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Civiltà, guerra e sterminio - Regione Toscana

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COLLANA EDUCAZIONE<br />

Strumenti didattici e operativi<br />

4


Questa pubblicazione contiene gli atti di due seminari sui temi storici dello Sterminio, che hanno avuto luogo rispettivamente<br />

il 5 Dicembre 2001 e nel Novembre - Dicembre del 2002.<br />

Entrambi i seminari sono stati organizzati in preparazione del viaggio-studio ad Auschwitz, che la <strong>Regione</strong> e le Amministrazioni<br />

provinciali della <strong>Toscana</strong> hanno organizzato in occasione del “Giorno della Memoria” (L. 211 del 20 Luglio 2000) negli anni 2002<br />

e 2003.<br />

I testi delle relazioni svolte in occasione del seminario del 5 Dicembre 2001 sono stati trascritti dalla registrazione audio e rivisti<br />

dal servizio Educazione - Istruzione nei limiti imposti dalla natura della pubblicazione.<br />

Gli interventi effettuati nel seminario del Novembre - Dicembre 2002 sono stati rivisti e corretti dagli autori stessi che hanno<br />

liberamente revisionato i testi dal punto di vista stilistico.<br />

L’Assessore Paolo Benesperi, in occasione di questa pubblicazione, ha elaborato il contributo che vi compare.<br />

CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa<br />

ISBN 88-8492-274-7<br />

© 2003 <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong><br />

Prima edizione: Dicembre 2003<br />

REGIONE TOSCANA<br />

Giunta Regionale<br />

Direzione Generale delle Politiche formative<br />

e dei Beni culturali<br />

Servizio Educazione-Istruzione<br />

<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong> : lezioni di storia : atti dei seminari sui temi storici dello <strong>sterminio</strong><br />

: Firenze, 5 dicembre 2001, 29 novembre-6 dicembre 2002. – [Firenze] : <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong>,<br />

Giunta regionale ; [Pisa] : Plus-Università di Pisa, 2003. – 146 p. ; 27 cm. – (Formazione, educazione,<br />

lavoro) (Educazione. Studi e ricerche ; 4)<br />

ISBN 88-8492-274-7<br />

940.5318 (21.)<br />

1. Ebrei – Persecuzioni – 1938-1945.


<strong>Civiltà</strong> Educazione Guerra ambientale e<br />

Linee guida della <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong><br />

Sterminio<br />

Atti dei seminari di formazione<br />

per insegnanti<br />

5 dicembre 2001 - 29 novembre e 6 dicembre 2002


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Indice<br />

Presentazione<br />

Viaggiare nella Memoria<br />

Paolo Benesperi 7<br />

PARTE I<br />

ATTI DEL SEMINARIO - 5 dicembre 2001 11<br />

Seconda <strong>guerra</strong> mondiale come <strong>guerra</strong> totale.<br />

Deportazioni razziali, politiche, civili e militari<br />

Nicola Labanca 13<br />

1938-1943: dalla discriminazione alla deportazione<br />

Michele Sarfatti 21<br />

Presentazione della Guida Bibliografica<br />

Shoah e deportazione, di Enzo Collotti e Marta Baiardi<br />

Marta Baiardi 29<br />

Auschwitz<br />

Marcello Pezzetti 35<br />

Nessuno sapeva?<br />

Giovanni Gozzini 43<br />

PARTE II<br />

ATTI DEI SEMINARI - 29 novembre - 6 dicembre 2002 49<br />

Il nazismo dall’ideologia razzista allo <strong>sterminio</strong><br />

Anna Foa 51<br />

Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente<br />

Alice Ricciardi Von Platen 57<br />

La persecuzione nazifascista degli omosessuali<br />

Giovanni Dall’Orto 61<br />

Il nazifascismo contro gli zingari<br />

Giovanna Boursier 71


La deportazione delle donne<br />

Marta Baiardi 87<br />

Far parlare il silenzio: i bambini e la Shoah<br />

Bruno Maida 121<br />

Testimonianza<br />

Liliana Segre 133


Presentazione<br />

Viaggiare nella Memoria<br />

Sì, visitare i campi di concentramento e i luoghi ove sono depositate tracce<br />

della Memoria dello Sterminio, è più educativo di mille letture. Aveva ragione<br />

Goethe: “Ogni teoria è grigia, Verde cresce l’aurea pianta della vita”<br />

anche se, purtroppo, ad Auschwitz, come in qualsiasi altro campo dell’universo<br />

concentrazionario, ha ragione in negativo. Niente di più abietto, all’ingresso,<br />

della nobile scritta “Il lavoro rende libero l’uomo” usata per giustificare<br />

l’uso incommensurabilmente tragico di ciò che, come il lavoro può essere<br />

altamente emancipatorio; niente di più abietto, all’interno, dell’uso delle<br />

tecnologie (inventate per alleviare la fatica e permettere ciò che manualmente<br />

non sarebbe possibile), per uccidere i propri simili, altri uomini,<br />

donne e bambini. Niente di più abietto delle situazioni descritte dai superstiti:<br />

narrazioni che parlano di uomini e donne che diventano aguzzini e carnefici<br />

stimolati da altri aguzzini e carnefici.<br />

Sì, è vero, Auschwitz, è il mondo alla rovescia, il mondo che utilizza il paradigma<br />

del male e non del bene, della falsità e non della verità, della disuguaglianza<br />

e non dell’eguaglianza.<br />

Difficile persino descriverlo.<br />

È altrettanto difficile pensare, perché il primo istinto è proprio questo, impedirsi<br />

di riflettere per non arrivare a conseguenze intuite come inaccettabili: il<br />

rifiuto della stessa umanità atteso che l’umanità ha prodotto questi risultati,<br />

e dunque meglio non pensare se il pensare può portare a giudicare migliore il<br />

non esistere rispetto all’esistere e vederne le conseguenze atroci. Del resto,<br />

quante volte nella vita si fa finta di non vedere, ci si impedisce di capire, si<br />

rifiuta il confronto per paura della realtà o delle possibili conseguenze del confronto,<br />

si inventano persino teorie giustificative di simili atteggiamenti? Per<br />

stare in pace - si dice -, anche quando si sa benissimo che prima o poi ciò che<br />

è nascosto salterà fuori, magari nelle forme più inimmaginabili.<br />

Tutto sommato questo è normale, è successo nel passato e succederà nel<br />

futuro migliaia e migliaia di volte, ma per Auschwitz, e per ciò che<br />

Auschwitz evoca è diverso, anzi, radicalmente diverso.<br />

Auschwitz può essere il simbolo e il luogo della fine della storia passata ed<br />

insieme l’impossibilità di una storia futura che valga la pena di essere vissuta.<br />

Lo storico Bruno Segre afferma che “il genocidio del popolo ebraico nel cuore<br />

stesso di quella cultura europea che era stata la culla della modernità, è e<br />

continuerà ad essere la matrice fondamentale per la comprensione del<br />

nostro tempo storico”.<br />

Proprio per questo bisogna pensare.<br />

7


8<br />

In fin dei conti che cosa sono l’Europa e la cultura che la identifica, almeno<br />

quella alla quale ci siamo riferiti e ci riferiamo tuttora? Pace, libertà, democrazia,<br />

solidarietà, uguaglianza e poi ancora progresso tecnico scientifico,<br />

sviluppo e benessere per ognuno e per tutti: a questo pensiamo quando parliamo<br />

di Europa. Non è questo che intendiamo quando pensiamo alla<br />

Rivoluzione Francese ed a tutto il processo che con essa comincia? Certo,<br />

anche nella Rivoluzione Francese c’è stato il Terrore e dopo ci sono state le<br />

guerre, anche la prima <strong>guerra</strong> mondiale con le sue distruzioni e morti di<br />

massa, ma poi, abbiamo sempre pensato, il bene o il meno negativo in qualche<br />

modo ha prevalso. Non fu del resto proprio il Presidente degli Stati Uniti<br />

Thomas Woodrow Wilson a tentare di promuovere la Società delle Nazioni<br />

come strumento di un pacifico nuovo ordine internazionale di fronte alla tragedia<br />

della prima <strong>guerra</strong> mondiale? E poi, dopo la stessa seconda <strong>guerra</strong><br />

mondiale, non è nata l’Organizzazione delle Nazioni Unite con tutti i suoi<br />

organismi per combattere la fame, estendere l’istruzione, ampliare il lavoro,<br />

aprire i commerci e così via? Sì, dobbiamo riconoscere che tutti questi strumenti<br />

sono stati imperfetti e che molti degli obiettivi per i quali essi sono<br />

stati creati non sono stati compiutamente raggiunti e, dunque, che il problema<br />

concettuale non si risolve semplicemente elencando ciò che è pur<br />

stato fatto per il conseguimento degli obiettivi della pace, del benessere e<br />

dell’uguaglianza su scala mondiale.<br />

Non è un caso che proprio sul piano teorico si sono affermate tendenze che<br />

mettono radicalmente in discussione la scienza, la tecnica, la razionalità, e<br />

la loro origine nell’Illuminismo come cultura e metodo, in quanto - si dice -<br />

sarebbero intrinseche ad un pensiero di sopraffazione che, proprio ad<br />

Auschwitz porterebbe.<br />

Ma, se ci si pensa bene, forse è proprio Auschwitz ad essere il prodotto della<br />

negazione della razionalità e di quell’elemento di apertura, di disponibilità<br />

alla discussione ed alla collaborazione che, all’esercizio della ragione sono<br />

intrinseche. Razionalità significa fiducia nelle possibilità del dialogo come<br />

metodo di risoluzione dei problemi, atteggiamento di ascolto e di confronto<br />

tra tesi che hanno tutte pari dignità, patto accettato, anche se non formalmente<br />

stipulato, ad accogliere correzioni, verifiche e smentite; significa, in<br />

ultima analisi, metodo scientifico e democratico. Auschwitz è una rottura<br />

rispetto a questo, non la conseguenza e, dunque, da Auschwitz la più profonda<br />

cultura europea esce rafforzata, non smentita.<br />

Anche nel tempo recente, quando il terrorismo internazionale ha prodotto<br />

immani lutti e stragi, ciò che si è tentato di colpire sono stati proprio quegli<br />

stessi valori di democrazia, libertà, apertura che Auschwitz aveva voluto<br />

annullare.<br />

Quei valori che hanno permesso di scrivere nella Carta dei diritti fondamentali<br />

dell’Unione europea proclamata dal Consiglio Europeo di Nizza nel<br />

Dicembre 2000 le seguenti parole: “I popoli europei nel creare tra loro un’unione<br />

sempre più stretta hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato<br />

su valori comuni. Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale,<br />

l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di<br />

libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l’Unione si basa sui princìpi di democrazia<br />

e dello stato di diritto. Essa pone la persona al centro della sua azione<br />

istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà,<br />

sicurezza e giustizia… A tal fine è necessario, rendendoli più visibili in una<br />

carta, rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione<br />

della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici”.<br />

Questi valori, certamente, non possono rappresentare un traguardo ultimo,<br />

la fine della storia, ma senza dubbio sono in grado di tracciare tante tappe<br />

ed una direzione di sviluppo: e quella direzione non porta ad Auschwitz.


Seconda <strong>guerra</strong> mondiale come <strong>guerra</strong> totale: Deportazioni razziali, politiche, civili e militari<br />

Andando ad Auschwitz questa direzione, la possiamo, per opposizione, capire<br />

meglio.<br />

Altra è la riflessione riguardante le tematiche che quest’anno affrontiamo in<br />

questi seminari. Sullo sfondo ovviamente c’è l’Olocausto, la persecuzione<br />

degli Ebrei, parte della storia del ’900, come avete visto i seminari di quest’anno<br />

hanno una tematica abbastanza “specifica”, perché basta scorrere i<br />

titoli delle relazioni, per coglierne il tema. Il tema è nazismo e diversi, se così<br />

possiamo dire. Cominciamo dalla questione dei malati di mente, gli omosessuali,<br />

gli zingari, le donne, i bambini, ecc. Non è collaterale, è dentro il meccanismo<br />

del nazismo e dell’Olocausto, però forse consente di allargare ulteriormente<br />

le conoscenze di questa parte della storia del ’900. E questo<br />

approccio ovviamente è carico anche di significati, culturale l’uno e, se mi<br />

consentite, politico l’altro. Quello culturale ha a che fare naturalmente col<br />

quesito che sta sopra le celebrazioni del giorno della memoria, più in generale<br />

le riflessioni sulla cultura dell’Europa, sul ’900, ecc. Come è potuto accadere<br />

questo, nell’Europa dell’Illuminismo, nell’Europa della ragione, ecc. E<br />

naturalmente il come è potuto accadere questo trova ulteriori elementi per<br />

la risposta alla domanda, non credo che la risposta sarà definitivamente<br />

data o che ce ne sia una sola ovviamente, qualche elemento di riflessione<br />

dall’allargamento della tematica la può offrire. L’altro politico ha a che fare<br />

in realtà proprio con discussioni attualissime: che cosa sono i diritti di cittadinanza<br />

oggi, e quanto larghi siano. Pur nelle situazioni di democrazia<br />

avanzata come la nostra, i diritti di cittadinanza sono ugualmente applicati<br />

a tutti i comparti e settori della società? O no? È ovvio che ho fatto una<br />

domanda retorica, non sto a dare la risposta, naturalmente è del tutto ovvio,<br />

lederei la vostra intelligenza se mi azzardassi a dare una risposta esplicita,<br />

tanto esplicita o retorica è la domanda. Però la conclusione è semplicemente<br />

questa: riflettere storicamente e dal punto di vista scientifico, niente<br />

affatto propagandistico o direttamente politico, però riflettere dal punto di<br />

vista scientifico sul punto in cui nella storia del ‘900 questa rottura di diritti<br />

di cittadinanza è stata clamorosa, e in riferimento a diverse tipologie di<br />

soggetti, forse può essere di qualche utilità anche per l’attualità.<br />

Paolo Benesperi<br />

Assessore all’Istruzione, Formazione,<br />

Politiche del Lavoro, Concertazione<br />

della <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong><br />

9


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Parte I<br />

Atti del seminario<br />

5 dicembre 2001


Seconda <strong>guerra</strong> mondiale<br />

come <strong>guerra</strong> totale.<br />

Deportazioni razziali,<br />

politiche, civili e militari<br />

Nicola Labanca, docente dell’Università di Siena<br />

Vi chiedo scusa, purtroppo per ragioni didattiche non potrò partecipare al<br />

dibattito previsto per fine mattinata, comunque al termine della relazione<br />

sarò eventualmente disponibile per informazioni o precisazioni. Sono contento<br />

di partecipare a questa impresa ciclopica, di portare il mio contributo<br />

ad un’esperienza così importante. Non è la prima volta che la <strong>Regione</strong><br />

<strong>Toscana</strong> si impegna su questo fronte, ma mi sembra che questa sia un’occasione<br />

importante, viste le energie impiegate; in queste imprese<br />

ciclopiche è fondamentale curare anche i dettagli, perché, come noi sappiamo,<br />

i piani sono perfetti ed i dettagli si rivelano fondamentali. Per quanto<br />

mi riguarda dovrei introdurre un po’ le tematiche più specifiche che i<br />

relatori successivi affronteranno. Non vorrei fare, visto il pubblico, né un<br />

racconto dei fatti, né ricordarvi solo alcuni dati, né, d’altro canto, fare una<br />

rassegna storiografica; cercherò di compilare una sorta di promemoria,<br />

utile a chi debba ricordare, all’interno di questa impresa ciclopica, che<br />

cosa è stata la seconda <strong>guerra</strong> mondiale e che ruolo all’interno di essa<br />

hanno avuto le deportazioni. Deportazioni di vario tipo, non tutte assimilabili<br />

l’una all’altra, ma che in qualche misura cooperano all’interno della<br />

<strong>guerra</strong>.<br />

Iniziamo ponendoci un interrogativo. La parte più ingente dello <strong>sterminio</strong><br />

degli Ebrei, della deportazione di milioni di uomini è avvenuto durante la<br />

seconda <strong>guerra</strong> mondiale. Ma vi è un nesso causale fra le due cose?<br />

Dobbiamo considerare le deportazioni soltanto come un atto di <strong>guerra</strong>, come<br />

un atto verificatosi a causa della <strong>guerra</strong>, o come un qualcosa che affonda le<br />

sue radici in tempi più lontani? Gli storici si sono divisi sulla risposta a tale<br />

domanda. Lo <strong>sterminio</strong> degli Ebrei e l’insieme delle deportazioni razziali,<br />

politiche, civili e militari sono stati considerati da alcuni come incidentali,<br />

come fatti svoltisi a causa della <strong>guerra</strong>. Altri invece sostengono che questo<br />

tipo di <strong>guerra</strong> contro i civili, come talvolta viene detto oggi, sia intenzionale<br />

e faccia parte del meccanismo del secondo conflitto mondiale, anche se, e<br />

questo va sempre ricordato, le intenzioni che si sono manifestate durante la<br />

<strong>guerra</strong> hanno una storia precedente. Nella Germania nazista i primi campi<br />

contro gli oppositori politici e gli elementi etnici nacquero già nel 1933, ed il<br />

progetto di un nuovo ordine europeo nazista si delineò già abbastanza<br />

chiaramente prima della <strong>guerra</strong>. Vi ricordo un aspetto sul quale in seguito<br />

non potrò soffermarmi: già con il 1° settembre 1939, con il progetto<br />

13


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

14<br />

“Eutanasia”, una parte importante dei malati di mente, dei malati terminali<br />

diremmo oggi, fu condotta a morire.<br />

Possiamo quindi fornire una prima risposta alla domanda precedente: lo<br />

<strong>sterminio</strong> e le deportazioni non accadono solo a causa della <strong>guerra</strong>, ma si<br />

sviluppano nel contesto di questa, una <strong>guerra</strong> di tipo nuovo, una <strong>guerra</strong><br />

totale. Non mi intratterrò sui caratteri più tecnicamente militari della seconda<br />

<strong>guerra</strong> mondiale, non parlerò dei combattimenti, delle battaglie. Vorrei<br />

invece sottolineare che la conoscenza è fondamentale per poter comprendere<br />

i caratteri delle varie deportazioni, delle quali oggi parliamo. Le diverse<br />

deportazioni cooperano nella situazione nuova della <strong>guerra</strong> totale, ma tra<br />

queste è individuabile una singolarità non assimilabile alle altre, e cioè lo<br />

<strong>sterminio</strong> del popolo ebraico. Ricordiamo alcuni nomi dei campi, nei quali fu<br />

deportata una parte consistente della popolazione ebraica: da Dachau, a<br />

Buckenwald, a Mauthausen, a Treblinka, sino ad Auschwitz, il campo che<br />

voi visiterete, e che ebbe una funzione particolare tra tutti i campi tedeschi.<br />

Infatti laggiù, in terra di Polonia, fra Germania e Cecoslovacchia, soltanto<br />

tale campo portò alla morte più di un milione di persone. Gli Ebrei venivano<br />

deportati ad Auschwitz ed in genere nei diversi campi da tutta l’Europa<br />

occupata dai tedeschi. Tre milioni dalla Polonia, 700 mila dall’Unione sovietica,<br />

poco meno di 300 mila dalla Cecoslovacchia, 180 mila dall’Ungheria,<br />

130 mila dalla Lituania, 120 mila dalla Germania, 100 mila dai Paesi Bassi,<br />

e poi dalla Francia, Lettonia, Jugoslavia, Grecia, Austria, sino all’Italia.<br />

Ricordo queste cifre e questi paesi affinché sia chiaro il carattere spaziale,<br />

totale, europeo di questa tragedia. 800 mila morti già nelle istituzioni dei<br />

ghetti, forse un milione e 300 mila morti in seguito alle operazioni mobili<br />

durante i rastrellamenti; 3 milioni nei campi, di cui un milione forse ad<br />

Auschwitz. Una tragedia europea, diremmo oggi, che si è svolta in un breve<br />

torno di anni; nel solo 1942 forse 2 milioni e 700 mila Ebrei persero la vita.<br />

Le cifre potrebbero essere sempre precisate, questo vuol essere soltanto un<br />

primo bilancio “all’ingrosso” di questa tragedia europea svoltasi non a causa<br />

ma certamente nel contesto, nell’ambiente e nell’ambito della seconda <strong>guerra</strong><br />

mondiale. Un conflitto che ha visto, accanto a tale unicità, altre importanti<br />

e drammatiche deportazioni. Una deportazione di tipo etnico, che non<br />

colpì solamente le popolazioni ebraiche; una deportazione di tipo politico, gli<br />

oppositori al regime nazista, gli oppositori ai regimi alleati o collaborazionisti<br />

dei nazisti, gli oppositori e la resistenza armata o civile che sia stata.<br />

Deportazioni civili, di popolazioni, di lavoratori e di lavoratrici, e aggiungendo<br />

un paio di virgolette potremmo parlare di deportazione “militare”, o<br />

più esattamente prigionia e internamento militare. Nel contesto di una<br />

<strong>guerra</strong> totale, di una <strong>guerra</strong> combattuta con eserciti dotati di milioni e milioni<br />

di uomini, questa deportazione militare, questa prigionia militare<br />

assunse caratteri del tutto nuovi, anche soltanto sotto l’aspetto quantitativo.<br />

Aggiungerò, lo vedremo più avanti, che non solo l’aspetto quantitativo,<br />

ma persino l’aspetto qualitativo della prigionia nella seconda <strong>guerra</strong> mondiale<br />

hanno caratteri nuovi rispetto alle prigionie militari delle guerre passate.<br />

In particolare molti prigionieri di <strong>guerra</strong> vissero, come dice il titolo di<br />

un libro, fra stermini e sfruttamento.<br />

Come dare in breve il carattere della seconda <strong>guerra</strong> mondiale nel<br />

promemoria che vorrei comporre? Farei l’esempio di Stalingrado, di una<br />

eccezionale importante battaglia durata anni, in cui la seconda <strong>guerra</strong> mondiale<br />

esplicita il suo carattere nuovo. Nel giugno 1941 le forze armate<br />

naziste attaccano ad est e conducono immediatamente una <strong>guerra</strong> di <strong>sterminio</strong><br />

contro le popolazioni e l’esercito sovietico, ma già nell’agosto quella<br />

che si pensava fosse una seconda BlitzKrieg paragonabile a quella contro la<br />

Francia, o addirittura contro la Polonia, si infrange sulla resistenza sovietica.<br />

Le forze armate tedesche perdono la fiducia baldanzosa, nel solo inverno


Seconda <strong>guerra</strong> mondiale come <strong>guerra</strong> totale: Deportazioni razziali, politiche, civili e militari<br />

1941 portano via 100 mila congelati. È una <strong>guerra</strong> di materiali, è una <strong>guerra</strong><br />

di logoramento, è una <strong>guerra</strong> che a Stalingrado si combatterà quartiere<br />

per quartiere, strada per strada, casa per casa, talora anche stanza per stanza.<br />

È una <strong>guerra</strong> durissima. Per darvi un’idea dei timori sovietici, i Russi<br />

spostarono il corpo di Lenin imbalsamato per paura che i Tedeschi<br />

arrivassero a Mosca; tutto ciò dà l’idea della difficoltà militare in cui versavano.<br />

Stalin in persona dà l’ordine di resistere a tutti i costi e la <strong>guerra</strong> è<br />

durissima anche per il versante sovietico, dove sembra che almeno 15 mila<br />

sovietici, tra soldati e civili, siano stati fucilati proprio per mantenere fermo<br />

il fronte intorno a Stalingrado. La battaglia si svolge tra l’estate e l’autunno,<br />

poi arriva l’inverno del ’42-’43; è una battaglia di logoramento, ma anche<br />

una battaglia di tipo nuovo, con grande impiego di forze armate aeree, e nel<br />

gennaio del ’43 assistiamo alla resa tedesca, dopo che centinaia di migliaia<br />

di uomini si erano alternati nel tentativo di forzare il muro di Stalingrado.<br />

Sul Fronte tedesco rimangono solamente 91 mila soldati e 22 generali. È difficile<br />

calcolare le perdite tedesche sul fronte di Stalingrado, ma possono<br />

essere quantificate almeno in mezzo milione; le perdite sovietiche sono<br />

quasi il doppio nella battaglia di resistenza, forse un milione. A Stalingrado,<br />

per darvi l’idea della battaglia e cioè del nuovo tipo di <strong>guerra</strong>, in una settimana<br />

di bombardamenti tedeschi avevano perso la vita 40 mila civili, 60<br />

mila erano stati deportati; difficile invece è quantificare il numero dei<br />

fucilati; solo 10 mila abitanti di Stalingrado sopravvissero, pare che solo 9<br />

bambini rimasero con ambedue i genitori vivi.<br />

Tra le tante battaglie che avrei potuto scegliere, credo che questa dia chiaramente<br />

l’idea del carattere di <strong>guerra</strong> totale del secondo conflitto mondiale, di<br />

una <strong>guerra</strong> che si svolge tra le forze armate combattenti, ma anche nella e<br />

sulla società civile. Vorrei dare un ultimo dato a livello generale, evidentemente<br />

in termini di stime in quanto non è possibile avere dati precisi. Voglio<br />

ricordare agli insegnanti un dato che può essere significativo, ma che, forse,<br />

non dovrebbe esser riferito ai ragazzi per non provocare loro angoscia: pare<br />

che la seconda <strong>guerra</strong> mondiale, fra i tanti lutti e le tante disgrazie che ha<br />

lasciato, rese orfani di ambedue i genitori 13 milioni di bambini. Ciò è per<br />

dare un’idea del carattere duraturo dell’eredità pesante di una <strong>guerra</strong> totale<br />

come questa. Una <strong>guerra</strong> che, a differenza della prima <strong>guerra</strong> mondiale,<br />

fece, come voi sapete, più vittime fra i civili che fra i militari. Sono all’incirca<br />

almeno 28 milioni le vittime civili e 22 milioni quelle militari, ma è difficile<br />

avere un bilancio preciso soprattutto nelle perdite ad oriente, tra Cina e<br />

India; aggiungo 30 milioni di rifugiati, dei quali alcuni alla fine della <strong>guerra</strong><br />

cercarono di tornare alle proprie terre, altri invece rimasero nelle terre<br />

nuove. Comunque sia anche questo fu un caso di eredità duratura della seconda<br />

<strong>guerra</strong> mondiale.<br />

Potrebbero essere diversi i caratteri di una <strong>guerra</strong> totale di questo tipo, si<br />

potrebbe fare un decalogo, ma ne ricorderò soltanto alcuni. In primo luogo è<br />

una <strong>guerra</strong> ideologica, che mette in combattimento non solo le forze armate,<br />

ma anche le menti dei soldati e della società civile. Una <strong>guerra</strong> dove la separazione<br />

fra combattenti e non combattenti, fra forze armate e società si<br />

elimina, si annulla, si erode fortemente. Effetto di questa <strong>guerra</strong> ideologica<br />

sono le perdite nella società civile, e non possiamo non ricordare, se pur a<br />

livelli diversi di rilevanza, i 6 milioni di Ebrei, i 10 milioni di civili sovietici,<br />

i 4 milioni di Polacchi, oltre probabilmente ai 2 milioni di Tedeschi. E qui<br />

siamo ancora in Europa! Ma questa <strong>guerra</strong> è totale, è più mondiale e più<br />

totale rispetto alla prima <strong>guerra</strong>! Guardiamo in Oriente, di cui troppo spesso<br />

ci dimentichiamo, e pensiamo ai 7 milioni e mezzo di vittime che i<br />

Giapponesi inflissero alle popolazioni cinesi. Quest’ultimo è comunque un<br />

calcolo per difetto, qualcuno parla anche di 20 milioni di morti. Trattiamo un<br />

solo caso del tipo di <strong>guerra</strong> che veniva combattuta in Oriente: a Nanchino<br />

15


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

16<br />

nel dicembre 1937 in soli due giorni le forze armate giapponesi fanno 200<br />

mila morti, e più avanti nel corso della <strong>guerra</strong> 200 mila donne coreane<br />

saranno, non credo volontariamente, adibite a donne di piacere delle forze<br />

armate giapponesi.<br />

Fu una <strong>guerra</strong> sui civili, una <strong>guerra</strong> ideologica, una <strong>guerra</strong> tecnologica.<br />

Ricordiamo che anche i bombardamenti aerei fecero un milione e mezzo di<br />

vittime civili, solamente civili. Vi fu poi il bombardamento nucleare a<br />

Hiroshima e Nagasaki che cambiò carattere alla <strong>guerra</strong> e alla storia del<br />

mondo. Ma la tecnologia che a Hiroshima e Nagasaki fu dispiegata, in<br />

qualche modo aveva dietro di sé le guerre di bombardamento più o meno<br />

strategico, diremmo oggi, più o meno chirurgico.<br />

La seconda <strong>guerra</strong> mondiale fu una <strong>guerra</strong> di mobilitazione delle società<br />

civili. È vero che la distinzione fra fronte combattente e fronte interno non<br />

combattente, almeno con i bombardamenti aerei, si perde o meglio si riduce.<br />

Comunque le società civili furono fortemente mobilitate a livello di propaganda<br />

(eccezionali gli sforzi di propaganda da parte dei combattenti), e furono<br />

poi mobilitate per rimpiazzare quei vuoti creati da una <strong>guerra</strong> così luttuosa,<br />

come mi capiterà oggi di ricordare più volte dandovi qualche numero. Bisogna<br />

anche ricordare le donne immesse al lavoro, come già era successo nella<br />

prima <strong>guerra</strong> mondiale. La sola Gran Bretagna nel periodo della <strong>guerra</strong> introduce<br />

nella forza lavoro più di 2 milioni di donne, e un milione entra nelle forze<br />

armate. Questo è un altro ruolo spesso non ricordato che le donne hanno<br />

avuto nel conflitto mondiale a dimostrazione del carattere totale del conflitto<br />

stesso. Furono utilizzate in casi e servizi ausiliari, soprattutto per quanto<br />

riguarda le forze armate britanniche, forse in servizi ausiliari ma anche operativi<br />

nel caso delle forze armate statunitensi, e spesso in servizi operativi<br />

nelle forze armate sovietiche, nelle quali si calcola che circa un milione di<br />

donne abbiano avuto un carattere direttamente combattente.<br />

La mobilitazione ovviamente non serviva soltanto per sostituire la forza<br />

lavoro, ma anche e soprattutto per alimentare i grandi eserciti che combattevano.<br />

Se mettiamo insieme le grandi potenze in <strong>guerra</strong>, e cioè gli<br />

Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Germania, l’Unione Sovietica, il<br />

Giappone, se mettiamo insieme questi grandi eserciti, senza contare gli<br />

altri, possiamo osservare dei dati significativi sul carattere di mobilitazione<br />

totale della <strong>guerra</strong>. Nel 1939 erano poco più di 5 milioni cumulativamente<br />

i militari in servizio in questi eserciti, nel 1944 erano diventati<br />

45 milioni. Nessuno era esente dalla <strong>guerra</strong> nel periodo tra il ’39 e il ’45.<br />

Una <strong>guerra</strong> tecnologica, una <strong>guerra</strong> di grandi produzioni industriali, una<br />

<strong>guerra</strong> che non si vince con la BlitzKrieg, e che ha bisogno di un lungo<br />

logoramento dell’avversario, delle sue capacità militari, ma anche delle<br />

sue capacità produttive e industriali.<br />

Analizziamo qualche cifra, perché secondo me le cifre nella loro nudità<br />

chiariscono lo sforzo eccezionale e l’esperienza terribile che fu la seconda<br />

<strong>guerra</strong> mondiale. Sempre guardando alle cinque maggiori potenze, prima<br />

della <strong>guerra</strong> la produzione di navi era inferiore ad un centinaio di elementi,<br />

alla fine della <strong>guerra</strong> ammontava a circa 3.100 grandi navi da battaglia<br />

all’anno; la produzione annuale di carri armati passò da 5200 elementi<br />

prima della <strong>guerra</strong>, a 75.000 elementi nell’ultimo anno del conflitto. Questo<br />

grande sforzo bellico non poteva essere fatto se non mobilitando la mano<br />

d’opera, il lavoro industriale, l’industria. Questo punto è importante perché<br />

ci ricongiungeremo al discorso sulle deportazioni civili. Per il settore industriale<br />

non era facile produrre, poiché la tradizionale forza lavoro maschile e<br />

giovane era inviata a combattere; si creava quindi una grande necessità di<br />

mano d’opera industriale.<br />

Una <strong>guerra</strong> di intelligenze, di intelligence che mobilitava gli intellettuali e i<br />

tecnici da parte statunitense e da parte inglese. Se non fossero riusciti a


Seconda <strong>guerra</strong> mondiale come <strong>guerra</strong> totale: Deportazioni razziali, politiche, civili e militari<br />

decrittare i messaggi in codice dei comandanti militari tedeschi che decidevano<br />

le operazioni, non sappiamo se la <strong>guerra</strong> sarebbe stata vinta nei soli<br />

anni dal ’39 al ’45. Forse sarebbe stato necessario più tempo. Pensate che<br />

soltanto l’Inghilterra mobilita 10 mila tecnici e intellettuali per cercare di<br />

decrittare i rapporti che si scambiavano per via telegrafica o telefonica i<br />

comandi tedeschi.<br />

Una <strong>guerra</strong> che non poteva essere combattuta se non a prezzo di eccezionali<br />

investimenti finanziari ed economici, non solamente intellettuali o<br />

industriali. Un’idea: la bomba atomica. Come arrivare alla costruzione della<br />

bomba atomica se non investendo qualcosa come 2 miliardi di dollari del<br />

tempo, una cifra inimmaginabile, assai superiore a un qualunque bilancio di<br />

uno stato o di una nazione in <strong>guerra</strong>! I laboratori di Harford, vicino a<br />

Washington, che dovevano preparare la bomba atomica, erano fisicamente i<br />

laboratori tecnologici più grandi al mondo. L’edificio a Oak Ridge in<br />

Tennessee, dove invece si trovavano gli scienziati, era l’edificio più grande al<br />

mondo, e il campo di Los Alamos, dove le bombe furono provate, fu anch’esso<br />

un qualcosa di eccezionale.<br />

Tutto questo però non serviva a finire la <strong>guerra</strong> in tempi brevi; questa <strong>guerra</strong><br />

totale non finiva, continuava anno dopo anno: dal ’39 al ’42 con le forze<br />

armate tedesche, italiane e giapponesi, in offensiva avanzante (dal ’43 da<br />

Stalingrado), sino al ’45, al contrario, con le forze nazifasciste in ritirata.<br />

Questa <strong>guerra</strong> non finiva mai ed era un dramma quotidiano di mobilitazione<br />

delle società civili e delle forze armate combattenti.<br />

Fu una <strong>guerra</strong> di movimento; basta pensare alla campagna d’Italia che<br />

spazzò tutta la nostra penisola da sud a nord per lunghi anni: fu una <strong>guerra</strong><br />

nuova, proprio per l’intrecciarsi di tutti questi vari aspetti che ho cercato<br />

di ricordare. L’aspetto più innovativo, a mio parere, è la <strong>guerra</strong> di bombardamento,<br />

la <strong>guerra</strong> aerea, e dico ciò non soltanto per allacciarmi alle esperienze<br />

quotidiane, ma perché mostra davvero il carattere nuovo della seconda<br />

<strong>guerra</strong> mondiale rispetto alla prima <strong>guerra</strong> mondiale, una <strong>guerra</strong> di<br />

trincea, una <strong>guerra</strong> immobile dei fanti nel fango.<br />

Il bombardamento strategico accomunò tutte le grandi potenze, fu un carattere<br />

indistinto tra forze armate, coalizioni naziste e forze armate dei paesi<br />

antifascisti, ma ebbe una sua storia. Un militare italiano, che fu un teorico<br />

della <strong>guerra</strong> aerea di bombardamento, il generale Douhet, e le forze armate<br />

naziste (per la prima volta in maniera chiara prima della seconda <strong>guerra</strong><br />

mondiale), nel ’37 a Guernica fecero capire l’eccezionale potenza dei bombardamenti<br />

chiamati strategici. In qualche modo quindi la <strong>guerra</strong> aerea,<br />

anche se poi fu combattuta da tutte le forze armate, ha un’origine marchiata<br />

ideologicamente. Infatti fu la Germania a mettere in atto i primi bombardamenti<br />

su Varsavia già nel ’39, su Rotterdam nel ’40, su Belgrado nel<br />

’41, e poi su Dover. Comunque noi sappiamo che i migliori ad organizzare la<br />

<strong>guerra</strong> aerea non furono i Tedeschi, ma le forze armate inglesi e statunitensi.<br />

Nel solo bombardamento di Amburgo del ’43, condotto dalle forze aeree<br />

inglesi, persero la vita 30 mila cittadini, e fu a Tokyo nel marzo del ’45,<br />

prima del lancio su Hiroshima e Nagasaki, che le forze armate statunitensi<br />

nel giro di pochi giorni uccisero 100 mila civili giapponesi e distrussero, tra<br />

il ’44 e il ’45, il 30% degli edifici.<br />

Questa è stata in estrema sintesi la seconda <strong>guerra</strong> mondiale, un’esperienza<br />

drammatica quali altre, prima di questa, non erano state. In questo contesto<br />

di <strong>guerra</strong> totale troviamo le deportazioni. Anche riguardo a ciò, nel<br />

corso del tempo, pubblicisti e storici si sono divisi, anzi, più esattamente,<br />

hanno avuto interpretazioni diverse. Immediatamente dopo la <strong>guerra</strong>, di<br />

fronte alla grande catastrofe ed alle grandi cifre del dramma della <strong>guerra</strong>,<br />

alcuni pubblicisti sostennero che le deportazioni avevano qualcosa di<br />

abnorme, qualcosa di irrazionale, qualcosa di bestiale. Ebbero certamente<br />

17


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

18<br />

caratteri di questo tipo, ma non furono il frutto dell’irrazionalità, anzi tali<br />

deportazioni etniche, civili, politiche e, come abbiamo detto, a suo modo<br />

anche militari, fecero parte della razionalità, sia pur drammatica, della seconda<br />

<strong>guerra</strong> mondiale. Le deportazioni, in particolare quelle operate dalle<br />

forze armate tedesche, ordinate dallo Stato nazista, avevano una loro<br />

razionalità, una loro predeterminazione, erano parte integrante di un preciso<br />

disegno di ristrutturazione dell’Europa. Tale ristrutturazione, se lo<br />

Stato nazista e gli Stati fascisti avessero vinto la <strong>guerra</strong>, sarebbe stata al<br />

tempo stesso etnica, civile, politica e anche militare.<br />

Deportazione, spostamenti forzati di popolazioni e <strong>guerra</strong> totale hanno quindi<br />

la stessa logica. Ebrei, Slavi, Zingari, lavoratori forzati, antifascisti, prigionieri<br />

di <strong>guerra</strong>, in una graduatoria di drammi hanno tutti subito la stessa<br />

logica della <strong>guerra</strong> totale, della <strong>guerra</strong> di <strong>sterminio</strong> e di conquista<br />

nazista. Questo conflitto mondiale ha avuto conseguenze durature nel<br />

tempo; ho citato l’aspetto degli orfani, ma pensiamo anche alla disgregazione<br />

dei tessuti sociali ed etnici, ad esempio nei Balcani, nella fascia<br />

tra l’Unione sovietica e la Mitteleuropa, nell’Oriente lontano.<br />

Al centro di questa <strong>guerra</strong>, che aveva caratteri distinti per ognuna delle<br />

parti combattenti, stava però un progetto forte, quello della Grande<br />

Germania, del grande spazio vitale intorno alla Germania, del nuovo ordine<br />

europeo voluto dai Tedeschi che prevedeva una nuova gerarchia di popoli e<br />

di Stati. Questo progetto, quando nacque, quando fu codificato, fu influenzato<br />

dagli avvenimenti bellici della seconda <strong>guerra</strong> mondiale? Le risposte le<br />

avete già; mi permetto solo di ricordarvi che già nel Mein Kampf, testo base<br />

dell’ideologia nazista, si intravede il progetto di ristrutturazione dell’Europa<br />

e che, ripeto, già nel ’33 poche settimane dopo l’assunzione al potere da parte<br />

di Adolf Hitler, il regime nazista aprì i primi campi. Le tappe più note sono<br />

altre: le leggi di Norimberga del ’35, la deportazione e la segregazione civile<br />

già nel ’38, e poi la <strong>guerra</strong> che portò con sé il passaggio dalla deportazione<br />

alla liquidazione fisica degli avversari. Stiamo parlando quindi di deportazioni<br />

etniche, che prevedevano una ristrutturazione del tessuto etnico<br />

dell’Europa in cui il popolo ariano sarebbe stato al vertice, e gli altri popoli,<br />

in particolare ad est, avrebbero avuto il ruolo che secondo la logica nazista<br />

spettava agli Untermensch, cioè ai sottouomini.<br />

Non mi soffermo sulle singole deportazioni, perché ci sono altre relazioni<br />

che inquadreranno ed analizzeranno il problema più da vicino, ma almeno<br />

voglio menzionarne alcune. Prima parlerò della deportazione politica,<br />

dopo di quella etnica. Non è un caso che gli oppositori al regime nazista<br />

furono messi nei campi già nel ’33, e non è un caso che le forze armate<br />

tedesche, le forze armate naziste e le forze armate dei collaborazionisti dei<br />

nazisti si accanirono particolarmente contro le resistenze antinaziste e<br />

antifasciste. Non era un caso tutto ciò, poiché nel progetto di ristrutturazione<br />

politica, etnica, ideologica dell’Europa occupata dai nazisti, era<br />

previsto che vi potessero essere soltanto allineati all’ideologia nazista.<br />

Qualsiasi forma di resistenza, dalla resistenza civile, possiamo dire più<br />

“innocua”, alla resistenza politica più consapevole, in alcuni casi anche<br />

armata, doveva essere rimossa. Quindi le deportazioni politiche ci furono<br />

già dai primi anni, poi si infittirono durante la <strong>guerra</strong>, durante il periodo<br />

di occupazione e in particolare nel periodo in cui le fortune delle forze<br />

armate tedesche del progetto nazista stavano declinando, cioè dal ’43 al<br />

’45; non è un caso che centinaia di migliaia di uomini e donne furono<br />

deportate nei campi.<br />

Vorrei soffermarmi adesso sulla deportazione civile, talvolta dimenticata.<br />

Nel progetto di nuovo ordine europeo gli Untermensch avevano un ruolo<br />

diverso dagli uomini, l’Est aveva un ruolo diverso dal suolo tedesco, cioè a<br />

Berlino si pensava, o meglio ci si illudeva, si credeva, che un’intera fascia


Seconda <strong>guerra</strong> mondiale come <strong>guerra</strong> totale: Deportazioni razziali, politiche, civili e militari<br />

dell’Europa sarebbe stata ruralizzata, deindustrializzata, colonizzata dai<br />

Tedeschi, da popolazioni tedesche, e che eventualmente popolazioni locali<br />

sarebbero state deportate verso il centro industriale della nuova Europa,<br />

cioè la Germania. Era fondamentale l’apporto di lavoro coatto che queste<br />

popolazioni, in particolare ad est della Germania ed a sud-est della<br />

Germania, avrebbero dovuto dare al progetto nazista. I Polacchi ed i<br />

Cecoslovacchi ne fecero le spese non dal ’42, come talora è detto, ma già dal<br />

’39, ed i Francesi dopo il ’40, con la conquista della Francia. In tutto questo<br />

vi era un aspetto ambiguo; la Germania era sempre stata una grande potenza<br />

industriale, e da decenni attirava forza lavoro dal resto dell’Europa. Dagli<br />

Anni Trenta anche molti italiani erano abituati ad andare a lavorare in<br />

Germania. Nel caso italiano non ci fu soltanto la volontarietà, ma ci furono<br />

accordi interstatuali, che resero obbligatorio che una certa quantità di italiani<br />

andasse a lavorare nelle fabbriche tedesche. La volontarietà quindi si<br />

perdeva già nel caso di rapporti fra regimi fascisti. Durante la seconda <strong>guerra</strong><br />

mondiale questa volontarietà in buona parte sparì e fu organizzato con<br />

precisione il lavoro coatto da tutta l’Europa verso le industrie e l’agricoltura<br />

tedesca. Perché? Perché nel frattempo i maschi tedeschi andavano a combattere<br />

ed era necessario colmare i vuoti. Ne fecero le spese, oltre ai Polacchi<br />

e ai Francesi, soprattutto i Sovietici, i prigionieri di <strong>guerra</strong> sovietici, e dopo<br />

il 1943 anche gli Italiani.<br />

Per darvi ancora qualche piccola idea delle cifre, pare che tra il ’39 e il ’44<br />

più di 9 milioni di uomini, e in alcuni casi donne, prestarono lavoro coatto<br />

nell’industria e nell’agricoltura tedesca. Nel ’44 il 22% dell’agricoltura, il<br />

29% dell’industria e, a percentuali minori, i servizi erano composti da forza<br />

lavoro straniera, che quindi aveva un ruolo fondamentale nell’economia di<br />

<strong>guerra</strong> e nel progetto nazista. Tutto ciò accadeva prima ancora che con la<br />

primavera del ’42, dentro i campi o nei confronti dei deportati civili al lavoro,<br />

il regime nazista emanasse una direttiva sintetizzabile nella frase “eliminazione<br />

tramite il lavoro”.<br />

L’ultima delle deportazioni che vorrei ricordare, cui, ripeto, dobbiamo mettere<br />

tante virgolette, che vorrei inserire in questo quadro affinché non fosse<br />

dimenticata, è la prigionia di <strong>guerra</strong>; sono gradi assai diversi di un unico<br />

dramma, che però è bene analizzare per avere una rappresentazione complessiva<br />

della seconda <strong>guerra</strong> mondiale, una <strong>guerra</strong> di movimento, <strong>guerra</strong> di<br />

grandi eserciti e quindi <strong>guerra</strong> di prigionieri. Le prigionie ebbero durata<br />

diversa, estremamente lunghe quelle iniziali, francesi e sovietiche, meno<br />

lunghe ma non meno drammatiche in taluni casi quelle successive. Penso ad<br />

esempio ai prigionieri italiani disarmati dalle forze armate tedesche dopo l’8<br />

settembre ’43, prigionieri militari cui il regime nazista non concesse<br />

neanche la definizione giuridica di prigionieri, per una ragione molto specifica.<br />

Innanzitutto sembrava sconveniente fare prigionieri di uno Stato come<br />

la Repubblichina sociale di Salò, che in fondo era un alleato; e poi soprattutto<br />

perché attraverso la definizione di internati militari e non di prigionieri<br />

di <strong>guerra</strong> si poteva evitare a questi italiani il lenimento che poteva<br />

derivare dalle ispezioni della Croce Rossa internazionale. Quindi internati<br />

militari italiani furono del tutto o in buona parte in balia delle forze armate<br />

tedesche e del sistema nazista, il quale, non a caso, li trasformò in “lavoratori<br />

volontari”, dopo che questi Italiani per ragioni diverse per due anni rifiutarono<br />

l’adesione alla Repubblica sociale di Salò. La resistenza armata partigiana<br />

in Italia fu, insieme a quella jugoslava, una delle più consistenti dal<br />

punto di vista quantitativo e una delle più importanti dal punto di vista<br />

politico e forse anche sociale. 650 mila Italiani rimasero nei campi, alcuni<br />

nei campi separati per ufficiali, altri inseriti in maniera “volontaria” nella<br />

struttura di produzione per la <strong>guerra</strong> tedesca; non aderire alla Repubblica<br />

sociale italiana fu un vero plebiscito antifascista di questi Italiani, visto che<br />

19


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

20<br />

sarebbe stato sufficiente dire un sì per tornare in Italia. E infatti qualcuno<br />

aderì, ed una volta tornato in Italia salì in montagna e si allineò alla<br />

resistenza antifascista. Ma la stragrande maggioranza degli Italiani non<br />

aderì; questo fu un segnale, un eccezionale plebiscito degli Italiani.<br />

Sono state quindi prigionie molto diverse, nei tempi, nei luoghi, nella durata,<br />

ma comunque prigionie eccezionalmente consistenti. Quella sovietica in<br />

primo luogo, quasi 6 milioni di uomini, di cui 2 milioni morirono nei campi<br />

di lavoro, di concentramento e di prigionia tedeschi; un milione e 300 mila<br />

sono stati dichiarati dispersi. Di fatto fu quindi una decimazione del nemico<br />

da parte tedesca, del nemico ideologico, del bolscevismo sovietico, etnico<br />

ecc. La prigionia fu subita anche dalle altre forze armate sconfitte. I prigionieri<br />

francesi ammontarono ad un milione e 800 mila uomini, quelli italiani<br />

ad un milione e 300 mila, equamente divisi tra forze armate tedesche e<br />

forze armate anglo-statunitensi ecc. Pesanti furono anche le prigionie<br />

tedesche, anche se subite soltanto nell’ultimo periodo; non possiamo infatti<br />

dimenticare i 3 milioni di prigionieri finiti in mano sovietica, un milione dei<br />

quali non sono più rientrati.<br />

Tutto questo spostamento di uomini, di etnie, di lavoratori, di oppositori del<br />

regime nazista o dei regimi satelliti e di alleati del nazismo, in qualche modo<br />

costituisce nel complesso la deportazione. Più esattamente furono gli spostamenti<br />

coatti di popolazioni, di uomini e donne, durante la seconda <strong>guerra</strong><br />

mondiale, a costituire la deportazione. Alcuni di questi ebbero una sorte<br />

unica e tragica, altri sperimentarono in maniera diversa quello che era un<br />

regime illiberale, anti-egualitario e che si proponeva la ristrutturazione<br />

etnica, politica, civile e, a suo modo, anche militare dell’Europa.<br />

Vi ringrazio.


