contemporary art magazine issue # sixteen december ... - Karyn Olivier

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MOUSSE / NEW YORK-MILANO / PAG. 112 The Dark Side of the Moon New York_ Cecilia Alemani Artista newyorchese, classe 1975, Lisa Oppenheim si è imposta all’attenzione internazionale grazie a un linguaggio originale che attraversa criticamente l’eredità della fotografia concettuale, intrecciandola con tematiche profondamente politiche, mai così attuali come nell’era Obama. I suoi lavori filmici e fotografici ripercorrono la storia degli Stati Uniti, dalle immagini del mito americano anni Trenta, scattate da Walker Evans, all’allunaggio del 1969, fino alle fotografie della guerra in Iraq. Cecilia Alemani l’ha intervistata durante la preparazione del suo prossimo progetto che sarà presentato ad Art Basel Miami Beach con Harris Lieberman. Sei una delle poche artiste che conosca che sono nate a New York. Che effetto fa essere una newyorkese verace? Come è stato crescere nella metropoli? Mi rende difficile vivere altrove. Credo che sia fantastico vivere a New York, ma ovviamente non ho un’esperienza alternativa cui riferirmi. Sono cresciuta nel centro di Manhattan, da bambina molti degli amici dei miei genitori erano artisti, e mi sembrava una cosa normale. Credo di non aver conosciuto nemmeno un adulto che fosse un avvocato o un uomo d’affari, praticamente erano tutti o accademici o strizzacervelli o in qualche modo implicati con l’arte. In questo modo, sono stata fortunata a essere circondata da esempi di come si potesse vivere da artisti e non ho dovuto affrontare la resistenza della mia famiglia o di una comunità più ampia. Parliamo della tua formazione artistica: che cosa ti ha portato ad avvicinarti all’arte. Che cosa hai studiato? Non ho frequentato una scuola d’arte; sono andata alla Brown University pensando di diventare una poetessa. Ma, onestamente, non riuscivo a vivere isolata tanto quanto era necessario per scrivere con regolarità. Ho cominciato a frequentare lezioni al dipartimento di media sperimentali e teoria critica alla Brown, dal nome adeguato di Cultura e Media Moderni. Ho incontrato un’ampia comunità attraverso questo programma, e trovato che fosse molto più divertente leggere, girare film e fare arte con gente eccentrica e vivere in un vecchio magazzino, piuttosto che chiudermi a chiave in soffitta, tentando di scrivere. In ogni caso i miei scritti sono sempre stati molti visuali, così non si è trattato di un grande cambiamento. Mi sono auto-impartita le nozioni tecniche per ciò che stavo facendo, credo che questo sia il motivo per cui ho sempre mantenuto una certa estetica frammentata. Mi sembra che uno dei tuoi principali campi d’azione sia quello dell’eredità della fotografia concettuale. Puoi parlarci della tua relazione con il medium fotografico e con il suo stato fisico? Credo che il modo in cui mi sono avvicinata alla fotografia sia all’opposto delle esperienze di molti artisti che ci lavorano e con le immagini in movimento. Sono arrivata alla fotografia attraverso il cinema sperimentale, piuttosto che il contrario. La mia preparazione è stata veramente filmica e sono sempre stata particolarmente interessata ai film strutturalisti degli anni Sessanta e Settanta. Artisti come Michael Snow, Paul Sharits e, ancora maggiormente, Hollis Frampton, hanno influenzato molte mie riflessioni su film e fotografia. Dopo l’università, ho lavorato per un po’ per Martha Rosler. Sono stata, quindi, molto