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contemporary art magazine issue # sixteen december ... - Karyn Olivier

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MOUSSE / JOS DE GRUYTER & HARALD THYS / PAG. 18<br />

THE TEACHES OF THE SPEECHLESS<br />

Jos De Gruyter & Harald Thys’ Radical Silence<br />

_Dieter Roelstraete<br />

Il mondo di silenziosa alienazione del duo belga Jos de Gruyter & Harald Thys riflette i comportamenti socialmente indotti, confrontando<br />

la marginalità di spazi e individui in modo tutt’altro che documentaristico. I loro film, intrisi di humor nero, dipingono inesplicabili<br />

disfunzionalità, individui dai movimenti robotici e spazi utopici ridotti a scenari kafkiani per i “diversi”. Dieter Roelstraete<br />

penetra i tetri scenari di alcuni dei migliori lavori del duo, svelando le distopie contemporanee e i rapporti di potere indagati, allegorie<br />

di un universo non troppo lontano dal nostro…<br />

La coppia di <strong>art</strong>isti di Bruxelles Jos de Gruyter & Harald Thys<br />

(nati rispettivamente nel 1966 e nel 1967) opera ormai da più<br />

di quindici anni, suscitando l’apprezzamento internazionale del<br />

mondo dell’<strong>art</strong>e, eppure, il loro corpus in espansione di film e<br />

video, e le occasionali incursioni nel disegno, nella performance<br />

e nella fotografia, esprimono un gusto troppo alienante per<br />

garantirsi un vasto consenso popolare nel loro nativo Belgio –<br />

paese noto per la sua proverbiale (e istituzionalizzata) tolleranza,<br />

se non vivaio di pazzoidi e outsider, reietti e falliti di ogni risma.<br />

L’inserimento dei loro lavori in collettive di alto profilo come la<br />

Quinta Bienniale di Berlino e Manifesta 7, oltre a una serie di<br />

mostre in gallerie berlinesi e parigine, ha aiutato a puntare i<br />

riflettori sulla loro attività – niente di più meritato, perché il duo<br />

rappresenta, forse, la più preziosa gemma nascosta dell’<strong>art</strong>e<br />

di Bruxelles (e ce ne sono parecchie). Lo scorso autunno, la<br />

proiezione dei loro ultimi tre film – non compongono una trilogia,<br />

ma perdoneremmo lo spettatore inesperto che pensasse il<br />

contrario – in una sala di Baker Street, durante la Frieze Art<br />

Fair, ha offerto una straordinaria esperienza cinematografica: un<br />

tour a trecentosessanta gradi in un universo bizzarro, oscuro e<br />

claustrofobico, spesso inquietante, popolato di sadici meccanici,<br />

maghi dal volto annerito, minacciosi “diversi”, arcigne donne<br />

nell’atto di assumere un’ampia gamma di pose disturbanti (molti<br />

degli attori non professionisti di questi film sono stati reclutati<br />

nelle folte famiglie degli <strong>art</strong>isti) e un intero cast di personaggi<br />

stravaganti che, con i loro movimenti robotici e il loro inflessibile<br />

mutismo, evocano il ricordo del più solido cliché dell’estetica<br />

freudiana, il Perturbante.<br />

Il lavoro di De Gruyter & Thys non ha niente a che fare con il<br />

format del documentario, privilegiato da tanti <strong>art</strong>isti impegnati<br />

nel vasto campo della cronaca sociale e politica, né lascia molto<br />

spazio (in realtà, nessuno – fra poco tornerò su questo fatto<br />

insolito) alle convenzioni narrative che improntano tanta p<strong>art</strong>e<br />

di questo genere di lavoro “sociologico”. Eppure i loro film,<br />

in p<strong>art</strong>icolare Ten Weyngaert, Die Fregatte e Der Schlamm<br />

von Branst, hanno contenuti intensamente, innegabilmente,<br />

“politici”– se non altro per il modo spietato in cui ritraggono le<br />

dinamiche e le condizioni che generano il comportamento sociale.<br />

Nelle parole di Monika Szewczyk, “gli <strong>art</strong>isti cercano modi di<br />