1938/1943:<br />

dalla discriminazione<br />

alla deportazione<br />

Michele Sarfatti, Centro di Documentazione Ebraica<br />

Contemporanea –Milano<br />

Quando sono chiamato a parlare a classi o insegnanti che accompagnano<br />

ragazzi in visita ai campi, generalmente inizio con alcune “istruzioni d’uso”<br />

che potete anche prendere e cestinare, che non vogliono essere imperative,<br />

ma che mi sembra necessario dare.<br />

In primo luogo, la Shoah si è configurata come un monolite, viene usata, e<br />

addirittura si può dire in qualche caso viene strumentalizzata, come un<br />

monolite per distinguere quello di “2001 Odissea nello spazio” piazzato in<br />

una sorta di deserto, di piano, utile per capire e distinguere il bene dal male.<br />

Ciò può essere positivo, può essere utile, ma può anche presentare dei pericoli.<br />

Il rischio più grave è che così facendo la Shoah possa essere assolutizzata,<br />

de-storicizzata, tratta fuori o estraniata dal percorso della storia<br />

umana. Allora la raccomandazione che faccio sempre, anche se qui non<br />

sarebbe necessario perché i lavori sono stati introdotti con una relazione con<br />

questo titolo, è che la Shoah sia sempre collocata in un triangolo storico: storia<br />

degli Ebrei, storia dell’antisemitismo, storia del fascismo e del nazismo<br />

e poi anche della <strong>guerra</strong> e messa al suo centro. La Shoah non deve divenire<br />

un qualcosa di irreale ed incomprensibile, perché se la si espelle dalla storia<br />

si espellono anche gli Ebrei, una volta in più e in modo diverso dal passato.<br />

Oggi occorre poi darle una dimensione storica, perché a chi ha meno di<br />

vent’anni non arrivano più notizie certe e pregne di valore, non arrivano più<br />

input sui valori. Penso a tutti i discorsi di pacificazione ideologica dei nostri<br />

tempi, che, certamente, non è una cosa secondaria, perché c’è già stato dopo<br />

la Liberazione quello che si può chiamare il ripristino della convivenza<br />

sociale, non c’è stata l’uccisione a tappeto dei repubblichini e dei fascistoni;<br />

gli Italiani di diverse idee, di opposte idee, hanno ritrovato un modo di ripristinare<br />

la convivenza sociale della società. Non c’è mai stata pacificazione<br />

ideologica ed oggi, da una decina d’anni, membri di tutti i partiti ci invitano<br />

a stabilire finalmente una pacificazione ideologica relativa a 50-60 anni fa.<br />

Voglio dare agli insegnanti un secondo consiglio. Per insegnare la Shoah<br />

occorre sapere una cosa che nemmeno io sono in grado di spiegare con le giuste<br />

parole, quindi vi prego di scusarmi; occorre sapere come fare a predisporre<br />

la mente dei ragazzi ad accogliere l’idea della sofferenza estrema;<br />

spesso capita che i racconti sulla Shoah vengano respinti. Qualche volta sui<br />

giornali arriva la notizia che è stato proiettato il tal film su Eichmann o<br />

Schindler’s List, per scolaresche quasi obbligate alla visione del film, e che<br />

ci sono stati lazzi, burla ed il custode, al momento delle pulizie, ha notato il<br />

21


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

22<br />

raddoppio delle svastiche disegnate sugli schienali delle poltroncine; dietro<br />

a tutto ciò c’è uno scarso lavoro degli insegnanti. Ci sono dei ragazzi particolarmente<br />

riottosi, ma comunque si incontra una vera e propria difficoltà a<br />

far capire che ciò che vedono avvenne nei termini in cui oggi è descritto; c’è<br />

una sorta di repulsione ad accettarlo. A questo riguardo l’unica cosa che<br />

posso dire, perché non è mia materia specifica, è che va costruito un altro<br />

triangolo, diverso, al centro del quale non deve essere la Shoah come fatto<br />

storico, ma gli Ebrei in quanto vittime e con tre punti: i persecutori, gli indifferenti<br />

e i giusti. Bisogna cioè delineare i comportamenti di tutti senza assolutizzare,<br />

parlando dei giusti, degli indifferenti con le loro ambiguità, e dei<br />

persecutori con le loro ambiguità, di persone qualche volta intrappolate,<br />

incapaci di uscire dal ruolo stesso di persecutore. Nel caso dei giusti la figura<br />

di Schindler può essere letta in molti modi, uno opposto all’altro, in una<br />

grande ragnatela di ambiguità.<br />

Il terzo consiglio, molti di voi lo sapranno, è quello di insegnare le distinzioni.<br />

Da una parte troviamo la terminologia degli storici, dall’altra la terminologia<br />

dei mass media; non è sufficiente neanche ciò che l’insegnante più<br />

bravo può fare. Al termine di lezioni alle scolaresche mi trovo di fronte a<br />

domande dalle quali si vede chiaramente che la capacità dell’insegnante di<br />

spiegare le cose può molto poco di fronte all’invadenza di una terminologia<br />

che rimbalza dai quotidiani alle televisioni. Quindi va ribadito sempre che<br />

c’è differenza fra i lager del nazionalsocialismo e i lager. È vero che hanno lo<br />

stesso identico nome, che significa “campo”, ma nei lager sovietici non arrivavano<br />

infanti, salvo bambini piccoli, e non arrivavano persone intenzionalmente<br />

destinate ad essere sterminare totalmente. Ricordiamo le uccisioni<br />

nelle foibe, atti di conduzione barbarica di una <strong>guerra</strong> militar-politica, come<br />

ce ne sono stati purtroppo tanti, a partire da Caino e Abele fino ai tempi<br />

nostri, non so se è stato messo in una foiba e sotterrato, comunque è la stessa<br />

derivazione dove nulla cambia. Auschwitz rappresenta una novità, perché<br />

è la prima volta che si prendono bambini; diciamo sempre che i bambini<br />

sono innocenti da qualsiasi colpa, come se alla nostra età dovessimo essere<br />

sempre colpevoli per qualcosa che abbiamo commesso. Ma parliamo sempre<br />

di bambini! Non era mai successo e non è più successo, per fortuna, che<br />

venissero presi dei neonati a Rodi, a Roma, a Bordeaux, in Norvegia, per<br />

essere portati ad Auschwitz a morire. Potevano morire in occasioni di disastri,<br />

ma sul posto, dentro l’isola di Rodi, dentro la città di Roma, nelle strade<br />

di Bordeaux e nei fiordi della Norvegia. Per la prima volta assistiamo ad<br />

un trasporto collettivo al fine di uccidere in un altro luogo. Quindi attenzione<br />

sempre alle differenze, alle particolarità.<br />

Ultimo consiglio, poi passo ad affrontare i miei temi. Chi va ad Auschwitz,<br />

non so se è già stato detto, deve tenere presente che è il più grande cimitero<br />

ebraico di tutti i tempi. Non è solo un luogo della memoria, perché la<br />

dizione luogo della memoria comincia ad assomigliare un po’ a museo, dove<br />

si va per imparare, per vedere, per apprendere. Mi dispiace che il professor<br />

Labanca sia dovuto andare via, perché avrei voluto proprio porgli un quesito.<br />

Infatti ho l’impressione che non ci siano cimiteri più grandi di Auschwitz,<br />

che nella storia dell’umanità non esista un luogo dove nell’arco di alcuni<br />

mesi siano state uccise per motivi tecnici centinaia di migliaia di persone<br />

nello spazio di poche centinaia di metri quadri. Auschwitz è prima di tutto<br />

un enorme cimitero, il più grande cimitero della storia ebraica e comunque<br />

uno dei più grandi della storia mondiale, è un luogo che si visita solo quando<br />

si è pronti al rispetto, prima ancora di essere pronti alla conoscenza, altrimenti<br />

è meglio non andare. Peraltro è un cimitero moderno, modernissimo,<br />

perché è un cimitero virtuale, soltanto nel mondo di Internet capita di trovarsi<br />

in un cimitero senza morti. I resti dei morti non ci sono più, sono nelle<br />

ceneri, nell’aria e nel vento, come diceva Guccini.


1938/1943: dalla discriminazione alla deportazione<br />

La <strong>Regione</strong> ha fatto benissimo a lanciare questa iniziativa nelle Province,<br />

nelle scuole; non importa che qualcuno sia obbligato a venire, perché non<br />

servirebbe né a lui né alla memoria. È necessaria inoltre una ingente preparazione;<br />

è fondamentale che i colleghi riescano a convincere altri colleghi<br />

a partecipare alla preparazione delle classi, combattendo le battaglie<br />

immani sulla destinazione delle ore, ecc. Ribadisco ancora che è comunque<br />

necessaria una ingente preparazione perché il tema è incredibilmente<br />

complicato.<br />

Guardiamo agli aspetti principali che si possono presentare dell’esperienza<br />

italiana e dell’arrivo alla Shoah. Il primo aspetto, che riguarda tutta<br />

Europa, è il fatto che le legislazioni antiebraiche europee avviate dalla<br />

Germania nel ’33 si diffusero nel continente nel ’38, e si diffusero allo stesso<br />

modo (con i milioni di differenze da fare) nel quale si propagarano i moti<br />

degli anni ’20, ’30, del ’48, del secolo precedente. L’Europa ha già dall’800<br />

un unico cuore pulsante, forse allora più concentrato, più caratterizzato,<br />

più formato nei centri urbani, nei luoghi di interscambio fra le nazioni;<br />

questo cuore si vede benissimo nella società degli anni ’30. Specialmente<br />

nel primo trimestre del ’38 c’è una tale successione di varo delle legislazioni<br />

antiebraiche, fra varo e annuncio del varo successivo, in Romania,<br />

Italia, Ungheria, Polonia, che si capisce di esser di fronte a un fenomeno<br />

che matura continentalmente, e non è più, come fino al dicembre ’37 caratteristica<br />

del solo Stato tedesco nazista, dal ’38 in poi è una delle caratteristiche<br />

continentali. In questo contesto nessuno ha mai trovato tracce di<br />

imposizioni, ordini, pressioni o suggerimenti dello Stato iniziatore, cioè<br />

dello Stato tedesco. Tutto ciò rafforza il concetto della maturità continentale.<br />

Fra queste legislazioni iniziali, precedenti l’inizio della prima <strong>guerra</strong><br />

mondiale in Italia, Romania, Ungheria, Polonia, la più dura è quella italiana,<br />

cioè quella dello Stato che era formalmente alleato della Germania,<br />

ma più forte rispetto a questa, sia per motivi politici che per motivi economici.<br />

Ci si sarebbe potuti aspettare una piatta ricopiatura della legislazione<br />

tedesco-nazista da parte della Romania, Stato più debole, più sensibile,<br />

in difficoltà economiche. Ciò invece non accadde, da un lato confermando<br />

la maturità continentale della legislazione antiebraica ed dall’altro<br />

invitando a riflettere con maggiore attenzione sulle caratteristiche dell’esperienza<br />

italiana.<br />

Quando vado nelle classi, porto sempre l’esempio del “copione”, nel senso<br />

che se Mussolini fosse stato digiuno di razzismo e antisemitismo, non<br />

avrebbe fatto altro che guardare il compito scritto dal compagno di banco,<br />

Adolf Hitler, e quindi copiare la normativa senza aggiungervi nulla; d’altronde<br />

il copione che ottiene successo è quello che non va al di là di ciò che<br />

fa il compagno bravo, perché andare al di là presenta sempre il rischio di<br />

sbagliare. Già nel ’38 Mussolini va al di là, non su tutto ma su alcuni punti<br />

specifici. Fatto particolarmente interessante è che gli studenti ebrei vengono<br />

espulsi da tutte le scuole pubbliche in Italia il 2 settembre ’38, in<br />

Germania il 20 novembre 1938. Come si può notare è una sorta di gara a<br />

chi recupera il terreno perso nei confronti dell’altro, e questa capacità italiana<br />

di essere andata oltre su alcuni punti rispetto alla Germania, indica<br />

il fatto che c’è stato comunque un percorso nazionale. Ai ragazzi forse la<br />

notizia giunge nuova, ma gli insegnanti ricordano che nei decenni scorsi<br />

veniva usata la formula della via italiana al socialismo, con riferimento al<br />

Partito comunista, che era una strada originale con caratteristiche autonome.<br />

Allo stesso modo abbiamo avuto una via italiana all’antisemitismo,<br />

una via italiana alla legislazione antiebraica, via che va riconosciuta e<br />

accettata con consapevolezza perché parte del nostro passato collettivo<br />

nazionale. Il passato dell’Italia è il passato di tutti, è il passato anche degli<br />

Ebrei; ciò che Mussolini ed il fascismo hanno fatto, fa parte anche del pas-<br />

23


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

24<br />

sato degli eredi delle vittime. Il passato e l’identità nazionali sono comunque<br />

argomenti molto complessi.<br />

Ma cosa emerge da questa maturità continentale e da questa legislazione<br />

antiebraica che viene varata nel ’38 sia in paesi all’epoca moderni, come<br />

l’Italia e la Germania, e per certi aspetti l’Ungheria, sia in paesi più arretrati<br />

come la Polonia e la Romania, e che quindi avevano avuto una storia<br />

ottocentesca molto diversa l’uno dall’altro? So di fare un gran miscuglio che<br />

uccide le distinzioni, me ne scuso prima, ne sono consapevole, ma devo essere<br />

breve. La vicenda della legislazione antiebraica è, da un punto di vista<br />

continentale, il rinnegamento dell’esperienza avviata con la Rivoluzione<br />

francese e concretizzatasi poi con il Liberalismo. Il concetto di cittadinanza<br />

viene meno, è un ritorno al pre-Rivoluzione francese. In tutti questi Stati le<br />

persone erano divenute, assieme ai loro connazionali di altra religione, cittadini<br />

italiani, cittadini tedeschi, cittadini rumeni, cittadini polacchi, cittadini<br />

ungheresi, cittadini austriaci; dopo viene revocata l’uguale cittadinanza<br />

che all’epoca si era materializzata in modo diverso in ciascun paese e,<br />

possiamo dire, che concerneva sostanzialmente, come minimo, i maschi alfabetizzati,<br />

benestanti, dal ceto medio in su. Questo concetto è quello che viene<br />

buttato a mare, quindi le leggi antiebraiche sono una svolta epocale nel continente<br />

europeo; le donne avevano sempre avuto pochi diritti, continuavano<br />

ad averne pochi, non cambia molto la loro situazione; ci sono delle politiche<br />

anti femminee del fascismo e del nazismo, ma è un altro tipo di problema.<br />

Le popolazioni delle colonie continuavano a non avere i diritti mai ottenuti<br />

nei secoli precedenti dai conquistatori europei; in Italia i nipoti o i figli degli<br />

Ebrei, che hanno partecipato al Risorgimento e sono diventati cittadini<br />

assieme a tanti altri, cessano di essere cittadini. Comunque nel nostro paese<br />

non viene revocata la cittadinanza, ma il diritto-dovere dell’epoca di prestare<br />

il servizio militare nel quale si materializzava la partecipazione effettiva<br />

alla nazione e alla patria. Proprio il primo trimestre ’38 ha rappresentato<br />

una svolta epocale, tanto epocale che non viene indicata come tale nei<br />

manuali di storia. Bisognerebbe affrontare tutto il problema di cosa sia<br />

manuale di storia; non c’è il desiderio di porre gli Ebrei al centro di tutto,<br />

della storia nazionale, continentale, del mondo, di questo o di quest’altro,<br />

però bisogna sottolineare che queste revoche collettive di diritto o di fatto<br />

della cittadinanza non erano mai avvenute, salvo nei casi di persone condannate<br />

per gravi reati. E allora bisogna pur chiedersi perché e come è avvenuto.<br />

La seconda questione, perché la narrazione completa non si può fare, è quella<br />

delle caratteristiche dell’antisemitismo italiano. L’antisemitismo italiano,<br />

detto così, ha poche caratterizzazioni, l’unica sua vera caratterizzazione è il<br />

bassissimo tasso di ideologia. Si confronta con la Germania nazista che è<br />

invece contraddistinta da un antisemitismo con un altissimo tasso di ideologia.<br />

Non dobbiamo però fermarci a questo punto, perché la legislazione<br />

antiebraica italiana ha una sua caratterizzazione, che non può venire da<br />

una ideologia forte in quanto non c’è un’ideologia forte, ma da qualche cosa<br />

deve pur venire, dato che non è la legislazione che inventa delle premesse<br />

teoriche, ma sono delle premesse teoriche che si estrinsecano in una legislazione.<br />

La legislazione antiebraica italiana ha una caratterizzazione razzistica<br />

biologica e questo la accomuna duramente con la Germania e la differenzia<br />

(stiamo parlando del ’38) da Ungheria, Romania, Polonia e anche<br />

dalla Slovacchia del ’39. La caratterizzazione nazistica biologica è quella che<br />

si esplica sostanzialmente come segue: tutti i figli di due genitori di razza<br />

ebraica sono di razza ebraica, anche se i figli sono per l’Italia cattolici o valdesi;<br />

tutti i figli di due genitori di razza ariana sono ariani, anche se i figli<br />

si sono convertiti all’ebraismo. Quindi la caratterizzazione biologica dice che<br />

non puoi sfuggire al destino che ti è stato predeterminato dai genitori e che


1938/1943: dalla discriminazione alla deportazione<br />

ai tuoi genitori è stato predeterminato dai loro, cioè dai nonni, dai bisnonni<br />

e così via.<br />

Le anagrafi comunali sono una conquista dell’800, prima c’erano i registri<br />

delle parrocchie o delle sinagoghe; per alcune famiglie in genere era difficilissimo<br />

arrivare ad appurare chi erano gli antenati dell’800 e rarissimo riuscire<br />

a risalire nel tempo fino al ’700. Cosa fanno tanto la legislazione tedesca<br />

quanto la legislazione italiana? Dicono che chi all’inizio dell’800 era<br />

ebreo di religione, era quindi di razza ebraica, risolvendo così un problema<br />

irrisolvibile. C’è qualcuno in grado di dire se Leonardo da Vinci aveva un<br />

bisnonno ebreo? Su Cristoforo Colombo c’è un dibattito aperto, ma nessuno<br />

riesce ad arrivare ad una conclusione, data la mancanza di registri; questi<br />

non venivano tenuti e quei pochi che c’erano venivano distrutti; sono carte<br />

familiari. Quindi i bisnonni in genere vengono razzialmente catalogati sulla<br />

base della religione per impossibilità di agire altrimenti, ma da loro in poi a<br />

scendere, è tutto fatto sulla base del sangue. Chi ha il 100% di antenati di<br />

quel tipo è forzatamente ebreo o ariano indipendentemente dalle scelte personali.<br />

Poi si presenta la complessa questione dei misti, sulla quale la gran<br />

parte degli storici si sofferma per trarre un giudizio sull’impostazione generale<br />

del fascismo; secondo me è un errore agire così. I misti costituiscono un<br />

incidente di percorso, che viene evitato per il futuro con il divieto di matrimoni<br />

misti e di unioni miste; quindi, tanto in Germania quanto in Italia, non<br />

verranno più procreati. Quelli che già esistono sono un enorme problema per<br />

qualsiasi regime razzista, perché sono persone che, per usare il linguaggio<br />

tedesco e italiano dell’epoca, contengono in sé sangue ariano da omaggiare<br />

e salvare, e sangue ebraico da condannare ed emarginare. Non c’è modo di<br />

separare le due componenti, coocircolano mischiate, non c’è modo di separarle.<br />

Tutte le soluzioni, sia quella italiana che quella tedesca, sono caratterizzate<br />

da profonde ambiguità. Quella italiana ripartisce questi misti nell’una<br />

o nell’altra razza, invece la soluzione tedesca crea un gruppo intermedio<br />

di meticci suddiviso a sua volta in meticci di primo grado e meticci di<br />

secondo grado. Si potrebbe analizzare meglio tale questione, ma non sarebbe<br />

questo il punto sulla base del quale valutare le caratteristiche della legislazione<br />

italiana; le caratteristiche si valutano sulla base di quello che succede<br />

ai puri. Le legislazioni ungherese, rumena antecedente alla <strong>guerra</strong>, e<br />

anche quella slovacca del ’39, ammettono che una parte di Ebrei cosiddetti<br />

puri, in ragione di alcuni meriti di tipo nazionale o economico, o perché sposati<br />

in matrimonio misto siano esclusi dalla persecuzione e siano trattati<br />

come ariani. La legislazione italiana, quando parla di questa possibilità, la<br />

riferisce soltanto ad una limitatissima riduzione del carico persecutorio,<br />

infatti mantiene la gran parte delle persecuzioni e la classificazione di razza<br />

ebraica.<br />

La legge dovrebbe essere descritta con molta attenzione. Quello che raccomando<br />

agli insegnanti è di parlare della legge di espulsione degli studenti<br />

dalle scuole, perché è un modo concreto per entrare in contatto con gli alunni.<br />

Basta poco, basta tirare a sorte una lettera, la lettera P o magari più di<br />

una per non rischiare, ad esempio le lettere P Q e R, leggere queste leggi del<br />

settembre/novembre ’38 e dire a quelli che hanno il cognome che inizia per<br />

P Q e R da domani di non venire più a scuola. Gli si chiede di alzarsi, di<br />

togliere i libri e i quaderni dal banco e di uscire. Poi ci si pone un problema:<br />

questo banco ora è vuoto, qualcuno deve mettersi in questo posto, perché noi<br />

insegnanti vogliamo che gli studenti siano sempre due a due. Dibattiamo in<br />

classe in base a quali caratteristiche scegliere chi deve occupare il banco. Il<br />

cognome? L’altezza? Il colore dei capelli prima delle eventuali tinture? Non<br />

lo so. Serve molto calarsi dentro. Quello che propongo è di ragionare da razzisti<br />

per un giorno, antisemiti o altre cose; serve molto per capire il razzismo.<br />

Può accadere che in seguito ad un tale esperimento, colui, che tra 25<br />

25


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

26<br />

alunni ha un razzismo latente, esca rafforzato nelle sue convinzioni; comunque<br />

quello che realmente importa è che gli altri 24 riescono a capire bene di<br />

cosa si tratta.<br />

Badate che dal ’38 al ’43 gli atti di violenza contro gli Ebrei furono pochissimi<br />

in Italia, furono devastate alcune sinagoghe, ci furono Ebrei bastonati<br />

per la strada, ma tutto sommato nel contesto continentale gli Ebrei italiani<br />

dal ’38 al ’43 potrebbero anche non lamentarsi. Ma per capire le conseguenze<br />

ritornano in ballo i professori di scienze. Mi è sempre rimasta impressa<br />

una lezione dove mi spiegavano in termini reali la questione di queste grandi<br />

mandrie di animali, grandi branchi di quadrupedi che, qualora siano troppi<br />

rispetto al territorio, trovano delle forme di suicidio. Qualcosa di simile<br />

accade anche ai gruppi perseguitati; è un argomento complicatissimo, perché<br />

in parte è volontario, in parte involontario, e non sto parlando dei suicidi<br />

veri e propri che ci sono stati in Italia. I matrimoni tra due persone di religione<br />

ebraica, al di là della “razza” di appartenenza, erano 200 all’anno alla<br />

vigilia delle leggi, diventarono 156 nel ’39 e 116 nel ’40. Si potrebbe riferire<br />

queste tendenze ad un certo motivo: la <strong>guerra</strong>. Sono andato a controllare,<br />

nei primi anni di <strong>guerra</strong> il grafico dei matrimoni fa così, perché magari è<br />

utile per non partire per il fronte, o per avere la licenza, o perché ci sono dei<br />

fidanzamenti ormai maturi che si stringono subito. C’è un grafico del ’40-’41<br />

a livello nazionale, che fa così, e quindi la <strong>guerra</strong> non c’entra niente, anzi. I<br />

matrimoni razzialmente misti, che molto spesso erano fra un ebreo e un cattolico,<br />

e che venivano o celebrati civilmente o nel caso dei matrimoni paolini<br />

in chiesa cattolica, furono vietati, non ci furono più. Alla vigilia delle leggi<br />

i matrimoni misti erano 200 all’anno, avevamo 200 matrimoni fra due ebrei,<br />

200 matrimoni misti, quindi 300 ebrei che ogni anno contraggono matrimonio;<br />

nel ’40 gli ebrei che contraggono matrimonio solo fra di sé sono … Erano<br />

200 matrimoni fra ebrei quindi 400 coniugi, più 200 di matrimonio misto fa<br />

600, quindi nel ’37 600 ebrei si sposano; gli ebrei che si sposano nel ’40 sono<br />

230. Normalmente la procreazione avveniva in larga maggioranza all’interno<br />

del matrimonio, non indugio adesso sulle statistiche delle nascite, ma<br />

questo vi mostra come il gruppo dei perseguitati quando si rende loro la vita<br />

difficile, quando si incide sulla possibilità di avere lavoro, sulla capacità di<br />

reddito, quando li si isola socialmente arriva a compiere degli atti, per scelta<br />

o perché obbligato, che portano questo gruppo a ridursi. In questo senso<br />

possiamo dire che la persecuzione dei diritti degli Ebrei ha delle influenze<br />

dirette sulla vita del gruppo.<br />

Si arriva alla svolta dell’8 settembre, quello che succede sotto la RSI, forse<br />

il vero punto che merita di essere messo in luce è il ruolo del campo di<br />

Fossoli. Arrestano e deportano direttamente gli Ebrei, senza intaccare gli<br />

Italiani; in particolare per Siena, e secondo alcuni accenni anche per<br />

Firenze, gli arresti del novembre ’43 vedono la partecipazione della milizia,<br />

mentre per gli arresti di ottobre ’43 a Roma non c’è alcuna testimonianza di<br />

compartecipazione diretta di Italiani. Con la fine di novembre ’43 la<br />

Repubblica sociale italiana decide di attivare in proprio la politica degli<br />

arresti, la politica dell’internamento in campi provinciali, per poi raccogliere<br />

gli internati in un campo nazionale che viene individuato nel campo di<br />

Fossoli nel Comune di Carpi in Provincia di Modena. Cosa accade a quel<br />

punto? Non abbiamo nessuna traccia di prova, di scritto, di discorso, che<br />

attesti una qualsiasi volontà o decisione italiana di consegnare gli Ebrei ai<br />

Tedeschi per la deportazione; non abbiamo niente in termini notarili, carta<br />

scritta con firma, non un telex conservato, un messaggio telegrafico conservato<br />

in archivio. A questo punto la storia documentale diventa sì importante,<br />

ma forse poco importante nei confronti della storia pattuale. Abbiamo il<br />

campo di Fossoli che ha delle dimensioni delimitate, che non può contenere<br />

un gran numero di persone, e abbiamo un procedimento di questo tipo: le


1938/1943: dalla discriminazione alla deportazione<br />

autorità italiane della RSI trasferiscono gli Ebrei dai campi provinciali al<br />

campo nazionale di raccolta di Fossoli; a questo punto le autorità tedesche,<br />

che tra febbraio e marzo prendono la gestione del campo di Fossoli per gli<br />

Ebrei, fanno partire i treni per Auschwitz o Bergen-Belsen. Quando il campo<br />

si svuota, dai campi provinciali o dalle prigioni della RSI partono nuovi piccoli<br />

convogli anche di poche unità o decine di persone per Fossoli, quando<br />

Fossoli è pieno riparte un convoglio per Auschwitz o Bergen-Belsen, e ricomincia<br />

il flusso a Fossoli. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza<br />

accordo. Davanti a tutto ciò uno storico potrebbe dire: la carta non mi interessa<br />

più, perché se ci fosse stata, come troverete scritto, una volontà italiana<br />

della RSI di non arrivare alla deportazione, a un certo punto avrebbero<br />

pur smesso di trasferire dai campi provinciali al campo nazionale! Qui non<br />

servono più i documenti, e io sono un maniaco dei documenti e delle virgole<br />

che vengono spostate prima o dopo la parola, potrei scrivere un articolo di<br />

20 cartelle su cosa significa; qui è così chiaro e semplice: gli Italiani trasferiscono<br />

a Fossoli e i Tedeschi prendono in consegna e deportano. Bastava<br />

poco per interrompere tutto questo, bastava bloccare i trasferimenti a<br />

Fossoli. La cosa si sapeva, oggi sappiamo che si sapeva. Ora i giornali sono<br />

invasi da ex repubblichini, ma anche di altri, che dicono “io non sapevo niente”.<br />

Ci sono delle cose che tutti sanno, senza che siano mai state scritte in<br />

alcun posto; ci sono delle notizie che circolano, si sa quando in un certo posto<br />

le cose funzionano bene.<br />

Questa è l’unica cosa che vi dico, ma che serve per capire quanto occorra<br />

vagliare le parole di chi viene oggi a dire “mi ricordo che”, anche quando si<br />

tratta delle vittime, perché questo vale per tutti. Uno dei punti spinosi dell’alleanza<br />

fra Italia e Germania era l’Alto Adige, detto in soldoni Hitler<br />

garantì a Mussolini l’italianità, l’appartenenza al regno d’Italia dell’Alto<br />

Adige, avendo poi qualche problema all’interno. La cosa venne risolta permettendo<br />

un pacifico e volontario esodo di chi richiedeva la nazionalità germanica,<br />

a quel punto ci fu l’Anschluss; l’Austria era Terzo Reich, chi optava<br />

per la nazionalità germanica, poteva liquidare le sue proprietà in Italia e trasferirsi<br />

a nord oltre il Brennero. È un processo complicato, lento, per cui ad<br />

un certo punto rimanevano in Alto Adige gli Italiani non tanto come ceppo<br />

linguistico, ma gli Italiani che decidono di mantenere la nazionalità italiana<br />

e gli optanti, che erano quelli che ancora non si erano trasferiti al nord. C’è<br />

una relazione del responsabile dell’organizzazione degli optanti di un paesino<br />

che scrive al suo referente di Bressanone, che è ancora un anello intermedio<br />

rispetto a Bolzano (stiamo parlando di piccoli posti), dove dice: “Nei<br />

circoli degli Italiani, che sono quelli che dicevo prima, si dice che tutti questi<br />

Ebrei arrestati, e non sto parlando degli Italiani perché siamo nel gennaio<br />

del ’43, vengono portati in treni al nord, in questi treni viene immesso il gas<br />

e questi Ebrei muoiono”. Chi scrive è un pochino stupefatto di questa cosa,<br />

gli giunge nuova, la interpreta come una notizia tendenziosa atta a screditare<br />

la Germania. È interessante notare che, a gennaio, si sta parlando anche<br />

in questo paesino sperduto nelle valli dell’Alto Adige, del fatto che gli Ebrei<br />

vengono messi nei treni e uccisi col gas: questa non è una cosa che ci si può<br />

inventare; infatti non penso che nella prima <strong>guerra</strong> mondiale a qualcuno sia<br />

venuto in mente di dire certe cose, credo che non sia mai circolata una notizia<br />

del genere, perché in realtà non era mai accaduto. Certi avvenimenti,<br />

come ad esempio uccidere delle persone con il gas in un treno, sono diversi<br />

dalla realtà, ma è il modo in cui è arrivata la deformazione di Auschwitz, il<br />

che vuol dire che la notizia circolava e che si sapeva nel modo in cui si sanno<br />

le cose senza che nessuno ce le abbia mai dette. Quando il 30 novembre ’43<br />

c’è l’ordine di arresto degli Ebrei italiani, “L’Unità” clandestina scrive un articolo<br />

nel quale si dice che il popolo romano deve impedire questi arresti perché<br />

bisogna impedire che si ripeta quello che è successo con gli arresti tede-<br />

27


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

28<br />

schi del 16 ottobre ’43, quando centinaia di persone furono portate a morire<br />

di fame e di freddo chissà dove. Non sanno delle camere a gas, non sanno di<br />

Auschwitz, ma sanno che c’è la morte, sanno che il processo di deportazione<br />

termina con la morte. Oggi sono concetti diffusi, non c’è bisogno che qualcuno<br />

ce li dica; se si pensa a un profugo politico di un tipo o dell’altro, se ad<br />

esempio mi parli di un tuo amico talebano che è appena rientrato in questi<br />

giorni in Afghanistan, entrambi sappiamo che sarà ucciso entro pochi giorni,<br />

o qualcosa del genere. Non mi interessa dire se è giusto o sbagliato, non<br />

voglio dare giudizi, ci sono delle cose che si sanno, si percepiscono, basta fare<br />

due più due. Io non sono rimasto stupito per niente quando le televisioni<br />

hanno detto che c’era stata la rivolta nel carcere di Mazar el Sharif con l’uccisione<br />

di centinaia ...; per me era già nell’ordine delle cose, era ovvio che in<br />

quella situazione le cose avessero anche questa fine, si sapeva. Vittorio Foa<br />

sapeva tutto da prima che iniziasse la <strong>guerra</strong>; c’è una lettera della primavera<br />

del ’39 pubblicata nel suo libro, dove scrive ai genitori: “Ho appena letto il<br />

tal libro che racconta il genocidio degli Armeni – compiuto dai Turchi in connessione<br />

con la prima <strong>guerra</strong> mondiale – e se si arriverà alla <strong>guerra</strong> questo<br />

è ciò che accadrà anche agli Ebrei della Mitteleuropa”, usa il termine<br />

Mitteleuropa per non dire Germania, altrimenti la lettera gli sarebbe stata<br />

censurata dal carceriere che lo sorvegliava.<br />

Le cose si sanno, dobbiamo riuscire ad avere un minimo di onestà con noi<br />

stessi prima che con gli altri, per dirci cosa sappiamo e cosa non sappiamo<br />

di ciò che è avvenuto e non dobbiamo trovare maledette scuse cinquant’anni<br />

dopo. E questa strana forma di negazionismo, poiché è riferita alle esperienze<br />

individuali, è un’autodifesa, non è paragonabile al negazionismo di<br />

altro tipo; viene fatta da persone che oggi sono di sinistra e di destra. Ma<br />

anche chi nega il fatto che si sapesse in questo modo contorto quale sarebbe<br />

stato il destino degli Ebrei all’epoca, chi nega di sapere, in qualche modo<br />

contribuisce a ucciderli di nuovo, oltre che a uccidere quella parte di umanità<br />

alla quale tutti dovremmo tenere.<br />

Grazie.


