contemporary art magazine issue # sixteen december ... - Karyn Olivier
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MOUSSE / PAUL SIETSEMA / PAG. 26<br />
Paul Sietsema, Figure 3, 2008 - courtesy: Regen Projects, Los Angeles<br />
Dig Forever and Never Hit Bottom:<br />
Interview with Paul Sietsema<br />
_Andrew Berardini<br />
Nel 16 mm Empire, Paul Sietsema aveva confrontato lo spazio formalista del salotto di<br />
Clement Greenberg con la vertigine dorata e sfaccettata di un salone ottocentesco, e<br />
aveva giostrato abilmente giochi di scala, conducendo lo spettatore in un limbo d’incertezza<br />
spaziale. Con Figure 3, presentato all’ultima Biennnale di Berlino, l’<strong>art</strong>ista confonde<br />
nuovamente la sua audience, tornendo oggetti da museo antropologico in pura<br />
c<strong>art</strong>apesta. Andrew Berardini ha incontrato uno dei più misteriosi e intriganti <strong>art</strong>isti<br />
losangelini che sembra non preoccuparsi troppo della soleggiata California, quanto di<br />
rivelare, attraverso pellicole completamente autoprodotte – elegantissime e dense di<br />
riferimenti – la potenza dei cliché…<br />
Affacciato su un negozio di riviste gay del Sunset Boulevard,<br />
lo studio dell’<strong>art</strong>ista losangelisno Paul Sietsema è immerso<br />
in un caos elegante e intellettuale, stratificato in ogni angolo,<br />
disseminato su ogni centimetro quadrato del pavimento e pronto<br />
a espandersi in ogni direzione. Come la confusione di Raskolnikov<br />
prima che gli toccasse vendere gli stivali, o uno sp<strong>art</strong>ito barocco<br />
per chi non legge la musica: intuisci che quel miscuglio infernale<br />
per qualcuno ha un senso, ma certo, per te, non ce l’ha: libri su<br />
libri, sparsi in torri pericolanti per tutta la stanza, originariamente<br />
un ufficio open-space con parquet, oggi il suo pensatoio e il suo<br />
studio cinematografico. Il lavoro di Sietsema, nella pratica, se<br />
non nell’aspetto, è semplice ed elegante, ma se viene smontato<br />
e analizzato si rivela quasi senza fondo, ricco di ambiguità e<br />
biforcazioni infinite, in un costante inseguimento di significati<br />
e storie evanescenti. Una macchina farraginosa, ma precisa,<br />
con ingranaggi complicati e p<strong>art</strong>i raffinate, tanto che s’inizia<br />
con i mercanti coloniali che solcavano il Pacifico meridionale e<br />
si finisce nel foyer del MoMA, passando per le sperimentazioni<br />
dell’avanguardia, l’iconografia, le Wunderkammern del<br />
Settecento, il capitalismo e il soggiorno di Clement Greenberg,<br />
magari non esattamente in quest’ordine.<br />
A cosa stai lavorando in questo periodo?<br />
Mi dedico principalmente ai miei progetti cinematografici.<br />
Finora ne ho realizzati tre, sono quelli che si vedono di solito<br />
nelle mie mostre.<br />
Ne ho visto uno a Berlino, alla Biennale.<br />
Una delle mie ultime produzioni di maggior impegno. Le mostre<br />
in arrivo al MoMA e al Reina Sofia ospiteranno quello stesso<br />
film e un paio di disegni. Ci metto un sacco di tempo a elaborare<br />
i miei progetti. Lavoro così dalla fine degli anni ’90: c’è questo<br />
contenitore, che sarebbero i film, e una p<strong>art</strong>e di attività scultorea.<br />
Impiego due o tre anni a prepararmi, non necessariamente a fare<br />
ricerche, più che altro a decidere cosa fare. Poi ci sono le riprese,<br />
che faccio sempre io. Sono produzioni molto sp<strong>art</strong>ane. Nel<br />
frattempo, disegno, anche perché la scultura e i film sono attività<br />
piuttosto logoranti e mi piace espandere il mio metodo di lavoro,<br />
declinando le mie idee tramite altri mezzi espressivi. A p<strong>art</strong>e la<br />
pittura, utilizzo qualsiasi mezzo a disposizione.<br />
