera a Selvaplana per decorare lui l’amico di medaglia
di piombo, nel caso che fosse atteso davvero da
un cacciatore all’agguato.
Cammina cammina, verso la mezzanotte, sotto la
pioggia, fu vicino al casolare di quell’altro suo amico
di infanzia, Saverio Farè, morto nella guerra che era
81

terminata non molti mesi prima. Era caduto in battaglia,
Saverio Farè, con onore. Era partito col cuore mezzo
in festa, perché sapeva che era in viaggio il suo primo
bambino.
A quanto dunque raccontava la madre del valoroso
soldato, Massimo picchiò alla porta a quell’ora. Pioveva
a dirotto. Lo doveva avere richiamato il lume acceso e
attirato il ricordo dell’amico morto in battaglia. La giovane
vedova aveva partorito alcuni giorni prima; le due
donne erano sole in quel casolare sperso. Tutto era avvenuto
senza la levatrice, felicemente. Massimo, apertogli,
si era reso conto lì per lì che esse avevano bisogno di tutto;
e subito subito di una scodella di brodo, la puerpera
e anche lei, la vecchia. – Allora Massimo Ru, – raccontava
questa, – è scomparso sotto la pioggia che si era calmata.
Il vento si era calmato anch’esso e in tanto tempo
che non dormivo mi tradì il sonno. Mi svegliò, poi, un
picchio: era di nuovo lui, inzuppato, fradicio, allegro,
con un agnello sgozzato sulle spalle. Mi aiutò a mettere
l’acqua nella pentola, riattizzò il fuoco, diceva ogni momento:
«Lasciate fare a me»; mise la pentola sul treppiede
e la carne nell’acqua. Allora volle vedere il bambino;
mi disse: «Sembra una pera grinzosa, quanto vi somiglia,
zia mia». Poi disse addio. Nella notte udii i suoi passi
che si allontanavano. Mi misi a piangere non per mio figlio
che è certamente nella Gloria, ma per lui piangevo,
nato in mala luna. In quel punto il bambino cominciò a
piangere anche lui e non la finiva più. Poco dopo una
fucilata mi disse che era successo qualcosa di male a quel
povero figlio. Mia nuora disse: «Non è niente di buono».
Io la tranquillizzai. L’acqua nel silenzio bubbolava.
La mattina c’era tutta la Giustizia vicino a casa nostra e
voleva sapere questo e voleva sapere quest’altro. Che cosa
potevo riferire se non che il povero morto ci aveva lasciato
un po’ di denaro e portato l’agnello; e che poi gli
avevano sparato? Oh, Dio gli avrà perdonato per la sua
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buona azione: Dio ha il cuore d’oro… Era lì con le mani
giunte sotto la guancia e con la testa sopra una pietra,
che, povero figlio, aveva trascinato con le sue mani
per farsene un guanciale e così morire da cristiano. L’altro,
il buon valente, aveva solo pensato a colpirlo alle
spalle, aveva lasciato sole le pecore ed era corso dove lui
sapeva per riscuotere il denaro maledetto. Prima gli aveva
dato l’agnello per noi, poi se lo era fatto pagare con
la sua pelle…
Nessuno sapeva davvero dove l’uccisore si fosse nascosto.
Forse aveva già preso il largo col suo premio per
goderselo lontano e per morire nel suo letto.
Ma anche quell’avvenimento fu dimenticato in breve
tempo e nei giorni seguenti Stefano riprese a cantare
lungo la riva del Toro. Cardellino avrebbe voluto chiedergli
notizie della cavalla e del polledrino: li avrebbe
riveduti volentieri. Stefano lo deluse informandolo che
madre e figlio erano ritornati in possesso del loro padrone,
perché questi si era messo una mano sulla coscienza
e gli aveva versato la «polizza».
– Già, la polizza: anche a tuo padre e a Bernardo eccetera
il governo, onesto com’è, ne diede una dopo la
smobilitazione; e anche il pacco vestiario. Oh bella, erano
ritornati dalla guerra vivi e mezzo nudi. Tienine conto
perciò: se un giorno ti manderanno a fare la guerra,
fissatelo bene in mente, cerca come prima cosa di non
lasciarci la pelle; e, ammettiamo che ti andasse bene, fa’
di tutto per ritornarne mutilato: per un braccio o per
una gamba di meno non ti mancherà la pensione vitalizia.
Te lo dico per esperienza mia, per questo moncone,
per il mio cartellino penale macchiato. E così niente lavoro,
niente porto d’armi. Ma il permesso di cantare
non me lo toglie nessuno e anche quello di un fucile
abusivo.
83

Detto questo, lo condusse a una quercia vicina. Dal
piede dell’albero rimosse un sasso: la quercia in quel
punto era forata. Stefano spinse il braccio dentro il foro
e ne trasse un fucile senza cani. Vi soffiò sopra, quasi lo
baciò.
– Un giorno ne avrai uno anche tu, – disse Stefano.
– Toccalo, prendilo, è una piuma.
– Ora siamo figli di febbraio – diceva Martino.
Egli intendeva dire che si era in un mese pericoloso
per il pastore.
Gli uomini si assentavano molto spesso dalla capanna.
Cardellino continuava a fare la spola tra l’ovile e il caseificio.
Stefano s’era fatto signore col suo hammerless e
ritornava ogni tanto ora con un gatto selvatico, ora con
una volpe, ora con una lepre. Un giorno fu anche più
fortunato: prese un cinghiale e nella capanna si fece festa.