Presentazione<br />

della Guida Bibliografica<br />

Shoah e deportazione,<br />

di Enzo Collotti<br />

e Marta Baiardi<br />

Marta Baiardi, insegnante di Lettere all’I.T.C: “A.. Volta” di<br />

Bagno a Ripoli<br />

Comincio con i ringraziamenti. Ringrazio la <strong>Regione</strong> che ha promosso questo<br />

seminario di formazione come momento di riflessione per gli insegnanti,<br />

ma, per fortuna, anche per gli studenti, vista la partenza prossima del treno<br />

per Auschwitz, e ringrazio la Provincia con cui collaboro da alcuni anni per<br />

la realizzazione del progetto “Memoria” di cui dirò poi qualcosa.<br />

Mi rivolgo agli insegnanti, addentrandomi in quell’universo concentrazionario<br />

che a distanza di tanti anni noi, che siamo venuti dopo, non ci stanchiamo<br />

tuttavia di interrogare. Dirò qualcosa su come è nata questa guida,<br />

da quali esigenze, da quale contesto, perché secondo me sono questi i quadri<br />

sociali che contribuiscono a far ricordare.<br />

Dagli anni ’80, in particolare dal 1981, quindi sarebbe anche una specie di<br />

anniversario, la Provincia di Firenze, a partire da un gemellaggio con la<br />

città di Dresda, nell’allora DDR, cominciò a organizzare, in collaborazione<br />

con l’ANED, l’Associazione nazionale ex deportati, viaggi studio ai campi di<br />

concentramento nazisti. Ad essi partecipavano studenti, insegnanti e una<br />

cospicua delegazione di ex deportati politici. Voglio ricordare, perché è una<br />

cosa che non tutti sanno, che l’iniziativa ebbe origine dall’impegno dichiaratamente<br />

antifascista di due funzionari dell’Ufficio di gabinetto di allora, oggi<br />

entrambi in pensione, che si chiamano Gera (mi risulta che fosse un ex sindacalista<br />

della CGIL) e Cirella, Giordano Gera e Alberto Cirella. Non li ho<br />

conosciuti, ma li ricordo qui perché in fondo possiamo considerarli come i<br />

padri di questa nostra iniziativa. Nel corso del tempo questi viaggi, che<br />

hanno un carattere misto, in quanto pellegrinaggi civili e occasioni di riflessione<br />

e di approfondimento, sono continuati. Dalla metà degli anni ‘80 anche<br />

la comunità ebraica fiorentina partecipa all’iniziativa della Provincia, e tutti<br />

gli anni invia dei suoi rappresentanti. I viaggi si sono ormai differenziati e<br />

ne abbiamo due: uno nei territori dell’ex Reich millenario, cioè Germania e<br />

Austria, in particolare a Dachau, a Mauthausen e a Artheim, e l’altro nel<br />

luogo simbolo dello <strong>sterminio</strong> ebraico. Voi invece andrete in Polonia,<br />

nell’Alta Slesia, vicino a Cracovia, quello che Primo Levi chiamava l’anus<br />

mundi, che è un luogo così pregnante di tante cose.<br />

Dal 1989 Antonietta Rotondi, che ha anch’essa qualche merito nell’organizzazione<br />

del treno di quest’anno, era funzionaria dell’Ufficio Pubblica<br />

Istruzione della Provincia ed entra con un fervore e un impegno civile non<br />

comune nell’iniziativa di questi viaggi. L’iniziativa peraltro si è ormai affer-<br />

29


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

30<br />

mata pienamente nelle scuole fiorentine e ha visto succedersi nel tempo<br />

almeno due generazioni di studenti che hanno visitato i resti dei lager nazisti,<br />

e che su queste tematiche hanno lavorato e in qualche misura si sono<br />

dunque formati.<br />

Dal 1997 nasce l’esigenza di contrastare un clima di revisionismo montante,<br />

fuori e dentro le scuole, l’affacciarsi di una nuova generazione di studenti<br />

per cui la storia della metà del secolo scorso è lontana e non facilmente<br />

riconoscibile come propria. Dobbiamo accettare, anche se credo che si faccia<br />

un po’ fatica, che per i nostri studenti la seconda <strong>guerra</strong> mondiale, con tutto<br />

quello che ci è stato detto stamattina, rappresenti un oggetto di studio possibile,<br />

non più una memoria cresciuta spontaneamente in quadri sociali e<br />

condivisa in ambienti sociali di riferimento, come poteva invece essere per<br />

quelli come me nati nel dopo<strong>guerra</strong>. C’erano la famiglia e i gruppi dei pari;<br />

è stato ricordato qui stamattina Guccini, figlio di un internato militare, che<br />

ha potuto scrivere, quando faceva la maturità, la canzone su Auschwitz che<br />

ancora oggi i nostri studenti cantano; forse questa esperienza familiare che<br />

era diversissima, dato che suo padre era prigioniero militare, era in qualche<br />

maniera penetrata in lui. Ecco, su questo tipo di trasmissione noi non possiamo<br />

più contare, e noi che lavoriamo nel mondo della scuola dobbiamo<br />

essere consapevoli che queste cose sono lontane dai nostri studenti come la<br />

prima <strong>guerra</strong> mondiale lo era per noi. Prima c’era il nonno che raccontava e<br />

c’erano altri ambiti di trasmissione; oggi facciamo i conti con dei media<br />

molto potenti e molto prepotenti anche all’interno delle famiglie e quindi<br />

dobbiamo tenerlo presente e di conseguenza non dobbiamo stupirci. Questo<br />

lo dico per i miei colleghi, perché a volte siamo un po’ sconfortati, ma la<br />

situazione è questa.<br />

Il revisionismo montante e l’insorgere in qualche maniera di questo tipo di<br />

studente nuovo, con nuovi bisogni culturali e esistenziali, ha spinto nel ’97<br />

l’Assessorato all’Istruzione della Provincia ad una collaborazione con il<br />

CIDI. Il CIDI è un’associazione di insegnanti da molti anni impegnata su un<br />

doppio fronte, sia per una trasmissione storiografica non semplificata, infatti<br />

siamo sempre stati contrari agli schemi di una didattica in pillole, cioè<br />

composta da ricette brevi e poco impegnative, e sia impegnati in maniera<br />

possibilmente non sporadica né velleitaria, almeno nelle intenzioni, sul fronte<br />

dei razzismi presenti nella nostra società e nei nostri giovani. Razzismi a<br />

rischio di estensione sia in ampiezza che in profondità, proprio nel contatto<br />

anch’esso nuovo con il popolo dei migranti. Questa è la situazione nella<br />

quale ci troviamo a operare, nella quale questi viaggi si collocano.<br />

Il progetto “Memoria” nasce da questa esigenza e da questa nostra collaborazione,<br />

quindi si affianca negli ultimi anni ai due viaggi che rimangono,<br />

Polonia, Austria e Germania, viaggi con sempre meno ex deportati, sempre<br />

meno testimoni diretti, perché la generazione dei testimoni purtroppo sta<br />

scomparendo. Ricordo di aver fatto in tempo a conoscere il presidente<br />

dell’ANED locale, di averlo invitato un paio di volte a scuola e poi purtroppo<br />

è venuto a mancare; facciamo i conti tutti gli anni con questa realtà. Si<br />

affianca a questi viaggi un corso di formazione, sono dalle 22 alle 24 ore complessive,<br />

comprensivo di lezioni e di laboratori, con lo scopo di avvicinare a<br />

queste tematiche studenti e insegnanti prescelti per le visite ai lager.<br />

Il corso si è incentrato fin dall’inizio sulla consapevolezza che fosse necessario<br />

promuovere una forte cognizione storica su queste tematiche, quindi<br />

informazioni, ma anche nodi problematici. Inoltre, il carattere specificamente<br />

democratico della delibera della nostra Provincia di Firenze propone<br />

questa esperienza ai ragazzi e ragazze di ogni ordine di scuola, dai più blasonati<br />

licei (ricordiamo che ai licei va pur sempre il 25% della popolazione<br />

scolastica italiana) fino ai più modesti istituti professionali; è valsa la convinzione<br />

che, se in ultima analisi questi viaggi avevano lo scopo di promuo-


Presentazione della Guida Bibliografica Shoah e deportazione. di Enzo Collotti e Marta Baiardi<br />

vere i valori della pace, della tolleranza e della democrazia, tanto più non<br />

dovevano limitarsi alle fasce già acculturate della popolazione scolastica.<br />

Altre esperienze in questo senso, per esempio i concorsi per studenti promossi<br />

dalla <strong>Regione</strong> Piemonte che premiavano i lavori migliori, hanno poi<br />

dimostrato nel tempo i limiti di questa meritocrazia, in quanto venivano<br />

premiate con i viaggi studio sempre le stesse scuole, che proponevano sempre<br />

i più bravi. Durante il lavoro del nostro corso, alle lezioni, eravamo soliti<br />

offrire delle bibliografie; erano delle bibliografie fotocopiate abbastanza<br />

ampie da soddisfare gli insegnanti, abbastanza comprensibili da essere consultabili<br />

anche dagli studenti, da studenti volenterosi ma di tutti i tipi. Da<br />

quando poi il benefico decreto Berlinguer ha strappato la storia contemporanea<br />

all’odor di politica facendola diventare finalmente curriculare in tutte<br />

le quinte, queste bibliografie tematiche, ciascuna seguiva un argomento specifico<br />

(fascismo, razzismo, nazismo, ecc.), venivano distribuite e spiegate contestualmente<br />

alle lezioni tenute e agli argomenti affrontati. Pensavamo<br />

anche che potessero tornare utili per lavori di approfondimento, tesine da<br />

portare all’esame, percorsi futuri, curiosità. Insomma, abbiamo sempre teso<br />

in questi cinque anni di lavoro del progetto “Memoria” a far passare l’idea<br />

che le bibliografie si possano e si debbano maneggiare, che con le bibliografie<br />

si possa entrare in amicizia, plasmandole, manipolandole a proprio piacimento,<br />

aggiungendo, cassando, o semplicemente continuando a ignorare<br />

molti dei titoli proposti.<br />

È proprio questa la specifica ricezione da parte del lettore, il suo lavoro attivo<br />

nell’interazione con questo strumento che è la bibliografia. In fondo la<br />

bibliografia rappresenta sempre un onesto sussidio, per tutto quello che un<br />

po’ impietosamente rivela su chi la compila: preferenze di lettura, tendenze<br />

storiografiche, idiosincrasie, persino le idee politiche e molte lacune, come<br />

senz’altro mostrerà anche la nostra: dimmi cosa leggi o cosa non leggi, ti dirò<br />

chi sei! Lasciare questo libero esercizio di critica a studenti e professori che<br />

ci seguono nelle nostre lezioni al progetto “Memoria” ci pareva in se stesso,<br />

in tempi di pratiche didattiche ridotte a formulari, un importante criterio<br />

educativo di per sé. Per questo abbiamo scelto questo strumento.<br />

Questa Guida bibliografica è nata con questo spirito, con questa predilezione<br />

a dichiarare le nostre letture, che vuol mostrare da dove prendiamo le<br />

cose che sappiamo, a chi siamo debitori per quanto poi veniamo elaborando<br />

nelle lezioni e nei seminari; quindi in ultima analisi è nata con uno scopo<br />

pratico, cioè quello di accompagnare quanto il corso del progetto “Memoria”<br />

di anno in anno veniva sviluppando. L’impianto originario del libro nasce<br />

quindi dal corso. Non si tratta tuttavia di un mero elenco di titoli, ma di una<br />

partizione ragionata della materia, di per sé enorme, che dall’ambito generale<br />

dei regimi fascista e nazionalsocialista e dei razzismi, che quei sistemi<br />

sostanziavano, giungesse poi non marginalmente, attraverso la seconda<br />

<strong>guerra</strong> mondiale, al particolare del sistema concentrazionario; abbiamo cercato<br />

di prestare attenzione ai singoli campi di concentramento, di <strong>sterminio</strong>,<br />

anche italiani, sistema concentrazionario che è stato una componente essenziale<br />

dei regimi nazifascisti, fino a giungere, sempre come tematiche, allo<br />

specifico della Shoah, al genocidio degli zingari, alle persecuzioni contro gli<br />

omosessuali, contro le confessioni religiose e all’internamento militare.<br />

Abbiamo dedicato una sezione a sé alle persecuzioni in <strong>Toscana</strong>, per rendere<br />

conto dello stato degli studi su base locale, ma anche per dare ai nostri<br />

lettori la possibilità di uno sguardo ravvicinato ma significativo su una<br />

realtà conosciuta direttamente quanto meno nella sua geografia.<br />

Le ultime sezioni della Guida riguardano le fonti memorialistiche, che occupano<br />

uno spazio abbastanza cospicuo. Qui c’è infatti un’enorme quantità di<br />

materiale e inoltre queste fonti sono state per molto tempo quasi l’unica<br />

tipologia di letteratura esistente in questo settore, hanno fatto da supplen-<br />

31


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

32<br />

ti anche a tanti settori della storia ufficiale. Poi tra le ultime sezioni della<br />

Guida Bibliografica ce n’è una dedicata a memoria e storia, in via particolarmente<br />

pregnante per le vicende legate alla deportazione e allo specialissimo<br />

modo in cui la memoria di ciò che è accaduto si è variamente depositata<br />

nel discorso pubblico e nelle coscienze. Consideriamo gli storici testimoni<br />

che si sono fatti supplenti della storiografia ufficiale. In Italia assistiamo<br />

ad una prima fase ricca di memorie scritte, ma che hanno circolato<br />

assai poco, pensiamo alla memorialistica degli anni ’40 di cui fa parte tra<br />

l’altro “Se questo è un uomo” di Primo Levi e anche molte altre cose, anche<br />

cose toscane. È poi successo che gli ex deportati siano stati assai poco ascoltati<br />

e soltanto alla fine del decennio degli anni Cinquanta poterono finalmente<br />

entrare nel discorso pubblico anche le loro tragiche esperienze.<br />

La Guida ripercorre alcuni di quei momenti, per questo storia – memoria,<br />

ora, che non solo la storia ma anche la memoria della deportazione è stata<br />

finalmente studiata, si è cominciato a studiare anche come si è depositata<br />

questa memoria. Ci sono poi una serie di sezioni che concernono temi e problemi<br />

legati alla trasmissione: Scuola e Shoah, Conservazione e politiche<br />

della memoria, Revisionismo e negazionismo. Una sezione riguarda la letteratura<br />

della Shoah e in essa trova posto l’opera di Primo Levi e i principali<br />

contributi critici connessi ad essa. Primo Levi è stato riscoperto non molto<br />

tempo fa dalla critica letteraria, finalmente come uno dei classici del ’900 ed<br />

anche di questo si cerca di dare conto attraverso i titoli che presentiamo.<br />

Nello scrivere sistematicamente la Guida, come capita, la materia si è notevolmente<br />

ampliata, si sono profilati rispetto all’idea iniziale titoli, sezioni ed<br />

anche sottosezioni; ci pareva che alcune specificazioni non potessero mancare.<br />

Tuttavia la presente Guida, come ripetiamo senza stancarci anche<br />

nelle brevi introduzioni che accompagnano le sezioni, non ha alcuna pretesa<br />

di esaustività, in questo senso non è un lavoro scientifico propriamente<br />

inteso, infatti un lavoro scientifico su questi argomenti dovrebbe rispondere<br />

a criteri, a usi e a destinatari diversi dal nostro. Sono presenti, a nostro<br />

parere, le opere considerate essenziali, anche qualcuna in lingua straniera.<br />

In lingua straniera esiste una produzione immensa, molto importante, che<br />

spesso non è tradotta, pensiamo ad esempio ai tempi tardissimi con cui è<br />

stato tradotto il libro fondamentale di Hilberg.<br />

Pensiamo inoltre che i lettori possano poi orientarsi secondo le partizioni<br />

tematiche, cioè usando l’indice come una guida. Molti dei titoli che compaiono<br />

nella Guida sono accompagnati da brevi schede di lettura, sono schede<br />

nate così, non erano programmate, sono un po’ meno asettiche degli<br />

abstract, forse meno complete, rendono forse però maggiormente conto, a<br />

ripensarci adesso, e particolarmente in certe sezioni, di una soggettività<br />

interpretativa, frutto anche di recenti impressioni di lettura o di riletture.<br />

Quando si legge tanto tutto insieme si tende a fare così, come è capitato a<br />

me, che sono stata più ampia nelle sezioni che ho curato personalmente<br />

rispetto al prof. Collotti che è stato più radicalmente sintetico.<br />

Dirò ancora qualcosa su Insegnare Auschwitz, riprendendo il titolo di un bel<br />

libro che consiglio a tutti gli insegnanti, libro che ha curato Enzo Traverso e<br />

che è presente nella bibliografia. Volevo dire qualcosa riguardo a questo,<br />

perché in fondo questa bibliografia nasce in questo ambito, è rivolta alle<br />

scuole, a noi insegnanti. È stato richiamato da molte parti come Insegnare<br />

Auschwitz rappresenti una sfida specifica per gli insegnanti, perché proprio<br />

per il carattere di esperienza storica estrema, per le tematiche che affronta<br />

e per gli interrogativi che apre, Auschwitz impone una pedagogia del docente<br />

con se stesso prima che con i discenti, cioè una sorta di autoriflessione<br />

preliminare del docente. Questa non è certamente intesa come ripiegamento<br />

intimistico, al contrario, è una sorta di crisi nel senso proprio etimologico,<br />

di momento di spartiacque in cui bisogna decidere qualcosa, di ordine etico


Presentazione della Guida Bibliografica Shoah e deportazione. di Enzo Collotti e Marta Baiardi<br />

ma anche cognitivo, una specie di crisi epistemologica che dovrebbe aprire a<br />

saperi e modalità rinnovati.<br />

Cosa so di Auschwitz? Come è andata veramente? Cosa so veramente al di<br />

là dell’effetto alone su questa realtà lontana nel tempo, ma con una sua pregnanza<br />

tuttora in vigore? Cosa cambia quello che so del mio modo di pensare<br />

presente? È Auschwitz un passato che non passa? Perché? Che cosa mi<br />

riguarda di Auschwitz? Sono solo alcune delle domande di questa pedagogia<br />

per docenti, ma sono ineludibili dinanzi ad un evento come questo: alla<br />

distruzione degli Ebrei d’Europa, e alla modernità con cui questo evento si<br />

è dispiegato 60 anni fa, laddove i mezzi più avanzati della scienza e della<br />

tecnica, compreso quella che oggi noi chiamiamo con grande bontà la cultura<br />

d’impresa, furono usati a scopo di <strong>sterminio</strong> con una conversione maligna<br />

ma banale. Si tratta, possiamo dire, di un uso applicato al quotidiano della<br />

ragione strumentale weberiana, che ben conosciamo perché caratterizza la<br />

nostra modernità, ed in questo contesto il regime nazionalsocialista piegò la<br />

scienza e la tecnica perché divenisse un sistema produttivo per dare la<br />

morte su larghissima scala. Questo aspetto della modernità di Auschwitz,<br />

secondo me, è quello che più dovrebbe riuscire ad interrogare noi e quindi<br />

attraverso di noi i nostri studenti. È per tale motivo che ha questa importanza,<br />

e su questo aspetto dobbiamo a mio parere soffermarci.<br />

Con questa Guida vi invitiamo a questa pedagogia. Auschwitz è innanzitutto<br />

qualcosa da cercare di capire, da seguire passo passo ascoltando le voci<br />

del passato, i suoi testimoni oculari, badando però al meccanismo messo in<br />

opera, tanto infernale per scopi ed effetti, quanto terreno nel suo funzionamento.<br />

Occorre a mio parere sottrarre la Shoah a una dimensione metastorica,<br />

non perché certi interrogativi metastorici più propriamente filosofici<br />

non facciano parte di queste tematiche (tipo che cosa sono il male e il bene<br />

dopo Auschwitz, Dio è morto ad Auschwitz, cosa ne è dell’arte dopo<br />

Auschwitz), ma perché siamo persuasi che sia tuttavia prioritario capire<br />

come si sia prodotta questa rottura di civiltà; tanto più occorre sottrarre la<br />

Shoah ad una dimensione mitica, non ridurla a qualcosa che non si può comprendere<br />

per niente, che sfugge al senso dell’umano, che è frutto di chissà<br />

che. C’è un film di Spielberg, che abbiamo visto spesso nelle scuole che si<br />

chiama “Gli ultimi giorni”, dove troviamo dei testimoni dello <strong>sterminio</strong> degli<br />

Ebrei ungheresi; uno di questi ad un certo punto in una testimonianza<br />

drammatica dice di non capire, “io non capisco perché è accaduto quello che<br />

mi è accaduto”, dice “è stato l’inferno di un pazzo”. Questa espressione esprime<br />

in tutta la sua drammaticità il livello di coscienza del testimone, quello<br />

che in letteratura si chiamerebbe l’altezza del narratore. Il narratore esprime<br />

questo giudizio: che Hitler sia l’inferno di un pazzo. Questa versione del<br />

testimone, legittima e drammatica, non è però la verità, infatti gli storici ci<br />

dicono che neanche lo <strong>sterminio</strong> degli Ebrei ungheresi è l’inferno di un pazzo<br />

così tardo e così apparentemente inutile, poichè dietro vi è tutto un disegno,<br />

vi è tutta una logica. Noi come insegnanti dobbiamo fare vedere quello che<br />

dice il testimone e commentarlo, cioè fare quello che si chiama in storia la<br />

critica delle fonti, anche delle fonti orali. Non dobbiamo consegnarci al testimone;<br />

anche nei viaggi ci imbattiamo in questo problema: il racconto del<br />

testimone è un’enorme ricchezza e diventa ancora più grande quando sappiamo<br />

re-interpretare quello che il testimone dice. Dobbiamo aiutare i<br />

ragazzi in questo lavoro di codifica.<br />

In questo campo si può sempre provare a capire e a sapere di più quello che<br />

talvolta sanno e dicono i testimoni stessi. La Shoah non trascende la storia,<br />

fa parte della storia a tutti gli effetti, e questa Guida, che è fatta di libri,<br />

soprattutto di storia, vive nella fiducia che, per realizzare una forma sia<br />

pure imperfetta di comprensione, la dimensione storica sia a tutt’oggi ineludibile,<br />

tanto per noi quanto per i nostri studenti. Questo non solo per<br />

33


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

34<br />

Auschwitz e su Auschwitz, ma proprio come una proposta anche per provare<br />

a leggere lo stesso nostro presente tanto turbolento. Occorre provare a<br />

trasmettere alle nuove generazioni che con pazienza, buone letture e possibilmente<br />

buoni insegnanti che facciano da guida, la realtà può forse apparire<br />

un po’ più decifrabile e meno oscura e minacciosa.<br />

Un’ultima considerazione, che poi è anche un’istruzione per l’uso della<br />

Guida. Una guida bibliografica rischia sempre di apparire noiosa o capace<br />

di suscitare sentimenti di inadeguatezza, tipo ma quando mai leggerò tutti<br />

questi libri, ecc. Io so bene quanto la lettura a scuola sia un tasto dolente!<br />

Detto questo, credo che non si possa demordere dal fare leggere, dal farlo in<br />

classe, dal proporlo, dal praticarlo continuamente. Se mi perdonate la similitudine,<br />

penso che la lettura funzioni un po’ come forse per un religioso funziona<br />

la preghiera, anche la lettura e lo sviluppo della lettura necessitano di<br />

una fiducia forse anche un po’ fideistica nelle capacità taumaturgiche e<br />

redentrici della lettura. Io spenderei una lancia su questo, so che è difficile<br />

proprio perché faccio questo mestiere. Se i nostri studenti non diventeranno<br />

signori della parola, come don Milani auspicava tanti anni fa, sarà una battaglia<br />

perduta per loro, per tutti noi e per il futuro.<br />

Su queste tematiche non c’è verso di sottrarsi alla razionalità lineare della<br />

lettura, quella che Raffaele Simone chiama la “visione alfabetica” che opera<br />

per elementi in successione, li dispone in linea, li analizza e li articola. Mi<br />

piace pensare che si possa pensare storicamente in questo modo, cioè con<br />

questa visione alfabetica, con letture che indicano ragionamenti pacati, giudizi<br />

non estemporanei, che necessitano di un qualche fondamento, la lettura<br />

come abitudine a ragionare. Tutto il contrario di certe tendenze in voga<br />

oggi nei media di fare storia e anche storia dell’Olocausto; la tendenza in<br />

voga oggi è di fare storia con le emozioni.<br />

Anch’io come Cavaglion, che ha scritto un bel decalogo al ventenne che si<br />

appresta a studiare la Shoah, preferisco l’insegnante che non cerca di sedurre<br />

con le emozioni e che cerca invece di conservare freddezza facendo lezione<br />

su questi argomenti, perché chi racconta storie di persecuzione fermandosi<br />

alle sole emozioni non andrà lontano.<br />

Una Guida Bibliografica di per sé non si presenta certo come un terreno di<br />

emozioni forti, ma più modestamente come uno strumento maneggevole;<br />

può essere usata per un tratto di cammino o anche per un solo libro. Mi<br />

piace pensare a questa guida come a uno strumento aperto, capace di funzionare<br />

come un ipertesto potenzialmente infinito, almeno così poeticamente<br />

si potrebbero esprimere le intenzioni di chi l’ha compilata.


Auschwitz<br />

Marcello Pezzetti, Centro di Documentazione Ebraica<br />

Contemporanea – Milano<br />

Comincio proprio da un’affermazione di Ugo Caffaz che ha parlato di<br />

Auschwitz e di simbolo. Io lavoro da 25 anni affinché Auschwitz non sia un<br />

simbolo. La cosa che più mi spaventa è quando vedo gli elaborati su<br />

Auschwitz fatti dagli insegnanti con i loro gruppi, e ancor peggio dopo una<br />

visita ad Auschwitz. Quando questi elaborati arrivano alla conclusione che<br />

Auschwitz è un simbolo, allora vuol dire che lo studio che hanno fatto, la<br />

preparazione che hanno ricevuto e che hanno dato e addirittura i viaggi<br />

effettuati sono serviti a poco. Se facciamo di Auschwitz un simbolo, allora<br />

anche la morte di circa un milione e 200 mila Ebrei di Auschwitz diviene<br />

un simbolo, mentre la morte è concreta, è reale; 220 mila bambini circa<br />

sono spariti ad Auschwitz-Birkenau, e la loro memoria non deve essere un<br />

simbolo.<br />

Il mio sarà un intervento molto concreto per gli insegnanti che stanno per<br />

affrontare un viaggio ad Auschwitz. Bisogna tenere presente che<br />

Auschwitz, già quando lo studiamo, ma ancor di più quando andiamo sul<br />

luogo, ci procura delle difficoltà enormi e molti problemi, a causa di quello<br />

che i nazisti ci hanno lasciato e della memoria che si è stratificata nel corso<br />

di 50 anni. Che cos’è allora Auschwitz? Sia chiaro che Auschwitz è un agglomerato<br />

di campi; voi sapete che l’Interesse Gebiet, cioè la zona di interesse<br />

di Auschwitz, è di circa 42 chilometri quadrati, è immensa, e districarsi in<br />

questi 42 chilometri quadrati non è semplice, bisogna studiare approfonditamente<br />

ciò che è avvenuto. È un agglomerato di campi, ma è soprattutto<br />

un insieme di tre grandi campi, da cui dipende tutta una serie di sotto<br />

campi che forma questo agglomerato; i tre campi sono Auschwitz 1,<br />

Auschwitz 2-Birkenau, Auschwitz 3-Buna-Monowitz. Oggi cosa si può vedere<br />

di questi? Si può vedere Auschwitz 1 nella sua interezza, si può vedere<br />

una parte di Auschwitz 2-Birkenau ma non si può vedere più nulla di<br />

Auschwitz 3-Monowitz.<br />

Da dove nascono i problemi? Dal fatto che una persona vada ad Auschwitz,<br />

soprattutto un insegnante, e non conosca questa distinzione fondamentale,<br />

dato che non è soltanto una distinzione di carattere architettonico – urbanistico;<br />

Auschwitz 1 è un campo di prigionieri politici polacchi, Auschwitz 2<br />

è il campo della morte, dove sono stati messi a morte gli Ebrei dell’Europa<br />

occidentale e parte di quelli polacchi, Auschwitz 3 è un campo di lavoro. Gli<br />

insegnanti, durante i lavori che normalmente fanno sulla Shoah, giusta-<br />

35


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

36<br />

mente utilizzano Primo Levi, ma spesso creano una confusione totale, poiché<br />

non fissano prima delle coordinate storiche iniziali. Io non posso parlare<br />

dello <strong>sterminio</strong> degli Ebrei, non posso parlare del cuore della Shoah, cioè<br />

della messa a morte degli Ebrei ad Auschwitz se affronto soltanto la lettura<br />

di “Se questo è un uomo”. Vi sembrerà molto forte, ma Primo era ad<br />

Auschwitz 3, la gente in genere sorvola sul fatto che sia sceso a Birkenau,<br />

sia stato selezionato a Birkenau, abbia fatto un principio di quarantena a<br />

Birkenau e dopo sia andato ad Auschwitz 3, per cui le condizioni di vita del<br />

campo diventano la Shoah. Le condizioni di vita di un Ebreo, come Primo<br />

Levi ad Auschwitz 3, sono il risultato di una selezione, ovvero la vicenda di<br />

Primo è da considerarsi come una piccola parte di quello che è successo.<br />

Quando gli Ebrei giungevano ad Auschwitz venivano selezionati immediatamente<br />

all’arrivo e circa l’80% di essi andava direttamente alla morte col<br />

gas; il 20%, il 15%, in alcuni casi il 10%, in alcuni casi il 5% veniva inserito<br />

nel sistema “concentrazionario”, una parola forse troppo utilizzata. Di<br />

questi una parte rimaneva a Birkenau e una piccolissima percentuale<br />

ancora, il 5 o 10% del 5 o 10% finiva a Buna-Monowitz o ad Auschwitz 1.<br />

Voi capite che un documento come quello di Primo Levi rappresenta un’eccezione<br />

nelle eccezioni; Primo è stato inserito lì perché era un chimico, perché<br />

è arrivato in un momento della storia del campo in cui c’era bisogno di<br />

un certo tipo di mano d’opera all’IG Farben, che era una fabbrica chimica.<br />

Quando portate i ragazzi ad Auschwitz lo fate soprattutto per spiegare la<br />

Shoah, cioè per fare un percorso sul luogo per eccellenza della Shoah, non<br />

sul luogo simbolo della Shoah, ma sul luogo che ha fatto più morti all’interno<br />

delle strutture della Shoah, che è un’altra cosa.<br />

Quando portate questi ragazzi dovete spiegare innanzitutto lo <strong>sterminio</strong> e<br />

la morte; se spiegate loro le condizioni di vita li farete piangere molto, ma<br />

avranno capito ben poco di quello che è stata la Shoah. Quando ci si trova<br />

di fronte ad una morte come quella che è stata messa in atto durante la<br />

Shoah, vi assicuro che si piange pochissimo, non si può piangere di fronte<br />

ad una morte massificata di questo tipo. Una volta hanno domandato a<br />

Himmler se non avesse paura delle conseguenze di quello che stava succedendo.<br />

Himmler tranquillo ha risposto di no, che dieci uccisioni, cento uccisioni,<br />

come quelle che si vivono molto da vicino oggi in televisione, sono una<br />

tragedia, ma un milione di morti non è più una tragedia, è solo una statistica.<br />

Purtroppo aveva ragione, e questo è uno dei problemi più enormi nel<br />

comunicare la tragedia della Shoah; in effetti comunichiamo delle statistiche.<br />

Allora il viaggio ad Auschwitz è uno dei mezzi in assoluto più efficaci, ci<br />

permette di addentrarci, di scendere dal livello della statistica al livello<br />

della morte concreta, perché i ragazzi capiscano che cosa è stata quella<br />

morte concreta. Purtroppo oggi ad Auschwitz abbiamo delle condizioni che<br />

non ci permettono di capire bene che cosa è stata questa tragedia della<br />

Shoah. Intanto il museo di Auschwitz che raccoglie tutta la documentazione<br />

sullo <strong>sterminio</strong> degli Ebrei non è a Birkenau, ma ad Auschwitz 1. Un<br />

viaggio tipico ad Auschwitz nel 98% dei casi consiste in questo: si arriva, si<br />

prendono delle guide, si va ad Auschwitz 1, si vede il museo, perché lì c’è il<br />

materiale, ci sono delle strutture ancora in piedi (perché il campo era in<br />

muratura), e si vedono i blocchi, i blocchi della morte fino ad arrivare al crematorio,<br />

la camera a gas, e alla fine di questo viaggio si fa una visita veloce<br />

a Birkenau. Poiché le strutture della morte sono state liquidate dai nazisti,<br />

si dedica pochissimo tempo a Birkenau, anche perché tutto il materiale<br />

e i resti di quello che è stato Birkenau è ad Auschwitz 1; quindi sembra<br />

che Auschwitz 1 sia esaustivo del tutto.<br />

Chi fa un viaggio di questo tipo non comprende niente, e questo è un problema<br />

che stiamo discutendo proprio con gli organismi polacchi, perché


Auschwitz<br />

ovviamente il museo è un museo governativo ed è quindi con le autorità<br />

polacche che si discute. C’è un problema di stratificazione della memoria e<br />

di gestione della memoria, che è quasi insopportabile e che fa sì che rappresenti<br />

una difficoltà per un insegnante, italiano, francese o tedesco, che<br />

va ad Auschwitz. Allora per 40 anni si è stratificata una memoria di stampo<br />

sovietico che non ci permetteva di comprendere nulla, in quanto la specificità<br />

ebraica veniva negata. Un insegnante che fosse andato 15 anni fa<br />

ad Auschwitz non avrebbe letto la parola “ebreo” in nessuna parte del<br />

campo, e soprattutto in nessuno spazio del museo. Questo rappresenta una<br />

difficoltà enorme, perché ovviamente tutti erano vittime del sistema fascista.<br />

Voi sapete che in tutto l’Est dell’Europa la parola nazismo non veniva<br />

nemmeno pronunciata, ma era fascismo, il sistema era quello fascista.<br />

Quando è caduto il comunismo, a questo tipo di memoria e di strutturazione<br />

della memoria si è cercato di sovrapporre via via una memoria di tipo<br />

nazionalista, polacca; cioè c’è stato un tentativo polacco di appropriazione<br />

della memoria del campo.<br />

Quindi ad una memoria di tipo sovietico si è sovrapposta quella di tipo<br />

nazionalista polacca; così sono stati messi in evidenza tutti i segni della<br />

memoria del martirologio del popolo polacco, che prima non veniva nemmeno<br />

preso in considerazione, perché i Sovietici ovviamente avevano sottratto<br />

anche questo, avevano strappato i due tipi di memoria.<br />

Ciò che è doveroso sapere è che ad Auschwitz i nazisti hanno cercato di<br />

mettere in atto diversi obiettivi, fra i quali lo <strong>sterminio</strong> degli Ebrei.<br />

Innanzitutto il primo era un obiettivo di tipo concentrazionario, cioè quando<br />

i nazisti nel 1940 inaugurano il Konzentrationslager, Auschwitz è un<br />

normalissimo campo per prigionieri politici polacchi, che all’inizio doveva<br />

essere un campo di quarantena. Dopo l’invasione della Polonia è ovvio che<br />

tutti i prigionieri, tutti gli antinazisti, nel senso di Polacchi che si opponevano<br />

all’invasione nazista, venivano messi in questo campo di concentramento.<br />

Questo però era situato in una posizione particolarmente favorevole<br />

per altri progetti nazisti, visto che Auschwitz era posto in una ex prigione,<br />

o meglio ex caserma dell’esercito polacco, vicino ad un nodo ferroviario<br />

estremamente importante, un nodo immenso. Lo vedrete all’arrivo nel villaggio<br />

di Oswiecim che è di fianco al campo di Auschwitz, e noterete che ci<br />

sono delle rotaie immense, ci sono otto rotaie a destra, otto rotaie a sinistra;<br />

il nodo ferroviario è enorme rispetto alla struttura del villaggio. Altro<br />

aspetto fondamentale è che questo luogo è posto a metà strada tra l’Est e<br />

l’Ovest, in una piana, dando così la possibilità di strutturare diversi obiettivi.<br />

I nazisti decidono di mettere in atto l’eliminazione degli Ebrei non solo<br />

polacchi, che nel frattempo sono ghettizzati soprattutto nel Governatorato<br />

generale (cioè nella parte est della Polonia), ma anche della Slesia e del<br />

Wartegau (cioè nella parte occidentale), e nello stesso tempo attuano la<br />

deportazione e l’uccisione degli Ebrei nell’Europa occidentale. Auschwitz è<br />

il posto ideale dove creare una struttura che permetta di finire di uccidere<br />

gli Ebrei della Polonia e di iniziare l’uccisione di quelli di tutta l’Europa<br />

occidentale.<br />

Voi sapete che in Europa orientale ci sono tre campi della morte, quelli<br />

dell’Aktion Reinheit, cioè Betzec, Sobibor e Treblinka, tutti posti al confine<br />

con la Bielorussia e l’Ucraina, cioè con l’ex impero sovietico, tutti vicini al<br />

fiume Narew. Questi servono in effetti ad uccidere gli Ebrei dei ghetti di<br />

Lublino e di Cracovia, perché gli Ebrei di Cracovia inizialmente non vengono<br />

uccisi ad Auschwitz anche se non è lontano, ma a Betzec e, soltanto<br />

dopo la primavera del ’43, ad Auschwitz.<br />

È solo allora che questo campo comincia ad essere utilizzato per l’uccisione<br />

degli Ebrei della Slesia, e quindi di tutti i ghetti che sono posti nella<br />

Polonia occidentale. Questo ha le strutture che permettono l’uccisione di un<br />

37


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

38<br />

numero così alto di Ebrei? No, il campo di Auschwitz 1 non ha queste strutture,<br />

è un normale campo di concentramento, ovvero è un insieme di baracche,<br />

zona degli alloggi dei prigionieri; fuori dal recinto una piccola struttura<br />

che serve all’eliminazione dei cadaveri, un crematorio. Questo è tipico di<br />

tutti i campi di concentramento. Dachau ha lo stesso tipo di architettura,<br />

Mauthausen, Bergen-Belsen, Buchenwald, hanno tutti una parte riservata<br />

all’alloggio dei prigionieri e una piccola parte fuori da questo recinto utilizzata<br />

come crematorium. Il fatto che esista un crematorium non è per<br />

niente indicativo dello <strong>sterminio</strong> di massa; è una misura che i nazisti ritengono<br />

essere sanitaria. L’eliminazione non avviene nel crematorium, ma tramite<br />

fucilazione, con lo <strong>sterminio</strong> attraverso il lavoro, e così via, dopo di che<br />

i corpi vengono “liquidati” (uso il linguaggio nazista) in questi piccoli spazi<br />

che sono i crematori. Queste strutture sono assolutamente inservibili per<br />

l’uccisione degli Ebrei, e in effetti quando i nazisti mettono in atto lo <strong>sterminio</strong><br />

fisico partono dalle fucilazioni di massa nelle regioni baltiche e nella<br />

Russia Bianca, dopo di che iniziano una sperimentazione nel piccolo campo<br />

di Chelmno vicino al ghetto di Lodz. In questo campo i nazisti incominciano<br />

a sperimentare l’uccisione col gas, ma attraverso camere mobili a gas, i<br />

Gas Wagen, cioè i camion a gas. Il campo di Chelmno comincia a funzionare<br />

alla fine del 1941, e vi rimando a Shoah di Lanzman, che inizia proprio<br />

con la testimonianza di uno dei pochi sopravvissuti di questo campo: quello<br />

che canta sul fiume e che poi ritorna per la prima volta a Chelmno. Ecco,<br />

questo campo funziona proprio nel modo descritto nel libro. È un vecchio<br />

castello vicino ad una ferrovia, attraverso la quale vengono portati gli Ebrei<br />

dal ghetto di Lodz; in effetti il campo non è nient’altro che un luogo di transito,<br />

in quanto gli Ebrei scendono dal treno, entrano nel castello, escono da<br />

una porta e vengono introdotti nei camion, e nel transito alle fosse comuni,<br />

dall’altra parte del campo, vengono uccisi. È comunque una tecnica che non<br />

funziona, abbiamo mille documenti che testimoniano ciò. Infatti i nazisti<br />

incominciano a pensare ad un’altra forma di messa a morte sempre utilizzando<br />

il gas, ma in strutture fisse: ecco che nasce Betzec, il primo vero<br />

campo della morte, dotato di camere a gas fisse dove è introdotto il gas di<br />

scarico dei motori.<br />

Ad Auschwitz le cose cambiano, ma sono contemporanee rispetto al resto,<br />

non crediate che siano successive. Auschwitz non è un perfezionamento<br />

della tecnica di messa a morte, ma è un’alternativa a quella tecnica, cioè si<br />

tratta sempre di gas, ma Rudolf Hoss, che è il comandante di Auschwitz<br />

durante la storia del campo di concentramento, fa una sperimentazione e<br />

decide di uccidere gli invalidi, cioè quella piccola percentuale che in ogni<br />

campo di concentramento viene messa a morte, perché voi sapete che nei<br />

campi di concentramento funziona, dopo l’operazione “eutanasia” un’operazione<br />

molto simile, che in codice si chiama operazione “14 F 13”, e che funziona<br />

nei vari campi di concentramento. Gli inabili, gli inadatti al lavoro,<br />

quelli che hanno perso la loro capacità lavorativa, vengono messi in disparte<br />

ed uccisi, generalmente col fenolo, oppure col gas in piccole strutture di<br />

messa a morte. La camera a gas di Mauthausen serve a questo scopo. Credo<br />

che l’80% degli alunni della scuola italiana che vengono portati a<br />

Mauthausen e viene loro spiegato che la camera a gas funzionava come<br />

<strong>sterminio</strong> di massa per le persone che erano lì, in questo modo ricevono<br />

delle informazioni assolutamente non corrette. Non solo, ma abbiamo una<br />

sostituzione di piani tra quella che è la tecnica di messa a morte della<br />

Shoah e il resto. E qui non si vuole dire che gli Ebrei hanno subito la sorte<br />

peggiore. Il problema non è quello, ma è spiegare ciò che è avvenuto, né più<br />

né meno.<br />

La percentuale di messa a morte di prigionieri politici è stata bassa o alta in<br />

base a diversi periodi della storia concentrazionaria, ma sicuramente un pri-


Auschwitz<br />

gioniero politico non veniva portato in un campo di concentramento per essere<br />

immediatamente ucciso. In effetti è fondamentale dire che non c’era una<br />

selezione. Quando un ragazzo arriva ad Auschwitz, entra nel museo e vede la<br />

selezione, se non gli viene spiegato che la selezione non avviene ad Auschwitz<br />

1 ma avviene a Birkenau, fa una confusione enorme tra l’aspetto concentrazionario<br />

e la Shoah. E su questo insisto moltissimo con gli insegnanti.<br />

Ad Auschwitz 1, che era un campo di concentramento, il comandante<br />

comincia a fare una sperimentazione sull’utilizzo di un altro gas, lo Ziklon<br />

B, ben diverso rispetto al gas di scarico. Viene utilizzato, e lo vedrete, nei<br />

sotterranei del bunker, cioè nella zona in cui avvenivano le esecuzioni<br />

all’interno del campo. Quando vi trovate di fronte ad una struttura che ha<br />

una zona di esecuzioni vuol dire che siete nell’ambito di un sistema di<br />

carattere repressivo, ovvero di un sistema concentrazionario. Tutti i campi<br />

di concentramento hanno una prigione, che sembra un assurdo ma non lo<br />

è, perché nella mentalità nazista tutto è strutturato in modo tale che il<br />

comportamento di un prigioniero deve essere tale per cui, se succede qualcosa,<br />

questo venga punito, fino ad essere ucciso, in genere fucilato. Nella<br />

Shoah tutto questo non c’è, non avviene, non ci sono punizioni, tranne che,<br />

come dice Primo Levi, un prigioniero sia entrato, anche ebreo, in questo<br />

tipo di sistema. Ma questo è appunto il frutto di una selezione.<br />

A questo punto ad Auschwitz 1, dal momento in cui risultò che questa sperimentazione<br />

funzionava, ma che non funzionava la struttura in cui era<br />

fatta, ecco che viene adattata una stanza per cadaveri all’interno del crematorio.<br />

Sapete che in ogni crematorio ci sono due o tre stanze in cui il<br />

cadavere, prima di venire bruciato, viene trattato. In genere questi cadaveri<br />

vengono bagnati e messi a bruciare; altre stanze servono anche a sistemare<br />

le pile di cadaveri che via via devono venire bruciati. Purtroppo questo<br />

è ciò che accadeva. Ecco che allora una di queste stanze per cadaveri del<br />

crematorio viene adattata a camera a gas, e si incomincia a sperimentare<br />

un tipo di messa a morte in un luogo fisso fuori dal recinto del campo,<br />

innanzitutto sugli inabili e sui primi trasporti di Ebrei dei ghetti vicini.<br />

Quali sono i primi Ebrei che muoiono nel campo di Auschwitz e ancora ad<br />

Auschwitz 1? Alcuni trasporti di Ebrei provengono dall’Alta Slesia, oppure<br />

sono di Ebrei che abitano in ghetti che sono distanti 20 o al massimo 30 chilometri<br />

da Auschwitz. Si inizia così.<br />

Ma quando arriva l’ordine della messa a morte in massa degli Ebrei<br />

dall’Europa occidentale, ecco che le cose cambiano, cioè un numero spaventoso<br />

di persone, che all’inizio arrivano soprattutto dalla Francia, da Drancy,<br />

e dall’Olanda da Vesterbork, e dal Belgio da Malen, non possono finire in<br />

una struttura di questo tipo, che è l’unica che oggi è ancora in piedi ed è l’unica<br />

che voi potrete vedere. Infatti l’attività di messa a morte viene spostata<br />

di tre chilometri: nascono le strutture di messa a morte di Birkenau.<br />

Birkenau all’inizio doveva essere un campo in cui alloggiare i prigionieri di<br />

<strong>guerra</strong> sovietici ed in effetti, nei documenti, i nazisti lo chiamano KGL<br />

(Krieg Gefangen Lager, campo per prigionieri di <strong>guerra</strong>), o anche<br />

Sowjetisch KGL, ad indicare esattamente il tipo di prigionieri di <strong>guerra</strong>. Lì,<br />

in una zona che era un bosco di betulle al confine con questa piana in cui<br />

stavano costruendo delle prime baracche, viene messa in piedi la prima<br />

struttura di messa a morte con Ziklon B per gli Ebrei: il bunker 1 è la prima<br />

camera a gas che i nazisti hanno costruito a Birkenau. Questo avviene nel<br />

marzo del 1942, quindi nello stesso esatto periodo in cui vengono costruite<br />

le prime camere a gas di Betzec, di Sobibor e di Treblinka, quindi lo <strong>sterminio</strong><br />

è contemporaneo. Spesso anche nei libri di grandi storici si dice che<br />

c’è un perfezionamento e quindi sembra che le strutture di messa a morte<br />

di Auschwitz siano posteriori, invece sono 2 strutture contemporanee, sebbene<br />

con un funzionamento leggermente diverso.<br />

39


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

40<br />

Cosa avviene in questa zona di messa a morte di Birkenau? Ci sono le<br />

camere a gas e accanto, come a Betzec, a Sobibor e a Treblinka, non ci sono<br />

forni crematori, ma fosse comuni; all’inizio sono di seppellimento, ma dal<br />

novembre del ’42 nascono quelle di cremazione; addirittura i corpi seppelliti<br />

vengono riesumati e cremati.<br />

Voi capite che questa parte di Birkenau nasce come l’Aktion Reinher; qual<br />

è il problema? Il problema è che oggi non possiamo più vedere nulla di tutto<br />

ciò, cioè oggi la memoria di tutto questo <strong>sterminio</strong> che alcuni chiamano<br />

artigianale, ma che non è così artigianale perché è abbastanza perfezionato,<br />

non esiste. Perché la prima camera a gas, quella che è stata poi distrutta<br />

dai nazisti, è diventata un oggetto oscuro del desiderio, cioè nessuno l’ha<br />

più vista, e si è saputo molto dopo che in effetti era stata adibita ancora una<br />

volta a casa normale per famiglie polacche. Purtroppo, questa camera a gas<br />

è stata abitata da una famiglia polacca fino al giugno scorso, quando siamo<br />

riusciti dopo tanti anni a recuperarla, e nel giro di qualche mese diventerà<br />

un luogo della memoria.<br />

Il bunker 2, cioè l’altra camera a gas, è oltre i reticolati del campo, dietro<br />