coinvolta sia nelle sua pratica sia dal suo archivio. Questa è stata la mia introduzione alla fotografia concettuale. Credo che la convergenza di lavori come quelli, per esempio, di Holly Frampton e Martha Rosler abbia avuto molta rilevanza per le cose che stavo elaborando per il mio lavoro, come la relazione fra il discorsivo e il visivo, e le strutture artistiche che rappresentano strutture sociali. E, certamente, il modo in cui il significato si produce attraverso le particolarità dei diversi media. C’è un innegabile impulso all’archiviazione nel tuo lavoro, visibile in serie come “Upside-down Portrait” (2005) o “Damaged” (2003-2006). Spesso ti appropri di materiali d’archivio pubblici o web. Sei affascinata dalla storia o trovi semplicemente il passato più interessante del presente? Come scegli il materiale d’archivio con cui lavorare? Sono sempre stata affascinata dal modo in cui le fotografie non sono semplicemente la rappresentazione di un particolare momento nel tempo, ma anche la registrazione del trascorrere del tempo. Nella serie “Damaged”, per esempio, ho stampato solo le parti chiare di un negativo su lastra di vetro, perché l’emulsione si era disintegrata. Le immagini da questi negativi sono diventate la registrazione del decadimento che era avvenuto negli anni, da quando la foto era stata scattata. Questo cambiamento nel tempo indica come la fotografia, al pari del film, sia un medium basato sul tempo. Sono interessata a lavorare con immagini storiche che possono essere ri-posizionate o riviste nel presente. Le immagini danneggiate esercitano una particolare attrazione su di me, perché le imperfezioni evidenti permettono un’interruzione nel piano visivo della fotografia, un’opportunità attraverso cui è possibile esplorare qualcos’altro. Lisa Oppenheim, Apricot, II, 2007-2008 - courtesy: Harris Lieberman, New York and Galerie Juliette Jongma, Amsterdam A chi appartengono le immagini? A Internet. Sebbene a volte le immagini che presenti siano difficili da identificare, fornisci sempre al lettore una chiave di decifrazione – il titolo. Non feticizzo l’oscurità. Per me, è importante che ci sia qualcosa che lo spettatore possa cogliere. M’interessano anche le astrazione accidentali, come, cioè, qualcosa possa finire per sembrare astratto, attraverso una serie di procedimenti o dispositivi, piuttosto che come risultato di un desiderio espressivo dell’artista. Nella mia recente doppia proiezione in 16 mm, No Closer to the Source (July 20, 1969), le immagini della Terra e della Luna, scattate la sera del primo sbarco lunare, diventano sempre più erose attraverso la fotocopiatura di ciascuna a una dimensione del 101%. Le immagini si deteriorano lentamente e si spostano fuori della pagina. Le imperfezioni della fotocopiatura conducono a una certa astrazione. Poiché questi esperimenti possono talvolta spingersi abbastanza lontano dal materiale originario, preferisco trovare modi di avere controllo sul lavoro così che sia leggibile come qualcosa d’altro rispetto a una pura astrazione. In No Closer to the Source (July 20, 1969), l’evento è chiamato in causa dalla data. Ci puoi raccontare la genesi di Killed Negatives (2002-2006)? Ciò che trovo molto affascinante in quel lavoro è l’accuratezza quasi ossessiva con cui procedi. L’idea di questo progetto mi è venuta sfogliando il New Yorker. Alcune immagini di Walker Evans che avevano delle perforazioni hanno attirato la mia attenzione. Il danno serve a destabilizzare l’immagine rompendo la