affrontare soggetti marginali, feriti, confusi e alienati senza<br />

definire questi ‘diversi’ in termini sociologici. In questo senso,<br />

e soprattutto grazie al loro uso inedito dell’umorismo macabro,<br />

Thys e de Gruyter ampliano il raggio della rappresentazione dei<br />

comportamenti socialmente indotti”.<br />

Queste rappresentazioni sono invariabilmente tetre, spesso<br />

insopportabilmente prive di eventi, ma sempre, come indica<br />

il riferimento a un umorismo nero e grandguignolesco,<br />

divertenti – in un modo disturbante che finisce per tradire il loro<br />

notevole debito verso la sinistra tradizione underground di un<br />

surrealismo noir tipicamente belga.<br />

Ten Weyngaert – “vigneto” in fiammingo arcaico – prende il<br />

nome da un centro culturale di Vorst, un sobborgo di Bruxelles,<br />

aperto negli ultimi anni ’70, quando un’ondata di utopismo<br />

culturale investì le Fiandre; a trent’anni di distanza, l’utopia<br />

di emancipazione culturale e auto-realizzazione attraverso<br />

l’<strong>art</strong>e ha tristemente ceduto il posto a lezioni di <strong>art</strong>i marziali<br />

per la gioventù disincantata della zona e altri indesiderabili<br />

“diversi” (Jos de Gruyter conosce il luogo da vicino, avendoci<br />

lavorato come proiezionista). Alcune tracce di questo retaggio<br />

progressista – in fin dei conti, il clima culturale in cui sono<br />

maturati gli stessi <strong>art</strong>isti – sono ancora visibili, ma il film è<br />

innanzitutto uno studio dei rapporti orwelliani di potere in<br />

un microcosmo di disorientanti gerarchie piramidali. L’amore<br />

evidente (ma non per questo meno strano) degli <strong>art</strong>isti per i<br />

dettagli dell’estetica pauperistica e burocratica del centro non fa<br />

che rendere più drastica la loro diagnosi cinematografica delle<br />

dinamiche kafkiane di gruppo in quello che, una volta, Theodor<br />

Adorno ha definito il “mondo amministrato”. Eppure, seguendo la<br />

triste spirale regressiva in cui sono rimasti invischiati molti centri<br />

culturali simili al Ten Weyngaert delle origini – dall’utopismo<br />

pseudo-socialista degli anni ’70 alla distopia contemporanea – il<br />

film descrive i capricci della psicologia di gruppo e dei giochi di<br />

ruolo, con effetti di volta in volta caustici e divertenti.<br />

Die Fregatte, forse a tutt’oggi il loro lavoro più importante,<br />

ruota attorno al modellino di una nave nera (la fregata del<br />

titolo) che incarna il centro di una fitta rete di interazioni sociali,<br />

sempre rigorosamente mute – in sintesi, si tratta di un gruppo<br />

di disinvolti maschioni in tenuta da attaccabrighe (uno di loro<br />

sfoggia una ridicola barba finta, un altro riprende nervosamente<br />

la situazione con una videocamera) che girano attorno all’unica<br />

donna seduta su un audace divano; una stridente, lugubre<br />

parodia della famiglia mononucleare intrappolata nei suoi<br />

Jos de Gruyter & Harald Thys, Ten Weyngaert, 2007 - courtesy: Isabella Bortolozzi, Galerie, Berlin Jos de Gruyter & Harald Thys, photos from Der Schlamm von Branst, 2008 - courtesy: Isabella Bortolozzi, Galerie, Berlin<br />