Birkenau, ma voi capite che è abbastanza difficoltoso arrivarci, non è indicata<br />

nel percorso del museo. Per questo motivo per 50 anni la gente non ha<br />

visto niente. Le scolaresche non hanno mai visitato tre luoghi: la Jude<br />

Rampe, cioè il luogo tra Auschwitz 1 e Birkenau, la banchina di proseguimento<br />

della stazione merci, in cui gli Ebrei venivano scaricati dai treni e<br />

selezionati, e molti di essi anche uccisi. Questo luogo è fuori dal percorso<br />

del campo, perché il bunker 1 era una casa abitata da polacchi, quindi non<br />

si diceva certo alla gente di andare a vedere una casa abitata da polacchi,<br />

perchè era un segreto che veniva custodito gelosamente nell’ambito dello<br />

stesso museo; mentre il bunker 2, l’altra camera a gas, era fuori, molto lontano,<br />

e nessuno andava a vederlo.<br />

Nella primavera del ’43 vengono costruiti i grandi impianti di messa a<br />

morte, sorgono i crematoria. Questi crematoria sono delle strutture complesse,<br />

camere a gas e forni crematori, dei quali ancora oggi è possibile<br />

vedere i resti<br />

Io vi consiglierei di vedere tutto questo, di documentarvi bene prima, di utilizzare<br />

molte mappe, perché è fondamentale capire l’ubicazione dei tre<br />

campi. Quando arrivate ad Auschwitz, all’inizio potete vedere delle gigantografie<br />

di fotografie fatte dagli alleati, nelle quali si nota bene la differenza<br />

tra Auschwitz 1, Birkenau e Buna-Monowitz. Allora vi consiglio, prima<br />

di entrare, di fermarvi a piccoli gruppi a guardarle, e l’insegnante dovrebbe<br />

essere il vero tramite tra il luogo e il suo gruppo-classe. Vi consiglierei<br />

di percorrere la visita di Auschwitz in senso contrario a quello indicato<br />

dalle guide, cioè andare prima a Birkenau e dopo ad Auschwitz 1, cosa che<br />

non avviene mai. Anzi, se avete la possibilità di parlare con una guida che<br />

parla italiano, chiedetele di portarvi prima a Birkenau, perché è lì che si<br />

può cogliere l’immensità della tragedia; dopo, andando ad Auschwitz 1, al<br />

museo, capirete quello che avete appena visto, o meglio capirete quello che<br />

state vedendo, in funzione del fatto che avete fatto prima un percorso di<br />

carattere storico. Vi do questa indicazione.<br />

Pensate quindi alla visita in questo senso: arrivo dei convogli, selezione,<br />

uccisione. Andate quindi sulle rovine dei crematori, perché lì vedrete la stratificazione<br />

di solito a livello del suolo: a pianterreno c’è l’eliminazione e la<br />

liquidazione del cadavere, cioè la bruciatura nei forni o nelle altre strutture,<br />

e poi c’era l’uccisione e la bruciatura nelle fosse. A questo punto vi consiglierei<br />

di vedere la ricostruzione di questi crematori. È molto difficile da<br />

capire. Per questo abbiamo fatto un CD Rom, che dovrebbe essere in ogni<br />

scuola superiore. Quindi vi consiglierei di lavorare con i vostri alunni per far<br />

capire la tecnica di messa a morte, e solo dopo, di soffermarvi e di entrare


Auschwitz<br />

eventualmente nelle baracche, perché la baracca con le scritte, i bagni, le<br />

cose, di solito è l’oggetto della visita per eccellenza; ma è importante aver<br />

fatto prima uno studio su quello che è stato lo <strong>sterminio</strong>, perché così il ragazzo<br />

ha coscienza della sorte di quella piccola percentuale che non è stata uccisa<br />

all’arrivo, né più né meno. Ci si può soffermare anche sulle condizioni di<br />

vita, pensare Dio in Auschwitz o Dio fuori Auschwitz, ma collocarlo in modo<br />

corretto, almeno in coordinate storiche corrette; poi affrontare il museo. E<br />

con l’aiuto delle mappe, dei documenti e delle fotografie i ragazzi avranno<br />

compreso quello che è stato il luogo nel quale sono stati uccisi più Ebrei<br />

durante la Shoah. Vi consiglio di lavorare molto sulle fotografie e soprattutto<br />

sul luogo. Se qualche insegnante ha un libro di fotografie di Auschwitz, è<br />

importante che lo porti e che lavori su quel materiale. Se non l’avete, sfruttate<br />

quelle fotografie che ogni tanto si trovano a Birkenau, perchè adesso in<br />

alcuni luoghi di Birkenau voi potete vedere delle immagini fotografiche che<br />

con grande fatica siamo riusciti a far esporre.<br />

Grazie.<br />

41


dhddddd


Nessuno sapeva?<br />

Giovanni Gozzini, docente dell’Università di Siena<br />

La domanda a cui dovrei rispondere presuppone anche un percorso di ricerca<br />

storiografica, nel senso che presuppone il superamento di una visione del<br />

problema della Shoah come prodotto di mostri, cioè come un crimine compiuto<br />

da alcune persone che con la normalità, con la comune appartenenza<br />

al genere umano hanno poco a che spartire. Questa fu la visione largamente<br />

dominante nei primi anni del dopo<strong>guerra</strong>; il processo di Norimberga<br />

aveva dato involontariamente una mano in questo allontanamento dalla<br />

verità di Auschwitz, nel senso che aveva circoscritto le responsabilità a<br />

pochi grandi criminali di <strong>guerra</strong> e tutto questo era molto comodo e molto<br />

rassicurante per tutta l’Europa, che doveva voltare pagina e ripartire nella<br />

ricostruzione. Il fatto che Auschwitz non appartenesse a una memoria comune,<br />

ma fosse qualcosa di alieno rispetto alla convivenza civile, era la verità<br />

più comoda e più rassicurante. Anche per questo il libro di Primo Levi venne<br />

rifiutato inizialmente da Einaudi, dovette fare un lungo percorso e poi ebbe<br />

successo anni dopo. Oggi noi valutiamo in accordo con gli storici che circa un<br />

milione di persone in tutta Europa, quindi non solo Tedeschi e non solo nazisti,<br />

hanno collaborato a vari livelli di responsabilità e di consapevolezza a<br />

questa gigantesca operazione di rastrellamento, deportazione, concentrazione<br />

e poi messa a morte di tutte queste categorie di persone. Gli Ebrei sono<br />

la componente maggioritaria, ma questo tipo di operazione con il decreto del<br />

’42 colpiva direttamente anche i partigiani, e i veri o sospetti o presunti<br />

oppositori politici al regime di occupazione del Terzo Reich.<br />

Noi storici abbiamo due tipi di fonti per rispondere alla domanda iniziale.<br />

Le prime sono le corrispondenze riservate dei Governi, cioè le corrispondenze<br />

che si scambiano in quegli anni le Cancellerie, i Dipartimenti di Stato, le<br />

Presidenze del Consiglio e che ci descrivono un certo punto di vista, quello<br />

delle persone che avevano più accesso di altre alle informazioni riservate,<br />

anche confidenziali. L’altra fonte invece sono i diari, le memorie e le lettere<br />

della gente comune, dei Tedeschi normali ad esempio; questo tipo di fonte ci<br />

dà un altro tipo di risposta, ci rivela se la gente normale, quella che aveva<br />

accesso ai comuni canali informativi, che si guardava in giro, che si parlava<br />

fra sé, aveva questo tipo di conoscenza. Partiamo dalle prime fonti, quelle<br />

governative.<br />

Anche oggi su “Repubblica” avete visto un nome-chiave che è quello di<br />

Gunther Righner, che era il responsabile dell’ufficio di Ginevra del<br />

Congresso Ebraico Mondiale. Il 23 marzo ’42 trasmette questo telegramma<br />

alla sede centrale del Congresso di New York: “Notizie massima gravità<br />

giunte a Londra scorsa settimana dimostrano massacri … (incomprensibile)<br />

… catastrofico particolarmente Polonia anche deportazione di Ebrei bulgari<br />

e rumeni già iniziate stop Ebrei europei stanno scomparendo”. È una testimonianza<br />

drammatica che proveniva a Righner da una fonte abbastanza<br />

trasparente, sostanzialmente dai ghetti delle città polacche e dell’Europa<br />

dell’Est nelle quali cominciava a essere noto questo tipo di conoscenza sul<br />

43


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

44<br />

destino delle persone che venivano portate via quotidianamente, settimanalmente,<br />

a cadenza periodica. Dai ghetti questo tipo di notizie arrivavano<br />

ai rappresentanti del Governo polacco in esilio a Londra e da lì erano ritrasmesse<br />

a varie agenzie, il Congresso Ebraico Mondiale era una di queste.<br />

Un’altra testimonianza di tutt’altro tipo era quella dei Nunzi apostolici, cioè<br />

degli “ambasciatori” della Santa sede, del Vaticano, praticamente negli stessi<br />

giorni. Vi è infatti un telegramma del 9 marzo ’42 del Nunzio apostolico a<br />

Bratislava in Cecoslovacchia, mons. Bulzio, trasmesso al Cardinal Maglioni<br />

che era il Segretario di Stato in Vaticano (allora il suo vice era Montini che<br />

poi sarà Paolo VI). Bulzio con questo telegramma dava un quadro di cognizione<br />

della situazione abbastanza simile: “Trapelata notizia essere imminente<br />

deportazione in massa di tutti gli Ebrei slovacchi di Galizia e regioni<br />

limitrofe, senza distinzione di età, sesso, confessioni, provvedendosi alla<br />

deportazione separata degli uomini, donne e fanciulli. Sono stato sabato dal<br />

Presidente del Consiglio dei Ministri il quale ha confermato la notizia. Ha<br />

difeso con veemenza la legittimità del provvedimento – il Consiglio dei<br />

Ministri è quello del Governatore della Polonia occupata – ed egli, che fa<br />

tanto ostentazione di cattolicismo, ha osato dire che non ci vede nulla di inumano<br />

e di anticristiano. La deportazione di 80 mila persone in Polonia alla<br />

mercé dei Tedeschi equivale a condannarne gran parte a morte sicura”.<br />

Quindi nel marzo ’42 Maglioni aveva una conoscenza diretta di prima mano<br />

di queste situazioni. Cosa succede? Succede che la Santa Sede, interrogata<br />

nel settembre dello stesso anno dall’ambasciatore americano in Vaticano<br />

Mayron Taylor, nella persona del Cardinal Maglioni rispondeva: “Non credo<br />

che abbiamo notizie che confermino in particolare queste gravissime notizie”.<br />

Questa è la risposta testimoniata negli atti della Santa Sede; c’è una<br />

collezione ufficiale dei documenti di archivio della Santa Sede, ma tuttora<br />

vige un regime molto restrittivo e gli storici non hanno accesso a questi<br />

documenti, soltanto alcuni archivisti nominati dal Papa fanno da mediatori<br />

e pubblicano periodicamente queste collezioni di documenti, che quindi sono<br />

in qualche modo filtrati. Comunque in questi documenti filtrati è rintracciabile<br />

questo tipo di atteggiamento della Santa Sede che nega sapendo di<br />

mentire, c’è una negazione consapevole e deliberata di questo tipo di informazione.<br />

Le notizie che si scambiavano i Nunzi apostolici avevano lo stesso<br />

tipo di fonti, soprattutto il Governo polacco in esilio a Londra era un po’ il<br />

centro che raccoglieva tutte queste notizie. Uno di questi personaggi era S.<br />

Zygielboin, che morirà suicida nel marzo del ’43 e che al momento di suicidarsi<br />

ha lasciato un suo messaggio – testamento, che vi leggo: “Le notizie<br />

pervenute ultimamente dalla Polonia ci informano che i Tedeschi stanno<br />

sterminando con una ferocia inaudita gli Ebrei rimasti ancora in quel paese.<br />

Dietro le mura del ghetto si svolge l’ultimo atto della tragedia che non ha<br />

paragone nella storia dell’umanità. La responsabilità di questo crimine, l’assassinio<br />

della popolazione ebraica della Polonia, pesa soprattutto sugli<br />

assassini stessi, ma indirettamente ricade anche su tutta l’umanità, sui<br />

popoli alleati, sui loro Governi, i quali finora non hanno compiuto nessuno<br />

sforzo concreto per far cessare questo crimine. Che la mia morte sia un grido<br />

di energica protesta contro l’indifferenza del mondo che vede lo <strong>sterminio</strong><br />

del popolo ebraico, lo vede e non lo impedisce”. È il Marzo ’43, un anno esatto<br />

dopo la prima diffusione di queste notizie, S. Zygielboin che è uno dei personaggi<br />

essenziali di questa trasmissione di informazioni, ritiene ormai<br />

assodato il fatto che i Governi alleati, e la Santa Sede con questi, vedono,<br />

sanno, ma hanno deciso di non fare niente, e per questo motivo decide di suicidarsi.<br />

Vedete che questo elemento ci dà il senso di una consapevolezza nei livelli<br />

alti, in quanto stiamo parlando di persone che hanno accesso a informazioni,<br />

alle quali la maggioranza degli uomini comuni non ha accesso. In queste


Nessuno sapeva?<br />

persone nel giro di un anno, dal ’42 al ’43, era molto chiara, molto evidente<br />

la doppia consapevolezza delle cose che si stavano facendo e della volontà<br />

degli Alleati di non farsene carico. Addirittura nel ’44 esce un libro scritto da<br />

un altro di questi polacchi in esilio a Londra, che è Jan Karski. Il libro non<br />

è mai stato tradotto in italiano e si intitola Storia di un segreto di Stato; nell’estate<br />

del ’44 questo libro descrive praticamente in tempo reale l’esperienza<br />

di Karski come corriere. Egli aveva documentato questo tipo di notizie,<br />

questo tipo di informazioni un po’ in tutta Europa, e aveva constatato la non<br />

volontà degli Alleati di affrontare il problema, di bloccare in qualche modo<br />

questa uccisione di massa.<br />

In realtà la stampa dà notizia di quello che avviene nell’Est dell’Europa, ci<br />

sono alcuni articoli di giornale; il Daily Telegraph di Londra è uno dei primi<br />

a dare notizia di queste deportazioni, di questi assassinii in massa degli<br />

Ebrei il 25 giugno del 1942, il New York Times il 30 giugno. Sono comunque<br />

articoli episodici, non c’è una campagna di stampa su questo, non un’azione<br />

continuativa, né una pressione degli organi di stampa perché si arrivi ad<br />

attuare qualcosa di concreto. È un’informazione episodica che però riflette<br />

uno stato delle informazioni chiaro nel senso della drammaticità e delle<br />

dimensioni di scala di ciò che si stava compiendo, ma certamente ancora<br />

molto impreciso, molto confuso nelle sue caratteristiche articolazioni concrete.<br />

Karski nel suo libro illustra addirittura relazioni clandestine che provenivano<br />

dagli stessi campi di <strong>sterminio</strong>; alcune provengono da Treblinka,<br />

da Betzec, altre vengono dal ghetto di Varsavia, ma le informazioni filtravano<br />

addirittura dall’interno di questi campi di <strong>sterminio</strong>. Diciamo quindi che<br />

la conoscenza era ancora imprecisa, era ancora confusa, ma certamente<br />

aveva il quadro della consapevolezza della sostanza della situazione.<br />

Guardiamo ora ai diari e alle tante lettere della gente comune, in principal<br />

modo di cittadini tedeschi, ma naturalmente anche di cittadini francesi,<br />

olandesi, belgi (che rappresentano la nazione in cui avvengono le prime<br />

deportazioni in massa di Ebrei), ed anche italiani, che subiscono le deportazioni<br />

in un momento successivo. Tutte queste testimonianze, quelle non italiane,<br />

quelle tedesche in modo particolare, concordano nell’indicare nell’estate<br />

’42 un momento di diffusa consapevolezza che un destino di morte di<br />

massa attende gli Ebrei che vengono portati via sui treni. Guardiamo oggi<br />

l’ultima testimonianza in ordine di tempo, tradotta in italiano, il diario di<br />

Victor Klempe, grande filosofo tedesco. Questa persona, che poi trascorre<br />

un’esistenza abbastanza normale nella Germania di quel tempo, ha questo<br />

tipo di consapevolezza, frutto di conoscenze occasionali, di tamtam, di notizie,<br />

di sentiti dire, quindi non di informazioni sistematiche come quelle cui<br />

avevano accesso Karski, S. Zygielboin e gli altri esponenti dei Governi polacchi<br />

in esilio. Questo tipo di sensazione, di consapevolezza era comunque già<br />

presente nell’estate del ’42, quindi piuttosto repentinamente, visto che la<br />

datazione delle prime uccisioni di massa, utilizzando le nuove strutture dei<br />

camion a gas e delle vere e proprie camere a gas di Auschwitz, oscilla tra il<br />

settembre e il dicembre del ’41. Considerate le condizioni del tempo, il clima<br />

di <strong>guerra</strong> e la occupazione militare di gran parte del territorio europeo, in<br />

realtà, quindi, siamo in presenza di un sistema informativo relativamente<br />

efficiente. Horwitz che è un ricercatore americano ha scritto un libro, uscito<br />

nel ’90 negli Stati Uniti, nel ’94 in traduzione italiana da Marsilio, intitolato<br />

L’ombra della morte. L’autore è andato ad intervistare gli attuali abitanti<br />

delle zone limitrofe a Mauthausen, campo di concentramento per prigionieri<br />

politici istituito nel ’38 in Austria. Una delle cose più sconcertanti per<br />

chi ha letto questo libro è constatare che ancora oggi, quindi a distanza di<br />

mezzo secolo dagli eventi dell’epoca, c’è ancora una fortissima omertà, una<br />

fortissima resistenza tra gli abitanti più anziani ad ammettere l’esistenza<br />

di un campo di concentramento in quella zona. Questo vi fornisce un ulte-<br />

45


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

46<br />

riore esempio che le informazioni circolavano, e perciò che la grande maggioranza<br />

delle persone faceva finta di non sapere. Questo accadeva naturalmente<br />

per diversi motivi, il principale dei quali va fatto risalire all’intimidazione,<br />

cioè alla funzione indiretta dei campi di concentramento, che è<br />

quello di deterrente terroristico nei confronti di tutto il resto della popolazione.<br />

Tale popolazione magari non sarebbe mai finita nei campi, perché non<br />

era ebrea, perché non era comunista o socialista, perché non era testimone<br />

di Geova, perché era costituita da cittadini rispettosi delle leggi, ma comunque<br />

l’esistenza mormorata di questi campi agiva nel senso di convincerla al<br />

silenzio, all’omertà, alla connivenza nei confronti dei crimini del regime.<br />

Non è casuale che tutti i campi, a partire da Auschwitz, vengano costruiti in<br />

territori semi desertici, scarsamente abitati, e che quindi avessero la funzione<br />

di una specie di patto non scritto tra regime nazista e la popolazione:<br />

“faccio queste cose, però te le nascondo, in maniera che tu non te ne debba<br />

sentire corresponsabile”. Questo poi agiva nel senso dell’omertà e della connivenza<br />

che ancora oggi Horwitz ha trovato nelle zone direttamente protagoniste<br />

di questi eventi.<br />

Per farvi un esempio di questa importanza indiretta, cioè di questa funzione<br />

del campo di concentramento anche come strumento di governo della<br />

società civile “normale”, Horwitz ha raccolto la testimonianza di una ragazza<br />

che allora lavorava a Mauthausen. Anna Strasse racconta: “Una volta<br />

mentre pranzavo nel ristorante vicino alla stazione, un attraente uomo delle<br />

SS si sedette al mio tavolo. Non potei fare a meno di chiedergli come fosse<br />

possibile che degli uomini potessero essere tenuti in prigione in un campo di<br />

concentramento senza un giusto processo”. Qui il problema è quello del<br />

sistema concentrazionario pre-<strong>guerra</strong> e pre-<strong>sterminio</strong>, del doppio Stato,<br />

come l’ha chiamato un grande giurista come Ernest Frank, cioè il fatto che<br />

esistesse un sistema di carcerazione del tutto autonomo e sottratto al controllo<br />

della magistratura, gestito esclusivamente dagli uomini delle SS, cioè<br />

dalla milizia paramilitare del Partito nazista. “Egli, l’attraente uomo delle<br />

SS, non mi diede alcuna risposta, ma cambiò discorso. Tuttavia le mie parole<br />

dovevano averlo colpito, perché quando ripresi la strada dopo il pranzo,<br />

quel giovane mi seguì. Mi disse: non si allarmi se la sto seguendo; vorrei<br />

dirle che dovrebbe essere più cauta nelle sue dichiarazioni sullo stato della<br />

legge e così via, tali affermazioni potrebbero portarla in un luogo da cui forse<br />

non c’è ritorno. Io intendo farle del bene”. Questo tipo di intimidazione, che<br />

ci spiega il perché, pur sapendo, si facesse finta di non sapere, ci è stato confermato<br />

anche da molte ricerche recenti; direi che oggi la direttrice più<br />

importante e più feconda della ricerca storiografica è proprio su questa<br />

“zona grigia” (per prendere un termine applicato all’interno del campo),<br />

estesa però alla società civile; cioè questa zona di conoscenza e non opposizione<br />

al regime, che poi riguardava la stragrande maggioranza della popolazione.<br />

Una ricerca di un altro studioso americano, Robert Gellately, uscita<br />

nel ’90, mai tradotta purtroppo in italiano, intitolata La Gestapo e la società<br />

tedesca, ha indagato su una particolare regione della Germania, la Bassa<br />

Sassonia. Robert Gellately ha fatto una scoperta sconcertante in riferimento<br />

alle denunce fatte agli uffici della polizia politica, la polizia segreta di<br />

stato, per violazioni delle leggi, cioè denunce di cittadini ebrei che avevano<br />

colf tedesche, denunce di cittadini ebrei che esponevano la bandiera tedesca<br />

nelle giornate di ricorrenza nazionale, tutte le piccole o grandi violazioni al<br />

regime di apartheid che le leggi di Norimberga avevano introdotto in<br />

Germania. Infatti più della metà di queste denunce non erano anonime,<br />

erano fatte da cittadini tedeschi che andavano dalla Gestapo e denunciavano<br />

questi Ebrei; l’altra metà era invece frutto delle indagini svolte autonomamente<br />

dalla Gestapo.


Nessuno sapeva?<br />

Questo mostra quindi che, non solo nella grande maggioranza delle persone<br />

c’era la non volontà di sapere, o la volontà di non sapere, ma che era presente<br />

anche un altro elemento, cioè una partecipazione attiva delle popolazioni<br />

civili nell’opera di repressione, prima degli oppositori politici del regime<br />

nazista, poi degli Ebrei. Questo non riguarda soltanto i Tedeschi, riguarda<br />

anche l’Italia. Noi sappiamo dal Libro della memoria di Liliana Picciotto<br />

Faggion, che la stragrande maggioranza, il 90% dei 9.000 Ebrei italiani<br />

deportati verso questi campi, venne denunciata alle milizie tedesche dagli<br />

uomini della Guardia nazionale repubblicana, cioè dai combattenti di Salò,<br />

di cui oggi si vorrebbe anche una certa riabilitazione in termini di moralità<br />

dei loro ideali. Questa è una pagina che hanno attivamente scritto, e che in<br />

qualche modo si cancella quando oggi si parla di riconciliazione.<br />

Consideriamo un altro elemento. Perché questa gente denunciava gli Ebrei?<br />

Possiamo osservare un elemento di modernità che secondo il mio parere si<br />

intreccia molto bene con le cose che ci diceva stasera Furio Cerutti, riguardanti<br />

la competizione e la concorrenza. Perseguitare un Ebreo voleva dire<br />

liberare un appartamento o un negozio, o perlomeno fare chiudere il negozio<br />

concorrente, o la ditta concorrente. C’è quindi un elemento di competizione<br />

che appartiene alle società moderne, ben diverse dalle società antiche,<br />

in quanto mobili e competitive, nelle quali ogni uomo deve sempre combattere<br />

per conquistare la propria posizione. La persecuzione può essere uno<br />

strumento in questa competizione. Roberto Finzi ha scritto un libro pubblicato<br />

qualche anno fa sulle leggi razziali nell’università italiana, in cui viene<br />

documentato questo elemento di collaborazione attiva di larga parte del ceto<br />

intellettuale, accademico nostrale contro questo stesso tipo di logica: mandare<br />

via Leo Valiani o Fermi poteva significare liberare il posto per il proprio<br />

allievo e segnare un punto nella competizione accademica. Questo elemento<br />

va sempre tenuto presente perché rappresenta in qualche modo una<br />

condizione necessaria, anche se probabilmente non sufficiente, perché la<br />

popolazione civile abbia la predisposizione di passività, o addirittura di collaborazione<br />

nei confronti della propaganda di persecuzione razziale, o di<br />

persecuzione politica; in questo senso il discorso è interscambiabile.<br />

Naturalmente nei confronti degli Ebrei c’era un di più, rappresentato da<br />

una tradizione di antisemitismo che risaliva nel suo filone cristiano e cattolico<br />

più o meno agli albori dell’età moderna, fino all’epoca delle Crociate.<br />

L’accusa di deicidio rappresentava un altro pre-requisito che facilitava la<br />

dissonanza cognitiva del percepire o riconoscere il cittadino, l’amico, il compagno<br />

di pianerottolo o di strada ebreo come un cittadino pari a me a tutti<br />

gli effetti.<br />

Da questo punto di vista un episodio che è stato recentemente ricostruito in<br />

un libro di due storici francesi è sull’enciclica mancata di Pio XI. Negli ultimi<br />

mesi di vita Pio XI aveva predisposto tutti i lavori per un’enciclica di<br />

dura condanna dell’antisemitismo e del razzismo nazista. Pio XII mise questa<br />

enciclica nel cassetto e non la tirò più fuori. Lo studio è del ‘95 e ha riportato<br />

alla luce tutti questi lavori preparatori.<br />

Il silenzio del Segretario di Stato Cardinal Maglioni non era dovuto a una<br />

personale presa di posizione, ma ad un orientamento molto preciso della<br />

Santa Sede, del Vaticano, dell’allora pontefice Pio XII, che intendevano stendere<br />

un velo di silenzio su questa persecuzione. Forse è bene ricordare tutto<br />

questo in tempi di beatificazione e santificazione di Pio XII.<br />

Grazie.<br />

47


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Parte II<br />

Atti dei Seminari<br />

29 novembre<br />

6 dicembre 2002


Il nazismo dall’ideologia<br />

razzista allo <strong>sterminio</strong><br />

Anna Foa, Università La Sapienza di Roma<br />

Sono lieta di poter dare il mio contributo all’iniziativa portata avanti dalla<br />

<strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong>, di seminari rivolti agli insegnanti in preparazione della<br />

giornata della memoria del 27 gennaio, un’iniziativa importante perché studiare,<br />

approfondire e discutere è un modo, forse l’unico, per sfuggire al<br />

rischio che questa ricorrenza diventi una pura e semplice celebrazione, e si<br />

fossilizzi tramandando una memoria meramente ufficiale e celebrativa.<br />

Importante ancora perché la Shoah, proprio per la sua caratteristica di<br />

evento limite, estremo, è uno di quei temi che fanno tremare le vene e i polsi<br />

a chiunque si proponga di farla oggetto di insegnamento, difficile da capire<br />

e ancor più da spiegare. Credo inoltre che sia molto importante il taglio che<br />

è stato dato a questa iniziativa, cioè quello di non parlare soltanto dello <strong>sterminio</strong><br />

degli ebrei, ma di dare un quadro complessivo della politica di persecuzione<br />

e di <strong>sterminio</strong> portata avanti dai nazisti. Io cercherò di darvi alcuni<br />

elementi di riflessione in questa direzione, poi le varie relazioni entreranno<br />

nel merito di quello che il razzismo nazista, con la sua esaltazione del<br />

mito ariano, ha rappresentato per ebrei, zingari, omosessuali, handicappati<br />

ecc. Toccherò anche il problema del ruolo della donna nell’ideologia razzista,<br />

perché è un discorso, quello dell’esaltazione dell’uomo ariano, che ha<br />

stretti rapporti con l’insieme della politica razzista, con le scelte demografiche,<br />

con la politica eugenetica, con lo <strong>sterminio</strong> degli handicappati e dei<br />

malati.<br />

Affrontare la Shoah entro un’ottica più generale, inoltre, rende più facile<br />

aggirare la contrapposizione sterile tra una concezione della Shoah come<br />

evento assolutamente imparagonabile, ed una che punti a confronti con i<br />

totalitarismi e i genocidi di cui è costellata la storia e in particolare quella<br />

del Novecento: il genocidio degli armeni, quello del Ruanda, la Cambogia di<br />

Pol Pot, ma anche lo <strong>sterminio</strong> delle popolazioni precolombiane, ecc. Dico<br />

contrapposizione sterile, perché ambedue le posizioni, prese in assoluto,<br />

creano problemi storici e politici non risolubili. Sottolineare, come una<br />

parte della storiografia ha fatto, gli aspetti che rendono la Shoah diversa<br />

dagli altri genocidi, la sistematicità, la burocratizzazione, la modernità, la<br />

proclamazione aperta della volontà di <strong>sterminio</strong> di un intero popolo in<br />

quanto tale, dai suoi vecchi ai bambini appena nati, non elimina la necessità<br />

del confronto, un confronto, come ha sottolineato in anni recenti uno<br />

storico, Jean-Michel Chaumont, che deve avere l’obiettivo non di banaliz-<br />

51


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

52<br />

zare, appiattendola sugli altri genocidi, la Shoah, ma di debanalizzare gli<br />

altri genocidi alla luce dell’assoluta singolarità della Shoah.<br />

Unico nella storia fu certamente il progetto complessivo che fu dietro lo<br />

<strong>sterminio</strong> nazista: l’idea di creare, attraverso la violenza e lo <strong>sterminio</strong> di<br />

intere categorie e di intere popolazioni, un mondo nuovo di uomini superiori,<br />

nelle cui vene circolasse un sangue puro. Non siamo solo di fronte a<br />

una politica di persecuzione degli ebrei, degli zingari, degli omosessuali, in<br />

un certo senso delle donne e su questo tornerò perché è forse uno degli elementi<br />

meno conosciuti della politica nazista di eliminazione dei deboli,<br />

degli handicappati, dei malati di mente, aspetti su cui parlerà in questa sede<br />

Alicia Ricciardi von Platen, ma di un progetto complessivo che raccoglie sì<br />

tutta una serie di elementi “culturali” che gli stanno dietro, ma che li rielabora,<br />

li trasforma in qualcosa di unico. Che è il progetto di un uomo nuovo,<br />

l’uomo ariano, l’uomo maschio ariano, che si afferma proprio sull’eliminazione<br />

della diversità e della debolezza, un progetto eugenetico fondato sulla<br />

creazione di una nuova razza di uomini superiori. Non è un elemento marginale,<br />

è un elemento assolutamente sostanziale della politica razzista di<br />

Hitler, che la accompagna dall’inizio, dal 1933, fino allo <strong>sterminio</strong> e al crollo<br />

del 1945.<br />

In questo progetto, lo sappiamo, non tutti sono destinati allo <strong>sterminio</strong>, ma<br />

molti sono destinati alla schiavitù. Io lo sottolineo sempre, nelle mie lezioni,<br />

e dico ai miei studenti di non ritenersi fra quelli che i nazisti avrebbero<br />

considerato “ariani” perché non ebrei, non zingari, non gay. La maggior<br />

parte dei popoli circostanti hanno nella terribile utopia hitleriana un ruolo<br />

di puri e semplici schiavi dell’uomo ariano. Nel progetto di Hitler a dominare<br />

erano destinati solo i tedeschi e poi i popoli nordici più vicini alle<br />

caratteristiche ariane. Per uno strano paradosso, per i nazisti anche una<br />

parte degli zingari andava salvata, perché originariamente ariana. Destinati<br />

alla distruzione erano quanti fra gli zingari – la maggior parte – si erano nel<br />

corso dei secoli contaminati attraverso le mescolanze con popolo non ariani,<br />

allontanandosi sempre più dall’originaria purezza del sangue. Destinati<br />

alla schiavitù erano quindi la maggior parte dei popoli intorno, certamente<br />

gli slavi, ma anche i latini, i popoli mediterranei. Altro fatto è che poi<br />

Mussolini, in un contesto di partecipazione al progetto razzista di Hitler, nel<br />

1938, sia stato obbligato ad inventarsi un’inesistente “pura razza italica”,<br />

che avrebbe condiviso il destino dominatore della “pura razza ariana”.<br />

E quindi questo di Hitler, il progetto di costruzione ex novo di un uomo<br />

diverso, di un’umanità fondata sull’eliminazione di qualunque tara, è un<br />

progetto che ha, rispetto ai legami sociali e alla struttura della società, una<br />

funzione dirompente, distruttiva. È un progetto unico nella storia dell’umanità<br />

ed è un progetto che non è mai stato realizzato fino in fondo, nel<br />

senso che poi il nazismo in concreto è dovuto venire a patti con gli elementi<br />

più conservatori all’interno della società. Per comprendere questo aspetto,<br />

facciamo il caso dell’eugenetica. La razza pura – questa purezza che<br />

ritorna costantemente come un’ossessione nel progetto nazista – non esiste<br />

già, o esiste solo in minima parte, ma va costruita. Costruita come?<br />

Eliminando tutto quello che può nuocerle, quindi tutto quel sangue che non<br />

sia considerato puro, ariano, eliminando l’handicap, e quindi concretamente<br />

gli handicappati, eliminando tutte le persone mentalmente disturbate,<br />

eliminando alla fine tutti quelli che non abbiano i capelli biondi e gli occhi<br />

azzurri. La razza ariana quindi è una selezione, è una costruzione. Per arrivare<br />

a costruire un nuovo uomo, perfettamente ariano, il nazismo farà sua<br />

l’idea di un’eugenetica fuori dal matrimonio. Nazisti alti e biondi avranno<br />

così rapporti sessuali con ragazze adeguatamente ariane, in luoghi speciali,<br />

al fine di procreare bambini destinati a rappresentare questa umanità<br />

purificata, bambini, possiamo aggiungere, che avranno un destino diffici-


Il nazismo dall’ideologia razzista allo <strong>sterminio</strong><br />

lissimo, tragico. Questo progetto rivoluzionario nazista – e uso il termine<br />

rivoluzionario nel senso neutro di distruzione del vecchio ordine e della vecchia<br />

mentalità – urta contro le istanze conservatrici che vengono dalla<br />

società, una società del cui consenso e appoggio il nazismo ha bisogno: l’esaltazione<br />

della maternità, della famiglia, della natalità, dei valori della<br />

morale corrente. Di qui il rifiuto dell’ideologia omosessuale e la distruzione<br />

delle SA, con la loro forte componente omosessuale e l’esaltazione della<br />

comunanza fra giovani maschi. Di qui contraddizioni e conflitti, che rallentano<br />

la portata distruttiva dell’ideologia razzista, come dimostra la<br />

vicenda dell’arresto, sia pur tardivo, dopo ottantamila morti, dell’operazione<br />

eutanasia.<br />

Il progetto eugenetico è strettamente collegato alla persecuzione antiebraica.<br />

Lo dimostra, immediatamente, il fatto che le prime norme antiebraiche<br />

varate subito dopo la salita al potere di Hitler, nel 1933, sono accompagnate<br />

dalle prime pesanti limitazioni contro gli zingari e da una legge demografica<br />

sulla sterilizzazione eugenetica che porta a sterilizzazioni forzate in<br />

gran numero, imposte a persone considerate portatrici di tare fisiche ereditarie,<br />

tra esse la tubercolosi, o mentali. Ci sono molte giovani donne che<br />

mettono in atto una gravidanza quando si rendono conto di rientrare tra le<br />

candidate alla sterilizzazione. Il progetto di uomo nuovo nazista colpisce<br />

così immediatamente non solo gli ebrei, non solo gli handicappati, ma<br />

anche una fascia consistente dei tedeschi, con interventi feroci non solo<br />

sulla loro libertà politica, ma sui comportamenti, la sessualità, il corpo e la<br />

malattia. Perché, bisogna sottolineare, la politica nazista è più una politica<br />

di denatalità, nel senso di denatalità delle razze considerate inferiori, o degli<br />

individui considerati inferiori, tarati, che di natalità delle razze superiori. È,<br />

il nazismo, molto più impegnato nel distruggere le possibilità delle razze<br />

inferiori di avere dei figli che in quella di sollecitare la nascita di nuovi bambini<br />

ariani. Questa attiva e violenta opera di denatalizzazione è sostanzialmente<br />

senza precedenti nella società europea.<br />

Ho inserito, tra le vittime del nazismo, le donne. Certo, bisogna fare molti<br />

distinguo: tra i folli progetti di <strong>sterminio</strong> di Hitler non c’è mai stato quello<br />

di sterminare le donne in quanto tali. Ma c’è nell’intero progetto eugenetico<br />

un forte accento antifemminista, con la sua esaltazione del maschile, con<br />

la sua riduzione della donna a strumento di natalità, una natalità non generica<br />

ma orientata in chiave razzista. Molte sono, ovviamente, le contraddizioni.<br />

Le donne sono, lo sappiamo, un fortissimo supporto del nazismo.<br />

Inoltre, il nazismo non riesce a rinunciare al lavoro femminile: nonostante<br />

alcuni tentativi di eliminare il lavoro femminile, simili a quelli che faceva<br />

con maggior successo in Italia Mussolini, le donne in Germania continueranno<br />

a essere molto rappresentate nel mondo del lavoro, soprattutto nel<br />

corso della <strong>guerra</strong>.<br />

Inoltre, la femminilizzazione del diverso è una delle costanti di questa ideologia<br />

della razza. In quanto essere inferiore, il diverso è volentieri equiparato<br />

alla donna. Niente di particolarmente originale in tutto questo: il nazismo<br />

raccoglie qui suggestioni diverse del passato, del positivismo, di<br />

Lombroso, oltre alle formulazioni di Otto Weinenger sulle analogie tra ebrei<br />

e donne. Ma direi che questo forte antifemminismo dell’ideologia della<br />

razza è importante per comprendere appieno il senso dell’ideologia nazista.<br />

L’ideologia razzista che il nazismo porta avanti esce dai cardini anche dell’ideologia<br />

razzista ottocentesca, è qualche cosa di radicalmente nuovo, che<br />

contiene in sé il progetto di <strong>sterminio</strong>, o perlomeno quello di portare all’esaurimento<br />

della natalità, quindi alla morte demografica, tutti quelli che<br />

sono diversi. I “non ariani”. E questo è un elemento che caratterizza la politica<br />

del nazismo rispetto a tutte le sue vittime, rispetto a quelli che poi tro-<br />

53


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

54<br />

veremo nei campi di <strong>sterminio</strong> con i diversi triangoli che stabiliscono se<br />

sono degli zingari, se sono degli omosessuali, se sono degli ebrei. Per il nazismo<br />

la razza viene prima di tutto, prima della famiglia, prima della maternità,<br />

prima di qualunque altra opzione. E la razza, la purezza della razza,<br />

l’idea della costruzione di una razza pura e dominante, è l’elemento cardine<br />

di tutta la politica nazista, è quello che accompagna l’aggressione e la<br />

<strong>guerra</strong>, e naturalmente lo <strong>sterminio</strong>.<br />

Stiamo insistendo sull’idea di costruzione: costruzione della razza superiore,<br />

ariana, costruzione delle razze inferiori. Vorrei insistere sul valore<br />

attivo, di definizione, che ha il progetto nazista, anche nel caso degli ebrei.<br />

Hitler deve costruire l’immagine dell’ebreo, non la trova già pronta, perché<br />

ha davanti un mondo ebraico in cui le mescolanze di sangue con i non<br />

ebrei sono forti, i rapporti intensissimi. Gli ebrei sono circa mezzo milione,<br />

l’1% della popolazione tedesca, con un tasso di matrimoni misti altissimo.<br />

Per alcuni anni, dal ’33 alle leggi di Norimberga del ’35, tutta la politica<br />

antisemita di Hitler è impostata sull’individuazione dell’ebreo, sulla<br />

definizione di colui che deve essere considerato tale. Inizialmente sono<br />

lasciati degli spazi per quelli che sono considerati di sangue misto, i cosiddetti<br />

meticci, che poi a loro volta saranno sottoposti, nel corso degli eventi,<br />

a crescenti limitazioni.<br />

Uno degli storici più importanti dello <strong>sterminio</strong> nazista, Raul Hilberg, ha<br />

distinto nella persecuzione nazista degli ebrei quattro grandi tappe. Una è<br />

quella, dal ’33 al ’35, di definizione degli ebrei: il nazismo li definisce nella<br />

loro sub-umanità, creando un’immagine di ebreo che non è cittadino, e<br />

definisce anche quanto sangue ebraico deve scorrere nelle sue vene perché<br />

qualcuno sia definito ebreo. Col 1935, con le leggi di Norimberga, gli ebrei,<br />

ormai definiti, sono sottoposti a tutta una serie di limitazioni gravissime<br />

che li mettono fuori dalla società. Comincia l’emigrazione. Più della metà<br />

della popolazione ebraica tedesca abbandonerà la Germania nel corso di<br />

questi anni, anni in cui Hitler pensa ancora alla soluzione dell’emigrazione<br />

per avere una Germania senza ebrei. Fra il 1935 e il 1938, la politica hitleriana<br />

è volta a togliere agli ebrei il potere economico. È la fase dell’espropriazione,<br />

che finisce nella terribile notte del novembre 1938, la “notte dei<br />

cristalli”, così chiamata dalle vetrine infrante di tutti i negozi di ebrei della<br />

Germania, nel corso di un terribile pogrom in cui molti vengono uccisi.<br />

Dopo di che, solo pochissimi ebrei resteranno in Germania, nascosti, aiutati<br />

da non ebrei a sottrarsi alla deportazione. Quanto all’emigrazione, è una<br />

strada drammatica. Il destino di Walter Benjamin, le pagine amarissime di<br />

Hannah Arendt sul suicidio dei profughi ebrei negli Stati Uniti, ce ne danno<br />

la misura.<br />

Subito dopo viene la fase della deportazione e della concentrazione nei<br />

ghetti, ed è una fase che va dal ’39 al ’41. È la fase su cui gli storici discutono<br />

molto, perché i cosiddetti storici intenzionalisti, quelli che pensano che<br />

Hitler mirasse fin dall’inizio a sterminare gli ebrei dall’Europa, la considerano<br />

come una fase dello <strong>sterminio</strong>, mentre per i loro oppositori, gli storici<br />

“funzionalisti”, si trattava di una fase in cui erano ancora aperte strade<br />

diverse da quella dell’eliminazione fisica vera e propria. Dire che fin dal ’33<br />

quella di Hitler sia stata una “<strong>guerra</strong> contro gli ebrei” è effettivamente riduttivo.<br />

D’altra parte gli storici funzionalisti hanno eccessivamente sottolineato<br />

il ruolo esterno, come se né lo stesso Hitler né il regime nazista avessero<br />

decisive responsabilità, e la <strong>guerra</strong> e le vicende esterne avessero da sole<br />

spinto avanti la macchina dello <strong>sterminio</strong>. La macchina in realtà è stata<br />

messa in moto da scelte precise, e il ’39 è una data fondamentale, perché è<br />

il momento in cui con l’invasione della Polonia il nazismo si trova di fronte<br />

non soltanto più gli ebrei tedeschi, già ridotti fortemente dall’emigrazione,<br />

ma milioni di ebrei polacchi, che per il momento chiude nei ghetti, ma


Il nazismo dall’ideologia razzista allo <strong>sterminio</strong><br />

di cui non sa come sbarazzarsi. Di qui, i progetti di deportazione, come il<br />

progetto Madagascar, prima di arrivare alla scelta dello <strong>sterminio</strong> nel 1941,<br />

nel momento dell’attacco all’Unione Sovietica, ma anche col fallimento di<br />

questa offensiva che nell’idea di Hitler avrebbe dovuto essere fulminea. La<br />

consapevolezza che i Russi stavano resistendo, che l’Unione Sovietica non<br />

era distrutta porta in qualche modo Hitler ad una decisione radicale nei<br />

confronti degli ebrei: eliminarli.<br />

Per i nazisti, ad ulteriore riprova della centralità di questa politica, lo <strong>sterminio</strong><br />

degli ebrei ha la precedenza rispetto alle necessità della <strong>guerra</strong>. Di<br />

fronte alla scelta se mettere più ebrei a lavorare nelle fabbriche per l’industria<br />

bellica o mandarli nei campi di <strong>sterminio</strong> ad essere immediatamente<br />

assassinati, una parte dell’esercito preme perché ci sia una riduzione della<br />

politica dello <strong>sterminio</strong>, perché gli ebrei siano impegnati di più nell’industria<br />

bellica. Ma ogni volta nel partito nazista lo <strong>sterminio</strong> ha la precedenza<br />

sulle esigenze di <strong>guerra</strong>. Coloro che vogliono più manodopera sono<br />

sopraffatti da coloro che invece vogliono andare avanti senza arresti nella<br />

politica dello <strong>sterminio</strong>, perché temono che ogni aumento dell’impiego<br />

degli ebrei come manodopera bellica possa portare a una riduzione e a un<br />

accantonamento del progetto di <strong>sterminio</strong>. E tutto questo, in un paese sempre<br />

più in difficoltà dal punto di vista militare, sempre più consapevole di<br />

avviarsi verso una sconfitta. Lo <strong>sterminio</strong> degli ebrei va avanti anche quando<br />

ormai è chiaro per tutti i tedeschi ed è chiaro anche per i nazisti che la<br />

<strong>guerra</strong> è perduta; va avanti fino all’ultimo, fino a quando è possibile farlo<br />

andare avanti, fino a quando i convogli per Auschwitz partono, fino a che è<br />

possibile farli partire. Mentre per gli angloamericani fermare la macchina<br />

dello <strong>sterminio</strong>, bombardando per esempio la linea ferroviaria per<br />

