contemporary art magazine issue # sixteen december ... - Karyn Olivier
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MOUSSE / LOS ANGELES-MILANO / PAG. 116<br />
The Legend of Anthony Burdin<br />
Los Angeles_ Andrew Berardini<br />
Andrew Berardini ci conduce in una selvaggia cavalcata lungo le tappe salienti del mito<br />
di Anthony Burdin, una disamina pungente della leggenda dell’<strong>art</strong>ista di frontiera, emblema<br />
di una presunta autenticità che attrae e – forse – illude il mondo sofisticato e<br />
autoreferenziale dell’<strong>art</strong>e contemporanea. Rocker fallito, cowboy psichedelico, nomade<br />
che, a bordo della sua Chevy Nova, scorrazza per i deserti californiani, ribelle che<br />
riempie con le sue insubordinazioni le cronache dei tabloid dell’<strong>art</strong>e… Chi è veramente<br />
Anthony Burdin? Berardini compone alcune ipotesi sullo sfondo storiografico dei miti<br />
modernisti.<br />
Le leggende, quelle vere, piacciono a tutti. Circondati come siamo<br />
da impostori o supposti tali (reali per gli schizoidi che dominano<br />
il consumo culturale), una volta ogni tanto sentiamo di trovarci<br />
di fronte a qualcosa di “vero”. La cultura e il folklore americano<br />
traboccano di esempi di questo fenomeno (vedi la recente vittoria<br />
di Barack Obama, e la sua campagna elettorale incentrata su<br />
bontà e speranza), ma forse a rendere così dolce il gusto della<br />
leggenda è semplicemente la buona vecchia disumanità globale<br />
della produzione di massa e gli ignobili venditori di fumo della<br />
cultura. Tra gli executive delle etichette discografiche che<br />
contrabbandano cloni e paccottiglia e i mercanti d’<strong>art</strong>e che<br />
spacciano per “nuovi maestri” qualche pop star o disegnatore<br />
di giocattoli, i ciarlatani pullulano da Tokyo a Mosca a Rio, ma<br />
sembra che sia stata l’America, con la sovrapproduzione ed<br />
esportazione di cultura che l’ha caratterizzata nel ventesimo<br />
secolo, a fare della truffa culturale un’<strong>art</strong>e.<br />
Detto questo, chi non sente il bisogno di una nuova leggenda? Un<br />
mito d’oggi, qualcosa, qualcuno, capace di sbucare dalle tenebre,<br />
dal fuoricampo, dal nulla – un buio profondo o un orizzonte al<br />
tramonto – cogliendoci di sorpresa, con la sua sconvolgente<br />
realtà. Il briccone tanto amato dalla cultura americana, da Jesse<br />
James agli Hell’s Angels ai punk newyorchesi, è stato a tal<br />
punto mercificato dai suddetti ciarlatani che, senza scherzi, sta<br />
diventando quasi cool rigare dritto (vedi la K Records di Calvin<br />
Johnson in musica, o la casa editrice McSweeney’s in letteratura:<br />
due esempi di fricchettoni, ligi al dovere e garbatamente<br />
abbigliati, che oggi plasmano la nostra cultura). Nel mondo<br />
dell’<strong>art</strong>e, stiamo ancora aspettando un eroe, un genio romantico<br />
e imprevedibile che lasci con un palmo di naso chiunque cerchi<br />
di guadagnarci sopra, pur senza pregiudicare l’ascesa del suo<br />
mito alla stratosfera. Dal giorno in cui Jackson Pollock, sbronzo<br />
e depresso, si è schiantato contro un albero e da quando l’intera<br />
trinità di titani dell’auto-promozione – Dalì, Picasso e Warhol – si<br />
trova a mangiar polvere, siamo rimasti a corto di eroi. Basquiat<br />
era un tentativo plausibile, ma a quei tempi le cose cominciavano<br />
ad andare in pezzi, e i candidati scesi in campo, da allora, non<br />
sono stati all’altezza.<br />
L’accademia, insieme al dispettoso babalù del mercato, è<br />
Anthony Burdin, KDOP Satellite Studio, Q.H.H.Q, 2006 - courtesy: the <strong>art</strong>ist and Maccarone Gallery, New York<br />
riuscita con mirabile efficacia a spuntare le armi degli aspiranti<br />
eroi. A Los Angeles, per più di una generazione, abbiamo<br />
avuto un’avanguardia di professione: scuole e facoltà d’<strong>art</strong>e<br />
macinavano sperimentazione, quanto le vecchie accademie<br />
europee bandivano la pittura di paesaggio, riversando il tutto<br />