sua prospettiva. Stavo leggendo Roland Barthes ed ero molto interessata alla sua idea di “punctum”: queste erano immagini fisicamente forate. I buchi erano stati fatti nei negativi dal direttore di Walker Evans, Roy Striker, per impedire che le immagini fossero stampate, visto che le considerava imperfette. Lo spazio negativo prodotto dai fori è diventato per me uno spazio generativo attraverso cui guardare a un altro tempo e spazio, quello in cui le immagini sono viste, il presente. Questo spazio apre la possibilità di qualcosa di più di una relazione univoca col passato e permette una varietà di letture delle immagini. Quanto è importante nel tuo lavoro l’uso di tecnologie obsolete come le proiezioni in 16 mm? Fra i giovani artisti, l’uso di tali tecnologie è legato a un senso di nostalgia – il suono prodotto dai vecchi proiettori, il click del carosello delle diapositive – mentre potresti adottare strumenti digitali più recenti. A essere onesta, credo di essere una delle ultime della mia generazione artistica ad aver di fatto esordito con le tecnologie filmiche. Non ho mai veramente lavorato col video o qualcosa di digitale. Ho sempre girato in 16 mm e ho stampato le mie foto in una camera oscura tradizionale. Trovo che col video ci siano troppe opzioni, ho sempre avuto troppo girato senza sapere cosa farne. Il costo della pellicola mi ha reso più attenta e precisa. Tanto per cominciare, credo di essere un’aficionada che non ha mai compiuto il passaggio alle tecnologie digitali. Anche per le immagini che trovo su Internet, quasi sempre le trasformo in una qualche forma analogica con cui mi sento più a mio agio. Anche se, a questo punto, sono diventate più comuni, credo ancora che ci sia qualcosa di molto speciale nel proiettare un film o delle diapositive in una galleria. La proiezione digitale è il metodo standard di presentazione dei media basati sul tempo, forme di presentazione così differenti e antiquate sono un po’ stridenti per lo spettatore. Credo che sia una qualcosa di produttivo. L’ingombrante presenza dell’apparato pone attenzione al processo di realizzazione e al materiale del lavoro. I film e le diapositive si graffiano e scoloriscono nel corso della mostra, cambiando l’aspetto del lavoro in un modo inevitabile e incontrollabile. Tutto viene marchiato dalle devastazioni del tempo. Questo rende lavorare con media basati sul tempo paurosamente umano. Un altro aspetto cruciale del tuo lavoro sembra essere il rapporto fra il linguaggio e la sua rappresentazione grafica. Penso a Story Study Print (2005), due proiezioni in 16 mm che mostrano da un lato tutte le lettere che compongono l’alfabeto e dall’altro la loro rappresentazione visiva. Ma qualcosa è poco familiare perché non vediamo gli allegri abbinamenti che siamo abituati a trovare nelle scuole, come M per “mela” e Z per “zebra”, ma piuttosto associazioni militanti come A per “afro”, M per “marcia”, o R per “rivoluzione”. Puoi parlarci di questo lavoro? Mi sono sempre interessati gli strumenti pedagogici, il modo in cui i bambini non sono solo educati a leggere e scrivere, ma imparano anche un certo tipo di consapevolezza politica. Ho lavorato molto anche con i nomi delle matite Crayola in modo analogo. Da bambina, ho frequentato una scuola progressista, dove le tematiche di giustizia sociale e i diritti umani venivano impartiti oltre alla lettura, alla scrittura e all’aritmetica. Ho anche frequentato campi estivi socialisti che enfatizzavano simili questioni e scienze