Auschwitz, non è una priorità rispetto alle esigenze belliche, per i nazisti la<br />

prosecuzione dello <strong>sterminio</strong> era una priorità assoluta rispetto alle esigenze<br />

della <strong>guerra</strong>, anche nel momento della sconfitta.<br />

Ho scelto, in questo quadro d’insieme, di insistere molto sulla novità del<br />

razzismo nazista perché mi sembra l’elemento in grado di darci una visione<br />

d’insieme rispetto agli altri temi di cui ci si occuperà in questa sede. La<br />

sterilizzazione forzata, l’operazione eutanasia, la persecuzione e lo <strong>sterminio</strong><br />

degli zingari, il massacro e la deportazione nei campi degli omosessuali<br />

sono elementi cardine del quadro d’insieme, non puri elementi di contorno,<br />

sono connessi intimamente allo <strong>sterminio</strong> degli ebrei. È il momento in<br />

cui il nazismo ha deciso di costruire un uomo nuovo, nelle cui vene scorresse<br />

un sangue puro, inventando anche questa purezza di sangue che non<br />

è mai esistita nella storia. È un’ossessione di purezza che ha portato, come<br />

molte delle ossessioni di purezza nella storia, a esiti particolarmente efferati<br />

e sanguinosi. Su Auschwitz, noi storici a volte ci troviamo, come chi storico<br />

non è, a parlare di impossibilità di arrivare ad un discorso razionale.<br />

Altre volte, ci ostiniamo a spiegare, perché il nostro obiettivo di storico è<br />

spiegare quello che è successo, cercare dei criteri interpretativi, ovunque.<br />

Forse questa chiave che sottolinea la specificità della Shoah non dal punto<br />

di vista numerico ma come un progetto utopico sanguinoso che non si era<br />

mai verificato prima, di creazione di un’umanità nuova, che per il fatto stesso<br />

di nascere doveva distruggere quella umanità che aveva di fronte e che<br />

non corrispondeva ai suoi criteri, questa chiave può essere importante per<br />

trasmettere agli studenti il senso di quello che è avvenuto e per uscire da<br />

contrapposizioni troppo spesso sterili sull’unicità e sull’intenzionalità della<br />

Shoah e sui suoi numeri.<br />

55


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Il nazismo e l’eutanasia<br />

dei malati di mente<br />

Alice Ricciardi Von Platen, Psichiatra, gruppoanalista,<br />

psicoterapeuta. Osservatrice al processo contro i medici<br />

di Norimberga (1946)<br />

Devo ringraziare la <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> per l’invito a questo importante convegno<br />

sui massacri dei non ebrei, perpetrati dai nazisti durante e prima<br />

della seconda <strong>guerra</strong> mondiale; desidero anche ringraziare la Professoressa<br />

Anna Foa per la sua ottima introduzione al tema.<br />

Per capire come un popolo considerato civile poteva accettare un regime barbarico<br />

e fanatico come il nazismo bisogna guardare la storia della Germania<br />

moderna. Dopo il 1870 (anno di fondazione dell’impero) la Germania si sentiva<br />

invincibile; la sconfitta del 1918 e la fondazione della repubblica di<br />

Weimar furono considerati eventi umilianti da una grande parte del popolo:<br />

la nuova Repubblica non è mai stata amata.<br />

Il breve periodo imperiale aveva fatto crescere il potere della Germania che<br />

viveva in un’atmosfera di megalomania e di nazionalismo fanatico; l’obbedienza<br />

all’autorità e l’amore per la Patria erano i valori che, venivano trasmessi<br />

da un’educazione severa e patriarcale. La democrazia della<br />

Repubblica di Weimar era giovane, i partiti liberali e progressisti erano<br />

deboli; la media borghesia aveva un’enorme paura delle sinistre socialiste e<br />

del comunismo di tipo russo. Non si fidava né degli intellettuali né degli<br />

ebrei, questi ultimi particolarmente invidiati per il loro importante ruolo<br />

nella vita culturale progressista. Anche la borghesia ebrea assimilata sosteneva<br />

i valori tradizionali tedeschi; nei gruppi di estrema destra l’antisemitismo<br />

e l’odio contro il nuovo ordine, cresceva.<br />

In questa situazione caotica il nazionalsocialismo prometteva una vita<br />

nuova, una rinnovata Germania forte, tradizionale, virile ed anche una<br />

nuova ideologia che soddisfaceva i sogni romantici di una borghesia delusa<br />

dalla democrazia e dai conflitti politici.<br />

Nella ideologia nazista esistevano sempre due tendenze contraddittorie: da<br />

una parte il desiderio (medievale e lontano dalla realtà) di ritornare a una<br />

grande Germania, e dall’altra il desiderio di una nuova razza germanica con<br />

sangue puro ariano ma anche padrona di tutte le nuove tecnologie progressiste<br />

della scienza moderna. Il conflitto fra romanticismo e realtà è certamente<br />

molto pronunciato nella cultura tedesca, ma in Hitler il romanticismo si<br />

coniugava con un’ambizione smisurata e con il desiderio del potere assoluto.<br />

Per comprendere lo sviluppo dell’ideologia nazista bisogna conoscere la personalità<br />

del giovane Hitler: già nella scuola a Linz (Austria) glorificava la<br />

“Grande Germania” e ne parlava continuamente con fervore e con rabbia<br />

contro gli avversari. Diciottenne, andava a Vienna per studiare arte, ma<br />

57


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

58<br />

l’Accademia non l’accettò; visse miseramente per 6 anni senza soldi in un<br />

asilo per disoccupati e barboni vendendo piccoli acquarelli di vedute di<br />

Vienna. Non si preoccupava di cercare un lavoro regolare e viveva nelle<br />

biblioteche leggendo di tutto ma specialmente giornali e giornaletti di piccoli<br />

fanatici gruppi di razzisti pangermanici e libri di storia militare; esprimeva<br />

il suo amore per la Germania ed il suo odio per Vienna e per l’Austria<br />

multietnica. In questo periodo non era antisemita ma lottava già per la<br />

purezza della razza tedesca.<br />

Aveva una memoria eccezionale ed una vasta cultura popolare; la sua notevole<br />

conoscenza del teatro di Wagner e delle grandi sfilate teatrali l’ha usata<br />

più tardi per affascinare le masse: impressionava facilmente la gente con la<br />

sua superficiale cultura ed aveva un indubbio talento politico: capiva subito<br />

le debolezze degli avversari e sapeva approfittarne.<br />

Nel 1913 arrivava finalmente con una piccola eredità a Monaco di Baviera e<br />

combatteva nella <strong>guerra</strong> 1914-1918, alla fine come caporale. Dopo la <strong>guerra</strong>,<br />

nel periodo di caos politico, cominciava la sua miracolosa carriera politica,<br />

usando l’esperienza di Vienna fra i gruppi fanatici razzisti pangermanici.<br />

Dopo la <strong>guerra</strong> a Monaco entrava in un piccolo partito nazionale di estremo<br />

nazionalismo dove diventa subito la figura decisiva; trovò presto finanziatori<br />

che cercavano un uomo che portasse ordine nella politica e nell’economia<br />

che erano dimensioni entrambe caotiche.<br />

Nel 1933 Hitler prese il potere diventando Cancelliere della Germania con<br />

voto legittimo.<br />

La classe medica, come del resto tutto il popolo tedesco, era profondamente<br />

scissa ma la maggioranza di essa era tradizionalmente nazionale e materialista:<br />

circolavano già idee di igiene mentale per ridurre la nascita di<br />

pazienti con difetti (tare) ereditarie magari tramite la sterilizzazione. Hitler<br />

introduceva nel 1934 leggi per la sterilizzazione di tali pazienti: persone con<br />

diagnosi eterogenee come epilessia, schizofrenia, alcolismo, psicopatia.<br />

Furono proprio queste le tipologie di persone che, nel 1940, diventavano vittime<br />

della cosiddetta Eutanasia dei malati di mente.<br />

Già nel 1920 era uscito il libro dello psichiatra A. Hoche e del giurista R.<br />

Binding in cui si sosteneva la necessità di eliminare pazienti affetti da<br />

malattie che rendono la vita “non degna di essere vissuta” (lebensunwert),<br />

senza valore e utilità …<br />

Molti medici appartenevano alle SS, le truppe d’élite di Hitler e, quindi educati,<br />

sin dalla giovinezza alla ideologia nazista.<br />

Il sogno di creare un popolo tedesco di sangue puro e di spirito nuovo invece<br />

di curare il singolo mlato era inebriante; in breve tempo la propaganda<br />

nazista aveva convinto il popolo che i diversi erano inferiori e che rappresentavano<br />

anche un peso economico.<br />

I medici ebrei erano molto stimati in Germania; le corti principesche avevano<br />

sempre un medico ebraico; nelle università la percentuale di medici<br />

ebraici era molto alta come in tutte le altre facoltà e come, del resto, nei vari<br />

ambiti della vita culturale tedesca: tale situazione costituiva motivo di invidia<br />

anche fra medici non antisemiti. Le leggi di Hitler contro gli ebrei, come<br />

quelle sulla sterilizzazione, furono accettate senza proteste dalla maggioranza<br />

dei tedeschi; la propaganda che teorizzava la necessità della sterilizzazione<br />

(tramite film, stampa e convegni) era massiccia e riusciva a convincere,<br />

con il suo linguaggio pseudo-scientifico, molte persone. Già prima della<br />

<strong>guerra</strong> Hitler aveva pensato allo <strong>sterminio</strong> di popolazioni che odiava: ebrei,<br />

zingari, omosessuali e malati di mente (tutti portatori di caratteristiche<br />

ostili alla sua ideologia irreale) ma soltanto una <strong>guerra</strong> poteva distogliere<br />

l’opinione pubblica internazionale dal controllo delle vicende della<br />

Germania.


Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente<br />

Infatti, solo dopo la dichiarazione di <strong>guerra</strong> contro la Polonia (avvenuta il 1<br />

Settembre 1939) Hitler firmò il documento che prevedeva la morte di<br />

migliaia di malati negli istituti pubblici e privati della Germania,<br />

dell’Austria e dei paesi occupati, risparmiando solo l’Italia (escluso l’Alto<br />

Adige) e la Francia.<br />

Stranamente tale documento è scritto dall’ufficio privato di Hitler scavalcando<br />

il sistema giuridico: così l’eutanasia appare come un suo affare privato.<br />

La grande organizzazione burocratica dell’Eutanasia (Euthanasie- Action)<br />

lavorò per circa due anni nel più rigoroso segreto. Quando i medici dell’organizzazione<br />

– conosciuta con la sigla TG4 – avevano chiesto di operare con<br />

la protezione della legge, Hitler aveva sempre rifiutato tale richiesta, dicendo<br />

che la legge sarebbe stata fatta dopo la <strong>guerra</strong>: naturalmente vinta!<br />

In un tempo incredibilmente breve la burocrazia della morte funzionava con<br />

6 cliniche della morte complete di camere a gas, crematori, registrazione dei<br />

decessi e persino un ufficio per le lettere di condoglianze; piccole commissioni<br />

di medici e psichiatri di fiducia “visitavano” fino a 200 pazienti di una<br />

stessa clinica nell’arco di due giorni; i malati, in fila, passavano davanti ai<br />

medici che dovevano soltanto confermare il destino già prestabilito del<br />

malato. Non è stato possibile tener segreto un massacro di tale dimensione:<br />

circolavano voci e si manifestavano anche aperte proteste. Alcuni collaboratori<br />

riuscirono a convincere Hitler che l’eutanasia poteva minare la fiducia<br />

del popolo tedesco nel suo “Führer”. Nell’Agosto del 1941 l’eutanasia ufficiale<br />

finisce, le camere a gas ed il loro personale viene trasportato nei campi<br />

di concentramento dei paesi occupati dell’Est dove iniziava l’Olocausto.<br />

L’eutanasia ufficiale fece 70.000 vittime ed almeno lo stesso numero di<br />

malati morirono con iniezioni o semplicemente per fame, dopo la fine ufficiale<br />

dell’operazione.<br />

Qualsiasi critica o protesta contro le decisioni di Hitler erano punite severamente,<br />

spesso con la morte, ma anche senza la minaccia la popolazione<br />

aveva lasciato tutta la responsabilità sulle decisioni di vita e di morte al<br />

grande padre, il “Fürer” Hitler, sostenendo che la sua volontà era sacrosanta<br />

e che solo lui poteva sapere cosa sarebbe potuto servire alla Germania: il<br />

singolo individuo non contava più e poteva, dunque, essere sacrificato per la<br />

Patria.<br />

Due prediche cattoliche sull’eutanasia come peccato furono fatte nell’Agosto<br />

del 1941 dal cardinale Michael von Faulhaber a Berlino e dal vescovo Conte<br />

Clemens August von Galen a Münster (Westfalen): esse provocarono un<br />

forte effetto sulla popolazione credente cattolica e protestante; circolarono<br />

migliaia di copie clandestine e furono lette malgrado il pericolo di essere scoperti<br />

in possesso di tale materiale.<br />

È difficile spiegare la completa acquiescenza di gran parte del popolo tedesco<br />

che vedeva in Hitler il “Salvatore” che poteva costruire una vita migliore<br />

per tutti.<br />

D’altra parte, chi era di opinione diversa non osava manifestarla e protestare<br />

perché ogni critica poteva portare alla morte e quindi si abbandonava<br />

alla più completa passività. In un processo contro i criminali nazisti un<br />

imputato rispondeva alla domanda riguardo alla dignità della sua coscienza:<br />

“la mia coscienza è Adolf Hitler!”, rinunciando così ad una personale<br />

coscienza.<br />

Ecco perché ancora oggi è necessario imparare a sviluppare una coscienza<br />

indipendente ed autonoma, a tollerare le diversità di altre persone e culture.<br />

La catastrofe della Germania nazista può insegnarci a diventare cittadini<br />

responsabili capaci di conservare autonomia di giudizio e libertà di pensiero.<br />

59


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La persecuzione<br />

nazifascista<br />

degli omosessuali<br />

Giovanni Dall’Orto, storico, direttore del mensile gay italiano<br />

“Pride”<br />

M’è stato assegnato il tema della persecuzione degli omosessuali da parte<br />

del nazifascismo.<br />

È un tema nuovo (fino a pochissimi anni fa era uno dei molti “buchi neri”<br />

della persecuzione razziale nazifascista) e che contiene un paradosso: la persecuzione,<br />

con leggi razziali, d’una minoranza che non è una razza.<br />

Noi sappiamo che le razze non esistono. Neanche gli ebrei o gli zingari sono<br />

una “razza”: sono solo gruppi, geneticamente variegati, di persone unificate<br />

da una cultura, da una lingua o da una religione…<br />

La razza umana è unica: sono le culture e i comportamenti a differenziarla<br />

in gruppi, nazioni eccetera. Le “razze” in quanto gruppi fissi, immutabili,<br />

ereditari, genetici, sono un’astrazione, un’invenzione della mentalità, della<br />

filosofia dell’Ottocento.<br />

Se già gli ebrei non sono una razza, perché tra un ebreo aschenazita russo e<br />

un ebreo falascià etiopico non c’è da un punto di vista genetico nulla che li<br />

unifichi, figuriamoci gli omosessuali, che sono presenti in tutte le “razze”, in<br />

tutto il mondo, in tutte le culture.<br />

Eppure noi abbiamo nel nazifascismo leggi razziali che colpiscono gli omosessuali.<br />

Alcuni anni fa ho contribuito a un libro curato da Alberto Burgio sul razzismo<br />

italiano (Nel nome della razza, Il Mulino, Bologna, 1999), con un saggio sull’omosessualità<br />

intitolato proprio Il paradosso del razzismo fascista, e ho parlato<br />

di “paradosso” proprio per questo motivo: perché le leggi razziali italiane<br />

giustificano, dal 1936 al 1939, un episodio di persecuzione degli omosessuali<br />

che nel 1939 viene sospeso perché il fascismo italiano si rende conto di quanto<br />

sia controproducente definire “razza” gli omosessuali.<br />

A mio parere lo studio della persecuzione degli omosessuali è interessante<br />

proprio per questo motivo: perché è paradossale. Gli omosessuali infatti non<br />

sono una “razza”: sono un gruppo sociale unificato esclusivamente da un<br />

interesse comune, che è quello che nasce da un orientamento sessuale comune.<br />

A parte questo non hanno nient’altro in comune: né una religione, né una<br />

cultura, né un’appartenenza genetica… quindi sono, se vogliamo, l’esempio<br />

migliore d’un gruppo sociale che sicuramente non è un gruppo razziale, o<br />

anche solo “etnico”.<br />

Eppure gli omosessuali rientrano dal 1936 fra le persone colpite dalle leggi<br />

razziali italiane!<br />

61


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

62<br />

Io ho fatto uno studio presso l’Archivio di Stato di Roma sugli omosessuali<br />

inviati al confino politico dal 1936 al 1939, circa un centinaio (ora è online<br />

all’Url:<br />

http://digilander.libero.it/giovannidallorto/saggistoria/fascismo/bb/confino1.html),<br />

per trasgressioni contro le leggi sulla difesa della razza italiana, in quanto<br />

dal 1936 il fascismo considera i comportamenti omosessuali come una forma<br />

di attentato contro la purezza della razza italiana. Queste ricerche mi hanno<br />

mostrato il limite di questo approccio repressivo: nel 1939, allo scoppio della<br />

seconda <strong>guerra</strong> mondiale, il fascismo sceglie di rimandare a casa tutti gli<br />

omosessuali trasformando il confino politico in ammonizione (una sorta di<br />

domicilio coatto) e dimentica la questione. Da quel momento gli omosessuali<br />

verranno colpiti, come prima del 1936, dal confino riservato ai criminali<br />

comuni, e non più a quelli politici.<br />

Diverso è il caso del nazismo: in Germania, sulla base d’un articolo del codice<br />

penale tedesco (il famigerato “paragrafo 175”, inasprito nel 1933 dal regime<br />

nazista:<br />

http://digilander.libero.it/giovannidallorto/testi/leges/par175/175nazi.html),<br />

gli omosessuali vengono perseguitati seriamente come uno dei gruppi che<br />

attentano alla purezza razziale del Volk tedesco.<br />

Qui abbiamo una vera persecuzione degli omosessuali, che vengono mandati<br />

a migliaia in vari campi di <strong>sterminio</strong>, in particolare ad Auschwitz e<br />

Dachau, anche se non ci fu mai un programma d’eliminazione fisica totale,<br />

quale quello che hanno subìto zingari o ebrei. Infatti a una parte degli omosessuali<br />

arrestati fu inflitta la castrazione, altri se la cavarono col carcere:<br />

esiste addirittura una grottesca circolare di Göring che prescrive che nessun<br />

omosessuale celebre artista, ballerino o attore fosse mandato in un lager<br />

senza il suo permesso…<br />

Questo vuol dire che nei confronti degli omosessuali si agì in modo selettivo.<br />

Su quello che è stato soprannominato l’“Omocausto” (la persecuzione nazista<br />

degli omosessuali) ci sono cifre molto variegate, dalla valutazione minimalista<br />

di Rüdiger Lautmann (che stima in 10-15.000 il numero gli omosessuali<br />

deceduti nei lager nazisti) fino alle cifre molto più elevate di chi,<br />

partendo dalle centinaia di migliaia di condanne criminali per omosessualità<br />

nel periodo del terzo Reich, arriva fino a una stima di un milione di persone.<br />

Con l’apertura degli archivi statali conservati a Berlino Est s’è finalmente<br />

avuto accesso a dati fin lì inaccessibili, e s’è visto che la stima prudenziale<br />

era quella più vicina al vero, nel senso che magari le vittime non sono 15.000<br />

bensì 30 o 40.000, però anche così la realtà documentabile è più vicina alla<br />

stima prudenziale che alla stima “massima”.<br />

In altre parole il nazismo non ha puntato a un puro e semplice <strong>sterminio</strong><br />

fisico degli omosessuali, ma ha alternato sforzi per far “rientrare nei ranghi”<br />

gli omosessuali e campagne di liquidazione fisica, queste ultime soprattutto<br />

per togliere di mezzo gli omosessuali più visibili e per distruggere fisicamente<br />

un movimento di liberazione omosessuale molto vivace, assassinandone<br />

i militanti.<br />

Ricordiamoci infatti che il movimento di liberazione omosessuale nasce in<br />

Germania nel 1898, come reazione proprio contro il paragrafo 175 del codice<br />

penale tedesco.


La persecuzione nazifascista degli omosessuali<br />

Nel 1933 il suo esponente più noto era Magnus Hirschfeld, ebreo, socialista<br />

e omosessuale, che aveva fondato il “Comitato scientifico-umanitario”<br />

(WHK), il cui motto era: “Attraverso la scienza verso la giustizia”.<br />

Il WHK chiedeva l’abolizione pura e semplice del paragrafo 175 che, in base<br />

al codice penale prussiano esteso nel 1871 all’intero Reich tedesco,<br />

(http://digilander.libero.it/giovannidallorto/testi/leges/par175/175-<br />

1871.html), puniva col carcere gli atti omosessuali anche fra adulti consenzienti<br />

e in privato.<br />

Questo è il bersaglio di Hirschfeld e del WHK, ma anche d’una serie di altri<br />

movimenti, tra cui alcuni particolarmente curiosi perché di destra (esistono<br />

anche curiosissime correnti di destra legate ad Hans Blüher o a Friedländer,<br />

che hanno una fortissima connotazione antifemminista, in alcuni casi addirittura<br />

antisemita, come in Otto Weininger, che è un ebreo omosessuale<br />

antisemita ed omofobo – non a caso morì suicida).<br />

Quindi il panorama gay con cui si confronta il nazismo nel 1933 è veramente<br />

molto variegato, molto vivace: pubblica riviste, opuscoli e un annuario di<br />

cultura, produce film, organizza conferenze e proteste...<br />

Hirschfeld lanciò una celebre petizione per l’abolizione del paragrafo 175<br />

che raggiunse le 30.000 firme, tra cui quelle di Thomas Mann, di Einstein e<br />

d’una serie di personalità importanti della cultura dell’epoca: se il nazismo<br />

non avesse preso il potere sarebbe stata ormai all’ordine del giorno la<br />

discussione parlamentare dell’abolizione del paragrafo 175.<br />

Ecco, il nazismo prende il potere e una delle prime cose che fa è sopprimere<br />

gruppi e riviste gay, chiudere i locali d’incontro omosessuale, come<br />

l’“Eldorado” di Berlino, che è diventato proverbiale come era uno dei più<br />

famosi locali del mondo per lesbiche e gay dell’epoca.<br />

Tutti quanti oggi pensano che il movimento di liberazione omosessuale sia<br />

nato in America nel dopo<strong>guerra</strong>, ma questo è falso; il movimento di liberazione<br />

omosessuale nasce in Europa nel 1898, anzi alcuni pionieri si battono<br />

già verso il 1860.<br />

Il nazismo si trova insomma di fronte un movimento omosessuale articolato;<br />

il fascismo italiano, invece, no.<br />

La biforcazione della Rivoluzione francese<br />

Per capire il motivo di questa differenza facciamo un passo indietro: la linea<br />

di discrimine è qui la Rivoluzione francese.<br />

Come tutti saprete i comportamenti omosessuali sono stati tradizionalmente<br />

colpiti nella tradizione occidentale da una serie di pene, la più grave e diffusa<br />

delle quali era il rogo.<br />

La Rivoluzione francese pone fine a questa tradizione millenaria abolendo<br />

la pena di morte per sodomia; quando le sue leggi verranno diffuse in tutta<br />

Europa da Napoleone si creerà così una divaricazione d’atteggiamento<br />

all’interno dell’Europa.<br />

La tradizione cattolica<br />

Da una parte avremo i Paesi di tradizione cattolica, fra i quali l’Italia, in cui<br />

Napoleone, grazie al concordato con la Chiesa cattolica e attraverso il codice<br />

napoleonico, delega a un’altra autorità non statuale il controllo dei comportamenti<br />

sessuali devianti, come quello omosessuale.<br />

Lo Stato, nei Paesi della tradizione del codice napoleonico (che si identificano<br />

quasi interamente con i Paesi dell’area cattolica) si disinteresserà dei<br />

comportamenti sessuali devianti, lasciandoli al controllo monopolistico della<br />

Chiesa cattolica. Questa mentalità sopravvive ancor oggi nella tradizione<br />

giuridica italiana: basta solo vedere quanta fatica facciano i partiti politici<br />

italiani, tanto a destra quanto a sinistra, a non identificare nel papa l’auto-<br />

63


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

64<br />

rità di riferimento ogni volta che si parli di omosessualità e di diritti delle<br />

persone omosessuali.<br />

Similmente nel 1888 Zanardelli, promulgando il primo codice penale unitario<br />

del Regno d’Italia, dichiara che questo tipo di problematiche è di pertinenza<br />

della morale e della religione, e che quindi lo Stato non deve immischiarsene<br />

con leggi per reprimerle. (vedi il testo a: http://digilander.libero.it/giovannidallorto/testi/leggi/italia1887/italia1887.html).<br />

Questo significa fondamentalmente che quando nel 1931 l’Italia fascista<br />

promulga il codice Rocco (che tra l’altro è il codice penale tuttora in vigore)<br />

c’è un dibattito furibondo sul fatto di introdurre o no un paragrafo che punisca<br />

gli atti omosessuali, e alla fine Rocco nella sua relazione al Parlamento<br />

dichiara che questo tipo di reati, benché siano gravi, non rientrano nel<br />

campo delle competenze dello Stato, bensì della morale. E quindi il fascismo<br />

decide di non introdurre una legge antiomosessuale in Italia, nel 1931.<br />

Cinque anni dopo, per scimmiottare le leggi razziali razziste che nascono dall’altra<br />

tradizione di cui vi parlerò adesso, il fascismo cambia completamente<br />

idea, fa un voltafaccia… salvo poi rimangiarsi quello che aveva deciso.<br />

(Sulla tradizione giuridica italiana, sia preunitaria che unitaria, nei confronti<br />

dell’omosessualità, si veda il mio saggio a:<br />

http://digilander.libero.it/giovannidallorto/saggistoria/tollera/tollera.html).<br />

La tradizione protestante<br />

Ho appena detto che dopo Rivoluzione francese abbiamo uno spartiacque,<br />

due rami di tradizione giuridica che si dividono: uno è quello della tradizione<br />

cattolica di cui ho appena detto; l’altro è quello della tradizione protestante.<br />

La tradizione protestante vede uno Stato che assume il controllo della religione:<br />

in gran parte degli Stati protestanti noi abbiamo Chiese di Stato in<br />

cui il capo dello Stato è anche il capo della Chiesa: l’opposto della tradizione<br />

cattolica.<br />

In questi casi lo Stato si fa carico in prima persona della repressione dei<br />

comportamenti sessuali devianti. Questa è la tradizione di tutti i Paesi a<br />

prevalenza protestante: Inghilterra, Olanda, Germania del nord,<br />

Danimarca, Svezia, Norvegia...<br />

La Germania è veramente sintomatica, nel senso che prima dell’unificazione<br />

abbiamo gli Stati cattolici del sud, come la Baviera, che adottano il codice<br />

napoleonico e non puniscono l’omosessualità, e gli Stati protestanti del nord,<br />

come la Prussia, che invece prevedono e puniscono il reato di “sodomia”.<br />

Il Reich tedesco unificato dalla Prussia erediterà la tradizione protestante,<br />

criminalizzando l’omosessualità anche al sud attraverso il già citato paragrafo<br />

175.<br />

Il nazismo eredita questa tradizione e non solo la prosegue, ma la rende<br />

ancora più pesante.<br />

Abbiamo allora qui due tipologie di fascismo, che si muovono all’interno<br />

della tradizione legale già esistente nei Paesi in cui sono al potere.<br />

Abbiamo il fascismo italiano che nel 1931 ha l’occasione perfetta per introdurre<br />

una legge antiomosessuale, che non esiste nel codice penale italiano<br />

dal 1888, e sceglie di non farlo.<br />

Abbiamo poi il nazismo tedesco, che invece eredita una tradizione di repressione<br />

legale, e la continua e inasprisce.<br />

Vediamo insomma una divaricazione fra i due sapori con cui vengono commercializzati<br />

i fascismi europei: quella latina, italiana (che prevale anche in<br />

Portogallo, in Spagna, in altri regimi autoritari sudamericani) e quella tedesco/nazista.


La persecuzione nazifascista degli omosessuali<br />

La differenza fondamentale è che il nazismo pretende di darsi una base di<br />

tipo scientifico, o almeno di qualcosa che all’epoca si riesce a spacciare per<br />

scientifico. Se voi leggete il Mein Kampf vedrete che Hitler ha assorbito un<br />

concetto tipico della scienza dell’Ottocento, quello di degenerazione (anche<br />

se magari non in via diretta, ma attraverso rimasticature di terza mano<br />

delle idee del best-seller mondiale Degenerazione di Max Nordau, cosa paradossale<br />

perché Nordau è ebreo e addirittura sionista).<br />

(sull’uso di questo concetto nel campo dell’omosessualità si veda:<br />

http://digilander.libero.it/giovannidallorto/saggistoria/dege/dege.html).<br />

Cos’è la degenerazione?<br />

Sulla base della concezione darwiniana dell’evoluzione nell’Ottocento si<br />

ritiene che esista una scala evolutiva attraverso la quale una razza (eccolo<br />

qua il razzismo) migliora, si evolve di gradino in gradino.<br />

Ci sono razze che si sono fermate ai gradini più bassi, e razze che salendo<br />

gradino dopo gradino sono arrivate a uno stato “superiore”.<br />

Le razze superiori, è ovvio, sono gli occidentali, in particolare gli esponenti<br />

delle classi dominanti, mentre le razze inferiori, è palese, sono i<br />

popoli non occidentali, in particolare i negri, ma anche gli asiatici e i<br />

semiti in genere, quindi gli ebrei, i quali sono esecrabili in quanto residuo<br />

d’una fase d’evoluzione della razza umana passata, superata, inferiore,<br />

che inquina la razza “ariana”. Sì, possono copulare con gli esponenti della<br />

razza superiore, ma ogni volta che un ebreo fa un figlio con un “ariano” la<br />

prole, la razza “ariana” stessa, scendono uno scalino nella scala dell’evoluzione.<br />

Questo “passo indietro” si chiama: “degenerazione”.<br />

“Degenerazione” è un termine tecnico, scientifico. Oggi suona solo come un<br />

termine morale: “tu sei un degenerato”, vuol dire “sei un depravato”, però<br />

nella scienza positivista dell’Ottocento “degenerato” è una persona che ha<br />

una tara genetica, una persona che dal punto di vista dell’evoluzione è molto<br />

più vicina alle scimmie di quanto lo sia l’essere umano più evoluto e quindi<br />

“superiore”.<br />

Allora nella classificazione, nella tassonomia nazista noi abbiamo le razze<br />

non ariane ferme a una fase più primitiva dello sviluppo dell’essere umano:<br />

quindi gli zingari o gli ebrei sono fermi a una fase più vicina alle scimmie di<br />

quanto non lo siano gli ariani.<br />

Questo è il motivo fondamentale per cui noi “ariani” non possiamo non sterminare<br />

gli ebrei, perché se vogliamo essere una razza pura, vincente, superiore,<br />

che sconfigge tutti i suoi avversari, non possiamo che eliminare tutti<br />

quanti gli elementi che ci fanno da handicap, da peso morto, come sono gli<br />

zingari e gli ebrei, per esempio, ma anche gli handicappati fisici e mentali…<br />

e gli omosessuali.<br />

Questo perché in base alla gerarchia darwiniana l’ermafroditismo, l’ambiguità<br />

sessuale è tipica degli organismi inferiori. Le lumache sono dei molluscacci<br />

e sono ermafrodite, ma noi mammiferi non siamo ermafroditi, quindi<br />

è palese che questi omosessuali, che non si capisce bene se sono maschi o<br />

femmine, sono più vicini alle lumache che agli esseri umani veri e propri…<br />

Questo è il motivo per cui per rendere puro, per (termine nazista) “rigenerare”<br />

il popolo tedesco, è indispensabile liquidare fisicamente, uccidere, sterminare<br />

gli omosessuali.<br />

Perché il degenerazionismo nazista?<br />

Noi comprendiamo meglio il nazismo se lo capiamo in base al trauma della<br />

sconfitta dopo la prima <strong>guerra</strong> mondiale; i tedeschi non ebbero la percezio-<br />

65


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

66<br />

ne dell’incombere della sconfitta, la Germania guglielmina sembrò reggere<br />

bene nella prima <strong>guerra</strong> mondiale fino a venti giorni prima dell’armistizio.<br />

Secondo la propaganda tutto andava bene… poi di botto, senza nessun<br />

preavviso, l’imperatore firma la resa.<br />

Questo fece sì che nascessero movimenti che sostenevano che la Germania<br />

non aveva perso la <strong>guerra</strong>, la Germania era stata tradita dai suoi capi inetti,<br />

in un momento in cui poteva ancora vincere la prima <strong>guerra</strong> mondiale.<br />

I dirigenti degenerati, manovrati da un complotto di oscure massonerie<br />

(marxisti, ebrei e massoni in primis) avevano tradito la Germania e l’avevano<br />

consegnata ai suoi nemici. (Questo fra l’altro spiega perché nella seconda<br />

<strong>guerra</strong> mondiale gli Alleati rifiutarono qualunque proposta di resa e vollero<br />

conquistare metro per metro la Germania: per dimostrare innegabilmente<br />

che essa era stata sconfitta).<br />

Ma la prossima volta gliela faremo vedere noi, una Germania “coi coglioni”<br />

farà vedere al mondo cosa vuol dire un Paese veramente virile, un Paese<br />

veramente depurato dagli ebrei, dagli omosessuali, dal femminismo, dal<br />

pacifismo, dal comunismo, dal capitalismo… Grazie a ciò il terzo Reich<br />

durerà mille anni!<br />

In questa visione gli omosessuali sono un epifenomeno, sono un dato marginale.<br />

Il che spiega forse la scelta, poco coerente, di una persecuzione selettiva<br />

contro i soli omosessuali troppo visibili, troppo orgogliosi, troppo sfrontati<br />

per la mentalità nazista.<br />

Ma spiega anche perché persecuzione ci fu.<br />

Razzismo senza una razza<br />

Dicevo poco fa che il caso della persecuzione degli omosessuali sia particolarmente<br />

interessante, specie per chi, come voi, è insegnante, perché gli<br />

omosessuali non sono una razza, e quindi parlare del “razzismo” contro gli<br />

omosessuali ci pone una domanda su cosa voglia dire “razzismo”.<br />

Gli omosessuali non sono una razza… però in Italia ogni anno ci sono dai<br />

trenta ai cinquanta omicidi motivati da razzismo contro gli omosessuali. Se<br />

non lo conoscete vi consiglio il libro di Andrea Pini, intitolato Omocidi<br />

(Stampa Alternativa), il primo studio sugli assassinii motivati unicamente<br />

dall’odio verso l’omosessualità della vittima.<br />

Benché noi sappiamo che la tradizione razzista contro gli ebrei o gli zingari<br />

sia molto più antica e più virulenta di quella contro gli omosessuali, io non<br />

credo che ci siano trenta o più omicidi di ebrei ogni anno in Italia, e non ci<br />

sono neanche cinquanta omicidi di zingari, non ci sono neanche cinquanta<br />

omicidi di slavi…<br />

Il problema è che gli assassinii di omosessuali in Italia non vengono percepiti<br />

come un problema, ed è proprio in questo che sta il “razzismo”. Nel fatto<br />

cioè che venga accettato come fosse nella natura delle cose, del destino<br />

umano di queste persone, che ogni mese tre o quattro di loro vengano assassinati<br />

per il semplice fatto d’essere omosessuali.<br />

Io immagino che al 95% i presenti quest’oggi siano eterosessuali, quindi vi<br />

chiedo di provare a pensare che vita sarebbe la vostra se ogni volta che<br />

uscite con vostro marito o con vostra moglie doveste essere disposti a<br />

rischiare un pestaggio o addirittura la vita se “ostentate” il vostro affetto<br />

reciproco.<br />

Questa è la condizione dell’omosessuale oggi in Italia... ma figuriamoci in<br />

Arabia Saudita, dove c’è la pena di morte per l’omosessualità, come in altri<br />

dieci Stati del mondo…<br />

Il razzismo antiomosessuale si esprime insomma in un modo così virulento<br />

che è inconcepibile verso altre minoranze, mentre verso i “froci” ci sembra<br />

totalmente naturale, parte della natura delle cose.


La persecuzione nazifascista degli omosessuali<br />

Questo è il razzismo: credere che in base a un solo dato, tu sai di una persona<br />

tutto quello che hai bisogno di sapere: se sei ebreo sei usuraio, nemico di<br />

Cristo; se sei omosessuale sei pedofilo, nevrotico, maniaco sessuale; se sei<br />

zingaro sei ladro, se sei slavo…<br />

Allora voi che siete insegnanti, che vi ponete il problema di come “educare<br />

alla diversità” i vostri studenti, provate a chiedervi qual è l’offesa più grave<br />

che si rivolgono l’un l’altro. Non è sicuramente “ebreo”, non è sicuramente<br />

“slavo”, e non è sicuramente “zingaro”… probabilmente è “frocio”, anzi, non<br />

probabilmente: sicuramente è “frocio”.<br />

Ecco, noi abbiamo qui un razzismo senza nemmeno una razza, ieri come<br />

oggi, al punto che la legge contro l’odio razzista approvata alcuni anni fa in<br />

Italia ha deliberatamente escluso gli omosessuali, su espressa richiesta dei<br />

parlamentari cattolici.<br />

Il fascismo italiano si trova esattamente sul confine di questa problematica.<br />

E cerca di risolverla scimmiottando i nazisti.<br />

Vizio morale o degenerazione fisica?<br />

Il fascismo si accorge a un certo punto che i nazisti, da bravi tedeschi, hanno<br />

fatto le cose meglio di loro, e sono riusciti a dare una base (pseudo)scientifica<br />

alla loro ideologia.<br />

Il fascismo lo hanno inventato gli italiani, che però a pochi anni dall’avvento<br />

del nazismo erano già lì a scimmiottarlo, all’inizio senza crederci, poi purtroppo<br />

abbiamo visto che hanno cominciato a crederci eccome, e i treni per i<br />

lager sono partiti anche dall’Italia.<br />

Il problema per noi che studiamo la storia è allora: perché a un certo punto<br />

i treni per i lager sono partiti carichi di ebrei e non di omosessuali.<br />

La risposta ha a che vedere con quella biforcazione che parte dalla<br />

Rivoluzione francese di cui ho appena parlato.<br />

Il nazismo si confronta con una minoranza che è stata giuridicamente definita,<br />

studiata, dissezionata, anatomizzata, consegnata agli studiosi di medicina<br />

legale, di antropologia criminale, ed ha avuto una sua fisionomia, al<br />

punto tale che, sulla base di questa fisionomia si è ribellata (la parola “omosessuale”<br />

è stata coniata da un militante omosessuale, nel 1869). Quando il<br />

potere ha cominciato a dire, “voi omosessuali” siete criminali, voi siete colpevoli,<br />

voi siete… ha creato un gruppo di persone che ha detto: va bene, noi<br />

omosessuali siamo, noi omosessuali ci ribelliamo al nostro destino, noi omosessuali<br />

non vogliamo più subire questa sorte…<br />

Il fascismo no. Grazie anche al codice penale Zanardelli lo Stato italiano non<br />

ha mai detto “voi omosessuali”: dal momento in cui lo Stato italiano consegna<br />

alla Chiesa cattolica la repressione dei comportamenti sessuali devianti<br />

evita l’effetto indesiderato di stimolare la nascita d’una coscienza di gruppo<br />

nella categoria presa di mira (se fate attenzione, i movimenti gay più forti<br />

sono oggi in quei Paesi, come gli Usa, che hanno avuto in passato le politiche<br />

antiomosessuali più spietate. Non è un caso: è una conseguenza. Al contrario,<br />

l’Italia ha sempre avuto un movimento gay debole. Non è un caso<br />

nemmeno qui).<br />

E il paradosso di cui parlavo all’inizio è che lo Stato fascista, per applicare<br />

seriamente le leggi razziali, si accorge che prima di liquidare gli omosessuali<br />

in base a una politica razziale, occorre prima identificarli come “razza”, o<br />

almeno come gruppo con caratteristiche precise e persistenti. Mentre fin lì<br />

aveva sempre teorizzato l’omosessualità come comportamento deviante<br />

individuale, come (cattolicamente) vizio che, in quanto tale, non è certo limitato<br />

ad un gruppo predefinito di individui.<br />

In effetti, ancora oggi la Chiesa cattolica nega che si sia omosessuali: noi gay<br />

agiamo forse omosessualmente, ma siamo comunque “per natura” tutti ete-<br />

67


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

68<br />

rosessuali. Se lo volessimo, potremmo “tornare” ad essere quel che in realtà<br />

non siamo mai stati, cioè eterosessuali.<br />

L’omosessualità è insomma, per il pensiero cattolico a cui lo Stato ha appaltato<br />

il controllo dell’omosessualità, una condizione simile a quella del tossicodipendente:<br />

un vizio da cui ci si può disintossicare, e non certo un modo di<br />

essere, scolpito nella mente e nel corpo di chi lo vive.<br />

Tutto l’opposto del pensiero nazista, che recuperando la riflessione medicolegale<br />

germanica dei decenni precedenti individua nei geni dell’omosessuale<br />

un pericolo per la sanità della razza, al punto da giudicare necessaria la<br />

castrazione, o la morte, per impedire che essi si propaghino ulteriormente.<br />

In Italia non esistono. E comunque non se ne parli<br />

Ora, queste due concezioni cozzano disastrosamente come due treni in<br />

corsa.<br />

A tutta prima il fascismo non se ne accorge, ma bastano pochi anni per fare<br />

spiccare la contraddizione. Ma come? Lo Stato italiano dal 1860 al 1931 è<br />

riuscito a impedire che gli omosessuali si riconoscessero in quanto gruppo<br />

unitario, in quanto cultura, in quanto controcultura, e noi con queste belle<br />

leggi razziali che c’è venuto in mente di promulgare, improvvisamente dobbiamo<br />

dire che in Italia esistono gli omosessuali? Ma quando mai, gli omosessuali<br />

sono un problema dei tedeschi e degli inglesi.<br />

Questo il guardasigilli Rocco lo disse papale papale in Parlamento: il problema<br />

in Italia non esiste. Vi leggo il brano perché fa quasi ridere.<br />

Ecco Alfredo Rocco che presenta il nuovo codice penale alla Camera:<br />

Il progetto di criminalizzare l’omosessualità fu oggetto di quasi generale ostilità,<br />

venne principalmente opposto che il turpe vizio che si sarebbe voluto colpire non è<br />

così diffuso in Italia da richiedere l’intervento della legge penale. Questa deve uniformarsi<br />

a criteri di assoluta necessità nelle sue incriminazioni e perciò nuove configurazioni<br />

di reato non possono trovare giustificazione se il legislatore non si trova in<br />

cospetto di forme di immoralità che si presentino nella convivenza sociale in forma<br />

allarmante. E ciò per fortuna non è in Italia per il vizio suddetto.<br />

Queste ragioni contrarie all’incriminazione della omosessualità mi hanno convinto a<br />

non prevedere questo tipo di reato.<br />

Questo è un ministro fascista, ma se non bastasse abbiamo un pezzo non firmato<br />

apparso il 7 novembre 1926 sul “Secolo d’Italia”, quotidiano diretto da<br />

Arnaldo Mussolini, intitolato Perversioni, che commenta una recensione<br />

apparsa, su un altro giornale, sull’epistolario di Oscar Wilde (immagino che<br />

voi tutti sappiate della condanna a due anni di lavori forzati inflitta ad<br />

Oscar Wilde per omosessualità) nella quale si esecravano gli inglesi come<br />

ipocriti per avere condannato un simile genio eccetera.<br />

L’editorialista (che potrebbe essere Arnaldo Mussolini stesso) così commenta:<br />

Curiamo di mantenere pura e vigile la fortunata sanità del nostro popolo, e se ascoltiamo<br />

con piacere a teatro Il Ventaglio di Windermere o ci compiacciamo per La casa<br />

del melograno o La ballata del prigioniero – sono tutte opere di Oscar Wilde – dove<br />

questo mediocre poeta e scrittore di derivazione pur tocca certe note umane profonde,<br />

nei giornali italiani che vanno per le mani di tutti si faccia il silenzio intorno alle<br />

documentazioni epistolari di vergognose malattie, abbandonate al pubblico sotto pretesti<br />

vagamente letterari. Il silenzio è l’unica forma di rispettosa pietà per il morto e<br />

di preservazione dal contagio per i vivi.<br />

Detta in parole molto povere: di “certe cose” è meglio non parlare.<br />

Infatti in epoca fascista la regola è non parlare di omosessualità nemmeno per i casi<br />

di cronaca nera: questo “problema” in Italia “non esiste”.