nelle mani tese dei commercianti. Non voglio compiangere<br />
l’avanguardia, ovunque si trovi, viva o morta, pompata di<br />
conservanti per essere sezionata nelle scuole d’<strong>art</strong>e, o acquattata<br />
nell’underground come ai tempi di gloria. Più che altro,<br />
m’interessa la specifica reazione a una nuova leggenda (che poi<br />
ci si creda o no) quando raggiunge la soglia della consapevolezza<br />
culturale. L’<strong>art</strong>ista Anthony Burdin, probabilmente senza averci<br />
mai provato, è diventato carne da leggenda.<br />
Anthony Burdin: mitologico eroe occidentale, sfuggente<br />
visionario, cowboy psichedelico, musicista, pellegrino nel<br />
deserto; o anche, per i suoi detrattori, rocker fallito emerso<br />
da una comoda casa nei sobborghi, con un incerto talento, un<br />
megalomane signor nessuno con un approccio furbacchione,<br />
falso quanto qualsiasi cosa si dichiari reale, come la celeberrima<br />
affermazione di un imbonitore delle televendite notturne:<br />
“un autentico zircone”. Se pure ha sviluppato un culto della<br />
personalità, l’<strong>art</strong>e di Burdin fatica a stare al passo con l’ego<br />
dell’<strong>art</strong>ista. Ma se essere un cialtrone arrogante fosse reato,<br />
la Biennale di Whitney dell’anno scorso si sarebbe svolta<br />
nelle catacombe, e la cosa, comunque, non è sinonimo di <strong>art</strong>e<br />
scadente. Sentir parlare dell’ego di Burdin (perché non ho ancora<br />
avuto esperienze di prima mano), mi ha fatto sentire come la<br />
volta in cui lo studio di James Turrell cercò di spillarmi qualche<br />
migliaio di dollari per usare una fotografia. Anche se nutro ben<br />
poche illusioni sull’industria dell’<strong>art</strong>e, ogni tanto mi capita ancora<br />
di sentirmi moralmente offeso. Ma insistiamo ancora un po’ sul<br />
mito.<br />
Anche se nel 1896 il governo statunitense ha dichiarato chiusa<br />
la frontiera del West, non sembra che la notizia sia mai giunta<br />
a Anthony Burdin. Pur essendosi ufficialmente diplomato al<br />
California Institute of Arts, una delle scuole che, un tempo,<br />
proteggevano l’avanguardia (prima di iniziare a fossilizzarla),<br />
sembra che lui, per quanto si faccia sfruttare dal mondo<br />
dell’<strong>art</strong>e, lo sfrutti a sua volta. Con questo non voglio dire che<br />
Burdin, per vie traverse, si stia facendo solo una scampagnata<br />
nell’<strong>art</strong>e contemporanea, ma che i pazzi e i visionari non sanno<br />
che farsene di una rete distributiva con le sue ciarlatanerie e<br />
politiche interne, sempre se concordiamo nel dare del pazzo o del<br />
visionario a Burdin.<br />
È quasi impossibile parlare di quest’<strong>art</strong>ista, senza parlare<br />
dell’aura leggendaria che lo avvolge. E, in questo caso, la<br />
leggenda non è stata promossa dal mondo dell’<strong>art</strong>e, dai suoi<br />
portavoce e dai suoi organi (come questa rivista) sebbene anche<br />
loro se ne siano occupati e, in un’occasione, persino una rivista<br />
destinata al grande pubblico. No, questa leggenda si è propagata<br />
come tutte le vere leggende, attraverso il passaparola. Non<br />
ricordo chi fu il primo a parlarmi di Anthony Burdin ma, in quel<br />
periodo, Michele Maccarone, la sua agente, batteva Los Angeles<br />
come un tornado, trascinando qualsiasi cosa trovasse sulla<br />
sua strada. Si cominciò a parlare di Burdin, giravano aneddoti,<br />
storielle estemporanee: tutte invariabilmente paradossali,<br />
stravaganti e piene di fascino. L’<strong>art</strong>ista nomade che viveva sulla<br />
sua Chevy Nova del ‘70, e quando la sua Nova era stata esposta<br />
in una mostra, la gallerista gli aveva prestato una Prius nera,<br />
per poi trovare sul sedile posteriore le ulcere esplose del cane<br />
malato di cancro dell’<strong>art</strong>ista. E il fatto che girasse sempre con<br />
l’auto perché si rifiutava di volare (e di farsi fotografare, se è<br />
per questo). Un’altra storia parlava di un mucchio di disegni del<br />
valore di migliaia di dollari al pezzo volati fuori dal finestrino,<br />