Verso la metà del mese cominciarono a passare carovane
di braccianti dirette a Garosine per deviare il
Matzeu, un verme, un rivoletto da nulla che non era segnato
neppure nelle mappe, eppure era lui che rodeva
di nascosto le fondamenta della valle e che era già riuscito
a far slittare le case di Garosine. Gli abitanti erano
stati ripetutamente diffidati; ma lì erano nati, dicevano,
e lì volevano morire. Insieme con i lavori per la deviazione
del fiume erano stati appaltati anche quelli per la
costruzione d’un nuovo villaggio in un punto salvo dalla
frana.
Ma troppi erano i disoccupati e il lavoro non bastava.
Chi non veniva assunto entrava in furore, in un
furore astratto che lo spingeva a concepire i peggiori propositi.
Esclusa ogni idea di togliersi la vita, ritenuta
un’infamia per chi arrivava a quel mal passo e un disonore
per i suoi consanguinei superstiti, esclusa l’idea anche
di stendere la mano come un mendicante, umiliazione
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delle umiliazioni, ogni altra tentazione trovava un terreno
fertile.
Una sera Bernardo ritornò alla capanna inferocito
contro Fulvio Pietri, figlio dell’impresario dei lavori di
Garosine. Lo chiamavano «il Gobbo» per la sua testa
incassata nelle spalle e una leggera deviazione della
schiena. Si sapeva che di un anno era caduto di braccio
alla balia; si sapeva anche che era malato di cuore. Bernardo
era fuori di sé. Lo aveva pregato e ripregato «quel
tronco tarlato» di assumere Serafino, che ora aveva a
carico, oltre sua madre malata e inabile, anche Elena in
quello stato.
Allora Nicola Meriagro si sentì come provocato a
tenzone: a chi più potesse passare per sfortunato. Contesa
non nuova. Quante volte sui palchi infiorati, alle
feste patronali, in Orolai e nei villaggi vicini e lontani,
i poeti estemporanei, chiamati a tener gara a premio,
non avevano conteso sul tema del pastore e del contadino
e dell’artigiano eccetera: a chi spettasse la palma
del martirio e quasi un monumento in piazza e un posto
segnalato, in premio, nell’altra vita.
Il tema di Nicola e di Bernardo era certo diverso: e
mai la giuria lo avrebbe proposto in piazza: due pastori,
a chi dei due fosse più nemica la sorte. E gli altri ora
formavano il pubblico, compreso Cardellino.
– Soffri e crepa, soffri e muto, no – disse Nicola.
– La verità è che l’hanno guardata ai raggi. Aprire, bisogna
aprire… – e faceva il gesto come di tagliarsi l’addome
con la mano a coltello. – I raggi… E le medicine
che non ho ancora finito di pagare. I medici, l’ospedale…
Siamo ricchi, no?
E Cardellino pensava alla zia Lucia, moglie dello
zio Nicola: la rivedeva nella sua mole: obesa, flemmatica,
la chiamavano «il vascello».
– Deve farsi aprire – riprese Bernardo. – Senza perder
tempo. La spesa? Ora parla il Sindaco: Tu hai tante
85

pecore, un cavallo e vuoi essere compreso nella lista dei
poveri? Aoh! Giustizia maledetta.
Qui si trovarono tutti d’accordo; anche Stefano in
cuor suo; ma gli piaceva recitare il contrario standosene
muto e con un sorriso sarcastico a fior di labbra. Accadde
lì per lì una cosa strana, quasi paurosa. Fecero
causa comune con Nicola, Antonio e Bernardo imprecando
e minacciando. E che avevano fatto bene persino
a sequestrare il bambino, gridavano.
Cardellino vide a questo punto il vecchio servo farsi
di nascosto il segno della croce; se ne accorse anche Nicola
che, afferrato d’impeto un tizzone acceso, glielo scagliò.
Fu Stefano a deviarlo: il tizzone urtò contro la parete
di frasche della capanna mandando scintille: e già Nicola
imprecava di nuovo di vergogna, e insieme di rabbia.
Nonostante la stagione iniqua, anche quell’anno in
quei villaggi non lasciavano passare le domeniche di
carnevale senza mascherarsi da buoi e bifolchi: da mamuttones.
Cardellino finalmente, come gli spettava di diritto,
in una di quelle domeniche, ebbe la sua vacanza. Orolai
era in subbuglio e in scompiglio. Anche l’aria di neve
aizzava chi stava per strada ad agitarsi per vincere il
freddo.
Dopo avere riabbracciato sua madre, andò da Elena
per recarle i saluti dello zio Bernardo. Era curioso, strada
facendo, di vederla come fosse cambiata. Ma fu deluso:
Elena era andata in città in cerca di farsi assegnare
alla Maternità e Infanzia un corredino per suo figlio
che era vicino ad arrivare. Pensò al grembo di sua madre
e al battesimo, ai due battesimi: due feste con dolci
fatti in casa e pane soffice, non biscotto, come quello
dell’ovile: e corse da Domenico. Lo trovò in casa che
era sul punto di uscire.
86
Andarono dunque insieme a vedere i mamuttones.
C’era sempre più aria di neve. Aria di tempesta.
I mamuttones erano tutti incappottati e ciascuno
con la faccia coperta da una maschera di corteccia o di
sughero. Parte formavano un armento col campano al
collo, con una bandoliera di sonagli e con la vita stretta
da cinghie e da funi; parte la facevano da bifolchi che
seguivano quell’armento tenendo in pugno le redini e il
pungolo. Erano neri, luttuosi, bestie e uomini: un armento
di prigionieri che a colpi ritmici di spalla scotevano
campani e bubboli e battevano il passo insieme,
tristi, rassegnati, come dicessero: è finita. I bifolchi erano
incomprensibilmente tristi non meno dei prigionieri,
come condannati a guidarli per tutta l’eternità. Lo
stesso pubblico assisteva al loro passaggio, come a quello
di un funerale.