politiche. So che tutto questo suona come un presente anni Settanta e utopista, ma credo di essere stata profondamente influenzata da queste esperienze e sto ancora lavorando sulla loro scia nella mia pratica artistica. Ho cominciato a leggere di altre scuole progressiste e ho incontrato strumenti didattici comuni a molte di esse. Le carte alfabetiche, per esempio, venivano utilizzate in modi non tradizionali per riflettere le esperienze di comunità differenti. In Story Study Print, ho utilizzato una combinazione di carte alfabetiche di differenti comunità, nel tentativo di riflettere una pluralità di posizioni. Un set era chiamato “L’ABC Nero” e un altro proveniva da una scuola diretta dalla Coalizione dei Lavoratori di Syracuse. Ho filmato la rappresentazione visuale dei testi da queste carte, come M sta per “marcia”. Devo aggiungere che, quando espongo questo lavoro, mostro i testi su un proiettore 16 mm e le immagini corrispondenti su un altro. I due proiettori non sono sincronizzati così le combinazioni di testo e immagine cambiano e diviene un po’ un gioco di memoria dedurre quale testo si accompagni a quale immagine. Questo spero permetta anche ai visitatori di partecipare nella produzione del significato del lavoro. Le associazioni fra le due proiezioni sono, in qualche modo, casuali, o prodotte dallo spettatore che ricorda la “corretta” associazione. Un simile senso di spiazzamento è visibile anche in The Sun is always Setting Somewhere Else. Quando ho prodotto quel lavoro mi ero appena ri-trasferita negli Stati Uniti dopo due anni e mezzo in Europa. Ero scioccata di come Lisa Oppenheim, Story, Study, Print, 2005 - courtesy: Galerie Juliètte Jongma, Amsterdam la guerra in Iraq fosse ritratta in maniera così diversa dai media europei rispetto a quelli americani ed ero frustrata da come le immagini di guerra fossero state sterilizzate per il consumo negli Stati Uniti. Mentre mi aggiravo per i siti che condividono le foto su Internet, ho trovato che c’erano molte immagini di tramonti scattate da soldati americani in Iraq o in Afghanistan. Ho pensato a queste immagini come a un tipo di cartolina, qualcosa per le persone a casa per far sapere loro che stavano bene. Ero molto toccata da queste immagini e volevo farne qualcosa. I cliché visivi dei tramonti nelle cartoline dei soldati servono a dislocare rappresentazioni di violenza. Quindi ho pensato che avrebbe avuto senso usarle per commentare il fatto che la violenza fosse in qualche modo tralasciata dai media che informavano sulla guerra. Ho prodotto questo lavoro organizzando un gruppo di queste immagini a seconda della posizione del sole sull’orizzonte, reggendole davanti al sole calante e fotografando questo gesto nel corso di un intero tramonto. Mi puoi parlare dei tuoi progetti futuri? Questo è l’ultimo anno che Polaroid produce pellicola per istantanee e volevo fare un progetto che si riferisse a questa perdita. Ho appena finito una serie fotografica dove documento la comparsa delle immagini Polaroid, nello stesso tempo documentando la morte del mezzo. Le mie fonti per il progetto sono i colori da un set di matite Crayola prodotte dopo l’11 settembre chiamate “Colori Patriottici”. Ho fatto Polaroid di colori con nomi come “Terra della Libertà”, “dall’Atlantico al Pacifico” e “Miniera della Virginia Ovest” e poi ho ri-fotografato le Polaroid a venti secondi d’intervallo, mentre i colori si formavano. Quello che era più interessante era MOUSSE / NEW YORK-MILANO / PAG. 113