Che genere di sculture stai creando per il film?<br />
Qui ce ne sono un paio. Nel 2002, ho iniziato a realizzare una<br />
ventina di tipi diversi di manufatti. Il lavoro di Figure 3 è iniziato<br />
così. Questa è rimasta a metà. Ho cercato un materiale da poter<br />
lavorare allo stato umido, per scolpirlo in base al modello di una<br />
fotografia. Se l’illuminazione è giusta, sembra molto realistico.<br />
Tutto è costruito per essere illuminato e ripreso su pellicola. È<br />
c<strong>art</strong>apesta, perlopiù, ma uso anche l’inchiostro da stampante;<br />
gran p<strong>art</strong>e del mio lavoro riguarda i libri e la lettura, quindi<br />
ho iniziato a mettere l’inchiostro dappertutto. Lo usavo anche<br />
per disegnare, sempre lo stesso tipo d’inchiostro. Queste non<br />
compaiono nel film, le ho abbandonate strada facendo e devo<br />
ancora decidere cosa farne.<br />
E quelle per il film?<br />
Di solito vengono distrutte durante le riprese, e a me sta bene<br />
così. Per Empire, avevo costruito delle stanze.<br />
Me lo ricordo, una era il soggiorno di Clement Greenberg.<br />
Ho usato materiali talmente poveri che le sculture stanno<br />
praticamente implodendo. Non voglio definirle spazzatura, ma è<br />
come la roba che vedi qui nello studio. Non è fatta per durare,<br />
non lo è mai stata. Peccato che alla fine del film – considerando<br />
che per farne alcune ci avevo messo due anni – mi dispiaceva<br />
distruggerle. Mi sembrava un gesto un po’ troppo drastico. Che<br />
senso aveva? Allora si sono fatti avanti un paio di musei e hanno<br />
proposto di levarmele di torno. E io ho risposto: hey, perché no?<br />
Deve essere un incubo cercare di conservarle.<br />
Il problema è che, all’epoca non avrei, mai e poi mai, voluto che<br />
fossero esposte. Dovevo fare una mostra al Whitney e i curatori,<br />
siccome ne avevano comprata una, hanno deciso che volevano<br />
inserirle nella mostra. È scoppiato un mezzo litigio. Io pensavo:<br />
no, neanche per sogno, questa non è la mia <strong>art</strong>e. Le sculture<br />
sono fatte per il film, altrimenti non hanno senso. Quelle sculture<br />
si auto-cannibalizzano ed è un’impresa rimetterle in piedi,<br />
praticamente implodono, e per rimetterle in sesto ci vogliono<br />
otto persone per circa tre settimane. Comunque, l’hanno già<br />
fatto due volte; la scultura del soggiorno di Clement Greenberg è<br />
resuscitata a New York.<br />
MOUSSE / PAUL SIETSEMA / PAG. 27<br />
Il fatto è che, al Whitney, volevano esporre le sculture, e siccome<br />
erano di loro proprietà, non mi potevo rifiutare. Le cose erano<br />
due: o cancellavo la mostra, o collaboravo, e se si pensa che era<br />
il 2003 e quella era la mia prima personale in un museo…<br />
Certo, non potevi fare altrimenti.<br />
No, sarebbe stato un disastro. Però l’ordine della mostra è stato<br />
sconvolto. Avrei voluto proiettare il film nello spazio principale<br />
ed esporre le altre cose in qualche altra stanza. Ma loro si erano<br />
fissati con questa visione antropologica del mio lavoro… Il<br />
curatore che si occupava della mia mostra stava organizzando<br />
anche una personale di Robert Smithson e, certo, quando c’è<br />
di mezzo un <strong>art</strong>ista del genere, tutti i lavori si prestano a una<br />
visione antropologica. Lui non è più in circolazione, e quel genere<br />
d’interpretazione semplifica le cose, ecco tutto. Ma, per me, era<br />
la prima mostra in un museo. Pensavo, non mi trattate così, non<br />
trattatemi come se avessi bisogno di un “precedente”. Questa è<br />
la mia prima mostra, magari non interesserà a nessuno. Perché<br />
volete procedere così? Lasciate che l’<strong>art</strong>e parli da sola.<br />
È una questione problematica, come se si potesse esporre un<br />