mentre andava a consegnarli: se ne salvarono solo due su<br />
qualche dozzina, entrambi con l’impronta di una suola. Il fatto<br />
che continua a vivere nella sua auto, o in una baracca in mezzo<br />
al deserto, le voci su una carriera fallita nella musica, per cui<br />
Burdin trascorse gli anni ’80 a strimpellare senza successo tra<br />
la lacca e l’heavy metal della scena rock di LA. C’è anche un’altra<br />
storia, verificabile come buona p<strong>art</strong>e delle altre, sul famigerato<br />
incidente alla Frieze Art Fair (mirabilmente descritto da Jack<br />
Bankowsky nell’<strong>art</strong>icolo “Tent Community: On Art Fair Art” uscito<br />
su Artforum nell’ottobre del 2005) dove Burdin, improvvisando<br />
un concerto nello stand della sua gallerista, suonò a volume così<br />
alto da provocare una bagarre e suscitare l’inevitabile clamore<br />
in tutta la fiera, un colpo da genio del marketing suscettibile<br />
di lanciare la reputazione di un <strong>art</strong>ista. È come se avessero<br />
sparato a Chris Burden di fronte a tutta la cricca internazionale<br />
di collezionisti, galleristi e curatori museali, invece che a una<br />
manciata di studenti dell’UCI a Santa Ana. La classica ragazzata<br />
Anthony Burdin, Voodoo Room, Oslo, 2005 - courtesy: the <strong>art</strong>ist and Maccarone Gallery, New York, photo: Fin Serck-Hanssen<br />
che in men che non si dica arriva a tutte le orecchie, per finire,<br />
con ottime probabilità, su The Art Newspaper o il Wrong Times,<br />
e magari anche sulla famigerata e lettissima rubrica di Artforum.<br />
com chiamata “Scene & Herd” (per cui in qualche occasione mi è<br />
capitato di scrivere). Le storie pullulavano: chi era quel tizio? Un<br />
pazzo, un ciarlatano o un genio, o tutte le tre cose insieme?<br />
Prima di scavare nel mito, fermiamoci un attimo a parlare del<br />
suo lavoro, ammesso che le due cose siano separabili. Come<br />
possiamo classificare il personaggio? I video di Burdin al volante<br />
della Chevy Nova che canta classici rock, accompagnato dalla<br />
radio, imitando varie voci e vari personaggi, la ripresa malferma,<br />
solitamente in soggettiva, con un ciuffo dei suoi capelli a tagliare<br />
l’inquadratura. Un altro video mostra Burdin nell’atto di strisciare<br />
in quella che sembra una caverna, imprecando, spingendo un<br />
corvo morto, fino a emergere da un condotto in mezzo al deserto,<br />
in preda al delirio. In un altro, Burdin è seduto in un parcheggio,<br />
ascolta i Led Zeppelin a un volume da spaccare i timpani e canta<br />
insieme a Plant, in un caotico impasto di suoni. Baracche di ogni<br />
genere costruite in musei, gallerie e stand delle fiere, a volte<br />
circondate dal filo spinato. Per molti versi i suoi lavori sono i<br />
detriti e la traccia dell’<strong>art</strong>ista, e questo ci riporta al punto di<br />
p<strong>art</strong>enza, all’uomo, al mito, alla leggenda.<br />
Molti <strong>art</strong>isti ne parlano come di un sedicente rocker, e nelle poche<br />
interviste esistenti, lui stesso si descrive come un musicista, che<br />
sfrutta il mondo dell’<strong>art</strong>e solo per sfondare in campo musicale.<br />
Forse questo suo lato naif è un altro aspetto della leggenda, a<br />
sentire Ralph Rugoff o Matthew Higgs su LA Times o Artforum.<br />
com, è sempre la stessa musica, tutto ci riporta alle parole di<br />
Higgs secondo il quale Burdin è “uno degli <strong>art</strong>isti indipendenti più<br />
interessanti al mondo – con quel suo lavoro così cupo e gotico,<br />
benché nasca sotto i limpidi cieli azzurri della California” (New<br />
York Magazine, febbraio 2006).<br />
In qualsiasi modo si voglia interpretare il mito di Anthony Burdin,<br />
genio o ciarlatano, le stesse argomentazioni valgono per tutta<br />
una serie di personaggi tipici del West. Direi anzi che ne fanno<br />
p<strong>art</strong>e integrante, che tutti si riassumono in lui. Anche se è da<br />
dimostrare che qualcuno possa toccare i vertici dell’ultima<br />