pacchiani interni domestici – altro motivo ricorrente in molti dei<br />

loro lavori. Nel film non c’è alcun movimento reale, e neanche<br />

una parola di dialogo – solo una distorta, incongrua musica da<br />

chiesa suonata da un organo. L’unico dialogo di Ten Weyngaert,<br />

invece, è un monologo, per giunta un monologo interiore: su<br />

un uomo che prova un piacere perverso a tormentare un raro<br />

esemplare di topo saltatore della Siberia dentro alle tasche dei<br />

suoi jeans; a p<strong>art</strong>e ciò, si sentono solo risate sardoniche, qualche<br />

lamento e uno strano sbuffare e ansimare. In poche parole, è<br />

chiaro che l’assenza, l’impossibilità o il rifiuto del linguaggio, gli<br />

“insegnamenti del silenzio”, rappresentano il nucleo dell’intero<br />

progetto <strong>art</strong>istico di De Gruyter & Thys.<br />

In una conferenza che ho tenuto l’anno scorso alla Biennale di<br />

Berlino, in occasione della quale questo lavoro era esposto al<br />

Kunst Werke, ho definito la fregata del film come un lacaniano<br />

objet petit (a) rispetto alla mostra – o almeno alla sede in cui era<br />

collocato: nascosto com’era nel seminterrato del Kunst Werke,<br />

era facile, o perlomeno allettante, considerare il lavoro di De<br />

Gruyter & Thys come il fosco e silenzioso inconscio dell’intera<br />

Biennale, in cui Die Fregatte seminava il suo oggetto del<br />

desiderio sempre perduto, resto o traccia residuale – il nocciolo<br />

duro del Reale che sopravvive, come segreto terribile, sul piano<br />

Simbolico. In altre parole, una Cosa (freudiana, perturbante),<br />

che scaglia il suo sinistro incantesimo di impenetrabile magia sui<br />

soggetti umani, riducendoli di colpo a uno stato di animalesco<br />

silenzio, pilastri di sale e di sabbia...<br />

Le metafore geologiche, infine, sono al centro del loro ultimo<br />

– e più estremo – film, Der Schlamm von Branst (“Schlamm”<br />

significa “argilla” in tedesco, Branst è il nome di un sonnacchioso<br />

villaggio delle Fiandre, sulle rive del fiume Scheldt, famoso<br />

appunto per la produzione dell’argilla), ambientato in un<br />

laboratorio di lavorazione dell’argilla, con un’illuminazione cruda<br />

e un’ambientazione sui toni del marrone. È qui che la dialettica<br />

triangolare di materia inanimata, animazione e “spirito” si<br />

sviluppa nella sua forma più letterale e conflittuale – è l’ironica<br />

versione dell’antica leggenda del Golem secondo De Gruyter &<br />

MOUSSE / JOS DE GRUYTER & HARALD THYS / PAG. 19<br />

Thys, il loro modo tagliente di raccontare per l’ennesima volta<br />

la classica storia di Frankenstein, dove il laboratorio funge da<br />

crudele metafora del laboratorio di ingegneria sociale. Bambole<br />

vudù vengono infilzate, l’umanoide testa di argilla di una divinità<br />

(con gli occhi fissi su un cielo invisibile) venerata, langue e parole<br />

rimpiazzate da brontolii e farfugliamenti, suoni animaleschi.<br />

Nel bel mezzo di questa sconcertante rappresentazione della<br />

condizione umana come caso di Selbstsozialplastik – cosa ne<br />

avrebbe detto Beuys? – ci viene offerto uno scorcio fugace<br />

su un irraggiungibile mondo esterno, i veri argini del fiume di<br />

Branst, i suoi alberi frondosi che ondeggiano sopra lo Scheldt.<br />

A detta loro, l’eterea, fantascientifica musica che accompagna<br />

questa improvvisa affermazione dell’esistenza di un mondo<br />

esterno è stata tratta da un film amatoriale dei primi anni ’80 che<br />

celebrava le virtù dell’oggi defunta Senator, linea di limousine<br />

per la classe media della Opel. È importante aggiungere qui che<br />

le automobili sono una grande passione per entrambi gli <strong>art</strong>isti –<br />