quaderno di schizzi…<br />
Un <strong>art</strong>ista, al giorno d’oggi, assorbe tanto e produce tanto.<br />
Ma non si tratta più di versare la pittura qua e là come gli<br />
espressionisti astratti. Oramai il consumo sovrabbondante di<br />
cultura e immagini entra nella realizzazione del lavoro tanto<br />
che la direzionalità della produzione si fa sfocata e irrilevante.<br />
Questo fenomeno, nel 2001 e nel 2002, quando ho avviato il<br />
progetto di Figure 3, mi ha portato a riflettere molto sull’oggetto<br />
antropologico. Qualcosa che crei come <strong>art</strong>ista e viene prodotto<br />
in questo senso ma, in un secondo tempo, viene conservato<br />
come p<strong>art</strong>e di una collezione. Il mio modo di confondere le c<strong>art</strong>e<br />
scombussolava lo schema produzione/consumo.<br />
Era un modo per tornare all’anonimo oggetto <strong>art</strong>igianale, non<br />
destinato, come avviene oggi, al consumo di massa?<br />
Sì, era un po’ questo. Mentre giravo Empire, il progetto che ruota<br />
attorno a Greenberg, m’interessava soprattutto lavorare con questi<br />
nomi che tendono a diventare icone, o loghi. In Figure 3 volevo<br />
produrre qualcosa di anti-iconico e anti-capitalistico. Il modello<br />
più congruo, in questo senso, erano le culture prive di un sistema<br />
monetario, le culture in cui i saperi sono uniformemente diffusi<br />
nella popolazione. Così, se hai bisogno di qualcosa, per esempio<br />
di un piatto, sai come farlo, e te lo costruisci da solo. Non esiste<br />
la specializzazione del lavoro, perché non c’è un’economia che la<br />
renda conveniente. Tutti condividono lo stesso insieme di saperi.<br />
Nella forma degli oggetti, il capitalismo non si vede. Il capitalismo<br />
ha portato la forma di tutti i nostri oggetti nei paesi che avevano<br />
quelle culture, tanto che non è più possibile estirparla.<br />
Dietro la sommessa eleganza del tuo lavoro sembra nascondersi<br />
un’astuta critica ai musei come magazzini di oggetti.<br />
Una p<strong>art</strong>e di ciò che sto facendo riguarda la storia dei musei. Mi<br />
ero messo a studiare i primi oggetti raccolti, quando le prime<br />
navi occidentali visitarono le varie isole del Pacifico meridionale.<br />
Avevo trovato libri con i disegni e le fotografie delle prime cose<br />
portate a casa da questi “esploratori”. Per me incarnavano il<br />
simbolo di una cultura apparentemente pura, incontaminata dal<br />
commercio, che poi diventò il capitalismo. Questi oggetti venivano<br />
portati a Londra o Colonia e così via, e venduti a prezzi piuttosto<br />
bassi ai collezionisti che amavano le curiosità esotiche, poi pian<br />
piano avvenne la trasformazione nelle Wunderkammern, in un<br />
secondo tempo aperte al pubblico, e infine nei musei. I musei<br />
sono nati così. Negli oggetti che ho scelto sono presenti anche<br />
queste implicazioni.<br />
Non mi pare, tuttavia, che questi lavori siano<br />
programmaticamente pro- o anti-capitalismo?<br />
No, infatti.<br />
Ma come <strong>art</strong>ista fai comunque delle scelte: perché queste e non<br />
altre?<br />
In Figure 3 non volevo che il rumore del marchio coprisse tutto,<br />
perché era quello che avevo fatto in Empire e dopo che l’ho<br />
fatto io, hanno cominciato a farlo molti altri <strong>art</strong>isti. Elementi<br />
fortemente iconici in strutture concettuali, ormai non si vedevano<br />
che loghi. Quando una cosa diventa così mainstream, di solito mi<br />
spinge a muovermi nella direzione contraria. Per me era un test<br />
su quanto l’<strong>art</strong>e p<strong>art</strong>ecipa al mondo. Quanto conta il marchio?<br />
Quanto conta nel mondo dell’<strong>art</strong>e il fatto che la tua produzione<br />
sia immediatamente riconoscibile, e che differenza c’è con