Più tardi Cardellino poté anche sorridere: alcuni
bambini, come se non appartenessero al villaggio di
Orolai, si erano improvvisati mamuttones, ma senza
campani né bubboli né cinghie: gridavano in coro: dindon,
din-don con bandoliere di frittelle cotte nell’olio
di lentischio. Sulla sera cominciò a nevicare, e Orolai
diventò quasi bello.
Fu una nevicata massiccia.
Non c’era forse più niente da fare quell’anno. Si doveva
morire tutti, e basta. Stefano non usciva più dalla
capanna e occupava il suo tempo a preparare col coltello
maschere di sughero. Lavorava con veleno aiutandosi
con le ginocchia e ingegnandosi con la mano sinistra.
Suo padre e gli altri due uomini avevano abbandonato i
greggi al loro destino: ci pensasse Martino, se voleva;
scomparivano e riapparivano misteriosamente e ogni
volta si provavano le maschere di Stefano. Cardellino ne
avrebbe voluto avere una anche per sé; ma non tardò a
87

comprendere che di soppiatto si preparavano a una di
quelle imprese che si chiamano ominias, dove un uomo
dà la misura di quanto è valente.
La neve continuava a cadere. Martino Pecora era
l’unico che la considerasse e che, ogni tanto, guardando
il cielo, si facesse in quattro per le pecore.
S’avvicinava l’ora dell’impresa. Cardellino lo indovinò
dai quattro cavalli sellati che una sera sparirono
con loro. La capanna divenne grandissima: il fuoco
non la riscaldava: con la sola compagnia di Martino cominciò
a lasciarsi soverchiare dalla paura. Il cuore non
gli ubbidiva più. Seguiva il viaggio di quei cavalieri armati.
Soltanto Stefano non era armato del suo hammerless.
A quell’ora la neve aveva certamente imbiancato i
loro cappotti e le groppe dei cavalli. Li accompagnò col
pensiero per ore e ore e intanto Martino, cosa che non
aveva fatto mai, fingeva di dormire e scorreva le poste di
un rosario di nascosto. A una cert’ora i cani si ripararono
tutti nella capanna. Cardellino si sentì più sicuro.
Gli occhi gli si chiusero. Si trovò su una strada bianca
di polvere fredda: era neve sfarinata. Cavalieri con in
groppa le loro spose; e uomini e donne e bambini e
mendicanti vi camminavano senza lasciare un’impronta.
E Cardellino diceva: – Siamo tutti morti. Morti anche
i cavalli –. C’era da averne paura, ma aveva un cuore
da pastore. Un labaro precedeva il corteo, da solo,
verde come la prima erba. E il suo cuore era con san
Francesco: – Fateci la grazia di un buon carnevale –
chiedeva. Ma san Francesco non rispondeva. Tuttavia
avrebbe risposto – a quanto diceva quella gente – appena
fosse apparsa la sua casa con in cima la croce. E cammina
cammina, la gente cantava canzoni tristi di dietro
le maschere, finché la voce del santo si fece sentire come
una campana che parlasse: Cardellino, Cardellino – dindondava
– tu verrai presto in paradiso. Allora Cardellino
si rammentò chiaramente che parole simili Gesù Cristo
88
le aveva rivolte dalla croce al buon ladrone: dunque lui
non era ancora morto, era il solo vivo in mezzo a tanti
cavalieri malinconici, a tante malinconiche spose, e
uomini e donne e bambini e mendicanti malinconici
tutti, e tutti a piedi, e tutti morti. Così si risvegliò di soprassalto.
Ma i tre non erano in viaggio per Orolai dove passare
quell’ultima domenica di carnevale. Andavano a
far carnevale a Garosine, alla terra che cammina. Il più
allegro, ma di un’allegria fosca, era Stefano che canticchiava
canzonacce di guerra e di pace, di sotto il cappuccio.
Due o tre volte suo fratello lo rimbeccò. A chi
voleva darla ad intendere che era in vena di sberleffi?
Doveva comprenderla una buona volta che erano in
ballo. In un ballo molto serio. Le scorciatoie si incastravano
l’una nell’altra, sconvolte, sassose, piene di insidie
per la neve. Stefano continuava a canticchiare e il fratello
in un impeto d’ira gli gridò: – Basta per Dio, spàrati
–. – Magari – rispose Stefano, – avessi un fucile,
come voi –. Successe un lungo silenzio. Ora Stefano ripensava
a certe notti di guerra, con la neve; e con a sua
disposizione uno, dieci fucili e la compagnia di certi
morti, povera carne cristiana. «Pazienza, Stefano» si diceva.
E gli venne quasi da ridere e da piangere insieme
al ricordo di quei giorni e al ricordo che Cardellino diceva
pazienza a sé e all’asino nel fare la spola tra l’ovile e
il caseificio. «Che bell’età, Cardellino» almanaccava ora
Stefano malinconicamente, «che bell’età la tua, beato
te, che san Francesco ti salvi dall’andare in guerra». Gli
altri tre erano anche essi in preda a pensieri amari: le
loro persone, la famiglia e ancora la famiglia, e san
Francesco, e ancora san Francesco. Perché san Francesco
è l’unico dei santi che comprenda i pastori e li protegga.
Era forse loro la colpa? Che cosa sono le cambiali?
89

Sentenze di morte. Le cartelle dell’esattore? Anch’esse
sentenze di morte. Non erano già stati messi in croce?