MOUSSE / NEW YORK-MILANO / PAG. 112<br />

The Dark Side of the Moon<br />

New York_ Cecilia Alemani<br />

Artista newyorchese, classe 1975, Lisa Oppenheim si è imposta all’attenzione internazionale grazie a un linguaggio originale che attraversa<br />

criticamente l’eredità della fotografia concettuale, intrecciandola con tematiche profondamente politiche, mai così attuali<br />

come nell’era Obama. I suoi lavori filmici e fotografici ripercorrono la storia degli Stati Uniti, dalle immagini del mito americano anni<br />

Trenta, scattate da Walker Evans, all’allunaggio del 1969, fino alle fotografie della guerra in Iraq. Cecilia Alemani l’ha intervistata<br />

durante la preparazione del suo prossimo progetto che sarà presentato ad Art Basel Miami Beach con Harris Lieberman.<br />

Sei una delle poche <strong>art</strong>iste che conosca che sono nate a New<br />

York. Che effetto fa essere una newyorkese verace? Come è stato<br />

crescere nella metropoli?<br />

Mi rende difficile vivere altrove. Credo che sia fantastico vivere<br />

a New York, ma ovviamente non ho un’esperienza alternativa cui<br />

riferirmi. Sono cresciuta nel centro di Manhattan, da bambina<br />

molti degli amici dei miei genitori erano <strong>art</strong>isti, e mi sembrava<br />

una cosa normale. Credo di non aver conosciuto nemmeno un<br />

adulto che fosse un avvocato o un uomo d’affari, praticamente<br />

erano tutti o accademici o strizzacervelli o in qualche modo<br />

implicati con l’<strong>art</strong>e. In questo modo, sono stata fortunata a<br />

essere circondata da esempi di come si potesse vivere da <strong>art</strong>isti<br />

e non ho dovuto affrontare la resistenza della mia famiglia o di<br />

una comunità più ampia.<br />

Parliamo della tua formazione <strong>art</strong>istica: che cosa ti ha portato ad<br />

avvicin<strong>art</strong>i all’<strong>art</strong>e. Che cosa hai studiato?<br />

Non ho frequentato una scuola d’<strong>art</strong>e; sono andata alla Brown<br />

University pensando di diventare una poetessa. Ma, onestamente,<br />

non riuscivo a vivere isolata tanto quanto era necessario per<br />

scrivere con regolarità. Ho cominciato a frequentare lezioni al<br />

dip<strong>art</strong>imento di media sperimentali e teoria critica alla Brown, dal<br />

nome adeguato di Cultura e Media Moderni.<br />

Ho incontrato un’ampia comunità attraverso questo programma,<br />

e trovato che fosse molto più divertente leggere, girare film e<br />

fare <strong>art</strong>e con gente eccentrica e vivere in un vecchio magazzino,<br />

piuttosto che chiudermi a chiave in soffitta, tentando di scrivere.<br />

In ogni caso i miei scritti sono sempre stati molti visuali, così non<br />

si è trattato di un grande cambiamento. Mi sono auto-imp<strong>art</strong>ita<br />

le nozioni tecniche per ciò che stavo facendo, credo che questo<br />

sia il motivo per cui ho sempre mantenuto una certa estetica<br />

frammentata.<br />

Mi sembra che uno dei tuoi principali campi d’azione sia quello<br />

dell’eredità della fotografia concettuale. Puoi parlarci della tua<br />

relazione con il medium fotografico e con il suo stato fisico?<br />

Credo che il modo in cui mi sono avvicinata alla fotografia sia<br />

all’opposto delle esperienze di molti <strong>art</strong>isti che ci lavorano e<br />

con le immagini in movimento. Sono arrivata alla fotografia<br />

attraverso il cinema sperimentale, piuttosto che il contrario.<br />

La mia preparazione è stata veramente filmica e sono sempre<br />

stata p<strong>art</strong>icolarmente interessata ai film strutturalisti degli anni<br />

Sessanta e Settanta. Artisti come Michael Snow, Paul Sharits e,<br />

ancora maggiormente, Hollis Frampton, hanno influenzato molte<br />

mie riflessioni su film e fotografia.<br />

Dopo l’università, ho lavorato per un po’ per M<strong>art</strong>ha Rosler.<br />

Sono stata, quindi, molto coinvolta sia nelle sua pratica sia dal<br />

suo archivio. Questa è stata la mia introduzione alla fotografia<br />

concettuale. Credo che la convergenza di lavori come quelli, per<br />

esempio, di Holly Frampton e M<strong>art</strong>ha Rosler abbia avuto molta<br />

rilevanza per le cose che stavo elaborando per il mio lavoro, come<br />

la relazione fra il discorsivo e il visivo, e le strutture <strong>art</strong>istiche che<br />

rappresentano strutture sociali. E, certamente, il modo in cui il<br />

significato si produce attraverso le p<strong>art</strong>icolarità dei diversi media.<br />