generazione di eroi genialoidi, pazzi e abili venditori di se<br />
stessi del circo dell’<strong>art</strong>e, Burdin sembra comunque destinato a<br />
diventare una di quelle divinità minori, squisitamente apocrife.<br />
Un po’ eroe <strong>art</strong>istico, come quelli della seconda metà del secolo<br />
scorso, un po’ uno sgangherato Paul Bunyan o un Pecos Bill<br />
intento a combattere con una nuova schiera di miti. Boscaioli,<br />
pistoleri e modernisti sovrappensiero non sono la tendenza del<br />
ventunesimo secolo e, con un mainstream frammentato come<br />
quello attuale, nessuno eguaglierà mai la grandezza di Warhol o<br />
Picasso. Però, tra i fabbricanti d’<strong>art</strong>e, abbiamo un nuovo genere<br />
d’eroe del West (forse addirittura un anti-eroe): una canaglia<br />
del deserto e rocker fallito, che solca dilaganti sobborghi e<br />
paesaggi in via di estinzione con la sua Chevy Nova, la sua fama<br />
compromessa quanto il paesaggio, la sua leggenda appannata, la<br />
sua pazzia la nostra pazzia.<br />
MOUSSE / LOS ANGELES-MILANO / PAG. 117<br />
Andrew Berardini takes us on a wild ride<br />
through the milestones of Anthony Burdin’s<br />
mythos, in a keen examination of<br />
the legend surrounding this frontier <strong>art</strong>ist,<br />
the symbol of a seeming authenticity<br />
that attracts and perhaps deceives the<br />
sophisticated, self-referential world of<br />
<strong>contemporary</strong> <strong>art</strong>. A failed rocker, a psychedelic<br />
cowboy, a nomad who rambles<br />
through the California desert in his Chevy<br />
Nova, a rebel who fills the <strong>art</strong> tabloids<br />
with his acts of insubordination... Who is<br />
Anthony Burdin? Berardini presents a few<br />
theories about the historical background<br />
of modernist myths.<br />
We all love a good legend. Surrounded by phonies or perceived<br />
phonies (just as real to the paranoics that pervades cultural<br />
consumption), once in while we feel like something “real” comes<br />
along. Though there are sundry examples of this in American<br />
culture and folklore, (the recent election of Barack Obama with<br />
a campaign engine running on earnestness and hope makes<br />
for a nice example) but perhaps it’s just good old-fashioned<br />
international inhumanity of mass production and the dastardly<br />
snake oil salesmen of culture that make legend taste so<br />
satisfying. Whether record execs pushing fakery and frippery as<br />
the real deal and <strong>art</strong> dealers pushing pop stars and toy designers<br />
as “new masters”, these bastards can be found from Tokyo to<br />
Moscow to Rio, but it feels like America with its super-production<br />
and exportation of culture in the twentieth century really made<br />
the culture-con an <strong>art</strong>.<br />
All that said, we all love a good legend. A modern myth,<br />
something, someone, riding out of the shadows, from left field,<br />
from out of nowhere, a dark shadow o a twilight horizon, and<br />
blindsiding us with how painfully real they are. The outlaw so<br />
popular in American culture from the Jesse James to the Hell’s<br />
Angels to NY punks has been so thoroughly commodified by<br />
the aforementioned bastards that it’s almost, no joke, hip to<br />
be square (see Calvin Johnson’s K Records in music or the<br />
McSweeney’s publishing house in literature for examples of<br />
law-abiding hipsters in polite cardigans crafting culture). In the<br />
<strong>art</strong> world, we still yearn for a hero, a messy, brooding genius who<br />
spurns everyone trying to cash in on him, but never so much as to<br />
not lift their own myth into the stratosphere. Ever since Jackson<br />
Pollock moodily and drunkenly drove himself into a tree and the<br />
titanic trio of master self-promoters: Dalì, Picasso, and Warhol,<br />
all bit the dust, we’ve been at a loss for a hero. Basquiat was a<br />
decent attempt, but things had fallen ap<strong>art</strong> by then, and all of the<br />
candidates fielded since haven’t cut the mustard.