Volevano forse diventar ricchi? Ma san Francesco non
aveva bisogno di quelle domande, eppure gliele facevano
lo stesso e glielo perdonasse, perché rispondesse loro
di sì, che li avrebbe aiutati a portare a termine l’impresa
con le mani nette di sangue. No, san Francesco
non poteva volere la loro rovina: che andasse in fumo
il lavoro di tutta la loro vita, in quella prima stagione
della loro indipendenza. Lui era un santo vero, un santo
di cuore.
Alla svolta di Arulè era già l’alba. Proprio in quei
pressi sbucò Serafino che li condusse a una grotta. Vi
era un gran fuoco acceso, si rifocillarono, bevvero del
vino, si distesero sul terreno per un breve riposo.
Serafino li risvegliò dopo qualche ora: e i quattro
ripresero la strada per Garosine. Serafino stette a guardarli
finché non furono spariti; poi si rimbucò nella
grotta.
Il terreno era insidioso, tutto piccoli baratri, fossi e
fenditure. La neve era gelata: i cavalli camminavano
guardinghi. Fecero lunga strada e furono finalmente in
vista del villaggio. Venivano già gridi e un suono di fisarmonica:
il ballo era incominciato. Si coprirono i volti
con la maschera, si calarono il cappuccio, si diressero
a Garosine. La piazza ribolliva di mamuttones. Ogni
tanto un manipolo faceva prigioniero uno spettatore e
lo condannava a pagare da bere conducendolo a una
canova vicina. I quattro si mescolarono al ballo diabolico
dandosi ogni tanto avvisi e facendosi segni. A mano
a mano il ballo divenne frenetico. A un tratto, il Gobbo:
e i quattro lo fecero prigioniero a volo. Il prigioniero
non si ribellava, si lasciava anzi portare in braccio
con grande allegria. Non ebbe il tempo di raccapezzarsi
che si trovò bendato, e poco dopo sopra un cavallo, in
arcione, abbracciato dall’uomo che stava in sella.
90
Le ore passavano e la neve continuava a cadere senza
vento al monte e al piano, seppelliva le pecore affamate
nel loro recinto, schiacciava la capanna. I cani si erano
del tutto arresi e ora si contendevano un posto accanto
al fuoco. Martino col rosario in mano gettava ogni tanto
un’occhiata fuori dell’usciolo e biascicava scongiuri.
Cardellino gli guardava le mani ossute e a rastrello, cercava
le preghiere dell’infanzia e non le trovava: non gliele
lasciava trovare il pensiero di dove essi fossero a quell’ora
e che cosa fosse loro successo. Guardava i cani
arresisi come gatti, i cani gli rispondevano con sguardi
smorti. Di quando in quando il silenzio era incrinato
dal gemito, dallo schiocco di qualche tizzone morso dalle
fiamme. Ogni volta un tuffo al cuore di Cardellino.
A mano a mano che s’avvicinava la sera cominciarono le
apparizioni. Una volpe mise il muso all’usciolo della capanna
ma non entrò, forse per la paura dei cani: i cani
non le abbaiarono, ma la volpe non ritornò indietro e
se ne andò a morire chi sa dove. Arrivò una lepre, e fu
lo stesso: anch’essa non entrò e scomparve per andare a
morire chi sa dove. Passò una cerbiatta, s’affacciò, stette
alquanto incerta, poi scosse la bella testa, parve dire:
– Morire si deve morire – ed entrò. I cani non le fecero
nulla. Il cuore di Cardellino cominciò a battere come alla
fiaba del Mondo Sottosopra: «C’è una notte dell’anno,
la notte del Santo Nommai che cessano tutti i guai,
ma gli uomini dormono alla morta e all’alba quando si
risvegliano se li ritrovano alla porta…». Che succedeva?
Poi comprese che tutto era un giuoco crudele della neve.
Che loro erano ancora in viaggio, che le pecore morivano,
che sua madre era lontana in pensiero per lui,
per tutti loro. E Domenico? Pensava, Domenico, a lui,
alla neve che li seppelliva? E loro dove erano, che cosa
pensavano a quell’ora? La neve continuava a cadere, i
cani erano invecchiati, la cerbiatta sonnecchiava a testa
bassa, la neve continuava a cadere, la notte si avvicinava.
91

Il fuoco se ne moriva: anche se la sua fiamma guizzava,
era svigorito il suo calore e sembrava il moribondo del
quale aveva sentito dire tante volte che proprio in quegli
ultimi momenti che sta per spegnersi come una candela
consunta, l’anima gli si riaccende in un guizzo e lui dice
esultante: – Sento che sono guarito –. La neve li seppelliva.
La morte era vicina, fredda come la neve. La neve…
All’improvviso si alzò nel silenzio un richiamo incredibile:
– Aoh, aoh –. Martino, convinto di essersi ingannato,
domandò a Cardellino: – Hai sentito? –. Cardellino
non ebbe il tempo di rispondergli di sì, che già la
voce arrivò più da vicino: – Aoh, c’è gente? –. E nello
stesso tempo apparve davanti all’usciolo un fantoccio di
sale, un uomo vestito di neve, che disse: – Grazie a Dio
– e si scrollava di dosso la neve. Entrò. I cani non si
mossero, la cerbiatta nemmeno. – Grazie a Dio – sospirò,
liberandosi da una bisaccia di utensili di faggio:
mestole e vassoi. Già rianimato dal calore, notò la cerbiatta
e i cani ed esclamò: – Si sono arresi, poveri animali
–. E quasi spariva in una nuvola di fumo: fumava
dai piedi che aveva fasciati di stracci, fumava dalla casacca,
fumava dai capelli.