C’è un innegabile impulso all’archiviazione nel tuo lavoro, visibile<br />

in serie come “Upside-down Portrait” (2005) o “Damaged”<br />

(2003-2006). Spesso ti appropri di materiali d’archivio pubblici o<br />

web. Sei affascinata dalla storia o trovi semplicemente il passato<br />

più interessante del presente? Come scegli il materiale d’archivio<br />

con cui lavorare?<br />

Sono sempre stata affascinata dal modo in cui le fotografie<br />

non sono semplicemente la rappresentazione di un p<strong>art</strong>icolare<br />

momento nel tempo, ma anche la registrazione del trascorrere<br />

del tempo. Nella serie “Damaged”, per esempio, ho stampato<br />

solo le p<strong>art</strong>i chiare di un negativo su lastra di vetro, perché<br />

l’emulsione si era disintegrata. Le immagini da questi negativi<br />

sono diventate la registrazione del decadimento che era<br />

avvenuto negli anni, da quando la foto era stata scattata. Questo<br />

cambiamento nel tempo indica come la fotografia, al pari del film,<br />

sia un medium basato sul tempo. Sono interessata a lavorare con<br />

immagini storiche che possono essere ri-posizionate o riviste nel<br />

presente. Le immagini danneggiate esercitano una p<strong>art</strong>icolare<br />

attrazione su di me, perché le imperfezioni evidenti permettono<br />

un’interruzione nel piano visivo della fotografia, un’opportunità<br />

attraverso cui è possibile esplorare qualcos’altro.<br />

Lisa Oppenheim, Apricot, II, 2007-2008 - courtesy: Harris Lieberman, New York and Galerie Juliette Jongma, Amsterdam<br />

A chi app<strong>art</strong>engono le immagini?<br />

A Internet.<br />

Sebbene a volte le immagini che presenti siano difficili da<br />

identificare, fornisci sempre al lettore una chiave di decifrazione<br />

– il titolo.<br />

Non feticizzo l’oscurità. Per me, è importante che ci sia<br />

qualcosa che lo spettatore possa cogliere. M’interessano anche<br />

le astrazione accidentali, come, cioè, qualcosa possa finire<br />

per sembrare astratto, attraverso una serie di procedimenti<br />

o dispositivi, piuttosto che come risultato di un desiderio<br />

espressivo dell’<strong>art</strong>ista. Nella mia recente doppia proiezione in<br />

16 mm, No Closer to the Source (July 20, 1969), le immagini<br />

della Terra e della Luna, scattate la sera del primo sbarco lunare,<br />

diventano sempre più erose attraverso la fotocopiatura di<br />

ciascuna a una dimensione del 101%. Le immagini si deteriorano<br />

lentamente e si spostano fuori della pagina. Le imperfezioni della<br />

fotocopiatura conducono a una certa astrazione.<br />

Poiché questi esperimenti possono talvolta spingersi abbastanza<br />

lontano dal materiale originario, preferisco trovare modi di avere<br />

controllo sul lavoro così che sia leggibile come qualcosa d’altro<br />

rispetto a una pura astrazione. In No Closer to the Source (July<br />

20, 1969), l’evento è chiamato in causa dalla data.<br />

Ci puoi raccontare la genesi di Killed Negatives (2002-2006)?<br />

Ciò che trovo molto affascinante in quel lavoro è l’accuratezza<br />

quasi ossessiva con cui procedi.<br />

L’idea di questo progetto mi è venuta sfogliando il New Yorker.<br />

Alcune immagini di Walker Evans che avevano delle perforazioni<br />

hanno attirato la mia attenzione. Il danno serve a destabilizzare<br />

l’immagine rompendo la sua prospettiva. Stavo leggendo Roland<br />

B<strong>art</strong>hes ed ero molto interessata alla sua idea di “punctum”:<br />

queste erano immagini fisicamente forate. I buchi erano stati<br />

fatti nei negativi dal direttore di Walker Evans, Roy Striker,<br />

per impedire che le immagini fossero stampate, visto che le<br />

considerava imperfette.<br />

Lo spazio negativo prodotto dai fori è diventato per me uno spazio<br />

generativo attraverso cui guardare a un altro tempo e spazio,<br />

quello in cui le immagini sono viste, il presente. Questo spazio<br />

apre la possibilità di qualcosa di più di una relazione univoca col<br />

passato e permette una varietà di letture delle immagini.<br />

Quanto è importante nel tuo lavoro l’uso di tecnologie obsolete<br />

come le proiezioni in 16 mm? Fra i giovani <strong>art</strong>isti, l’uso di tali<br />