La persecuzione nazifascista degli omosessuali<br />

Il cozzo fra culture<br />

Allora a questo punto noi capiamo anche il perché di questa divaricazione<br />

tra fascismo italiano e nazismo tedesco, perché abbiamo due atteggiamenti<br />

che non sono paragonabili, anche se questo non significa che il fascismo italiano<br />

non abbia perseguitato con altri metodi gli omosessuali (io ho intervistato<br />

uno di questi sopravvissuti, e il confino gli aveva spezzato la vita: la si<br />

veda ora online qui:<br />

http://digilander.libero.it/giovannidallorto/saggistoria/fascismo/peppinella.h<br />

tml).<br />

Realtà sociali diverse hanno individuato strumenti di repressione diversa. Il<br />

fascismo ha delegato alla Chiesa cattolica il controllo dei comportamenti omosessuali.<br />

In altre parole, il fascismo italiano ha trovato più efficace affidare il<br />

controllo del comportamento omosessuale al parroco anziché al giudice.<br />

Io nel fare questa ricerca sui confinati omosessuali in periodo fascista ho<br />

trovato che ci fu un questore di Catania, un certo Molina, che fu particolarmente<br />

accanito contro gli omosessuali: figuratevi che dei 96 casi di confino<br />

politico fascista contro omosessuali che ho trovato, 56 furono opera del questore<br />

Molina. Eppure questo zelante fascista persegue gli omosessuali in<br />

base a una concezione dell’omosessualità, che traspare da ciò che scrive, che<br />

è addirittura premoderna, pre-ottocentesca.<br />

Mentre nei documenti dell’Archivio di Stato trovo pure il questore di<br />

Firenze che ci dice che per la sua psiche immatura l’omosessuale è dannoso<br />

per l’Italia fascista, il questore Molina mi va a misurare l’ano degli omosessuali<br />

per dimostrare che sono tutti quanti sodomiti passivi.<br />

Secondo lui ci sono i “pederasti” e gli “ammiratori dei pederasti”; i pederasti serpeggiano<br />

per le vie di Catania con movenze femminee adescando i “maschi”:<br />

(http://digilander.libero.it/giovannidallorto/testi/fascismi/molina.html).<br />

Se un uomo va a letto con un altro uomo, secondo la concezione nostra del<br />

2002, è un omosessuale; mentre secondo il questore Molina lo è solo se si fa<br />

penetrare… in caso contrario, no.<br />

L’universo mentale del questore Molina divide insomma ancora le persone<br />

in base al loro ruolo sessuale: chi ha un ruolo sessuale attivo è “maschio”, chi<br />

ha un ruolo sessuale passivo è o “pederasta” o donna. Infatti Molina scrive<br />

esplicitamente che i pederasti “tradiscono il loro sesso”, che il pederasta Tal<br />

de’ Tali adesca “giovani dell’altro sesso”… Molina ficca insomma i “pederasti”<br />

nella categoria delle donne.<br />

Mi sembra palese che già nel 1936 una persona che ha questo tipo d’impostazione<br />

mentale sia superata: siamo in un fenomeno di retroguardia, di<br />

provincia…<br />

O per meglio dire: siamo al fenomeno di retroguardia sbagliato, perché risulta<br />

retroguardia perfino al confronto con la concezione degenerazionista<br />

nazifascista, che a sua volta nel 1933 era già di retroguardia, superata dalle<br />

nuove scoperte scientifiche (specialmente quelle sugli ormoni e su geni). Se<br />

la cultura italiana della provincia (e l’Italia era al 90% “Provincia”) era questa,<br />

come si potevano applicare da noi le lambiccate costruzioni ideologiche<br />

copiate dal nazismo?<br />

Quando i totalitarismi s’incontrano<br />

Certo, anche la persecuzione nazista degli omosessuali è a suo modo un<br />

fenomeno di provincia (non a caso il nazismo è un movimento reazionario),<br />

69


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

70<br />

perché si basa su concetti tipici della scienza borghese del 1880/1890, come<br />

il concetto di degenerazione, appunto.<br />

Ma questa “provincia” piccoloborghese, con le sue certezze che non vogliono<br />

morire, è più vasta di quanto sembri, perché coinvolge un ultimo aspetto del<br />

razzismo antiomosessuale prebellico di cui vorrei parlare: la persecuzione<br />

stalinista degli omosessuali.<br />

Anche se è fuori dal tema che mi è stato assegnato, questo fenomeno ci aiuta<br />

a fare luce sulle motivazioni e le radici ideologiche della persecuzione nazifascista<br />

degli omosessuali, con la quale ha un numero impressionante di<br />

paralleli. Causati dal fatto di prendere le mosse dallo stesso quadro ideologico-“scientifico”:<br />

il degenerazionismo, una volta di più.<br />

Stalin manda in Siberia un numero di omosessuali non inferiore a quello<br />

che Hitler ha mandato nei lager, sulla base di concezioni tipicamente degenerazionistiche.<br />

Io non so per voi, ma per me come storico è molto interessante la mistura<br />

tra positivismo e marxismo che domina in Urss, dopo che i polemisti marxisti<br />

erano riusciti ad arruolare a loro favore il darwinismo sociale (che era<br />

nato in chiave antiproletaria), presentando il proletariato rivoluzionario<br />

come una nuova fase evolutiva della razza umana destinata a prendere il<br />

posto della borghesia ormai degenerata, ormai superata.<br />

La selezione naturale farà trionfare il proletariato, che è la forma evoluzionisticamente<br />

più nuova, rispetto alla borghesia. Da qui l’esigenza di mantenere<br />

puro e forte il proletariato, eliminando tutti gli individui che mostrino<br />

sintomi di degenerazione.<br />

Come, guarda caso, gli omosessuali… E quindi, vai coi gulag…<br />

Quando noi leggiamo queste vecchie frasi staliniste sulla “borghesia degenerata”<br />

e sulle “degenerazioni piccoloborghesi”, le intendiamo ormai alla<br />

Luchino Visconti, cioè come riferimenti a una borghesia un po’ depravata,<br />

oziosa e annoiata, al punto da cercare di distrarsi con questi atti sessuali un<br />

po’ schifosetti…<br />

Invece no: ricordiamoci che “degenerato” nel linguaggio ottocentesco significa<br />

“appartenente a una fase dell’evoluzione superata”, e il motivo per cui il<br />

darwinismo sociale è stato abbandonato a fine Ottocento è proprio questo: a<br />

un certo punto i polemisti marxisti si sono impadroniti di questa ideologia.<br />

La lotta politica si è combattuta anche sulla base delle ideologie scientifiche<br />

dell’epoca, esattamente come succede oggi.<br />

Concludendo, noi abbiamo negli anni che vanno dal 1920 al 1945 il trionfo<br />

nella Germania nazista e nella Russia stalinista di due ideologie che si<br />

rifanno entrambe al degenerazionismo ottocentesco, che a sua volta è un<br />

tipo di ideologia che ha il suo culmine dal 1880 al 1900, quindi già nel 1920<br />

ormai superato.<br />

In questi due Stati l’omosessuale è una persona che va eliminata dalla<br />

società perché è un handicap, è un peso sociale: se ce lo tiriamo giù dalle<br />

spalle riusciremo a correre più velocemente.<br />

Questo è il punto che spesso la storia tace, che andrebbe spiegato agli studenti.<br />

Queste cose sono successe, e possono succedere ancora, purtroppo.<br />

Il moderatore mi segnala che il mio tempo è scaduto, quindi concludo qui.<br />

So di avere detto cose che forse a qualcuno suoneranno provocatorie, quindi<br />

sono pronto a discuterne ancora insieme nel dibattito.<br />

__________________________<br />

Nota: i saggi di Giovanni Dall’Orto sul nazifascismo e l’omosessualità, assieme alla trascrizione<br />

e traduzione di documenti dell’epoca sul tema, sono a disposizione di tutti all’Url:<br />

http://digilander.libero.it/giovannidallorto/saggistoria/fascismo/fascismiindex.html<br />

L’autore ne gradisce la libera duplicazione e diffusione per fini didattici.


Il nazifascismo contro gli<br />

zingari<br />

Giovanna Boursier, Centre des Recherches Tziganes, Parigi<br />

I rom e i sinti vittime del nazifascismo sono migliaia di uomini, donne e<br />

bambini perseguitati, seviziati, sterilizzati in massa, deportati, rinchiusi nei<br />

campi di concentramento, utilizzati come cavie, uccisi nelle camere a gas e<br />

nei forni crematori.<br />

Ma la storia del loro <strong>sterminio</strong> è stata, sostanzialmente, storia negata, o<br />

almeno evitata, trascurata dalla maggior parte degli storici e degli studiosi.<br />

Basti pensare ad esempio al fatto che la prima giornata di commemorazione<br />

della vittime zingare del nazismo si è tenuta a cinquant’anni di distanza<br />

dalla fine della <strong>guerra</strong>, nel 1994 al Museo dell’Olocausto di Washington.<br />

Eppure l’argomento non dovrebbe mancare di suscitare interesse fosse<br />

anche solo per il fatto che la storia dello <strong>sterminio</strong> di rom e sinti è, insieme<br />

a quella della Shoah ebraica, connessa al pensiero razziale nazifascista e<br />

alle sue aberranti conseguenze. Invece – e purtroppo – se anche negli ultimi<br />

decenni, e grazie soprattutto alla perseveranza di alcuni storici – soprattutto<br />

tedeschi –, si è cominciato a diffondere qualche dato su questa tragica<br />

pagina del nazifascismo, non altrettanto si può dire sulle ragioni che condussero<br />

sinti e rom nelle camere a gas del Terzo Reich. Annoverati infatti<br />

genericamente tra le vittime, rom e sinti sono poi accantonati dalla stragrande<br />

maggioranza della storiografia che accredita l’ipotesi secondo cui<br />

furono nei lager come “asociali” o “criminali”, trascurando il fatto che queste<br />

caratteristiche derivavano, secondo i nazisti, dalla genetica e non erano, perciò,<br />

modificabili. Per fortuna oggi anche questa verità sta faticosamente<br />

emergendo, cominciando finalmente a chiarire che la persecuzione degli zingari<br />

fu – come quella degli ebrei – razziale perché, come scriveva fin dai<br />

primi anni ’60 Miriam Novitch – ebrea sopravvissuta ai lager e prima in<br />

assoluto a tentare di documentare lo <strong>sterminio</strong> dei rom e dei sinti – motivi<br />

e metodi impiegati dai nazisti per perpetrare il genocidio del popolo zigano<br />

risultano identici a quelli impiegati per lo <strong>sterminio</strong> degli ebrei.<br />

Miriam Novitch aveva quindi già capito – e scritto – che secondo i nazisti l’asocialità<br />

zingara non era dovuta a ragioni di comportamento: gli zingari<br />

erano geneticamente ladri, truffatori, nomadi, pericolosi, perché tali caratteristiche<br />

erano nel loro sangue, irrimediabilmente tarato e perciò irrecuperabile.<br />

Da questo assurdo punto di vista, due furono dunque i popoli uccisi –<br />

quello ebreo e quello rom –, per lo stesso motivo – razziale – e con gli stessi<br />

metodi – quelli della cosiddetta “soluzione finale” e dello <strong>sterminio</strong> nazista.<br />

71


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

72<br />

Tra i fautori delle idee razziali ci furono, in primo luogo, molti ricercatori,<br />

scienziati o professori universitari che, fin dai primi anni del nazismo, si<br />

posero – certo opportunisticamente – al servizio del potere elaborando teorie<br />

che esplicitavano giustificazioni alla prassi criminale dei nazisti.<br />

Va anche detto, però, che – come nel caso degli ebrei – il terreno era già stato<br />

preparato perché le ricerche sulla presunta nocività del popolo zingaro<br />

erano avviate da anni. Fin dal 1899 esisteva a Monaco di Baviera un “Ufficio<br />

informazioni sugli zingari” diretto da uno zelante funzionario statale, Alfred<br />

Dillmann, che, nel 1905, pubblicò, in un volume intitolato Zigeunerbuch,<br />

tutti i dati raccolti dal suo Ufficio, poi, ovviamente, utilizzati negli anni<br />

seguenti dall’amministrazione del Terzo Reich. Ma già nello Zigeunerbuch<br />

(tirato in 7000 copie e dato in omaggio a tutte le autorità bavaresi) c’erano<br />

3350 nomi, e informazioni dettagliate su 611 persone, delle quali 435 definite<br />

“zingari” e 176 “girovaghi assimilabili agli zingari”. Già allora l’Ufficio<br />

di Dillmann lavorava in collaborazione con le polizie locali per coordinare gli<br />

interventi contro rom e sinti appoggiandosi anche alla legislazione che permetteva<br />

schedature e espulsioni dal territorio, con intimidazioni spesso<br />

anche molto violente. Ma atteggiamenti e leggi di questo tipo non esistevano<br />

solo in Baviera: molti altri Länder – infatti – fornirono informazioni e<br />

elenchi alla centrale di Monaco, tanto che nel 1925 questa banca dati aveva<br />

accumulato quasi 15.000 nomi provenienti da tutta la Germania e la schedatura<br />

delle impronte digitali di tutti gli zingari residenti in Baviera.<br />

La Baviera fu anche il primo Land a andare oltre le semplici regolamentazioni<br />

di tipo amministrativo varando – nonostante l’opposizione di socialdemocratici<br />

e comunisti – una vera e propria legge sugli zingari, emanata nel<br />

1926 e nella quale, oltre a ogni sorta di restrizioni e controlli che impedivano,<br />

sostanzialmente, il nomadismo (e che erano basati sul pregiudizio per<br />

cui tutti gli appartenenti al popolo rom conducevano inesorabilmente vita<br />

disonesta), era chiaramente scritto che “il concetto di zingaro è universalmente<br />

noto e non richiede ulteriori delucidazioni. I dettami dell’etnologia<br />

indicano con precisione chi debba essere considerato tale”.<br />

Si può quindi affermare che la persecuzione e lo <strong>sterminio</strong> nazista dei rom<br />

e sinti si inserisce in una storia secolare di discriminazione e violenza che,<br />

però, solo all’interno del sistema e dell’ideologia nazionalsocialista ha potuto<br />

trovare tali forme di espressione e concretizzazione.<br />

Bisogna anche tenere presente che con l’avvento al potere del nazismo gli<br />

esseri umani vennero divisi tra membri della Volksgemeinschaft (comunità<br />

di stirpe) e estranei, questi ultimi tendenzialmente suoi nemici. Una dicotomia<br />

che, come sappiamo, ebbe una traduzione giuridica nelle Leggi di<br />

Norimberga, dirette in prima persona contro gli ebrei ma suscettibili anche<br />

di interpretazioni estensive (nelle leggi del 1935, infatti, rom e sinti sono<br />

menzionati tra i “degenerati” e nel loro commentario diventano uno dei<br />

gruppi di sangue straniero contro il quale prendere provvedimenti).<br />

Nella primavera del 1936 il ministero degli interni del Reich costituisce, nell’ambito<br />

dell’Ufficio della Sanità di Berlino, l’Istituto di ricerca sull’igiene<br />

razziale e la biologia della popolazione (Rassenhygienische und bevölkerunsgbiologische<br />

Forschungsstelle) con il compito di indagare anche sulla popolazione<br />

nomade. A capo viene messo il dottor Robert Ritter, criminologo e<br />

professore all’università di Tubinga che, in breve, verrà considerato il massimo<br />

esperto in materia al servizio del governo.<br />

Ritter, appoggiato dalla Società Tedesca per la Ricerca (DFG) – che gli accorda<br />

subito un contributo di 15.000 marchi –, inizia i suoi studi sugli zingari.<br />

Con i suoi collaboratori, tra i quali gli antropologi Adolf Würth, Gerhard<br />

Stein e Sophie Ehrhardt e con la sua assistente in particolare, Eva Justin,<br />

puericultrice diplomata, Ritter formula e elabora teorie sulla pericolosità<br />

della “razza zingara”, di origine ariana ma ormai irrimediabilmente tarata


Il nazi-fascismo contro gli zingari<br />

da un gene molto pericoloso, il Wandertrieb (l’istinto al nomadismo), che conferma<br />

“l’irrecuperabilità della razza zingara” condannandola, secondo i<br />

canoni del pensiero nazionalsocialista, allo <strong>sterminio</strong>.<br />

C’è una particolarità che distingue, nelle elucubrazioni razziste dei nazisti,<br />

gli ebrei dai rom, ed è proprio il concetto di “qualità” razziale, ossia la distinzione<br />

tra individui di razza pura o impura. Come sappiamo, nel caso degli<br />

ebrei il negativo era individuato nell’ebraicità in quanto tale. Ne scaturiva<br />

quindi una concezione per cui la presunta quantità di sangue ebraico definiva<br />

il grado di estraneità al Völk ariano, che diminuiva quanto più nella<br />

storia genealogica di ciasun individuo erano presenti incroci con “arianotedeschi”.<br />

Per i nazisti, quindi, l’ebreo cosiddetto “puro” (vale a dire discendente<br />

da ebrei “puri”) rappresentava il tipo umano da eliminare, classificabile<br />

tra gli “inferiori”. Nel caso dei rom e dei sinti – invece – quello da perseguitare<br />

era l’individuo di sangue “misto”, il “mischling”. E più era “misto”,<br />

“impuro”, peggio era. Perché gli zingari erano portatori di una specifica contraddizione.<br />

Se ne presumeva infatti – e a ragione – l’origine “ariana”, in<br />

quanto popolo proveniente dall’antica India, ma visto che li si considerava<br />

comunque “razza inferiore”, se ne deduceva che dovevano essersi talmente<br />

mescolati, “incrociati” con individui di altre razze da essere ormai completamente<br />

“razzialmente degenerati”. E questa teoria, secondo i nazisti, che<br />

ovviamente non consideravano fattori fondamentali, calzava a pennello per<br />

un popolo nomade.<br />

Di conseguenza, ad esempio, secondo Ritter, nella Germania hitleriana<br />

meno del 10% degli zingari era ancora “puro” mentre il restante 90% era<br />

costituito da incroci indesiderabili che dovevano essere sottoposti a misure<br />

che ne impedissero la riproduzione, come la sterilizzazione, la ghettizzazione,<br />

e poi la deportazione e lo <strong>sterminio</strong>. E a un certo punto, lo stesso<br />

Himmler arrivò a sostenere che esistevano due gruppi di zingari rimasti<br />

“puri”, i Sinti e i Lalleri, e ne teorizzò addirittura la sopravvivenza pensando<br />

che dovevano essere confinati in determinati luoghi per essere poi trasportati<br />

in qualche territorio dopo la <strong>guerra</strong>. Ovviamente tutte queste elucubrazioni<br />

non ebbero mai seguito ma sono comunque interessanti per capire<br />

a quale punto di aberrazione potesse giungere il pensiero razzista e,<br />

soprattutto, a verificare l’interesse e il peso dato alla “questione zingara” nel<br />

Terzo Reich. Brunello Mantelli ha giustamente visto in tutto questo un<br />

“modo di argomentare e procedere tipico del nazionalsocialismo (e, tendenzialmente,<br />

di ogni fascismo in quanto portatore di un nucleo ideologico razzista)<br />

che si può definire “razzizzazione delle differenze, dei comportamenti<br />

e dei pregiudizi, in cui qualsiasi discrepanza dai canoni socialmente e politicamente<br />

definiti viene ricondotto a sottostanti determinazioni di carattere<br />

razziale”.<br />

Ritter e i suoi collaboratori visitavano città e campagne, campi nomadi,<br />

scuole, prigioni e campi di concentramento dove perseguitavano le loro vittime<br />

con estenuanti interrogatori sulla loro vita e i loro alberi genealogici,<br />

ne analizzavano varie caratteristiche fisiche, facendo misurazioni e rilevazioni<br />

sul colore degli occhi e sui crani arrivando, a volte, persino a prendere<br />

il calco di cera del volto. I poveri rom, che non capivano i motivi di tanto<br />

accanimento, vivevano tutto questo con terrore, anche per le terribili punizioni<br />

loro inflitte se non soddisfacevano le richieste. Lo ricorda Otto<br />

Rosenberg, un sinto sopravvissuto alla <strong>guerra</strong>:<br />

La maggior parte delle persone rispondeva. Però ce n’erano alcune che non ricordavano<br />

tutto. Gli anziani, per esempio. Mi ricordo ancora la fine che fecero fare a uno<br />

di loro. Si trattava di una vecchia, avrà avuto un’ottantina d’anni, ma era ancora una<br />

donnona, alta e robusta. Bene, non so perché, in ogni modo, la presero e le rasarono i<br />

capelli. Fu una scena terribile. Forse non aveva detto la verità o forse non aveva<br />

risposto esattamente alle domande della Justin e del dottor Ritter, fatto sta che<br />

73


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

74<br />

scappò e si nascose. Purtroppo però la scovarono e con l’aiuto della polizia le tagliarono<br />

tutti i capelli. Ma non è tutto, perché poi la costrinsero a star ferma mentre le<br />

versavano dell’acqua gelida addosso. E mi ricordo che in quel periodo faceva già molto<br />

freddo. Morì nel giro di tre giorni. L’hanno sotterrata nel cimitero di Marzhan, in una<br />

specie di cassa di latta, neanche in una bara.<br />

Nel passaggio dalla teoria alla prassi della persecuzione razziale una delle<br />

prime ipotesi formulate per risolvere la cosiddetta “questione zingara” fu<br />

quella della sterilizzazione coatta, quella che Poliakov ha giustamente definito<br />

una sorta di <strong>sterminio</strong> dilazionato nel tempo. Lo stesso Ritter, mentre<br />

proponeva la deportazione e il lavoro forzato, si premurava di raccomandare<br />

sempre di sterilizzare preventivamente tutti i rom e i sinti, in particolare<br />

i bambini non appena avessero compiuto il dodicesimo anno di età.<br />

Uno dei primi accenni alla sterilizzazione risale al 1937, in un articolo su<br />

una rivista tedesca che dichiarava “il 99% dei bambini zingari” della città di<br />

Berleburg ormai maturo per la sterilizzazione. E ancora nel 1945, ad<br />

Auschwitz, il professor Clauberg sterilizzò più di 130 donne rom.<br />

Si può quindi dire che la sterilizzazione di rom e sinti fu praticata durante<br />

tutti gli anni del nazismo, con operazioni mediche sommarie e terribili,<br />

prima negli ospedali, poi nei lager. E spesso, prima degli interventi, i nazisti<br />

costringevano le loro vittime a firmare le autorizzazioni, quelle stesse<br />

firme utilizzate poi, nel dopo<strong>guerra</strong>, come alibi per i loro crimini.<br />

Nel 1936, mentre Ritter e i suoi proseguivano i loro studi osceni, Heinrich<br />

Himmler, capo supremo delle SS, riesce a farsi nominare anche capo della<br />

polizia tedesca rendendo indubitabilmente più stretto l’intreccio tra apparato<br />

SS e istituzioni dello stato deputate al controllo dell’ordine pubblico.<br />

Poco dopo, nel mese di giugno, una circolare del ministero degli interni del<br />

Reich affida la “lotta contro la piaga zingara” direttamente alle autorità di<br />

polizia, sollecitate a provvedere per una soluzione della questione attraverso<br />

leggi speciali e strumenti polizieschi. È in questo momento che cominciano<br />

arresti e deportazioni.<br />

Le prime sono documentate a Dachau dove giunge un trasporto di circa un<br />

centinaio di zingari. Contemporaneamente a Berlino, in vista delle olimpiadi,<br />

le autorità di polizia “ripuliscono” la città traferendo circa 600 zingari in<br />

un ex discarica vicina a un cimitero, denominata Marzahan, che in breve<br />

verrà dichiarata ufficialmente campo di concentramento. Nel 1937 vengono<br />

istituiti anche i campi per zingari di Frankfurt am Main e di Düsseldorf.<br />

La corrispondenza tra le varie autorità rivela anche che tra il 1933 e il 1939<br />

molti amministratori e autorità locali si preoccupano di sollecitare le autorità<br />

centrali per “la costruzione di campi di concentramento per zingari” o<br />

per “l’erezione di nuovi campi di lavoro per zingari”.<br />

Nonostante si possa affermare che i provvedimenti contro gli zingari vengono<br />

quindi regolati già a partire dal 1936 e poi lungo tutto il corso del 1937,<br />

è però certo che gli zingari, in questo periodo, rientrano ancora fondamentalmente<br />

nella categoria dei cosiddetti “asociali”: come tali, però, non fanno<br />

parte della comunità tedesca, nemmeno quando non dimostrano alcun comportamento<br />

criminale.<br />

A mano a mano che i nazisti istituzionalizzavano e perfezionavano la loro<br />

macchina razziale anche il problema zingaro andava definendosi, assumendo<br />

dimensioni e caratteristiche proprie che erano specificate nei vari decreti<br />

emanati a getto continuo nel Terzo Reich.<br />

In quest’ambito il 1938 è un anno cruciale per la storia dello <strong>sterminio</strong> degli<br />

zingari. È Himmler in persona che trasferisce l’Ufficio centrale per lotta contro<br />

gli zingari da Monaco a Berlino, ricostituendolo all’interno della polizia<br />

criminale come “Centrale del Reich per la lotta contro gli zingari”. In quel<br />

momento ci sono già 33.524 schedature di rom e sinti.


Il nazi-fascismo contro gli zingari<br />

Alla fine dell’anno, e precisamente l’8 dicembre 1938, Himmler emana un<br />

decreto fondamentale per la storia dello <strong>sterminio</strong> degli zingari, la prima<br />

legge del Reich contro gli zingari in quanto tali. Si intitola – appunto – Lotta<br />

alla piaga zingara e li riguarda esplicitamente e esclusivamente come<br />

“razza”. In questa legge, tra l’altro, viene regolata la concessione di documenti<br />

ai cittadini zingari in base a perizie razziali e si impone loro una scelta<br />

obbligata tra sterilizzazione e internamento. Il testo è molto chiaro: la<br />

“questione zingara” è considerata una “questione di razza” e come tale va<br />

affrontata.<br />

Le istruzioni per l’esecuzione del provvedimento, del marzo 1939, indicano<br />

chiaramente gli atti da compiere: il censimento di tutta la popolazione zingara<br />

sul territorio del Reich, un’inchiesta di biologia razziale su ogni individuo<br />

e l’assegnazione di un certificato sul quale sia indicato, con colori diversi,<br />

l’appartenenza alla razza zingara e il grado di miscuglio razziale dell’individuo<br />

in questione.<br />

Il 17 ottobre 1939 l’Rsha (Ufficio centrale per la sicurezza dello stato) ordina<br />

di schedare e confinare tutti gli zingari in determianti luoghi dai quali è<br />

loro proibito allontanarsi. Un ordine che è spesso ricordato come “Editto di<br />

insediamento” e che, secondo alcuni studiosi, segna l’inizio della persecuzione<br />

sistematica vera e propria. Nello stesso ordine si parla di campi di internamento<br />

per zingari, loro approntamento, trasporto dei prigionieri e vettovagliamento.<br />

È, in pratica, la premessa della deportazione di massa.<br />

Il ritmo degli arresti si intensifica tanto è vero che in una lettera Eichmann<br />

in persona, interrogato sull’organizzazione dei trasporti degli zingari, scrive:<br />

“mi pare che il metodo più semplice sia quello di agganciare a ciascuna<br />

tradotta (di ebrei) qualche vagone di zingari”.<br />

Il 30 gennaio del 1940, in una riunione a Berlino, Heydrich (capo dell’Rsha)<br />

esplicita che “dopo i due movimenti di massa (ebrei e polacchi) l’ultimo<br />

riguarderà lo smaltimento di circa 30.000 zingari dal Reich”. Poco dopo<br />

viene vietato il rilascio degli zingari già incarcerati e viene creato un ufficio<br />

dell’Rsha – denominato prima IVD4 poi IVA4 – per la deportazione di ebrei,<br />

zingari e polacchi, affidato a Eichmann.<br />

A completare il quadro il 27 aprile 1940: Himmler, in un ulteriore decreto,<br />

ordina la deportazione degli zingari dal Reich al Governatorato generale<br />

(cioè la zona della Polonia occupata). La deportazione avrebbe dovuto coinvolgere<br />

quasi 100.000 persone, ma per fortuna si concretizzò solo in misura<br />

parziale e con ritardo. Sulla sorte dei deportati si sa qualcosa: alcuni riuscirono<br />

a scappare appena arrivati in Polonia perché le autorità locali non<br />

sapevano cosa fare, ma molti altri furono imprigionati in campi di raccolta<br />

e ghetti sotto il controllo delle SS, come a Belce, Radom e Kryckov. All’inizio<br />

del 1941 un trasporto di 5.007 zingari arrivò nel ghetto di Lodz: molti prigionieri<br />

morirono durante l’inverno per fame e epidemie di tifo petecchiale<br />

e i circa 4.000 superstiti, all’inizio del ’42, vennero traferiti a Chelmno e<br />

uccisi nelle camere a gas.<br />

Nel 1941 Himmler promulga anche una circolare che stabilisce le etichette<br />

biologiche degli zingari, suddivisi tra zingari di razza pura (Z), zingari al<br />

50% (ZM), zingari per più o meno del 5O% (ZM+ o ZM-), non zingari (ZN).<br />

Non possono perciò esservi dubbi sul carattere della normativa antizingara<br />

che non solo esplicita i motivi razziali della persecuzione, ma indica la presenza<br />

di una “questione zingara” – non criminale – che minaccia il popolo<br />

tedesco. La sorte degli zingari nella Germania nazista e in tutti i territori<br />

occupati risulta identica a quella degli ebrei: persecuzione, deportazione e<br />

morte. I vagoni merci diretti ai lager, quindi, trasportano insieme ebrei, rom<br />

e sinti per una stessa via, diretti verso lo stesso tragico destino.<br />

Intanto (il 22 giugno 1941) le armate hitleriane avevano invaso l’Unione<br />

sovietica, avviando la cosiddetta Operazione Barbarossa destinata, nei piani<br />

75


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

76<br />

nazisti, a creare le condizioni per l’espulsione violenta e tendenzialmente<br />

annientatrice di tutti i “portatori di sangue straniero”. Cominciano, quindi,<br />

anche nei territori dell’est, gli assassini degli zingari perpetrati, in particolare,<br />

dalle famigerate Einsatzgruppen nelle retrovie del fronte orientale e<br />

della Wehrmacht nei Balcani. Le Einsatzgruppen infatti seguivano le armate<br />

tedesche uccidendo e sterminando in esecuzioni sommarie e di massa. Tra<br />

le loro vittime, sicuramente, anche gli zingari, sui quali, però, restano poche<br />

e frammentarie testimonianze, anche perché i gruppi rom che fuggivano<br />

nelle steppe spesso non erano registrati da nessuna parte.<br />

La ferocia delle esecuzioni risulta, a volte, dai rapporti redatti dagli stessi<br />

assassini: uomini, donne e bambini braccati, costretti a spogliarsi nudi<br />

prima dell’esecuzione, uccisi con un colpo alla nuca sul bordo di una fossa<br />

comune in cui venivano lasciati a centinaia, alle volte ancora vivi. Dove non<br />

arrivavano i tedeschi erano spesso anche i fascisti locali a adoperarsi per<br />

sterminare zingari e ebrei.<br />

Jerzy Ficowski, autore di un testo sulla persecuzione dei rom nella Polonia<br />

nazista, ha tentato una ricostruzione delle principali operazioni delle<br />

Einsatzgruppen contro gli zingari partendo dai racconti di testimoni non<br />

zingari. Ne emergono memorie strazianti, che ci restituiscono una realtà<br />

agghiacciante rivelando, ad esempio, che all’inizio del 1942 a Simferopol, in<br />

Crimea, vennero fucilati 824 rom. Lo stesso anno, inoltre, una trentina di<br />

rom furono uccisi alla periferia di Varsavia, bruciati vivi nelle loro capanne.<br />

Altri cento, nascosti nei boschi della Polonia nord-orientale, furono massacrati<br />

dalle SS: mentre i bambini vennero assassinati prendendoli per le<br />

gambe e facendoli roteare contro gli alberi, gli adulti furono tutti annegati<br />

costringendoli a camminare sul ghiaccio del fiume Bug che cedeva sotto il<br />

loro peso. Nel 1943 oltre il 50% degli zingari polacchi era già stato ucciso.<br />

Nella zona dell’odierna Repubblica Ceca solo poche centinaia dei 13.000 zingari<br />

presenti sul territorio sopravvissero alla <strong>guerra</strong>. In Estonia sinti e rom<br />

vennero quasi totalmente annientati. In Lettonia, tra i paesi baltici quello<br />

che indubbiamente annoverava prima della <strong>guerra</strong> il numero più consistente<br />

di abitanti rom e sinti, che erano quasi 4.000 nel 1935, le Einsatzgruppen<br />

si appoggiarono anche a simpatizzanti locali e all’unità di Viktor Arajs che<br />

ne avrebbe uccisi a gruppi di centinaia.<br />

Il 1942 rappresenta un altro momento cruciale di questa storia. Nel giro di<br />

un anno la Germania, che aveva raggiunto l’apice della potenza e della politica<br />

di dominazione, deve rivedere i propri piani, mentre la tendenza della<br />

<strong>guerra</strong> si inverte. È in quest’ambito, ancora contraddittorio, di grande entusiasmo<br />

e contemporaneo inizio della fine, che troviamo momenti fondamentali<br />

della politica razziale e, in particolare, del percorso verso la “soluzione<br />

finale”. Va quindi ricordato che nel gennaio di quell’anno si tiene la conferenza<br />

di Wannsee, in cui si decidono metodi e mezzi per la “soluzione finale”<br />

della questione ebraica.<br />

Il 16 dicembre 1942 Himmler firma l’ordine di internare, o trasferire, tutti gli<br />

zingari ad Auschwitz, uno dei più noti campi di <strong>sterminio</strong>. Il 29 gennaio 1943<br />

l’Rsha emana le istruzioni per l’esecuzione del decreto: gli zingari dovranno<br />

essere “selezionati e, nel corso di un’operazione della durata di qualche settimana,<br />

trasferiti... verso Auschwitz”. Si stabilisce anche che, per quanto possibile,<br />

gli zingari vengano internati senza dividere le famiglie. L’operazione<br />

dovrà partire “il 1° marzo del ’43 e terminare entro la fine del mese”.<br />

I rastrellamenti iniziano subito e le operazioni proseguono rapidamente e<br />

massicciamente. Vengono perquisiti persino ospedali e orfanatrofi. Le SS<br />

circondano gli accampamenti o i campi di raccolta e rastrellano tutti presenti.<br />

In una testimonianza si legge:<br />

“Il 9 marzo 134 zingari, uomini, donne e bambini, furono svegliati all’alba<br />

nell’accampamento di Berleburg... Furono ammassati nel cortile di una fab-


Il nazi-fascismo contro gli zingari<br />

brica e privati di ogni avere. Furono caricati sui carri bestiame e avviati a<br />

Auschwitz. Ne sopravvissero 9... Gli zingari venivano prelevati anche dai<br />

posti di lavoro e deportati immediatamente. Ogni gerarca aveva una sua<br />

interpretazione: alcuni separavano i genitori dai figli, inviando solo i primi<br />

nei lager. Altri facevano viceversa”.<br />

Gli zingari intanto erano anche imprigionati negli altri territori via via conquistati<br />

e amministrati dai nazisti o dai loro collaborazionisti. Esistono<br />

documenti terrificanti che raccontano la persecuzione di rom e sinti in<br />

Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Austria, Francia, Belgio, Olanda,<br />

Yugoslavia. Ed esistono documenti altrettanto terrificanti sulla loro presenza<br />

a Dachau, Ravensbrück, Treblinka, Buchenwald, Bergen Belsen,<br />

Chelmno, Maidanek, Gusen, Theresienstadt, Belzec, Sobibor, Auschwitz.<br />

Alla fine della <strong>guerra</strong> gli zingari erano presenti in quasi tutti i campi di concentramento<br />

e di <strong>sterminio</strong>. Ma informazioni sul loro destino sono conservate<br />

solo nel caso dei più grandi e sul numero di sinti e rom internati disponiamo,<br />

essenzialmente, di stime. In alcuni campi la documentazione non è<br />

stata conservata; in altri gli zingari non venivano perlopiù registrati se non<br />

come “asociali”, di cui dovevano anche portare il triangolo nero. In qualche<br />

caso erano contrassegnati dal triangolo marrone, a volte anche con la Z di<br />

Zigeuner sopra.<br />

Un capitolo agghiacciante della storia dei rom e dei sinti nei lager è quello<br />

degli pseudo-esperimenti medici nei quali, probabilmente in quanto considerati<br />

“ariani decaduti”, erano utilizzati come cavie. E dai quali raramente<br />

uscivano vivi. Lo stesso dottor Mengele, l’SS-Hauptsturmführer soprannominato<br />

angelo della morte di Auschwitz, installò il suo laboratorio proprio<br />

accanto al settore zingaro del lager e compì atroci esperimenti sul nanismo,<br />

sulla bicromia oculare e sulle malattie che si diffondevano nel campo, in particolare<br />

il Noma, una specie di tumore della pelle causato dalla denutrizione<br />

e particolarmente diffuso tra i bambini zingari prigionieri. Una delle sue<br />

cavie fu Barbara Richter, che ci ha lasciato una intensa testimonianza:<br />

“Il dottor Mengele mi ha presa per fare esperimenti. Per tre volte mi hanno<br />

preso il sangue per i soldati. Allora ricevevo un poco di latte e un pezzetto di<br />

pane con il salame. Poi il dottor Mengele mi ha iniettato la malaria. Per otto<br />

settimane sono stata tra la vita e la morte, perché mi è venuta anche un’infezione<br />

alla faccia...”.<br />

Altri sopravvissuti ricordano:<br />

Ricordo molto bene come Mengele fece un’iniezione ad un piccolo bambino zingaro di<br />

cinque o sei anni con una siringa lunga 30 centimetri. Infilò l’ago nella schiena del<br />

ragazzo per estrarre il liquido spinale. Lo mise all’altezza delle vertebre del collo.<br />

L’ago si ruppe e non passò molto tempo che il bambino morì. Nella parte posteriore<br />

della costruzione c’era una specie di banco da macellaio con un buco per far defluire<br />

il sangue, come una bacinella per il sangue. Mengele dissezionò il corpo del ragazzo<br />

e tirò fuori le interiora per svolgere degli esperimenti.<br />

Gli esperimenti sui piccoli rom erano abituali per Mengele che nutriva una<br />

vera e propria ossessione per i bambini e per i gemelli rom e sinti in particolare.<br />

In alcuni casi le detenute si illusero anche di salvare i propri figli<br />

presentandoli al dottore come gemelli, magari semplicemente perché della<br />

medesima altezza. Ma il loro destino non fu diverso da quello del resto degli<br />

internati.<br />

Anche la mattina della liquidazione totale dello Zigeunerlager Mengele fece<br />

il suo lavoro: effettuata l’ultima delle sue selezioni di piccoli zingari e conservati<br />

in vita ventiquattro gemelli da usare ancora come cavie, si mise alla<br />

ricerca dei piccoli che erano riusciti a nascondersi per scampare alla morte.<br />

Li scovò, li convinse a salire sulla sua auto e li trasportò direttamente alle<br />

camere a gas.<br />

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<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

78<br />

Auschwitz risulta essere il lager sul quale esiste maggiore documentazione,<br />

probabilmente perchè qui, tra il febbraio del 1943 e l’estate del 1944, esistette<br />

una sezione appositamente riservata agli zingari: il campo BIIE per<br />

famiglie zingare, lo Zigeunerlager.<br />

Era un recinto solo per gli zingari, piuttosto vicino ai crematori, dove vivevano<br />

in condizioni particolari, che vuol dire, però, solo diverse da quelle di<br />

tutti gli altri. Va infatti subito sottolineato il fatto che non è suffragabile l’ipotesi<br />

per cui gli zingari avrebbero dovuto vivere: forse, avrebbero potuto<br />

morire in modo diverso. Ma il loro destino di morte non è discutibile: del<br />

resto non si spiegherebbe diversamente l’ordine di internali proprio ad<br />

Auschwitz, all’epoca già trasformato in campo di <strong>sterminio</strong>.<br />

Nello Zigeunerlager rom e sinti erano radunati in una sezione speciale di<br />

Birkenau, circondata da filo spinato attraversato da corrente elettrica ad<br />

alta tensione dove le famiglie restavano unite: uomini con donne, genitori<br />

con figli, mariti con mogli. Separati dagli altri prigionieri fin dal loro arrivo,<br />

rom e sinti non erano sottoposti alla selezione ufficiale ma, tatuati e rasati<br />

a zero, immediatamente destinati alle loro baracche e poi nessuno si preoccupava<br />

più di loro (anche se ci sono documenti che riguardano alcuni convogli<br />

nemmeno registrati ma subito mandati alle camere a gas).<br />

Nello Zigeunerlager, comunque, gli zingari non avevano l’appello mattutino,<br />

non facevano parte dei gruppi di lavoro e le donne potevano addirittura partorire<br />

(il primo bimbo venne alla luce l’11 marzo 1943, quando il lager esisteva<br />

da pochissimo tempo, e da quel giorno vennero regolarmente registrate<br />

nascite). E nemmeno i loro capelli venivano più tagliati tanto che molti<br />

testimoni ricordano che ricrescevano. E, soprattutto, gli zingari non erano<br />

sottoposti alle terribili selezioni per le camere a gas, prassi, invece, per tutti<br />

gli altri deportati. Una volta entrati nell’area BIIE rom e sinti erano, in definitiva,<br />

quasi abbandonati alla loro sorte.<br />

Molti altri prigionieri, che li vedevano da altre sezioni del campo, consideravano<br />

tutto questo un privilegio. E purtroppo tale lo hanno considerato<br />

anche alcuni storici che hanno liberamente parlato della vita nello<br />

Zigeunerlager come di una condizione molto particolare e meno difficile che<br />

per la maggior parte degli altri prigionieri. Una simile presentazione dei<br />

fatti, però, risulta offensiva di fronte alla sorte riservata dai nazisti a un<br />

intero popolo. Lo mostra persino il libro mastro del campo di Birkenau che<br />

ci restituisce l’altissimo livello di mortalità dello Zigeunerlager dove, dei<br />

circa 300 bambini nati nel periodo della sua esistenza, nessuno sopravvisse.<br />

Anche la mancanza di cibo, il freddo, le malattie rendevano difficilissima la<br />

sopravvivenza. Hermann Langbein, allora medico nell’infermeria del lager,<br />

ricorda di aver registrato che l’indice di mortalità dello Zigeunerlager risultava<br />

molto più alto che nel resto di Auschwitz. Una volta riuscì anche ad<br />

entrarci e vi trovò condizioni orrende: molti prigionieri, e in particolare i<br />

bambini, erano colpiti di una terribile malattia della pelle causata dalla<br />

denutrizione, il Noma, uomini e donne moribondi erano in stato di abbandono,<br />

stipati nelle loro baracche gelide e senza spazio per muoversi.<br />

Langbein ricorda che un infermiere polacco lo condusse anche nel blocco<br />

dove stavano le donne in attesa di partorire:<br />

“Su un pagliericcio giacciono sei bambini che hanno pochi giorni di vita. Che<br />

aspetto che hanno! Le membra sono secche e il ventre è gonfio. Nelle brande<br />

lì accanto sono le madri, occhi esausti e ardenti di febbre. Una canta<br />

piano una ninna-nanna: “a quella va meglio che a tutte, ha perso la ragione”,<br />

mi dicono... Al muro sul retro è annessa una baracchetta di legno che<br />

lui apre: è la stanza dei cadaveri. Ho già visto molti cadaveri nel campo. Ma<br />

qui mi ritraggo spaventato. Una montagna di corpi alta più di due metri.<br />

Quasi tutti bambini, neonati, adoloscenti. In cima scorazzano i topi”.