– Come mai? – gli domandò Martino.
– Mi ha sorpreso in mezzo alla strada che ero vicino
ad Austalé, – rispose il mercante, – mi si è girato l’orizzonte,
ho camminato all’incerta, non sono pratico dei
luoghi. Sparitami la strada principale, ho continuato a
camminare per ore, mi sono fasciato i piedi stracciando
una coperta che avevo da anni per i miei viaggi, non ho
incontrato né vivi né morti… Ora sono qui, grazie a
Dio. Che tempo, eh, – concluse massaggiandosi i polpacci.
E, aspettato invano una risposta, domandò: – Come
mai, così soli?
Allora Martino fu pronto a mentire:
– Gli uomini sono fuori per dare le frasche alle pecore.
92
La notte era già arrivata. Tutto arrivava. Loro soli
non arrivavano… E i pensieri di Cardellino andavano
e venivano, partivano e ritornavano. Si erano smarriti?
Avevano trovato rifugio in qualche capanna col fuoco
acceso? Come era andata?
Martino intanto aveva messo al fuoco la graticola
con sopra qualche fetta di lardo. Il mercante trasse dalla
sua bisaccia del pane e cominciò ad affettarlo con un
coltello a punta. Martino accostò al fuoco anche una
ciotola piena d’acqua e sbirciava la cerbiatta. L’ospite
offrì del suo pane: il ragazzo e il vecchio lo rifiutarono
con un diniego della testa. L’altro si servì dalla graticola
con la punta del coltello, cominciò a masticare e
gettava di tanto in tanto qualche boccone ai cani attento
a non farli litigare. La cerbiatta si era inginocchiata
in fondo alla capanna. Martino mise un dito
nella ciotola; disse: – È tiepida –. Cercò la cerbiatta, le
si accostò, si chinò, la accarezzò con le sue mani tremule,
la scosse per darle da bere almeno un po’ di
quell’acqua tiepida, si tirò su sospirando. – Non c’è
più, – disse. Allora il mercante propose di non buttarla
via, ché era carne mandata da Dio. Cardellino balzò
in piedi gridando: – No, no –. Il mercante interrogò
rapidamente con gli occhi Martino: Martino rispose:
– È fatto così, questa creatura, ha ribrezzo del sangue,
non è altro. Si chiama Vincenzo, ma noi lo conosciamo
come Cardellino –. Cardellino aveva ripreso il suo
posto a sedere e teneva nascosto il volto tra le mani. Il
mercante disse: – Se è così, se è così… – e non sapeva
aggiungere altro, e intanto copriva delicatamente la
cerbiatta col suo gabbano. Poi, come riprendendo il filo
del discorso e con l’intenzione di allontanare dalla
mente di Cardellino l’idea del sangue, disse: – Che
tempo, eh! Senza più regola né misura. Le stagioni sottosopra.
La siccità ieri, la neve oggi, l’alluvione domani,
male sopra male. Ora s’imputa la bomba atomica,
93

ma io poco ci credo. Se ne parlava, di queste stagioni
rovesciate da quando io ero ragazzo come te, Cardellino.
E te ne posso dare la prova raccontandoti una storia
di allora. Ce la raccontavano soprattutto quando,
venuto settembre, cominciava il castigo della siccità come
quest’anno. Era la Madre che parlava alla Montagna.
Ma forse tu la conosci già, Cardellino –. Cardellino
istintivamente si aprì scostando le mani dal viso. Il
mercante colse sorridente un segno di no e disse: – E,
dunque, non pioveva da mesi e mesi, e la terra si era
tutta spaccata. E la Madre corse dal pastore e gli disse:
«Pastore, salvami il bambino che muore, dammi un po’
di latte». Rispose il pastore con la voce dolente: «Cristiana,
guarda il prato, guarda il cielo: mi sono nati gli
agnelli, e gli agnelli mi sono morti perché le madri erano
asciutte. E molte di esse sono morte di fame e di sete.
Perdonami, cristiana». Corse la Madre al ruscello e,
da tanto che era disperata, cominciò a rimproverarlo:
«Hai fatto morire la pecora e il suo agnello, così mio figlio
morirà per colpa tua». E il ruscello le mostrò il suo
greto che sembrava un ossario e disse: «Vedi come sono
ridotto, perdonami, sorella». Corse la Madre più disperata
che mai dalla Montagna, le si inginocchiò davanti
e disse: «Tu che hai la provvista nascosta, da’ l’acqua al
ruscello, che la dia alla pecora, che dia il latte all’agnello,
e a mio figlio che muore». La Montagna sospirò: «Con
tutto il cuore lo farei, cristiana; ma una goccia ch’è una
goccia non mi è rimasta, colpa del pecoraio, colpa del
carbonaio, colpa del taglialegna, colpa della capra, colpa
del cattivo che ha appiccato l’incendio. Perdonami,
cristiana». Madre e figlio morirono, come la pecora e il
suo agnello.
Il mercante si avvide subito che avrebbe fatto meglio
a non raccontarla, si pentì di aver fatto scendere
un velo di mestizia sul volto del bambino e cercò di rimediare:
– Non disperiamo mai, però, non disperiamo.
94
I boschi possono ritornare, con l’aiuto di Dio, se l’uomo
si aiuta. E se l’uomo è di buona volontà, allora anche
i Santi si muovono a cuore sicuro: non gli sembra
vero di perorare una causa già vinta, e a Dio non sembra
vero di aprire la sua mano come un fiore.