tecnologie è legato a un senso di nostalgia – il suono prodotto dai<br />

vecchi proiettori, il click del carosello delle diapositive – mentre<br />

potresti adottare strumenti digitali più recenti.<br />

A essere onesta, credo di essere una delle ultime della mia<br />

generazione <strong>art</strong>istica ad aver di fatto esordito con le tecnologie<br />

filmiche. Non ho mai veramente lavorato col video o qualcosa di<br />

digitale. Ho sempre girato in 16 mm e ho stampato le mie foto in<br />

una camera oscura tradizionale. Trovo che col video ci siano troppe<br />

opzioni, ho sempre avuto troppo girato senza sapere cosa farne.<br />

Il costo della pellicola mi ha reso più attenta e precisa. Tanto per<br />

cominciare, credo di essere un’aficionada che non ha mai compiuto<br />

il passaggio alle tecnologie digitali. Anche per le immagini che<br />

trovo su Internet, quasi sempre le trasformo in una qualche forma<br />

analogica con cui mi sento più a mio agio.<br />

Anche se, a questo punto, sono diventate più comuni, credo ancora<br />

che ci sia qualcosa di molto speciale nel proiettare un film o<br />

delle diapositive in una galleria. La proiezione digitale è il metodo<br />

standard di presentazione dei media basati sul tempo, forme di<br />

presentazione così differenti e antiquate sono un po’ stridenti<br />

per lo spettatore. Credo che sia una qualcosa di produttivo.<br />

L’ingombrante presenza dell’apparato pone attenzione al processo<br />

di realizzazione e al materiale del lavoro. I film e le diapositive<br />

si graffiano e scoloriscono nel corso della mostra, cambiando<br />

l’aspetto del lavoro in un modo inevitabile e incontrollabile. Tutto<br />

viene marchiato dalle devastazioni del tempo. Questo rende<br />

lavorare con media basati sul tempo paurosamente umano.<br />

Un altro aspetto cruciale del tuo lavoro sembra essere il rapporto<br />

fra il linguaggio e la sua rappresentazione grafica. Penso a Story<br />

Study Print (2005), due proiezioni in 16 mm che mostrano da un<br />

lato tutte le lettere che compongono l’alfabeto e dall’altro la loro<br />

rappresentazione visiva. Ma qualcosa è poco familiare perché<br />

non vediamo gli allegri abbinamenti che siamo abituati a trovare<br />

nelle scuole, come M per “mela” e Z per “zebra”, ma piuttosto<br />

associazioni militanti come A per “afro”, M per “marcia”, o R per<br />

“rivoluzione”. Puoi parlarci di questo lavoro?<br />

Mi sono sempre interessati gli strumenti pedagogici, il modo<br />

in cui i bambini non sono solo educati a leggere e scrivere, ma<br />

imparano anche un certo tipo di consapevolezza politica. Ho<br />

lavorato molto anche con i nomi delle matite Crayola in modo<br />

analogo. Da bambina, ho frequentato una scuola progressista,<br />

dove le tematiche di giustizia sociale e i diritti umani venivano<br />

imp<strong>art</strong>iti oltre alla lettura, alla scrittura e all’aritmetica. Ho<br />

anche frequentato campi estivi socialisti che enfatizzavano simili<br />

questioni e scienze politiche. So che tutto questo suona come<br />

un presente anni Settanta e utopista, ma credo di essere stata<br />

profondamente influenzata da queste esperienze e sto ancora<br />

lavorando sulla loro scia nella mia pratica <strong>art</strong>istica.<br />

Ho cominciato a leggere di altre scuole progressiste e ho<br />

incontrato strumenti didattici comuni a molte di esse. Le c<strong>art</strong>e<br />