Il nazi-fascismo contro gli zingari<br />

Alla fine, quindi, anche le condizioni particolari dello Zigeunerlager si rivelano<br />

per quello che sono: la realtà di un campo di <strong>sterminio</strong> nazista.<br />

Purtroppo i motivi di questo trattamento particolare non sono ancora del<br />

tutto chiari. Si potrebbe forse ipotizzare che l’organizzazione stessa del lager<br />

per famiglie zingare corrispondesse a un progetto di sperimentazione, oppure<br />

che fosse una sezione inizialmente riservata alle ispezioni della Croce<br />

Rossa. Oppure, anche, che addirittura gli zingari fossero tenuti lontani dagli<br />

altri prigionieri che non li volevano.<br />

In ogni caso le condizioni dello Zigeunerlager erano spaventose e i prigionieri<br />

zingari erano come tutti gli altri prigionieri di Auschwitz. Nella primavera del<br />

1943 il numero degli zingari a Birkenau era di 16.000: le baracche erano<br />

sovraffollate ed in un blocco da trecento persone si viveva in 1.000.<br />

La storia dello Zigeunerlager termina la notte tra del 1° agosto 1944 quando<br />

rom e sinti sopravvissuti nello Zigeunerlager fino a quel momento vengono<br />

condotti nelle camere a gas e poi bruciati nei forni crematori. Erano<br />

circa 4.000 persone.<br />

Anche i motivi dell’annientamento non si conoscono. Ma, anche in questo<br />

caso, si possono fare delle supposizioni: la fine avviene quando è registrato<br />

l’arrivo di un consistente convoglio di ebrei ungheresi abili al lavoro; siamo<br />

in un momento in cui il fronte russo si avvicina e l’apparato di <strong>sterminio</strong><br />

viene potenziato al massimo perché se da una parte i nazisti necessitano di<br />

manodopera, dall’altra vogliono, contemporaneamente, arrivare alla “soluzione<br />

finale” nel più breve tempo possibile.<br />

Non si sa esattamente nemmeno chi abbia dato l’ordine di sterminare lo<br />

Zigeunerlager: Höss, il comandante di Auschwitz, nelle sue memorie scrive<br />

di averlo ricevuto da Himmler dopo una sua visita nel lager, ma le date non<br />

coincidono. È molto probabile che sia stato Höss stesso a decidere, ovviamente<br />

accordandosi poi con le alte gerarchie del lager.<br />

È certo invece che le selezioni cominciarono circa due mesi prima (alcuni<br />

prigionieri vennero allora destinati a altri lager come Ravensbück,<br />

Buchenwald e Flossenberg) e continuarono fino all’ultimo. Poi, alle ore 20.00<br />

del 31 luglio, le vittime vennero caricate sui camion e trasportate nelle<br />

camere a gas.<br />

Le testimonianze su quella tragica notte sono agghiaccianti. Così la ricorda<br />

un medico ebreo ungherese, il dottor Nyiszli, l’assistente di Mengele:<br />

“L’ora dell’annientamento è suonata anche per i 4.500 detenuti del campo<br />

zingaro. La procedura è stata la stessa applicata per il campo ceco. Prima di<br />

tutto divieto di uscire dalle baracche. Poi le SS e i cani poliziotto sono entrati<br />

nella sezione degli zingari, li hanno fatti uscire dalle baracche e allineare<br />

all’esterno. Hanno distribuito a ciascuno le razioni di pane e salamini. Una<br />

razione per tre giorni. Hanno detto loro che li portavano in un altro campo<br />

e gli zingari ci hanno creduto. Durante la notte si vedevano le fiamme delle<br />

ciminiere dei crematori I e II... Poi il blocco degli zingari sempre così rumoroso,<br />

s’è fatto muto e deserto. Si ode solo il fruscio dei fili spinati e porte e<br />

finestre lasciate aperte che sbattono di continuo”.<br />

Langbein invece si sofferma sulla descrizione, tristissima, della ribellione<br />

degli zingari quando capirono il loro terribile destino:<br />

“Le SS dovettero fare uso di tutta la loro brutalità. Alcuni, che cercavano di<br />

far salire gli zingari sui carri, non ci riuscivano”.<br />

E, lo stesso Langbein, riporta anche la testimonianza dell’infermiera<br />

Steinberg che, pochi mesi prima, aveva avuto ordine di compilare un elenco<br />

di tutti gli zingari rimasti nel loro blocco:<br />

“Udimmo urla... Il tutto durò parecchie ore. A un certo punto venne da me<br />

un ufficiale delle SS che non conoscevo a dettarmi una lettera che diceva<br />

‘Trattamento eseguito’... E quando si fece giorno nel campo non era rimasto<br />

un solo zingaro”.<br />

79


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

80<br />

Ma la testimonianza in qualche modo più preziosa – in tempi di revisinismi<br />

e negazioni – potrebbe essere quella di Höss che scrive:<br />

“Non fu facile mandarli alle camere a gas. Personalmente non vi assistetti,<br />

ma Schwarzhuber mi disse che, fino ad allora, nessuna operazione era stata<br />

così difficile”.<br />

Nel gennaio del 1945 gli zingari rimasti ad Auschwitz erano pochissimi:<br />

all’appello del 17 gennaio – dieci giorni prima della liberazione – risposero<br />

solo quattro uomini.<br />

Le cifre<br />

Non è facile dire quanti zingari morirono ad Auschwitz, così come non si<br />

conosce con precisione nemmeno il numero di quelli uccisi in quella tragica<br />

notte. I documenti stentano a fare chiarezza anche se, secondo le fonti più<br />

accreditate, sono circa 23.000 gli zingari morti in quel lager.<br />

Altrettanto difficile stabilire il numero totale degli zingari vittime del nazismo:<br />

le cifre ufficiali indicano circa 500.000 persone ma sembrano non tenere<br />

conto di molti dati e scontare la carenza di documentazione sull’argomento.<br />

Come abbiamo visto, infatti, il materiale d’archivio testimonia che<br />

molti zingari, oltreché nei lager, furono uccisi nelle esecuzioni di massa nei<br />

territori occupati e tanti altri furono sterilizzati e rimessi in libertà.<br />

In realtà il numero totale degli zingari uccisi sotto la dittatura nazista non<br />

è documentabile con precisione. Intanto perché è incerto anche il numero<br />

degli zingari presenti in Europa prima della <strong>guerra</strong>, visto che molti non<br />

erano registrati alla nascita e tanti cambiavano luogo e nominativo nel corso<br />

della loro vita; poi perchè gli zingari non avevano una tradizione scritta e<br />

soprattutto – diversamente dagli ebrei – non vivevano in comunità e quindi<br />

dopo la <strong>guerra</strong>, anche se si fosse voluto, non sarebbe stato facile contare i<br />

superstiti.<br />

Comunque i paragoni numerici tra lo <strong>sterminio</strong> degli ebrei e quello degli zingari<br />

– che continuano a essere fatti – sembrano inutili. L’unico paragone<br />

possibile è nella sostanza di un’ideologia che li accomuna in un destino di<br />

morte. Il giudizio su uomini che predicano l’annientamento di altri uomini<br />

perché di razza diversa va pronunciato sulle azioni e sul pensiero e, in questo<br />

senso, le cifre diventano, in una certa misura, quasi irrilevanti.<br />

L’Italia fascista<br />

Se per quel che riguarda il nazismo – come abbiamo visto – si è arrivati, per<br />

quanto tardivamente, a conclusioni che inquadrano le vicende della persecuzione,<br />

della deportazione e dell’uccisione dei rom e dei sinti, e ci restituiscono<br />

un quadro almeno sufficiente dei fatti, non altrettanto si può dire per<br />

ciò che riguarda gli zingari nell’Italia fascista.<br />

Nel nostro paese, infatti, la ricerca è ancora quasi del tutto mancante come<br />

lo è, d’altra parte, anche quella sull’internamento in Italia, un paese che non<br />

vuole riconoscere le proprie contiguità con il nazismo e le proprie responsabilità<br />

nelle politiche di discriminazione razziale attuate in tutta Europa.<br />

Anche per questo – perché la storia dei rom e dei sinti in Italia durante il<br />

periodo fascista si interseca inevitabilmente con quella del regime e della<br />

politica di internamento durante la <strong>guerra</strong> – fino a pochi anni fa esistevano<br />

solo rare fonti orali e dati documentari sparsi. Tra questi la presenza di sinti<br />

e rom a Ferramonti (uno dei più grandi campi di concentramento italiano<br />

esistito dal 1941 al 1943 dove i registri segnalano la presenza di almeno 32<br />

rom) e l’arrivo di alcuni rom italiani nel lager austriaco di Lackenbach,<br />

luogo di morte per migliaia di sinti e rom europei. Nelle testimonianze orali,<br />

invece, alcuni ricordavano luoghi di prigionia, come Perdasdefogu, in<br />

Sardegna, Tossicia, in provincia di Teramo, le isole Tremiti o Agnone, oggi in


Il nazi-fascismo contro gli zingari<br />

provincia di Isernia ma durante la <strong>guerra</strong> in provincia di Campobasso. Tra<br />

questi, ad esempio, Zlato Levak che dice:<br />

In Italia siamo stati nei campi di concentramento... quasi senza mangiare.<br />

Io ero a Campobasso, con la mia famiglia. Eravamo in molti... in un convento,<br />

tutto chiuso, con le guardie intorno, come un carcere. C’era un cuciniere<br />

zingaro. Ma cosa davano da mangiare? Quasi niente. Siamo stati là quasi<br />

due anni. Il mio figlio più grande è morto nel campo. Era un bravo pittore.<br />

Ed era molto intelligente”.<br />

Sulla Sardegna Mitzi Herzemberg dice:<br />

“Durante la <strong>guerra</strong> eravamo in campo a Perdasdefogu. C’era una fame terribile.<br />

Un giorno, non so come, una gallina si è infilata nel campo. Mi sono<br />

gettata sopra, come una volpe, l’ho ammazzata e mangiata cruda dalla fame<br />

che avevo. Mi hanno picchiata e mi sono presa sei mesi di reclusione per<br />

furto”.<br />

Considerando però anche il fatto che i testimoni rom e sinti utilizzano la<br />

memoria in modo molto diverso da quello a cui noi siamo abituati e all’interno<br />

di ambiti che poco hanno a che fare con lo scritto e il valore della testimonianza,<br />

basandosi invece su un’oralità che, nel tramandare, trasforma il<br />

ricordo, e tenendo anche presente che non sappiamo ancora quasi nulla su<br />

come vivevano rom e sinti nel nostro paese durante gli anni del fascismo, va<br />

detto che le testimonianze orali non erano sufficienti a illuminare i tempi, i<br />

modi e le ragioni della persecuzione.<br />

Forse anche per questo la maggior parte di coloro che si sono occupati del<br />

problema hanno generalmente liquidato la questione affermando che in<br />

Italia la politica discriminatoria era indirizzata essenzialmente contro gli<br />

stranieri e dovuta a ragioni di ordine e sicurezza. Secondo questa interpretazione<br />

fu l’occupazione della Yugoslavia e la conseguente fuga di molti rom<br />

da quel paese a indurre le autorità fasciste a internarli, cosa certamente<br />

anche vera ma che non comprende e spiega la totalità dei fatti.<br />

La documentazione conservata all’Archivio centrale dello stato, per quanto<br />

ancora poco scandagliata, fornisce infatti ipotesi di studio diverse, riguardanti<br />

anche gli zingari italiani e che aprono strade di ricerca importanti.<br />

Quello che i fascisti pensavano di sinti e rom – e che non sembra poi molto<br />

diverso da quello che altri pensavano prima di loro o anche da quello che<br />

molti pensano ancora oggi – emerge chiaramente da una circolare ministeriale<br />

del 1926 che ordina di espellere tutti gli zingari stranieri presenti nel<br />

regno per “epurare il territorio nazionale della presenza di carovane di zingari,<br />

di cui è superfluo ricordare la pericolosità per la sicurezza e per l’igiene<br />

pubblica per le loro caratteristiche abitudini di vita... e colpire nel suo fulcro<br />

l’organismo zingaresco...”.<br />

Se rom e sinti non sono menzionati nelle legge razziali del 1938, e nel<br />

“Dizionario di politica fascista” alla voce razza compaiono solo in riferimento<br />

alle leggi di Norimberga che li indicano come “stranieri” insieme agli<br />

ebrei, a partire almeno dal 1940 cominciano però a diffondersi “riflessioni”<br />

su di loro. Una, in particolare, porta la firma di Guido Landra, direttore<br />

dell’Ufficio studi e propaganda sulla razza al Ministero della cultura popolare,<br />

che, in un articolo su “La difesa della razza”, scrive del “pericolo” che<br />

rappresentano questi eterni randagi per la razza e che bisognerebbe cominciare<br />

a comportarsi come in Germania. Landra, inoltre, correda lo scritto con<br />

riflessioni antropometriche oscene e fotografie che mostrano individui di<br />

“razza zingara più o meno pura”.<br />

Allo stesso anno, il 1940, risale anche il primo ordine di internamento vero<br />

e proprio, e che riguarda inequivocabilmente anche gli italiani, emanato l’11<br />

settembre, quando una circolare indirizzata a tutte le prefetture ordina<br />

rastrellamenti di zingari e loro concentramento in tutto il paese, motivando<br />

queste misure sia con una presunta “attività antinazionale”, ma soprattut-<br />

81


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

82<br />

to “perché essi commettono talvolta delitti gravi per natura intrinseca”. E<br />

“natura intrinseca” è una grave affermazione. Si dispone quindi che “quelli<br />

nazionalità italiana certa aut presunta ancora in circolazione vengano<br />

rastrellati più breve tempo possibile e concentrati sotto rigorosa sorveglianza<br />

in località meglio adatte ciascuna provincia”. È un ordine importante, che<br />

coinvolge prefetture e organi di governo locale che, d’altra parte, si dimostrano<br />

piuttosto solleciti e impazienti di cominciare a cercare e imprigionare<br />

“zingari”. Quasi subito, e da tutto il paese (Udine, Ferrara, Aosta,<br />

Bolzano, Ascoli Piceno, Trieste, Verona, Campobasso), giungono al ministero<br />

telegrammi di risposta all’ordine ministeriale che informano sulle persone<br />

catturate e spesso chiedono cosa fare.<br />

Se questi documenti ci consentono, però, solo di immaginare ipotesi di persecuzione<br />

e prigionia, indicando intenzioni ma senza fornire informazioni<br />

sull’effettività dell’internamento, altri documenti ci permettono invece di<br />

fare un ulteriore passo avanti. Si tratta dei fascicoli personali degli arrestati,<br />

di quelli finora rintracciati all’Archivio centrale dello stato. Pagine lasciate<br />

per decenni negli schedari, lettere e corrispondenze varie tra ministero e<br />

prefetture che riguardano determinate persone zingare negli anni che<br />

vanno dal 1928 al 1943. Sono schedature che ci lasciano gettare uno sguardo<br />

anche aldilà del puro e semplice dato statistico e di cogliere qualche<br />

aspetto delle tragedie umane nella loro concretezza.<br />

Sembra, e forse simbolicamente, di leggere storie di oggi: vicende di giostrai,<br />

allevatori di cavalli, calderai che battono il rame e il ferro, uomini e donne<br />

che girovagano vendendo portafiori di vimini o stoffe ricamate e che vengono<br />

continuamente arrestati e espulsi dal territorio italiano nel quale cercano<br />

di continuare a vivere accerchiati da norme e regole che glielo impediscono,<br />

trascinandoli, contemporaneamente, nella tragedia della seconda<br />

<strong>guerra</strong> mondiale. Quasi tutti prima vengono ripetutamente arrestati, schedati<br />

e espulsi, poi, a partire dalla fine del 1940, e quindi dall’emanazione<br />

dell’ordine di internamento, reclusi, imprigionati in diversi luoghi di internamento.<br />

A titolo di esempio ricorderei brevemente due casi precisando anche che gli<br />

zingari erano ovviamente sottoposti alle regole generali dell’internamento<br />

in Italia, che prevedevano due tipi di procedure: il “campo di concentramento”<br />

e il soggiorno obbligato in una data località, il cosiddetto “internamento<br />

libero”, in cui i prigionieri dovevano vivere in un luogo determinato, senza<br />

potersi spostare e costretti, per esempio, a lavorare.<br />

Un caso è quello di Rosina Hudorovic arrestata e ripetutamente espulsa dal<br />

Regno tra il 1928 e il 1940. Nel 1932 viene anche redatto il verbale del suo<br />

interrogatorio: è descritta come una donna bassa, di corporatura forte e di<br />

carnagione scura, coi capelli neri e gli occhi castani. Si dichiara ventenne,<br />

italiana, nata a Pordenone dove ha sempre vissuto col padre – nato a Gorizia<br />

e ora deceduto – la madre – nata a Gorizia e vivente a Pordenone – e due<br />

fratelli che abitano a Padova. La prefettura e il ministero, però, la definiscono<br />

“straniera, molesta e indesiderabile”, e continuano a riespellerla.<br />

Rosina vive quindi tra i confini fino al 1940 quando il Ministero dispone il<br />

suo internamento a Vinchiaturo, un campo in provincia di Campobasso<br />

(dove arriva il 24 settembre, dieci giorni dopo l’ordine di internamento). Da<br />

qui scrive una lettera significativa in cui, facendo “voti al signore per l’Italia<br />

fascista e il duce”, chiede che le vengano dati dei vestiti dato lo stato di indigenza<br />

totale in cui si trova. Il ministero autorizza. Nel 1942 Rosina, malata<br />

e ricoverata più volte in ospedale, chiede anche il trasferimento. Poco dopo<br />

il ministero accetta la richiesta – appoggiata anche dalla prefettura di<br />

Campobasso che scrive che “si tratta dell’unica zingara internata a<br />

Vinchiaturo” – e la trasferisce ad Agnone dove, aggiunge, “si trova gente<br />

della mia razza”, e dove, effettivamente, arriva il 13 maggio del 1943.


Il nazi-fascismo contro gli zingari<br />

Un secondo caso è quello di Alessandro Levacovic, nato in Italia nel 1888,<br />

che nel 1942 scrive in una lettera che si trova “internato” a Ravenna “sin dal<br />

febbraio 1938, con la famiglia proveniente da Trieste” e chiede il traferimento<br />

a Rimini per motivi di salute. La prefettura si oppone al trasferimento<br />

specificando che “trattasi di famiglia di zingari i cui componenti sono<br />

poco amanti del lavoro e dediti al vagabondaggio” e elenca anche tutti i componenti<br />

della famiglia, specificando che Alessandro convive con Angelina<br />

“more-uxorio”. Sei dei loro otto figli sono stati coattamente “ricoverati in<br />

adatti istituti” e Orazio, l’ultimo (che sarebbe anche l’unico la cui paternità<br />

è attestata) è sicuramente nato a Ravenna il 1° luglio 1940. L’ultimo documento<br />

su di loro risale al 7 marzo 1944, quando il questore comunica al<br />

Ministero, che “gli zingari in oggetto hanno lasciato la città per la Germania,<br />

essendo stati ingaggiati a scopo di lavoro, dall’Arbeitseinsatzstab – del<br />

G.B.A.” (Alto commissario per l’impiego della manodopera –<br />

Generalbevollmachtiger fur den Arbeitseinsatz).<br />

Aldilà della possibile tragedia che quest’ultima storia potrebbe implicare, e<br />

sulla quale, però, non abbiamo dati successivi, ciò che ai fini storici appare<br />

importante è chiarire che se da una parte questo tipo di documentazione ci<br />

permette di affermare, ormai senza dubbio, l’effettività dell’internamento,<br />

dall’altra ci consente anche di dire, con certezza, che il regime fascista<br />

adottò verso rom e sinti provvedimenti distinguibili in almeno due fasi<br />

(ovviamente intrecciate al contesto più generale della <strong>guerra</strong> e della conseguente<br />

politica di internamento): la prima, che precede il settembre 1940, e<br />

la seconda, che va dal 1940 al 1943 (anno dell’armistizio che segna l’inizio<br />

dell’occupazione tedesca).<br />

Prima del 1940 rom e sinti venivano quasi sempre arrestati e subito espulsi<br />

dal Regno, accompagnati al confine e lì abbandonati, tanto che generalmente<br />

rientravano quasi subito e la procedura si ripeteva periodicamente.<br />

Dalla fine del 1940, invece, la politica di espulsione si trasforma in politica<br />

di internamento. E in queste carte la realtà della prigionia emerge in tutta<br />

la sua evidenza, ed emergono anche alcuni dei luoghi dove rom e sinti erano<br />

reclusi.<br />

Se alcuni, come Vinchiaturo (Cb), le Isole Tremiti e la Sardegna risultano,<br />

per il momento, solo come casi isolati, ci sono invece altri luoghi dove la politica<br />

di internamento fascista nei confronti di rom e sinti si fa più chiara. In<br />

particolare a Boiano, Agnone e Tossicia.<br />

A Boiano, in provincia di Campobasso, i prigionieri erano alloggiati in una<br />

vecchia manifattura tabacchi, composta da cinque capannoni freddi e umidi<br />

e in condizioni così terribili da indurre persino gli amministratori a tentare<br />

opere di manutenzione e infine a trasferire, nel febbraio del 1941, gran parte<br />

dei prigionieri in altri campi. Tutti tranne gli zingari che non solo aumentarono<br />

di numero ma vi restarono fino alla chiusura definitiva, tra luglio e<br />

agosto del 1941, quando il campo venne adibito alla lavorazione della ginestra.<br />

Allora anche i 68 prigionieri zingari che ancora vi si trovavano furono<br />

“trasferiti ad Agnone” che – così osservava il prefetto nelle sue comunicazioni<br />

– sarebbe rimasto “destinato esclusivamente per zingari”.<br />

Il campo di Agnone, vicino a Isernia, si trovava fuori dal paese, a 850 metri<br />

di altezza, allestito in un ex convento benedettino requisito dai fascisti. Da<br />

un’ispezione della Croce Rossa sappiamo che nel novembre del 1941 il numero<br />

dei prigionieri zingari era di 73 e che ne erano attesi ancora 11. I documenti,<br />

inoltre, fanno supporre che, almeno dal 1942 in poi, il campo fosse effetivamente<br />

destinato esclusivamente a loro. Tra il gennaio e il febbraio del<br />

1942 gli zingari prigionieri erano saliti a 130, tra i quali anche una trentina<br />

di bambini per i quali il direttore aveva istituito una scuola per costringerli<br />

a abbandonare le loro “abitudini e i costumi dei genitori”. Abbiamo anche un<br />

elenco di 81 zingari ancora presenti nel campo il 3 maggio 1943.<br />

83


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

84<br />

Il campo di Tossicia, infine, è uno dei più noti. Funzionante dall’ottobre del<br />

1940, venne smantellato con l’armistizio. Prima di allora, però, vi erano rinchiusi<br />

anche rom e sinti. Disponiamo infatti di almeno due elenchi che documentano<br />

la presenza, nel mese di luglio del 1942, di almeno 108 di loro. Da<br />

appunti e annotazioni sulla documentazione si capisce anche che uno,<br />

Lorenzo Hudorovic di Matteo, ricoverato nel locale ospedale alla fine di agosto,<br />

quindi dimesso e riportato a Tossicia, morirà sette mesi dopo essere arrivato<br />

nel campo, a soli 18 anni. Tossicia era infatti uno dei peggiori campi<br />

dell’Italia centrale. Gli internati vivevano ammassati in tre case e casa<br />

Mirti era quella riservata agli zingari, in condizioni intollerabili: gli edifici<br />

erano privi di finestre, non c’era acqua e le fogne allagavano continuamente<br />

la zona. Nel marzo del 1943 il numero degli zingari era salito a 116 e si<br />

presume che fossero gli unici prigionieri presenti, dato che la risposta a una<br />

richiesta del ministero sul numero degli internati elencava esclusivamente<br />

detenuti zingari.<br />

Dopo l’8 settembre del 1943, e in base alle prescrizioni dell’armistizio, molti<br />

campi vennero chiusi ma altri passarono direttamente all’amministrazione<br />

nazista. In molti casi i prigionieri fuggirono, alcuni si dispersero sulle montagne<br />

insieme ai partigiani, ma altri rimasero ingabbiati nell’occupazione<br />

tedesca. Ci sono pochissime informazioni, e assolutamente frammentarie,<br />

sul destino dei rom e dei sinti nel periodo della Repubblica Sociale e soprattutto<br />

sul destino di coloro che, a quell’epoca, si trovavano ancora imprigionati<br />

e segnalati. È quindi giusto riflettere sulle eventuali responsabilità italiane<br />

nel trasferimento e nella successiva eliminazione dei prigionieri rom e<br />

sinti nei campi di <strong>sterminio</strong> hitleriani. Da segnalare, almeno, la testimonianza,<br />

indiretta, della partigiana Laura Conti che, internata a Gries di<br />

Bolzano, ricorda tra i prigionieri “bambini zingari italiani e spagnoli” che<br />

vivevano con le madri nell’unica baracca femminile e “parlavano solo la loro<br />

lingua quindi fu difficile sapere qualcosa su di loro”. E quella del sinto<br />

Vittorio Mayer (che riuscì a salvarsi nascondendo la sua origine e diventando<br />

violinista nell’esercito tedesco) che ricorda la sorella Edvige morta a<br />

vent’anni nel campo di Bolzano: “maledetta <strong>guerra</strong>! Ho sempre nel cuore<br />

l’immagine di mia sorella, rinchiusa dietro i reticolati”.<br />

Nemmeno la fine della seconda <strong>guerra</strong> mondiale riuscì a diventare occasione<br />

di pace e convivenza con il popolo rom. Tra i sopravvissuti soltanto alcuni<br />

hanno voluto raccontare. E, tra questi, pochi disponevano degli strumenti per<br />

farlo. Perché per raccontare l’orrore e la morte, o la fame e la paura ci vuole,<br />

oltre alla possibilità di trovare parole e scrittura, qualcuno che ascolti.<br />

Invece la fine della <strong>guerra</strong> e la scoperta dei lager non riguardarono rom e<br />

sinti.<br />

Nei vari processi contro i nazisti responsabili di crimini contro l’umanità –<br />

primo tra tutti quello di Norimberga – mai nessuno decise di sentire testimonianze<br />

di rom e sinti. Eppure la loro vicenda era stato ripetutamente<br />

richiamato dalle testimonianze, in particolare da quelle su Auschwitz e sugli<br />

esperimenti medici. Ma nella sentenza finale c’è un unico paragrafo che li<br />

riguarda, nella parte relativa all’operato delle Einsatzgruppen (e in modo<br />

persino un po’ folkloristico):<br />

I gruppi di assalto ricevettero l’ordine di fucilare gli zingari. Non fu fornita<br />

nessuna spiegazione circa il motivo per cui questo popolo inoffensivo, che nel<br />

corso dei secoli ha donato al mondo, con musica e canti, tutta la sua ricchezza,<br />

doveva essere braccato come un animale selvaggio. Pittoreschi negli<br />

abiti e nelle usanze, essi hanno dato svago e divertimento alla società, l’hanno<br />

talvolta stancata con la loro indolenza. Ma nessuno mai li ha condannati<br />

come una minaccia mortale per la società organizzata, nessuno tranne il<br />

nazionalsocialismo, che per bocca di Hitler, di Himmler e di Heydrich, ordinò<br />

la loro eliminazione.


Il nazi-fascismo contro gli zingari<br />

Quindici anni dopo, al processo di Gerusalemme, nonostante Eichmann si<br />

fosse dimostrato consapevole delle pratiche di persecuzione e deportazione<br />

degli zingari e, in istruttoria, avesse ricordato che non aveva mai dubitato<br />

che gli zingari dovevano essere sterminati, il capo di imputazione che<br />

riguardava questo argomento venne annullato.<br />

Dunque, per il loro <strong>sterminio</strong>, nessuna vergogna. E tra i colpevoli nessun<br />

responsabile.<br />

Dopo la <strong>guerra</strong> Robert Ritter e i suoi collaboratori continuarono a vivere più<br />

o meno indisturbati. Nessuno di loro venne mai condannato. Ritter continuò<br />

a esercitare come psichiatra infantile e ebbe anche elogi e commissioni dal<br />

governo per la sua conoscenza e esperienza sulle questioni dei rom e sinti.<br />

Eva Justin, indagata nel 1964 non venne mai rinviata a giudizio e Adolf<br />

Würth continuò a lavorare negli uffici statali di Baden Baden fino al 1970.<br />

Ma la sottovalutazione, o la negazione, della “questione zingara” fin dal<br />

primo dopo<strong>guerra</strong> nasconde, in verità, un problema molto complesso e concreto,<br />

quello dei risarcimenti dovuti alle vittime del nazismo. Nonostante la<br />

Convenzione di Bonn – imposta dagli Alleati alla Germania nel 1945 – prescrivesse<br />

il pagamento di riparazioni e indennizzi a tutti coloro che erano<br />

stati perseguitati per ragioni di politica razziale, nel caso dei rom e dei sinti<br />

questo fu negato e tutte le loro istanze di risarcimento eluse dalla magistratura<br />

tedesca con la motivazione che la loro non era stata una persecuzione<br />

motivata dal pensiero razziale e che erano stati imprigionati per ordine<br />

pubblico.<br />

Per anni il lavoro forzato, il furto dei loro beni, di carrozzoni, appartamenti,<br />

strumenti musicali, i danni alla salute, la deportazione coatta e la morte non<br />

vennero considerati.<br />

Se prima i giudici, con una sentenza assurda del 1956, riconobbero la persecuzione<br />

razziale solo a partire dal decreto di internamento ad Auschwitz<br />

(dicembre 1942), e quindi riconobbero come vittima solo chi era prigioniero<br />

dopo quella data, poi si trincerarono dietro al fatto che non esisteva un organismo<br />

rappresentativo del popolo zingaro al quale affidare i risarcimenti.<br />

Fu infine solo nel 1980 che il governo tedesco riconobbe ufficialmente – e<br />

finalmente – che gli zingari avevano subito “sotto il regime nazista<br />

nell’Europa occupata, una persecuzione razziale”. Ma ormai era tardi: molti<br />

sopravvissuti erano morti e i pochi rimasti non intendevano più lottare in<br />

una battaglia che consideravano “persa da secoli”.<br />

A noi resta un dato sul quale riflettere: gli zingari, dopo la seconda <strong>guerra</strong><br />

mondiale, avevano diritto ai risarcimenti, e questo diritto non fu mai affermato.<br />

85


dghdhd


La deportazione delle<br />

donne<br />

Marta Baiardi, Insegnante di Lettere all’I.T.C. “A. Volta” di Bagno<br />

a Ripoli<br />

1. Considerate se questa è una donna…<br />

Voi che vivete sicuri<br />

Nelle vostre tiepide case,<br />

Voi che trovate tornando a sera<br />

Il cibo caldo e visi amici:<br />

Considerate se questo è un uomo<br />

Che lavora nel fango<br />

Che non conosce pace<br />

Che lotta per mezzo pane<br />

Che muore per un sì o per un no.<br />

Considerate se questa è una donna,<br />

Senza capelli e senza nome<br />

Senza più forza di ricordare<br />

Vuoti gli occhi e freddo il grembo<br />

Come una rana d’inverno.<br />

Meditate che questo è stato:<br />

Vi comando queste parole<br />

Scolpitele nel vostro cuore<br />

Stando in casa andando per via<br />

Coricandovi alzandovi;<br />

Ripetetele ai vostri figli.<br />

O vi si sfaccia la casa<br />

La malattia vi impedisca,<br />

I vostri nati torcano il viso da voi.<br />

Primo Levi<br />

Questa poesia, o meglio questa specie di “apostrofe al lettore” 1 di ascendenza<br />

dantesca ed insieme biblica, così ricca di anafore e in generale di figure<br />

della ripetizione (considerate, voi che, senza), datata 10 gennaio 1946, venne<br />

1 A. Cavaglion, Commento a Se questo è un uomo, redatto per la Grande Letteratura Italiana<br />

Einaudi su CD Rom, 1999, note 1 e 2.<br />

87


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

88<br />

composta durante la stesura di Se questo è un uomo, a sua volta datato nell’ultima<br />

pagina dell’edizione einaudiana “Avigliana, dicembre 1945-gennaio<br />

1947”. Oltre che come epigrafe al primo libro di Levi, questa poesia venne<br />

inserita anche nella prima raccolta poetica leviana, L’osteria di Brema<br />

(1975) e poi in A ora incerta (1984), dove però porta un altro titolo peraltro<br />

estremamente significativo: Shemà. “Shemà è l’orazione fondamentale degli<br />

ebrei, una sorta di atto di fede che inizia con le parole: -Ascolta, (Shemà)<br />

Israel, il Signore Dio nostro è unico- e termina con l’esortazione a non<br />

dimenticare e a trasmettere ai figli la nozione dell’unicità del Dio” 2 .<br />

Qui nella poesia-preghiera Shemà, che “assume la sua forza dall’essere<br />

posta sulla soglia del libro di morte” 3 , tuttavia Dio non c’è. Come è stato<br />

notato, è l’autore che si fa “voce di Dio” e ordina e comanda, come nei versi<br />

16-19, traduzione fedele del testo ebraico del Deuteronomio 6, 6-7 ed esplode<br />

infine in una sorta di “maledizione veterotestamentaria” 4 .<br />

Il gioco dei titoli è importante in questo caso, perché ci aiuta a districare<br />

qualcosa di più sulla poesia Shemà ed anche qualcosa di più intorno allo<br />

sguardo di Levi sulla presenza femminile nell’universo concentrazionario.<br />

Se questo è un uomo, memoria di Auschwitz, nelle intenzioni dell’autore<br />

avrebbe dovuto chiamarsi I sommersi e i salvati, titolo che sarà poi invece<br />

attribuito da Levi al suo ultimo testo-testamento spirituale ancora sull’esperienza<br />

nel Lager. Se questo è un uomo fu il titolo voluto da Franco<br />

Antonicelli nel 1947, alla prima edizione del libro, nell’intento -condiviso in<br />

quei tempi di ottimistica ricostruzione tanto da Primo Levi quanto da<br />

Robert Antelme e da Elio Vittorini 5 – di separare l’uomo dal non uomo, di<br />

tracciare una netta separazione “discrimine della moralità” 6 per “fissare<br />

confini sicuri fra inumanità e umanità” 7 . Ancora non erano maturati i tempi<br />

amari del pessimismo leviano degli anni ’80, quando sarebbe affiorato nella<br />

scrittura dei Sommersi e i salvati (1986) il concetto di zona grigia, che sfuma<br />

e invischia i confini tra bene e male e interroga ciascuno sulla propria ineludibile<br />

colpevolezza.<br />

Ma torniamo ai titoli e alla poesia Shemà.<br />

Un verso della poesia-epigrafe, in particolare l’interrogativa indiretta di<br />

valore retorico “se questo è un uomo” dà quindi origine al titolo del primo<br />

libro di Levi in accordo con lo spirito dei tempi del dopo<strong>guerra</strong>, dell’editore<br />

e dell’autore, come abbiamo visto. Ma se nel titolo del libro questo “uomo” va<br />

inteso essenzialmente come umanità, come principio neutro e generale che<br />

vale per tutti anche per le donne, le cose stanno diversamente invece nel<br />

corpo testuale della poesia. In essa l’“uomo” di cui Levi parla, dietro cui c’è<br />

l’io narrante-testimone, è inequivocabilmente un soggetto maschile; nel<br />

testo poetico di Shemà questo “uomo” riveste una sua specificità di genere e<br />

non si identifica con il neutro generale onnicomprensivo del titolo del libro.<br />

La stessa disposizione tematica della poesia sembra confermarlo. I ventitré<br />

versi di Shemà sono distribuiti geometricamente in questo modo: i primi<br />

quattro versi costituiti dai vocativi (“Voi che…”) chiamano in causa coloro<br />

che non hanno sperimentato il lager e che sono descritti nel tiepido delle loro<br />

case e dei loro “visi amici” (“Voi che vivete sicuri…”). Agli stessi, i rimasti a<br />

casa indicati da quel “voi”, sono indirizzati gli ordini severi che compongono<br />

i versi dal 14 al 20 (“Meditate… Vi comando… Scolpitele... Ripetetele…”).<br />

2 Cavaglion, ibid., nota 6.<br />

3 F. Fortini, L’opera in versi, in Primo Levi. Il presente del passato, a cura di A. Cavaglion,<br />

Milano, Angeli, 1993, p. 138.<br />

4 Cavaglion, Commento a Se questo…, cit., nota 7.<br />

5 Cfr. R. Antelme, L’espèce humaine, 1947 e 1954 ed. it.; E. Vittorini, Uomini e no, 1946.<br />

6 Cavaglion, Introduzione, in R. Antelme, La specie umana, Torino, Einaudi, 1997, p. XI.<br />

7 Cavaglion, Introduzione, cit., p. XII.


La deportazione delle donne<br />

Infine anche gli ultimi tre versi della maledizione biblica (21-23) sono indirizzati<br />

a loro, qualora non obbediscano (“O vi si sfaccia la casa…). Al centro<br />

della poesia in contrapposizione alle “tiepide case” di un universo sicuro e<br />

amico così lontano ed altro dal lager – questo sì un universo “neutro”, né<br />

maschile né femminile – stanno i destini disgraziati di uomini e donne concreti,<br />

quindi sessuati (maschi o femmine), che hanno abitato il Lager.<br />

La descrizione di quel “ciò che è stato” si presenta con dieci versi di fame,<br />

fango, morte, perdita di sé, equamente distribuiti tra i due generi: cinque<br />

dedicati all’uomo (inteso come soggetto maschile) (vv. 5-9) e cinque dedicati<br />

alla donna (vv. 9-14), ripartiti attraverso l’anafora di quel “Considerate” in<br />

due distinte sezioni, che introducono per così dire a due inferni diversi presenti<br />

nello stesso luogo di morte. E se l’uomo è eternato nel presente storico<br />

di quei verbi “lavora”, “non conosce”, “lotta”, “muore”, come in un affanno del<br />

fare, la donna invece è connotata qui non da ciò che fa ma da come appare<br />

all’io narrante testimone: prevalentemente per quel che le è stato tolto, i<br />

capelli, il nome, la forza di ricordare (anafora di “senza”; occhi “vuoti”) e infine<br />

il suo grembo, snaturato in quello freddo “come una rana d’inverno” 8 .<br />

L’immagine più forte della poesia è proprio questa similitudine, dedicata al<br />

grembo femminile e alla freddezza sterile cui il Lager lo ha consegnato. Levi<br />

ci introduce qui, a partire dalla poesia Shemà, alle sofferenze specifiche,<br />

diverse per uomini e donne che la deportazione e lo <strong>sterminio</strong> avrebbero<br />

comportato pur nello stesso universo concentrazionario.<br />

Mi atterrò in questa disamina della deportazione femminile alla stessa evidenza<br />

testimoniale di Levi, io narrante uomo che pure dice ciò che capita<br />

alle donne, perché lo “vede”, anche se non è sua esperienza diretta. E poi mi<br />

atterrò ovviamente alle tante memorie o testimonianze di ex deportate<br />

donne (in questa relazione soprattutto italiane) che hanno descritto le loro<br />

specifiche sofferenze nei campi di concentramento e di <strong>sterminio</strong> nazisti.<br />

Questo “vedere” ciò che è capitato alle donne in questo tragico frangente<br />

della storia del novecento, sembra finalmente essere oggi una prospettiva<br />

operativa anche nella storiografia e non solo nell’intendimento di poche<br />

ricercatrici pioniere o delle sopravvissute alla deportazione. Come già indicava<br />

Raul Hilberg, “la soluzione finale nella mente dei suoi creatori avrebbe<br />

dovuto assicurare l’annientamento totale degli ebrei. In genere uomini e<br />

donne venivano presi insieme per essere deportati nello stesso campo di<br />

<strong>sterminio</strong> o fucilati davanti alla stessa fossa. I loro cadaveri venivano bruciati<br />

in un unico forno crematorio o sepolti in una fossa comune. Uomini e<br />

donne venivano portati nello stesso teatro di distruzione perché la visione<br />

nazista contemplava un’Europa da cui gli ebrei dovevano sparire completamente.<br />

Ma la strada verso l’annientamento fu contrassegnata da eventi che colpirono<br />

specificatamente gli uomini in quanto uomini e le donne in quanto<br />

donne. Dapprima si verificò uno scambio di ruoli, quindi una trasformazione<br />

dei rapporti, per finire diversi furono le tensioni e i traumi” 9 .<br />

8 Cfr. P. Levi, Ranocchi sulla luna, in Il fabbricante di specchi. Racconti e saggi, prefazione di<br />

L. Mondo, Torino, Ed. La Stampa, 1997, pp. 67-71. In questo racconto dedicato all’allevamento<br />

dei girini e all’osservazione partecipata del loro comportamento durante il periodo<br />

della muta, quando poi infine diventano “ranocchi, gente come noi con due mani e due<br />

gambe”, la rana femmina appare ma solo in finale e di striscio. Essa nel racconto è la “ranamadre”,<br />

madre per eccellenza, almeno al vedere come “si estenua nel partorire stringhe interminabili<br />

di uova” per contrastare l’altissima mortalità dei suoi piccoli. La connessione tematica<br />

con la similitudine della poesia Shemà non sembra dunque impropria: la rana del racconto<br />

è madre prolifica e previdente, tanto quanto la rana della poesia va intesa come simbolo<br />

di maternità potenziale bloccata dal gelo di Auschwitz.<br />

9 R. Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori. La persecuzione degli ebrei 1933-1945, Milano,<br />

Mondadori, 1994, p. 125.<br />

89


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

90<br />

E per quanto riguarda la ricerca sulle donne deportate, “il punto non è (…)<br />

affermare un di più di dolore, ma dar conto di un’esperienza diversa da quella<br />

maschile – che, tengo a sottolinearlo, è a sua volta specifica, irriducibile<br />

al neutro universale e astratto in cui ancora oggi si tende ad identificare<br />

l’essere uomo” 10 .<br />

2. Il progetto nazista<br />

2a. Razzismo e Volksgemeinschaft<br />

Quando i nazisti vanno al potere in Germania (gennaio 1933), il loro programma<br />

consiste nel risollevare la nazione tedesca dalle umiliazioni di<br />

Versailles e dalla depressione economica in collisione diretta con la<br />

Repubblica di Weimar. Per realizzare questi obiettivi ai nazisti occorre abolire<br />

ogni opposizione sociale e politica (né partiti né lotta di classe saranno<br />

tollerati) e contemporaneamente liberare la nazione tedesca da tutte le<br />

“degenerazioni” da cui sarebbe afflitta. Fra queste, priorità assoluta ha “il<br />

mito della degenerazione razziale” 11 , provocata innanzitutto dagli ebrei, ma<br />

anche da zingari, slavi, negri ed altre minoranze che, nella visione razzista<br />

del nazionalsocialismo, minacciano l’integrità della Volksgemeinschaft, la<br />

superiore comunità etnica a base razziale ed ideologica che consente l’accesso<br />

al complesso dei diritti e doveri da parte dei cittadini e delle cittadine<br />

del Reich.<br />

Sono esclusi dalla Volksgemeinschaft molti soggetti: i razzialmente inferiori<br />

innanzitutto ma anche gli ideologicamente contrari e i non allineati. “Il razzismo<br />