Cardellino mandò subito un pensiero a san Francesco,
al santo dei pastori. Dove erano essi a quell’ora?
Il mercante sentì il suo pensiero? Chi sa. Domandò il
mercante: – Ma questi uomini non ritornano? –. Rispose
Martino: – Ho detto che hanno molto da fare,
ne avranno fino all’alba –. Disse il mercante: – È troppo
giusto. Allora, ci possiamo stendere a dormire, la
notte è fatta anche per questo; se pure restassimo a occhi
aperti, non per questo cesserebbe di nevicare. Speriamo
che Dio aiuti tutti in questa notte, speriamo. Loro
stanno facendo di tutto, dunque, all’addiaccio – e
nel tempo che aveva impiegato a dire questo, aveva srotolato
una stuoia per sé, una per Cardellino, e aggiunto
legna al fuoco. Si sdraiò. Anche Cardellino si distese,
dandogli le spalle. In quel punto si levò un po’ di vento:
lo si comprese dal frusciare della neve: Cardellino si
mise ad ascoltare, mandò un pensiero a san Francesco
sperando che venisse a trovarlo in sogno per consolarlo
con una risposta, con un sorriso. La musica, ora, era
dolce, anche il fuoco aveva ripreso l’antico vigore, venne
furtivo, a passo scalzo, il Sonno e gli stese addosso il
suo mantello. Era Martino che lo aveva coperto cautamente
con un sacco di lana e che aveva fatto sdraiare
sui suoi piedi uno dei cani, il più peloso.
Quando si risvegliò stentò a credere ai propri occhi.
Gli uomini dormivano pesantemente sulle stuoie: suo
padre, lo zio Bernardo, lo zio Nicola, Martino stesso.
Soltanto Stefano mancava. Meraviglia, il mercante era
sparito: eppure non se lo era sognato; sparita anche la
cerbiatta: eppure era entrata poche ore prima nella capanna
ed era morta senza un lamento. Meraviglia anche:
95

fuori della capanna, oltre l’usciolo, splendeva la neve, ma
la musica del nevischio di poche ore prima era cessata.
La stanchezza delle sere avanti, la contentezza per il ritorno
di suo padre e degli amici, il tepore della capanna
furono più forti della curiosità di approfondire il mistero
di tante assenze: gli occhi gli si chiusero. E san Francesco
disse a lui e a Martino: – Vi voglio con me in paradiso
–. A lui non sembrò vero di poter fare subito
quella scampagnata e disse di sì; Martino, invece, rispose:
– Per me accetterei l’invito, ma come si fa? Lasciare
sole le pecore, lo sapete bene che c’è la neve e che, se sotto
la neve c’è pane, sotto la neve la pecora muore, quando
il pecoraio non l’assiste anche a costo di distruggere il
bosco –. Allora san Francesco si strinse nelle spalle e
sparì. E lui, Cardellino, a quella conclusione, rimase
scontento e insieme contento: era un’occasione sfumata,
era una scortesia a san Francesco; ma anche Martino
aveva ragione: non poteva mancare alla consegna che gli
avevano dato loro, prima di partire. Dove erano a quell’ora?
Gli rinasceva l’angoscia della loro sorte e gli crebbe
a tal punto che si svegliò di soprassalto.
Lo avevano svegliato forse anche i rumori degli uomini
dentro la capanna. Fece in tempo a vedere suo padre
e gli altri due uscire e dirigersi verso il bosco. Si
alzò, li vide internarvisi. Poco dopo ne sbucò Stefano
che gli sorrise e gli fece un cenno allegro, come si fa al
cane quando lo si chiama guardandolo negli occhi e
stropicciando pollice e indice della mano tesa in avanti.
Cardellino gli corse incontro allegramente. Ma, appena
gli fu vicino, notò che Stefano si era rannuvolato come
se si fosse d’un tratto rammentato delle sue disgrazie: la
guerra, la neve rovente, la miniera, il rio proibito, il
braccio perduto.
Poi si rinfrancò. Stefano gli gettò il braccio sano
sulle spalle, lo attirò a sé e cominciò a parlargli all’orecchio:
– Un’imbasciata importante per te. Devi partire
96
subito, andare al caseificio per far controllare queste
bollette. Non ci quadrano, ci dev’essere uno sbaglio.
Saranno quattro soldi, ma per gente come noi e in quest’annata…
Nello stesso tempo, consegnerai a Serafino,
che troverai lì, questa fiaschetta di sughero: è il
mio dono di nozze, altro non ho potuto, ma c’è la storia
che ho scritto a punta di coltello: la casetta, la sposa
alla porta, è il mio augurio, che la Fortuna lo assista –.
Così dicendo, gliela consegnò. Ebbe un attimo di esitazione,
poi disse: – Ma infine, non siamo tutti una famiglia?
Non ci devono essere segreti fra noi. Dal momento
che hai giurato, che sei giudizioso… –. Riprese
in mano la sua fiaschetta, se la accostò al petto e la
tenne stretta col moncone, diede con la sinistra un giro
a un cerchio: la pala circolare del fondo gli rimase
in mano e gliela mise avanti come un vassoio. Sopra
c’era un biglietto. – Leggilo pure, – disse. Cardellino
prese e spiegò il biglietto. Era una letterina. La scrittura
era di mano istruita. «Caro padre», lesse con gli occhi
Cardellino, «mi trovo vivo e sano in mani che non
mi fanno mancare nulla. Attento a non avvertire la
Giustizia: le cose si complicherebbero. Deposita entro
tre giorni da quando riceverai questo biglietto cinque
milioni nella grotta di Pietrafitta. Per te non sono nulla,
per me… lo sai. Mi raccomando a te con tutto il
cuore. Tuo figlio Fulvio».