probabilmente il punto in cui l’Uomo si è più avvicinato a esaudire<br />

il sogno di realizzare il proprio Golem, e la cultura dell’automobile<br />

dovrebbe rappresentare il nucleo del prossimo film della coppia...<br />

Dal 2003, lavoro come curatore al Museo di <strong>art</strong>e contemporanea<br />

di Anversa MuHKA, che nella primavera del 2007 ha avuto la<br />

fortuna di ospitare la prima di Ten Weyngaert di Jos de Gruyter<br />

& Harald Thys, primo lieto fine di un rapporto di lavoro di vecchia<br />

data. Tuttavia, per una serie di ragioni, installare il lavoro – il<br />

film era accompagnato da una suite di 23 foto in bianco e nero –<br />

si è dimostrato più difficile del previsto per il personale stanco<br />

(ma a volte anche semplicemente incurante) del museo, e più si<br />

trascinava questo lancinante, frustrante processo, più sentivo<br />

che il museo iniziava ad assomigliare, anche visivamente, al<br />

centro culturale di Bruxelles da cui il film aveva preso il nome<br />

(la cosa, naturalmente, mi è stata fatta notare dagli stessi<br />

<strong>art</strong>isti). Forse è stata quella la prima volta in cui mi sono trovato<br />

di fronte all’allarmante possibilità di leggere i parodisti sketch<br />

sociologici di De Gruyter & Thys come specchi allegorici del<br />

mondo che io stesso consideravo la mia casa – infatti, il mondo<br />

dell’<strong>art</strong>e (la “casa” in questione) non è diverso da qualsiasi altro<br />

settore e anfratto dello Zoo Umano. Jos de Gruyter & Harald<br />

Thys sono allo stesso tempo i suoi più spietati osservatori e i<br />

suoi visitatori più attenti e compassionevoli.<br />

The world of silent alienation of Belgian<br />

duo Jos de Gruyter & Harald Thys reflects<br />

socially-induced behaviour, investigating<br />

the marginality of spaces and individuals<br />

in a way that is anything but documentary.<br />

Full of black humour, their films depict<br />

inexplicable disfunctionalities, individuals<br />

making robotic gestures, and utopian spaces<br />

reduced to Kafkaesque settings for<br />

“outsiders”. Dieter Roelstraete delves into<br />

the bleak landscapes of some of their best<br />

pieces, revealing the power dynamics and<br />

<strong>contemporary</strong> dystopias they explore, allegories<br />

of a universe not far from our own...<br />

For more than fifteen years now, Brussels-based <strong>art</strong>ist duo Jos<br />

de Gruyter & Harald Thys (born in 1966 and 1967 respectively)<br />

have operated, by and large, under the radar of international<br />

<strong>art</strong> world recognition, their expanding body of film and video<br />

work, and occasional forays into drawing, performance and<br />

photography, long deemed too acquired and alienating a taste<br />

to secure much popular enthusiasm even in their native Belgium<br />

– a country well-known for its proverbial (and institutionalized)<br />

tolerance, cultivation even, of the crackpot and the leftfield,<br />

the oddball and the underdog. The inclusion of their work in<br />

high-profile group shows such as the Fifth Berlin Biennial<br />

and Manifesta 7, however, along with gallery shows in Berlin<br />

and Paris, has done much to manoeuver their work into the<br />

spotlight – and deservedly so, for what is probably still Brussels’<br />

best-kept <strong>art</strong> secret (and there are quite a few). A screening<br />

of their three last films – no trilogy, but any uninitiated viewer<br />

would be forgiven to assume otherwise – in a Baker Street<br />

cinema during Frieze Art Fair last fall afforded a unique viewing<br />

experience: a comprehensive tour of a weird, often troublingly<br />

dark, claustrophobic universe peopled by sadistic car mechanics,

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