alfabetiche, per esempio, venivano utilizzate in modi non<br />

tradizionali per riflettere le esperienze di comunità differenti.<br />

In Story Study Print, ho utilizzato una combinazione di c<strong>art</strong>e<br />

alfabetiche di differenti comunità, nel tentativo di riflettere una<br />

pluralità di posizioni. Un set era chiamato “L’ABC Nero” e un altro<br />

proveniva da una scuola diretta dalla Coalizione dei Lavoratori<br />

di Syracuse. Ho filmato la rappresentazione visuale dei testi da<br />

queste c<strong>art</strong>e, come M sta per “marcia”. Devo aggiungere che,<br />

quando espongo questo lavoro, mostro i testi su un proiettore<br />

16 mm e le immagini corrispondenti su un altro. I due proiettori<br />

non sono sincronizzati così le combinazioni di testo e immagine<br />

cambiano e diviene un po’ un gioco di memoria dedurre quale<br />

testo si accompagni a quale immagine. Questo spero permetta<br />

anche ai visitatori di p<strong>art</strong>ecipare nella produzione del significato<br />

del lavoro. Le associazioni fra le due proiezioni sono, in qualche<br />

modo, casuali, o prodotte dallo spettatore che ricorda la<br />

“corretta” associazione.<br />

Un simile senso di spiazzamento è visibile anche in The Sun is<br />

always Setting Somewhere Else.<br />

Quando ho prodotto quel lavoro mi ero appena ri-trasferita negli<br />

Stati Uniti dopo due anni e mezzo in Europa. Ero scioccata di come<br />

Lisa Oppenheim, Story, Study, Print, 2005 - courtesy: Galerie Juliètte Jongma, Amsterdam<br />

la guerra in Iraq fosse ritratta in maniera così diversa dai media<br />

europei rispetto a quelli americani ed ero frustrata da come le<br />

immagini di guerra fossero state sterilizzate per il consumo negli<br />

Stati Uniti. Mentre mi aggiravo per i siti che condividono le foto<br />

su Internet, ho trovato che c’erano molte immagini di tramonti<br />

scattate da soldati americani in Iraq o in Afghanistan. Ho pensato<br />

a queste immagini come a un tipo di c<strong>art</strong>olina, qualcosa per le<br />

persone a casa per far sapere loro che stavano bene. Ero molto<br />

toccata da queste immagini e volevo farne qualcosa. I cliché<br />

visivi dei tramonti nelle c<strong>art</strong>oline dei soldati servono a dislocare<br />

rappresentazioni di violenza. Quindi ho pensato che avrebbe<br />

avuto senso usarle per commentare il fatto che la violenza fosse<br />

in qualche modo tralasciata dai media che informavano sulla<br />

guerra. Ho prodotto questo lavoro organizzando un gruppo di<br />

queste immagini a seconda della posizione del sole sull’orizzonte,<br />

reggendole davanti al sole calante e fotografando questo gesto<br />

nel corso di un intero tramonto.<br />

Mi puoi parlare dei tuoi progetti futuri?<br />

Questo è l’ultimo anno che Polaroid produce pellicola per istantanee<br />

e volevo fare un progetto che si riferisse a questa perdita. Ho<br />

appena finito una serie fotografica dove documento la comparsa<br />

delle immagini Polaroid, nello stesso tempo documentando la<br />

morte del mezzo. Le mie fonti per il progetto sono i colori da un set<br />

di matite Crayola prodotte dopo l’11 settembre chiamate “Colori<br />

Patriottici”. Ho fatto Polaroid di colori con nomi come “Terra della<br />

Libertà”, “dall’Atlantico al Pacifico” e “Miniera della Virginia Ovest”<br />

e poi ho ri-fotografato le Polaroid a venti secondi d’intervallo,<br />

mentre i colori si formavano. Quello che era più interessante era<br />

MOUSSE / NEW YORK-MILANO / PAG. 113

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