Cardellino cominciò a tremare. Stefano gli tolse di
mano il biglietto, lo piegò, lo rimise al suo posto, armeggiò
col cerchietto, disse: – Ecco fatto –. Lo frustò
con lo sguardo, riprese imperioso: – Ora, siamo in ballo:
cambiali, debiti, disastro… ciascuno per sé e Dio
per tutti. Va bene? Va’, scuotiti e in gamba –. Gli diede
un leggero colpo sulla spalla. Cardellino si avviò. Stefano
lo richiamò subito e gli disse: – Prendi anche le bollette.
Serafino sa anche di queste. Va’, torna presto, sono
qui ad aspettarti; ti farò vedere la tana, al ritorno…
97

Cardellino partì spedito. Qualcosa, qualcuno gli dava
ora la smania di far presto, di non fare attendere Serafino.
La neve si scioglieva, il cielo si liberava già dai
suoi veli lividi. Gli fu presente a un tratto che la fretta
gliela metteva la contentezza che il prigioniero fosse vivo
e sano, che gli uomini non gli facessero mancare nulla,
che presto sarebbe stato restituito a suo padre. Entro tre
giorni da quando riceverai questo biglietto… Quanto
prima incontrerò Serafino, tanto meglio per quello della
tana e per tutti. I debiti, i disastri, le cambiali di Prospero
Sio. Di quando in quando gettava uno sguardo alla
fiaschetta: alla casetta incisa a punta di coltello, alla sposa
sulla porta, faceva una corserella, non vedeva l’ora di
arrivare, di passare tutto a Serafino, di sentirsi libero da
quel peso importante, di ritornare, di vedere in faccia
quello della tana. La neve si scioglieva, qualche ruscelletto
cominciava a brillare come un filo d’argento. E cammina
e affretta, e pensa e rimugina, ecco il tetto del caseificio:
il comignolo fumava. Serafino era lì. Poche le
persone. Non c’era lo scompiglio di prima della nevicata:
la neve aveva ucciso molte pecore, le superstiti erano
rimaste secche, in quei giorni e stentavano a rianimarsi.
Quel crocchio era di giovani mandati dagli anziani forse
a chiedere notizie: se avrebbero chiuso la campagna,
o a chiudere i conti, o a chiedere che cosa dovevano fare,
chi sa. Avvicinatosi, Cardellino ebbe un tuffo al cuore:
si parlava del sequestro del Gobbo. Uno soprattutto
sembrava assediato: – La Giustizia è tutta a Garosine.
La caccia è incominciata. Uno ne incontrano, uno ne
fermano. Interrogatori che non finiscono mai… Trovarne
uno che non abbia un alibi in tasca sarà difficile; e,
chi ha fatto la cosa, di alibi ne avrà da vendere. Tracce?
È stato fatto sotto la neve che cadeva, e la gente era tutta
ubriaca. Un bello scherzo di carnevale. Ma infine…
Serafino si avvicinò a Cardellino e gli chiese a voce
alta le bollette. – Che carriera, – gli disse un conoscente;
98
– sei diventato segretario di tuo suocero: la contabilità,
grazie a Dio, non ti darà molto da fare, quest’anno. A noi
no, di certo… –. La fiaschetta scottava in mano a Cardellino:
la teneva il più possibile nascosta alla curiosità
di quel crocchio. Serafino gliela prese in silenzio, la ripose
negligentemente nella sua bisaccia: – Va bene, – gli
disse sottovoce, – di’ a mio suocero che Elena sta bene e
lo saluta; addio.
Cardellino riprese la sua strada. Non si voltò. Ora
era più tranquillo: il suo dovere lo aveva fatto. Tutto
sarebbe finito in un momento. Niente interrogatori,
niente arresti, niente fermi, niente spari, niente ferite,
niente sangue. L’uccello sarebbe ritornato al suo nido.
Le cambiali pagate, il tempo bello, la tranquillità in casa
e nella capanna, la festa del battesimo del figlio di
Serafino e di Elena, e quella per la nascita nuova in casa
sua, e la moglie di zio Nicola guarita, avrebbero ricomperato
le pecore in sostituzione delle morte, Stefano
non avrebbe più parlato con rancore delle sue disgrazie,
avrebbe detto: – La Fortuna si è pentita – come aveva
letto due anni prima nel suo libro: di quel legnaiolo
perseguitato dalle disgrazie che aveva la pazienza di
Giobbe e che alla fine, nella gamba di un tavolino di
noce tarlato che gli aveva lasciato in eredità un vecchio
amico burlone nel suo testamento, rinvenne un gruzzolo,
una colonnina di monete d’oro lunga quanto era
lunga l’anima di quella gamba di legno tarlata, e disse:
– La Fortuna si è pentita –. Il maestro diceva che non è
vero che la Fortuna vuole fare tutto, bisogna che uno si
dia anche da fare, e resistere alle avversità altrimenti la
Fortuna fa una piroetta e via da un’altra parte, ché così
le ordina Dio. La Fortuna… E l’isola, a Domenico,
non gli era arrivata come un dono? Era figlio di fortuna,
Domenico. In questa ultima circostanza la neve
gliela aveva protetta: sotto la neve pane, ma la pecora
muore sotto la neve…
99

In questi e altri pensieri simili arrivò alla capanna.
Stefano era lì di sentinella. Comprese subito che Cardellino
aveva portato a termine la consegna, gli andò incontro,
gli passò il braccio valido sulle spalle, lo condusse
per la radura: il sole era caldo, aveva già sciolto ogni
ghiacciolo che non fosse ancora nelle ombre. Stefano
non parlava. Non gli chiedeva nulla. Allora Cardellino
disse: – Manda a dire Serafino al suocero che Elena sta
bene e che lo saluta –. Stefano non rispose nulla. Camminava,
Stefano, tenendogli strette le spalle, come l’Angelo
che guida Tobia. La figura era nel libro stesso dove
il legnaiolo diceva: – La Fortuna si è pentita –. Quel silenzio
cominciò a impensierire Cardellino. Arrivati al
bosco, Stefano staccò il suo fucile da un tronco d’albero,
lo imbracciò. «Ora», pensò Cardellino, «mi condurrà
alla tana». La tana doveva essere la grotta dal fondo
della quale si vedeva il cielo stellato anche di pieno
giorno. Si meravigliò: Stefano prendeva un’altra direzione,
lo conduceva verso il fiume. Se ne udiva già il gorgoglio.
Il Toro era già in corsa. Giunti alla riva, Stefano
glielo indicò; disse: – Era malato di cuore, non gli ha
resistito, è in viaggio, già lontano.
– No, no, perché l’hai fatto, che cosa ti aveva fatto?
– gridò Cardellino: e già correva lungo la riva, in gara
col fiume.
Allora Stefano si lanciò a correre dietro di lui e gridava:
– Fermati, dove vai? Fermati o ti…
Ormai Cardellino era in preda a due paure: a quella
che san Francesco li avesse abbandonati, e a quella che
Stefano, prendendolo, lo percuotesse e lo gettasse nel fiume.
Stefano correva e gridava, Cardellino fuggiva atterrito.
Stefano, invelenito, uscì in una maledizione, si fermò,
imbracciò il fucile, lo levò alto in aria, fece partire due
colpi a spavento. Cardellino sfagliò, scivolò, cadde nel fiume.
Stefano diede un alto grido, lanciò l’arma nel fiume,
vide sparire Cardellino, si mise a correre lungo la riva, ma
il fiume non si fermava, andava, correva verso il mare.
100
I due corpi viaggiarono insieme per lungo tratto.
Poi, si divisero la sorte. Il prigioniero non fu più ritrovato.
Cardellino, invece, si arenò nei pressi dell’isola del
suo migliore amico.
Fu il padre di Domenico a ripescarlo dal fango, a
riportarlo sul carro a buoi, lentamente perché il piccolo
morto non patisse dei sobbalzi, lo depose sulle braccia
della madre, alla porta della casa piena di pianto. Le
campane rintoccavano lente: prima il grido della minore,
come quello di un uccello ferito, ripetuto a intervalli
più volte, poi un accordo con la maggiore ripetuto anch’esso
più e più volte, infine di nuovo il grido della
minore. Passava quel pianto sui tetti di Orolai sotto un
cielo di cristallo.
Ora Cardellino era composto sulla cassapanca, nella
stanza del fumo. Così tutti potevano vederlo dalla strada.
Sua madre, seduta per terra, con le mani sul ventre
gonfio, comandava il coro delle donne, che, sedute per
terra anch’esse, facevano corona. Di tanto in tanto una
si alzava e cantava: «Cardellino, di’ a Francesco che l’abbiamo
sempre nel cuore». La madre aveva il privilegio di
gridare da sola: «Figlio, figlio mio». Poi si levava un’altra
e cantava: «Cardellino, di’ a Elisabetta che l’abbiamo
sempre nel cuore». E la madre aveva il privilegio di gridare
da sola: «Figlio, figlio mio». E ognuna mandava un
saluto al suo morto più caro, e ognuna poi cadeva a sedere
sulla terra dura.
Gli amici di Cardellino, molti dei quali erano ancora
scalzi, venivano a guardare e fissavano in pianto
quelle sue scarpe nuove, rivolte verso l’uscita, sprecate.
E il morto era lì, col petto fermo, sempre lì e già tanto
lontano. Solo Domenico non si faceva vedere: voleva
tutto per sé il ricordo del suo più caro amico.
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BIBLIOTHECA SARDA
Cultura e Scrittura di un’Isola
La collana più esauriente per una approfondita
conoscenza della cultura sarda
Nata nel 1996, la collana Bibliotheca Sarda ha avuto l’obiettivo
di dare adeguata presenza editoriale al repertorio bibliografico
sardo, edito e inedito.
Con la pubblicazione o la riedizione dei più importanti
libri della (e sulla) Sardegna, e con la sua regolare cadenza
di dodici volumi l’anno (di cui 84 già pubblicati), la Bibliotheca
Sarda ha confermato, nella forma più convincente,
che il pluralismo linguistico che ha caratterizzato la
cultura scritta della nostra isola è stato capace di elaborare
e produrre nel passato – e ancora potrà farlo nel futuro –
una grande civiltà letteraria.
Bibliotheca Sarda costituisce, nell’attuale panorama editoriale,
la più importante e completa raccolta di testi del patrimonio
culturale sardo, cronologicamente ripartiti tra l’età
giudicale (XII sec.) e il ’900: opere che spaziano dagli
scritti socioeconomici e giuridici alla narrativa, agiografia,
poesia, teatro, musica, tradizioni popolari, storiografia, archeologia,
storia dell’arte, cronache di viaggio e linguistica
sarda, molte delle quali tradotte per la prima volta dalle
varie lingue originali: latino, tedesco, inglese, francese, spagnolo,
catalano, sardo.
Un’opera di grande qualità e impegno, che rispecchia appieno
la cultura e la scrittura di un’Isola.