– e in particolare il razzismo antisemita – svolgeva un ruolo centrale<br />

nei programmi politici dei nazisti. Pertanto il razzismo va collocato anche al<br />

centro della loro ‘politica di genere’ 12 . In altre parole “le donne che si trovavano<br />

dalla parte ‘tedesca’ della barriera razziale venivano considerate le<br />

‘madri del popolo’, mentre quelle che stavano dalla parte ‘straniera’ erano<br />

donne ‘degenerate’ e in quanto tali i loro destini, dipendendo totalmente<br />

dalla definizione di appartenenza razziale, finirono per differenziarsi da<br />

quelli delle altre quanto in ultima analisi la vita dalla morte 13 . Mi pare utile<br />

assumere questa interpretazione della storica tedesca Gisela Bock perché<br />

restituisce alla politica razzista del nazismo la sua centralità e ci avverte<br />

che con questa prospettiva deve confrontarsi – anche nell’ambito della storia<br />

di genere – ogni descrizione della vita politica e sociale delle donne nell’universo<br />

nazista.<br />

Il 1933, primo anno della presa del potere del Reich ‘millenario’, è cruciale<br />

per la tempestiva realizzazione dell’insieme delle politiche razziste e repressive<br />

del regime che vale la pena di ricordare brevemente nel loro complesso.<br />

2b. Il sistema concentrazionario<br />

Innanzitutto l’avvio del sistema concentrazionario. Viene inaugurato con<br />

gran pubblicità in funzione intimidatoria proprio nel marzo del 1933 il<br />

campo di concentramento di Dachau, fabbrica di munizioni abbandonata nei<br />

pressi di Monaco di Baviera.<br />

Il sistema concentrazionario diventa luogo di esercizio del controllo capillare<br />

del regime sul territorio attraverso la violenza generalizzata.<br />

10 A. Bravo, Relazione introduttiva, in La deportazione femminile nei Lager nazisti. Convegno<br />

internazionale di Torino, 21-21 ottobre 1994, a cura di L. Monaco, (Consiglio regionale del<br />

Piemonte-Aned), Milano, Angeli, 1995, p. 19.<br />

11 G. Bock, Il nazionalsocialismo: politiche di genere e vita delle donne, in G. Duby - M. Perrot,<br />

Storia delle donne in Occidente. Il Novecento, a cura di F. Thébaud, Roma-Bari, Laterza, 1992,<br />

p. 176.<br />

12 Bock, Il nazionalsocialismo…, cit., p. 178.


La deportazione delle donne<br />

Inizialmente i campi di concentramento (che non sono tuttavia in sé una<br />

invenzione nazista) furono riservati agli oppositori politici ma poi a partire<br />

dal 1936 Himmler estese la loro funzione a molti altri soggetti sociali: tutti<br />

coloro che apparivano indesiderati per la costruzione di una società purificata<br />

(ebrei e zingari per la “razza” ma anche marginali e/o disadattati sociali,<br />

cultori di professioni religiose non allineate come i Testimoni di Geova,<br />

omosessuali, senza casa, disoccupati, prostitute, ecc.). Caratteristica del<br />

sistema concentrazionario è quella di internare i cittadini preventivamente<br />

(prima di aver commesso ogni reato, per quello che “sono” e non per qualcosa<br />

che abbiano “fatto”) e al di fuori di ogni controllo da parte del sistema giudiziario.<br />

Come espressione di piena autonomia dell’apparato repressivo (le<br />

SS), il sistema concentrazionario, che raggiunge la sua piena istituzionalizzazione<br />

verso il 1936, rappresenta una componente costitutiva del nazismo<br />

e non un suo eccesso secondario.<br />

La vicenda dei campi nazisti conosce diverse fasi, che non è il caso di<br />

approfondire adesso. Basterà qui evidenziare l’ulteriore evoluzione dei<br />

campi di concentramento verso l’utilizzo della forza lavoro coatta: i detenuti<br />

dei campi diventano gli schiavi di un sistema industriale complesso, redditizio<br />

e ramificato in tutto il Reich. Con la <strong>guerra</strong> poi il sistema concentrazionario<br />

nazista è esportato in tutta l’Europa occupata. La popolazione dei<br />

Lager si amplia enormemente. Alle industrie fa gola questa manodopera a<br />

costo quasi zero e si affrettano a costruire impianti appositi a seconda della<br />

presenza di materie prime e delle loro produzioni. Crescono campi e sottocampi<br />

sulla carta d’Europa, popolati da Häftlinge sottonutriti, malati, destinati<br />

a morte sicura: schiavi, cavie per i cosiddetti esperimenti medici, “sottouomini”<br />

in mano alle SS, immersi in un sistema disumanizzato e violento<br />

che porterà alla morte di milioni di persone di tutte le nazionalità (uomini,<br />

donne, prigionieri di <strong>guerra</strong>, oppositori politici, omosessuali, semplici ostaggi<br />

e/o incappati in un rastrellamento nelle zone occupate dai tedeschi, cosiddetti<br />

“asociali”, ecc.). A mero titolo di esempio, basti qui ricordare che diventarono<br />

centoventinove i campi esterni di Buchenwald, tra cui il tristemente<br />

famoso campo di Dora Mittelbau, che poi divenne autonomo; sessantadue i<br />

sottocampi di Mauthausen; cinquanta quelli di Auschwitz.<br />

2c. Ravensbrück<br />

Tra le migliaia di campi di concentramento nazisti si ricorda qui il lager di<br />

Ravensbrück, in quanto campo femminile. Situato nel Meclemburgo a ottanta<br />

chilometri a nord-est di Berlino, Ravensbrück viene inaugurato il 18 maggio<br />

1939 con 867 prigioniere, di cui 860 tedesche e 7 austriache. Si tratta di<br />

politiche e di testimoni di Geova. Nasce come “campo di rieducazione per l’isolamento<br />

delle diverse: politiche, asociali, zingare, ladre, assassine, religiose;<br />

si sviluppa come un serbatoio di schiave per la produzione bellica e termina<br />

come Lager di <strong>sterminio</strong> quando le schiave non servono più alla produzione<br />

e pesano negativamente sul sistema economico” 14 . Nel giugno del<br />

1939 arrivano anche le zingare rastrellate con i loro figli; a settembre prigioniere<br />

politiche polacche e poi boeme, russe e poi via via donne di tutte le<br />

nazionalità dell’Europa occupata dai nazisti. Tra queste entrano in campo<br />

l’italiana Teresa Noce, arrestata in Francia e la più famosa Margarete<br />

Buber Neumann, già prigioniera nel Gulag staliniano e poi estradata dai<br />

sovietici per essere consegnata alla Gestapo. Nel giugno 1941 si cominciano<br />

13 “Anche se, in generale, tutte le donne non hanno la stessa storia, le differenze nella storia<br />

delle donne sotto il regime nazista furono tanto profonde quanto quelle tra la vita e la morte.”<br />

(Bock, Il nazionalsocialismo…, cit., p. 177).<br />

14 L. Beccaria Rolfi, Il lager di Ravensbrück, in La deportazione femminile…, a cura di L.<br />

Monaco, cit. p. 31.<br />

91


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

92<br />

ad installare nel Lager impianti industriali; il più importante è quello della<br />

Siemens. Le detenute-schiave sono vendute dalle SS alle industrie che ne<br />

fanno richiesta. Dall’agosto del 1941 avvengono selezioni che eliminano le<br />

detenute malate e improduttive e le ebree.<br />

I trasporti italiani, ultima nazionalità ad arrivare a R., giungono nel secondo<br />

trimestre del 1944. Sono ben otto 15 : il primo, quello di Lidia Beccaria<br />

Rolfi parte da Torino il 27 giugno 1944 e l’ultimo da Trieste l’11 gennaio<br />

1945. Chi sono queste donne italiane? Si tratta di resistenti in qualche caso,<br />

ma anche di donne catturate come ostaggi, ebree di sangue misto che evitano<br />

Auschwitz, donne incappate in qualche rastrellamento, borsare nere. Ci<br />

sono donne di tutte le età. Le più anziane per lo più non passeranno l’inverno<br />

’44-’45.<br />

All’inizio del 1945 si intensificano le selezioni e in un piccolo sottocampo<br />

chiamato Jugendlager, situato a circa 900 metri da Ravensbrück su un’altura,<br />

a Uckemark, viene allestita anche una camera a gas e i crematori sputano<br />

fumo continuamente. Così giunge la fine del campo:<br />

“Mentre le macchine di morte funzionano a pieno ritmo, le SS vengono a<br />

patti con i paesi vincitori: liberano le norvegesi, le danesi, il 3 aprile le prime<br />

300 francesi, poi le belghe e le olandesi consegnandole alla Croce Rossa. Il<br />

26 aprile 1945, ad eccezione di alcune centinaia di donne gravemente malate,<br />

le ultime deportate rimaste in Lager (russe, iugoslave, ungheresi, italiane,<br />

polacche) nella notte devono affrontare l’evacuazione.<br />

Una lunga fila di ombre che si trascinano come automi viene spinta in<br />

mezzo alla strada fra le truppe in ritirata e i civili in fuga; camminano per<br />

200 chilometri in mezzo alla <strong>guerra</strong> con i russi che avanzano alle spalle e gli<br />

Alleati che avanzano di fronte, fra mitragliamenti e bombardamenti, schiacciate<br />

tra i due fronti. Alcune sono liberate dai russi pochi chilometri dopo<br />

Schwerin, altre dagli Americani, ma nessuna ha più la forza di gioire dopo<br />

quegli ultimi giorni d’inferno” 16 .<br />

Ravensbrück è liberato il 30 aprile 1945 dai sovietici. “Quando i russi arrivano<br />

trovano solo alcune centinaia di moribonde assistite da dottoresse e<br />

infermiere deportate, le SS sono fuggite, il Lager puzza solo di morte” 17 .<br />

A Ravensbrück dal 1939 al 1945 furono imprigionate dalle centodiecimila<br />

alle centoventicinquemila donne, di cui circa trentamila sopravvissero e<br />

novantaduemila perirono.<br />

2d. Politiche eugenetiche e “Programma Eutanasia”<br />

Nel giugno del 1933 vengono avviate dal regime nazionalsocialista anche le<br />

politiche eugenetiche con la Legge per la prevenzione della progenie con<br />

malattie ereditarie del 14 luglio 1933. Si colpiscono gli individui (uomini e<br />

donne) anche tedeschi/e (‘ariani/e’) non desiderabili come genitori perché<br />

affetti da malattie fisiche e mentali considerate ereditarie. Con questa legge<br />

veniva introdotta la sterilizzazione obbligatoria a cura dello stato, che poteva<br />

avvenire anche senza il consenso della persona interessata allo scopo di<br />

“purificare il corpo etnico” dalla “materia ereditaria biologicamente inferiore”<br />

18 che andava estirpata.<br />

Il provvedimento era diretto a frenastenici, schizofrenici, maniaco-depressivi,<br />

epilettici, malati di cecità e sordità genetica e alcolisti gravi: circa un<br />

milione e mezzo di individui. Quattrocentomila persone furono effettivamente<br />

sterilizzate nel corso del decennio successivo: l’1% della popolazione<br />

15 I. Tibaldi, Compagni di viaggio. Dall’Italia ai Lager nazisti. I “trasporti” dei deportati 1943-<br />

1945, prefazione di D. Jalla, Milano, Angeli, 1994, p. 152.<br />

16 Beccaria Rolfi, Il Lager di Ravensbrück, cit. p. 44.<br />

17 Beccaria Rolfi, Il Lager di Ravensbrück, cit. p. 45.<br />

18 Bock, Il nazionalsocialismo…, cit., p. 129.


La deportazione delle donne<br />

in età fertile 19 ; duecentomila furono sterilizzate tra la metà del 1933 e la<br />

fine del 1937 20 . Furono sterilizzati prevalentemente individui considerati<br />

malati, ma anche zingari, ebrei e neri. Nel 1941 la sterilizzazione degli ebrei<br />

cessò perché avevano avuto inizio le deportazioni e lo <strong>sterminio</strong> di massa nei<br />

campi dell’est europeo 21 . Per la sterilizzazione erano stati fondati “circa 250<br />

tribunali speciali di sterilizzazione: ne facevano parte giuristi, psichiatri,<br />

genetisti, antropologi e medici” 22 .<br />

La metà degli sterilizzati erano donne. Ma la mortalità femminile fu molto<br />

più alta di quella maschile per i postumi operatori. Il 90% delle morti a<br />

causa della sterilizzazione è costituito da donne. “Fino ai tempi recenti la<br />

storiografia femminista ha trascurato questo fatto, presumendo erroneamente<br />

che la politica nazionalsocialista nei confronti delle donne si manifestasse<br />

soltanto come una ‘culto della maternità’ e raramente ha studiato le<br />

donne che furono vittime del razzismo nazionalsocialista” 23 .<br />

All’interno delle politiche per l’attuazione drastica di una ingegneria genetica<br />

in grado di selezionare la razza dominante del Terzo Reich, va collocato<br />

anche il “Progetto eutanasia” (1939-1941), triste eufemismo che designa<br />

invece nel lessico criminale nazista non il desiderio di “abbreviare la vita di<br />

individui affetti da dolorose malattie terminali, bensì quello di assassinare<br />

esseri umani giudicati inferiori, che avrebbero potuto vivere ancora molti<br />

anni” 24 . Questa eliminazione criminale contro i disabili rappresenta il<br />

primo vero e proprio <strong>sterminio</strong> di massa su base biorazzistica, perpetrato<br />

nel Terzo Reich prima di quello nei campi di <strong>sterminio</strong> contro gli ebrei e gli<br />

zingari. Le “vite che non meritano di essere vissute” sono per i nazisti le vite<br />

degli handicappati mentali e fisici, obiettivi di questa politica sterminazionistica<br />

che prende avvio segretamente nel 1939 e dura fino all’agosto 1941,<br />

quando per “la risonanza pubblica e lo scontento popolare” 25 raccolto anche<br />

dalle chiese tedesche, Hitler decide di chiudere il programma, almeno ufficialmente.<br />

In realtà le uccisioni continuano senza interruzioni ma senza più visibilità<br />

pubblica.<br />

Nel frattempo però, attraverso i sei Centri di eutanasia organizzati da un<br />

apposito Ufficio, il “T4” (dal nome della via di Berlino in cui il quartier generale<br />

era situato, Tiergarten Strasse n. 4), erano state assassinate con l’‘innovativo’<br />

impiego di gas letale duecentomila persone, cinquemila bambini handicappati<br />

dapprima e poi adulti per la maggior parte ricoverati negli ospedali<br />

psichiatrici.<br />

Alla fine del 1941, quando il “Programma Eutanasia” almeno ufficialmente<br />

si interruppe, tutto il personale del T4 che aveva maturato una mentalità<br />

adatta e specifiche “competenze” tecnologiche nel campo dello <strong>sterminio</strong> fu<br />

trasferito all’est per impiegare la propria esperienza “professionale” nei<br />

campi di <strong>sterminio</strong> polacchi appena costruiti, dove coordinò ed organizzò<br />

l’uccisione sistematica su scala industriale di milioni di persone, ebrei e zingari,<br />

donne, uomini e bambini.<br />

19 Bock, Il nazionalsocialismo…, cit., p. 182.<br />

20 S. Friedländer, La Germania nazista e gli ebrei. Volume I: Gli anni della persecuzione (1933-<br />

1938), Milano, Garzanti, 1998, p. 48.<br />

21 Bock, Il nazionalsocialismo…, cit., p. 181.<br />

22 Ibid., p. 180.<br />

23 Ibid., p. 181.<br />

24 H. Friedlander, Le origini del genocidio nazista. Dall’eutanasia alla soluzione finale, Roma,<br />

Editori Riuniti, 1997, p. VIII<br />

25 Friedlander, Le origini del genocidio nazista…, cit., p. 154. Per l’operato delle chiese, cfr. pp.<br />

156-161; in particolare, per l’omelia del 3 agosto 1941 del vescovo di Münster, A.C. von Galen,<br />

cfr. p.160.<br />

93


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

94<br />

2e. Razzismo antisemita e Shoah<br />

Anche le prime leggi razziste antisemite risalgono alla primavera del 1933<br />

(7 e 25 aprile 1933). Prevedevano l’espulsione, insieme agli oppositori politici,<br />

anche degli ebrei dagli impieghi pubblici e dalle università. Tra i colpiti<br />

molte le donne insegnanti e le studentesse ebree 26 , ma potevano perdere<br />

il loro posto di lavoro anche i mariti di donne ebree. Per realizzare queste<br />

espulsioni secondo gli intenti del fanatico “antisemitismo redentivo” 27 hitleriano,<br />

la legge del 7 aprile 1933 conteneva la definizione di ebreo su base<br />

biologica: veniva dichiarato “non ariano” chiunque discendesse da genitori o<br />

nonni ebrei. Con apposite ricerche anagrafiche si perveniva all’indispensabile<br />

“certificato di arianità” che consentiva l’accesso alla comunità di sangue<br />

tedesca.<br />

Nel 1935 le leggi razziste di Norimberga annullarono compiutamente i diritti<br />

civili degli ebrei tedeschi, non più considerati in nessun campo cittadini a<br />

pieno titolo. In particolare con la Legge per la difesa dell’onore e del sangue<br />

tedesco venivano vietati i matrimoni tra “ariani” e “non ariani” nel perseguimento<br />

di quella fobia della contaminazione del sangue che è la marca<br />

distintiva del biorazzismo nazista.<br />

Con l’avvio della <strong>guerra</strong> e l’acquisizione dei territori ad est (polacchi ed ex<br />

russi) la presenza degli ebrei sotto il dominio del Reich divenne un enorme<br />

problema per il regime nazista: a due milioni ammontavano soltanto gli<br />

ebrei polacchi presenti nell’area invasa dalla Germania. Nel frattempo sullo<br />

scenario della <strong>guerra</strong> appena scoppiata, il Reich andava elaborando ed<br />

attuando su larga scala un piano su base razziale per lo sfruttamento delle<br />

conquiste territoriali guadagnate con l’occupazione dei nuovi territori che<br />

prevedeva la sparizione della Polonia come entità statuale, l’eliminazione<br />

della identità e della intellighenzia polacca, la schiavizzazione delle popolazioni<br />

slave al servizio del Reich; il ripopolamento del Lebensraum conquistato<br />

con colonizzazione ad opera di popolazioni tedesche “pure”. Sono solo<br />

alcuni degli elementi che compongono il complesso sistema di ridefinizione<br />

dell’intera Europa elaborato dai nazisti – ed in parte attuato – che va sotto<br />

il nome di Nuovo Ordine europeo.<br />

Pur avendo dato inizio al processo di ghettizzazione e ai massacri generalizzati<br />

della popolazione ebrea polacca, tuttavia<br />

quando invase la Polonia, la Germania non aveva ancora fatto una scelta univoca per<br />

la soluzione della questione ebraica. Oscillava ancora tra la persecuzione e l’emigrazione<br />

coatta. A metà del conflitto accarezzò anche l’idea, già coltivata dalla diplomazia<br />

francese e da quella polacca, di deportare gli ebrei in una grande riserva nell’Oceano<br />

Indiano. Il piano dovette essere accantonato. A metà del 1941 venne interdetta ogni<br />

possibilità per gli ebrei di emigrare. Questo significava che gli ebrei che si trovavano<br />

nell’area di influenza della Germania erano oramai racchiusi in un’enorme trappola.<br />

Si deve ragionevolmente supporre che in quest’epoca [metà del 1941] si fosse già affermata<br />

l’idea della distruzione fisica degli ebrei, la ‘soluzione finale’ 28 .<br />

L’attacco all’URSS (22 giugno 1941) che comportò di nuovo l’inglobamento<br />

di altre masse ebraiche nel Reich (ebrei dei paesi baltici, della ex Polonia,<br />

della Bielorussia e dell’Ucraina) e che si venne caratterizzando come una<br />

vera e propria crociata contro il giudeo-bolscevismo all’insegna del terrore<br />

generalizzato costituì quindi anche una accelerazione ulteriore della politica<br />

sterminazionistica verso gli ebrei. Si trattò dapprima di esecuzioni di<br />

massa tramite fucilazioni da parte delle Einsatzgruppen, ma anche della<br />

26 Bock, Il nazionalsocialismo…, cit., p. 178.<br />

27 Friedländer, La Germania nazista…, cit., p. 106.<br />

28 E. Collotti, La soluzione finale. Lo <strong>sterminio</strong> degli ebrei, Roma, Newton Compton (I ed.: 1995),<br />

2001, p. 44.


Wehrmacht. Emblematico il massacro di Babi Jar nel settembre 1941, dove<br />

i tedeschi uccisero oltre trentamila ebrei di Kiev. Poco meno di un milione di<br />

ebrei uccisi rappresentano il bilancio dei massacri di ebrei in questa fase<br />

della <strong>guerra</strong> contro l’URSS.<br />

Alla Conferenza di Wannsee (20 gennaio 1942) presso Berlino, i capi nazisti<br />

diedero corso organizzativo alla Shoah. Non si trattò, come spesso si crede,<br />

del momento decisionale dello <strong>sterminio</strong> antiebraico ma della progettazione<br />

su scala continentale di una decisione già presa probabilmente nell’estate<br />

precedente: la creazione di appositi campi di <strong>sterminio</strong> in Polonia (Chelmno,<br />

Belzec, Treblinka, Sobibor) per la distruzione fisica degli ebrei d’Europa<br />

dove come programmatori ed esecutori del genocidio sarebbero intervenuti<br />

i componenti già ricordati del T4, specialisti in <strong>sterminio</strong> di massa del<br />

“Progetto Eutanasia”, riciclati per il ‘lavoro’ da compiere nei nuovi campi di<br />

<strong>sterminio</strong>. “La creazione dei campi di <strong>sterminio</strong> spostò il massacro dal livello<br />

dell’efferatezza selvaggia dei reparti speciali alla premeditazione scientifica<br />

dell’eccidio programmato e industrializzato” 29 .<br />

“Il genocidio ebraico non fu soltanto un’eruzione brutale di violenza, fu<br />

anche un massacro eseguito senza odio, grazie a un sistema pianificato di<br />

produzione industriale della morte, grazie a un ingranaggio creato da una<br />

minoranza di architetti del crimine, messo in atto da una massa di esecutori<br />

talvolta zelanti, talvolta incoscienti, nell’indifferenza silenziosa della<br />

grande maggioranza della popolazione tedesca, con la complicità<br />

dell’Europa e la passività del mondo. Là risiede la singolarità del genocidio<br />

antiebraico” 30 .<br />

3. La deportazione femminile<br />

La deportazione delle donne<br />

3a. Bilancio della II <strong>guerra</strong> mondiale, la prima <strong>guerra</strong> ai civili.<br />

Il bilancio complessivo delle vittime del sistema nazista e della <strong>guerra</strong> scatenata<br />

dalle potenze dell’asse è stato spaventoso, come è ben noto e nessuna<br />

componente della società poté essere risparmiata. Inoltre il prevalente<br />

massacro di civili 31 che la seconda <strong>guerra</strong> mondiale causò e che rappresentava<br />

nel 1945 una inquietante novità, da allora caratterizza invece lo svolgimento<br />

e le modalità di tutte le guerre a noi contemporanee.<br />

3b. Le donne nel regime nazista<br />

I tre livelli qui sopra indicati della politica nazista su scala continentale: l’evoluzione<br />

del sistema concentrazionario, la Shoah antiebraica (e il genocidio<br />

degli zingari), le politiche di ingegneria genetica e di <strong>sterminio</strong> dei disabili<br />

non solo si sono sviluppate in parallelo sul piano diacronico lungo l’asse<br />

1933-1945, ma si sono intrecciate con le modalità e i crimini della <strong>guerra</strong><br />

totale sul suolo d’Europa, dando luogo ad una “sintesi unica di un vasto<br />

insieme di forme di oppressione e di <strong>sterminio</strong> già sperimentate ciascuna<br />

separatamente dalle altre nel corso della storia moderna” 32 .<br />

29 Collotti, La soluzione finale…, cit., p. 60.<br />

30 E. Traverso, La violenza nazista, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 21.<br />

31 Si calcolano le vittime della seconda <strong>guerra</strong> mondiale nell’ordine di oltre 50 milioni di morti in<br />

tutto il mondo, di cui 30 milioni in Europa. Ci furono in Urss 20 milioni di morti, di cui 13 milioni<br />

e 600 mila soldati, ma ben 7 milioni di civili; in Polonia oltre 6 milioni di morti, quasi tutti<br />

civili su una popolazione di 35 milioni di abitanti (si tratta del 22% della popolazione, comparativamente<br />

è il rapporto più alto nel mondo). Commonwealth Britannico: 544.596 morti.<br />

Italia: 300 mila morti. Germania: circa 5 milioni di morti. USA: 292 mila morti, tutti militari.<br />

Giappone: 1 milione e 800 mila morti. Iugoslavia: 1 milione e 690 mila morti. Francia: 810 mila<br />

morti. Ebrei d’Europa: 6 milioni di morti. I dati sono tratti dal manuale di M.L. Salvadori,<br />

Storia dell’età contemporanea dalla restaurazione ad oggi, Torino, Loescher, 1994, p. 927.<br />

32 Traverso, La violenza nazista, cit., p. 181.<br />

95


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

96<br />

Le donne hanno fatto parte a pieno titolo di questi progetti di <strong>sterminio</strong>.<br />

Una minoranza sono state esecutrici, “una minoranza [ma] straordinariamente<br />

dura ed efficiente” 33 : guardiane dei campi di concentramento, infermiere<br />

e collaboratrici del “Progetto Eutanasia”; una stragrande maggioranza<br />

spettatrici e una consistente percentuale vittime: “razziali” (ebree e zingare)<br />

o “eugenetiche” (le sterilizzate a forza, le handicappate e le disabili) o<br />

deportate nei campi di concentramento le oppositrici politiche.<br />

In nessun caso tuttavia il nazismo è indietreggiato dinanzi alle persecuzioni<br />

contro donne e bambini.<br />

3c. Precedenti storici della deportazione e dell’internamento femminile<br />

Anche in questo caso il nazismo non ha inventato forme originali di oppressione,<br />

perché preesistevano modelli cui ispirarsi, attivati in occasione delle<br />

guerre coloniali 34 . Pratiche di deportazione e di concentramento di civili,<br />

anche donne, erano state praticate nel 1896 a Cuba, per sedare una rivolta<br />

contro gli spagnoli, ad opera di un generale spagnolo di origine prussiana<br />

(ironia della sorte!), Valeriano Weyler y Nicolau, governatore di Cuba. Circa<br />

quattrocentomila persone, tra vecchi, donne e bambini, furono “riconcentrate”<br />

da Weyler; “non si conosce invece il numero delle vittime” 35 .<br />

Ma il precedente storico più noto – richiamato anche dalla propaganda nazista<br />

– risale alla <strong>guerra</strong> anglo-boera (1899-1902), in cui 120-160 mila boeri<br />

furono deportati e concentrati, ad opera degli inglesi, in campi di concentramento:<br />

58 campi per bianchi e 66 per nativi. Incendiate fattorie e raccolti,<br />

la deportazione divenne la principale arma inglese per piegare la resistenza<br />

boera ed assumere il controllo della regione del Transvaal, ricca di<br />

giacimenti di minerali preziosi. Ci furono quarantamila morti fra i nativi,<br />

sacrificio poi negato dalla storiografia razzista afrikaner. Fra i boeri morirono<br />

di stenti e di malattia ventimila bambini, quattromila donne e 1676<br />

uomini 36 nella più completa inosservanza della Convenzione dell’Aja, pur<br />

firmata pochi mesi prima.<br />

3d. Cifre<br />

La deportazione femminile segue l’evoluzione del sistema concentrazionario<br />

e di <strong>sterminio</strong> nazista. Assai difficile risulta in ogni caso raggiungere cifre<br />

precise sull’ammontare delle deportate. Ma è possibile tentare almeno delle<br />

ricognizioni parziali.<br />

Al 15 gennaio 1945, secondo dati ufficiali, su 714.211 detenuti nei KZ,<br />

202.764 erano di sesso femminile 37 . Poco più di un terzo del totale quindi. A<br />

Ravensbrück, come si è già detto, furono immatricolate 125 mila donne, di<br />

cui 39 mila sopravvissero e 92 mila morirono.<br />

Per quanto riguarda i campi di <strong>sterminio</strong>, si possono fare solo ipotesi, data<br />

la grande massa di deportate che sono state sterminate senza lasciare alcuna<br />

traccia. “Il numero di donne tra gli altri milioni di morti rimarrà per sempre<br />

sconosciuto” 38 .<br />

Tra gli ebrei tuttavia, mentre gli uomini erano il 57% dei deportati dalla<br />

33 Bock, Il nazionalsocialismo…, p. 186.<br />

34 A. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 ad oggi. Storia, funzioni, tipologia, Torino,<br />

Bollati Boringhieri, 1997, p. 38.<br />

35 Kaminski, I campi di concentramento…, cit. p. 38.<br />

36 Deportazione e memorie femminili (1899-1953), a cura di B. Bianchi, Milano, Unicopli, 2002,<br />

p. 21.<br />

37 G. Pfingstein - C. Füllberg-Stolberg, Frauen in Konzentrationslagern – geschlechtsspezifische<br />

Bedingungen des Überlebens, in U. Herbert - K. Orth - Ch. Dieckmann, Die nationalsozialistischen<br />

Konzentration, II. Lager, Göttingen, 1998, p. 911.<br />

38 Bock, Il nazionalsocialismo…, p. 185.


Francia, il 53% dall’Italia, il 51% dal Belgio, le donne “furono nel computo<br />

finale più della metà delle vittime” 39 .<br />

Ad Auschwitz solo un terzo degli ebrei sopravvissuti erano donne, forse a<br />

causa di un minor numero di donne, rispetto agli uomini, immatricolate<br />

all’arrivo 40 .<br />

3e. Politiche di genere nei genocidi nazisti<br />

La presenza di una maggioranza femminile nella deportazione è una specificità<br />

sia del genocidio antiebraico sia del genocidio contro gli zingari. Fu<br />

una scelta consapevole del biorazzismo nazista quella di sterminare non<br />

anche ma innanzitutto donne e bambini, laddove le donne venivano intese<br />

come nemici razziali in quanto “contenitori”, fattrici di futuri e pericolosi<br />

“sottouomini”.<br />

“I principali specialisti del massacro non furono affatto ciechi nei confronti<br />

di tali aspetti relativi al genere che il genocidio assunse e, nel 1943,<br />

Himmler mise in guardia i suoi uomini delle SS e alti funzionari in un<br />

discorso che riassumeva precedenti riflessioni.<br />

Siamo giunti alla domanda: cosa dobbiamo fare con le donne e con i bambini? Ho<br />

deciso di trovare una soluzione chiara anche a questo. Infatti non mi sentivo giustificato<br />

a sterminare gli uomini – diciamo uccidendoli o facendoli uccidere – lasciando<br />

invece crescere dei vendicatori in forma di bambini.<br />

Perciò le donne ebree [e zingare] vennero uccise come donne, come generatrici<br />

di figli e madri della generazione successiva del loro popolo. Ma<br />

Himmler andò persino oltre mettendo le vittime di sesso femminile al centro<br />

della sua definizione di genocidio:<br />

Quando mi sono trovato costretto, in qualche villaggio, ad agire contro partigiani e<br />

contro commissari ebrei – dico questo solo in quest’ambiente, in quanto questa riflessione<br />

è riservata a quest’ambiente – allora, per principio, ho dato ordine di uccidere<br />

anche le donne e i figli di quei partigiani e commissari… Credetemi, dare o eseguire<br />

quell’ordine non è stato facile quanto concepirlo logicamente e dirlo in questa sala.<br />

Tuttavia, dobbiamo costantemente renderci conto del fatto che ci troviamo impegnati<br />

in una lotta razziale primitiva, primordiale, naturale .<br />

Qui il Rassenkampf nazionalsocialista, nella sua forma più estrema, veniva<br />

definito come una battaglia mortale di uomini non soltanto contro altri<br />

uomini – come in una tradizionale <strong>guerra</strong> militare – ma anche e soprattutto<br />

contro donne e bambini.<br />

Il significato di questa “lotta razziale” incentrata sulle donne è stato giustamente<br />

riconosciuto da alcuni storici come un elemento della singolarità del<br />

genocidio nazionalsocialista del popolo ebreo” 41 .<br />

4. In Italia<br />

4a. L’ 8 settembre 1943<br />

La data a quo della deportazione italiana è rappresentata da quell’8 settembre<br />

1943, giorno in cui venne reso pubblico l’armistizio di Badoglio con<br />

gli alleati e in cui la <strong>guerra</strong> sul territorio italiano occupato si inasprì sotto<br />

vari aspetti. L’8 settembre rappresenta una pluralità di significati per la storia<br />

della II <strong>guerra</strong> mondiale italiana ed è inoltre una data molto presente<br />

nella memoria nazionale come evento-trauma dalle tante facce.<br />

39 Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori…, cit., pp. 127 e 281.<br />

40 Hilberg, Carnefici, vittime, spettatori…, cit., p. 128.<br />

41 Bock, Il nazionalsocialismo…, cit., pp. 185-186.<br />

La deportazione delle donne<br />

97


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

98<br />

Può essere utile qui richiamare brevemente questi diversi aspetti dell’8 settembre.<br />

L’armistizio con gli alleati rappresenta un rovesciamento dell’alleanza<br />

con la Germania di Hitler con cui fino ad allora l’Italia aveva combattuto<br />

fianco a fianco. In questi stessi giorni lo stato fascista si sfascia completamente<br />

e così l’esercito, del tutto abbandonato dai propri Stati Maggiori.<br />

Il 9 settembre 1943 inoltre il re, la sua corte e il governo Badoglio con ignominia<br />

fuggono al sicuro al Sud abbandonando l’Italia nelle mani dei tedeschi,<br />

i quali da parte loro rispondono con l’occupazione militare del suolo italiano,<br />

operazione peraltro già pianificata fin dalla caduta di Mussolini del 25<br />

luglio. Tutta l’Italia tranne la parte a sud di Napoli cade così in mano alle<br />

truppe tedesche. Ma per il Litorale Adriatico e le Prealpi (provincie di<br />

Belluno, Treviso, Bolzano) si attua invece una occupazione diretta, quasi<br />

un’annessione.<br />

I tedeschi occupanti manifestano fin da subito una feroce volontà punitiva:<br />

reparti italiani che resistono al fuoco tedesco a Cefalonia e a Corfù in Grecia<br />

vengono massacrati. Circa seicentomila mila soldati sparsi su tutti i fronti<br />

vengono fatti prigionieri e poi da “internati militari” saranno impiegati come<br />

manodopera per il Reich. L’occupazione mette in opera sul territorio italiano<br />

uno sfruttamento senza limiti della manodopera e delle risorse esistenti<br />

e una repressione non esita a imboccare una politica di stragi ed eccidi dei<br />

civili – donne, uomini e bambini – lungo tutta la penisola, né ad attuare<br />

massicce deportazioni di ebrei e civili nei KZ.<br />

Sostenuta dal regime nazista nasce la Repubblica Sociale Italiana (23 settembre<br />

1943) con sede a Salò e con a capo Mussolini, liberato a Campo<br />

Imperatore dai tedeschi; la “brutale amicizia” fra i due governi nazista e<br />

repubblichino durerà fino alla fine della <strong>guerra</strong>; è la forma del collaborazionismo<br />

italiano. Contemporaneamente si sviluppa la resistenza armata contro<br />

il fascismo repubblicano e contro il tedesco occupante; viene istituito il<br />

Comitato Liberazione Nazionale il 9 settembre 1943 a Roma che unisce tutti<br />

i partiti antifascisti e che agisce con tecniche di guerriglia sul territorio<br />

occupato.<br />

Si sviluppano con pieno protagonismo delle donne forme di resistenza civile<br />

nella popolazione: opposizione non armata che favorisce la disubbidienza alle<br />

regole imposte dall’occupante, fornisce aiuto ai perseguitati ebrei e ai resistenti,<br />

sviluppa le “quotidiane virtù” del sostegno ravvicinato e personale.<br />

Ci sono ora sul suolo italiano tre governi “italiani”: quello Badoglio con il re<br />

(a Brindisi e poi Salerno, che il 13 ottobre 1943 dichiara la “cobelligeranza”<br />

dell’Italia a fianco degli Alleati); la RSI e il CLN; due governi stranieri (tedeschi<br />

e alleati) e tre eserciti (alleati, tedeschi, resistenza).<br />

4b. La deportazione italiana<br />

È in questo contesto di violenza generalizzata, di <strong>guerra</strong> civile, di illegalità<br />

diffusa, di vendetta e di pericoli di ogni genere che a partire dall’armistizio<br />

dell’8 settembre si svolge il dramma della deportazione italiana verso i<br />

campi di <strong>sterminio</strong> e verso i campi di concentramento nazisti. Dagli ultimi<br />

studi i trasporti dall’Italia risultano 288 42 . A partire dal 16 settembre 1943,<br />

data in cui si formò il primo convoglio partito da Merano con destinazione<br />

Auschwitz, fino al 6 maggio 1945, data dell’ultimo convoglio, hanno luogo sul<br />

territorio italiano sia la deportazione “razziale” che quella cosiddetta “politica”.<br />

La deportazione “razziale” degli ebrei italiani e stranieri residenti in Italia<br />

rappresenta il capitolo italiano della distruzione degli ebrei europei pro-<br />

42 I. Tibaldi, La geografia della deportazione italiana, in Lager, totalitarismo, modernità.<br />

Identità e storia dell’universo concentrazionario nazista, Milano, Bruno Mondadori, 2002, p.<br />

159. I dati sulla deportazione politica italiana provengono tutti dal lavoro di Italo Tibaldi.


La deportazione delle donne<br />

grammata dal nazismo. Gli ebrei italiani con la Carta di Verona (metà<br />

novembre 1943) della RSI, che li qualifica come cittadini nemici e stranieri,<br />

passano dalla “persecuzione dei diritti” in atto nei loro confronti dall’autunno<br />

del 1938 con le leggi razziste volute dal fascismo alla “persecuzione delle<br />

vite”. Avvengono arresti in massa di ebrei italiani e stranieri in tutta la<br />

penisola sia ad opera dei tedeschi sia con il fondamentale apporto della RSI,<br />

che attraverso l’Ordinanza di Polizia n. 5 del 30 novembre 1943, firmata<br />

dall’allora Ministro dell’Interno Buffarini Guidi, ordina a tutte le forze di<br />

polizia italiane l’arresto degli ebrei e il loro internamento in campi di concentramento<br />

appositamente attivati.<br />

Donne, uomini e bambini vengono rastrellati, arrestati, deportati ed infine<br />

avviati per l’eliminazione fisica in prevalenza al campo di <strong>sterminio</strong> di<br />

Auschwitz a partire dal settembre 1943. Lo scopo della deportazione razziale<br />

è lo <strong>sterminio</strong> premeditato di una cosiddetta “razza” considerata inquinante,<br />

pericolosa ed inferiore; ed è il frutto finale della politica razzista del<br />

nazismo ma anche del fascismo italiano. Questa politica sterminazionista<br />

coinvolgerà i 33 mila ebrei presenti sul territorio della nostra penisola nella<br />

misura del 27%.<br />

La percentuale degli arresti italiani è bassa, se raffrontata al resto d’Europa<br />

in cui la popolazione ebraica fu sterminata in massa, sia per la data tardiva<br />

con cui la persecuzione razzista si abbatté sull’Italia, sia per l’alto grado<br />

di assimilazione della popolazione ebraica italiana che poté ricevere aiuti<br />

dagli altri italiani e riuscire a nascondersi, sia per l’avanzare degli Alleati<br />

nella penisola, che liberarono il centro sud nel corso del 1944 abbreviando le<br />

sofferenze (clandestinità, vagabondaggio, timori di essere scoperti) degli<br />

ebrei ivi residenti.<br />

Tuttavia la percentuale di mortalità degli ebrei deportati dall’Italia è invece<br />

altissima: si va dal 92% al 99 %. Ciò è dovuto sia alle condizioni pessime<br />

in cui gli ebrei italiani – quelli che furono immatricolati – trovarono i Lager<br />

(intensificarsi dello sfruttamento economico, sovraffollamento, epidemie,<br />

ecc.), sia ad una loro particolare incapacità di adattamento, di cui fanno<br />

menzione molte memorie di uomini e di donne: non comprensione della lingua,<br />

quindi degli ordini (con conseguenti percosse, spesso fatali); disabitudine<br />

al freddo intenso dell’Europa continentale; difficoltà nel solidarizzare con<br />

prigionieri/e di altre nazionalità presenti nei Lager.<br />

Ma l’8 settembre è anche la data a quo della deportazione cosiddetta politica:<br />

vengono arrestati donne e uomini di variegata tipologia (semplici sospettati,<br />

renitenti alla leva, borsari neri, resistenti, rastrellati, scioperanti,<br />

ostaggi, accusati di sabotaggio, parenti di partigiani, perfino due testimoni<br />

di Geova rintracciati di recente da Italo Tibaldi, ecc.) e vengono poi spediti<br />

nei campi di concentramento tedeschi. Subiscono privazioni di ogni sorta:<br />

fame fino allo sfinimento totale, freddo, torture, uccisioni, processi di disumanizzazione.<br />

È previsto il loro sfruttamento schiavistico e la loro distruzione<br />

attraverso il lavoro forzato. Anche nella deportazione politica la mortalità<br />

italiana sarà altissima.<br />

Dopo l’8 settembre la minaccia di essere portati (e portate) “in Germania”,<br />

come si diceva allora, è presente fin da subito in maniera diffusa nella percezione<br />

della popolazione dell’Italia in <strong>guerra</strong> e non solo fra gli ebrei. Ma non<br />

si può dire che gli spostamenti a cui il Terzo Reich costringe fette della popolazione<br />

italiana risultino chiari a chi li vive e li subisce, anzi il più delle<br />

volte, visti dall’Italia occupata, questi movimenti appaiono caotici e contraddittori.<br />

Noi sappiamo oggi (come ho cercato di indicare nella prima<br />

parte della relazione) che il quadro generale degli spostamenti di popolazione<br />

in Europa si chiarisce e si ordina in base ai progetti politici del Terzo<br />

Reich e alle loro effettive realizzazioni. Accade spesso che lo storico esplori<br />

aspetti che ai testimoni risultano sconosciuti o addirittura non conoscibili.<br />

99


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

100<br />

In taluni casi storia e memoria si intrecciano ma possono talvolta anche collidere:<br />

ed è quello che accade nell’Italia occupata dai tedeschi. Nella percezione<br />

degli uomini e delle donne che stanno vivendo il “tempo di <strong>guerra</strong>”, la<br />

nozione del periodo si dilata e comprende esperienze e vicende anche molto<br />

diverse fra loro. Non solo perché la <strong>guerra</strong> è materialmente ovunque sul territorio<br />

dell’Italia occupata ma anche perché invade e permea tutti gli aspetti<br />

della vita quotidiana: lotta per sopravvivere, trovare da mangiare, bombardamenti,<br />

rastrellamenti, rappresaglie, sfollamento. La <strong>guerra</strong> “totale”<br />

modella in profondità mentalità, sentimenti, comportamenti e ideologie,<br />

perché “è il territorio mentale che è stato invaso dalla <strong>guerra</strong>” 43 .<br />

Eppure tanto più vividi sono i propri vissuti individuali, tanto più nell’insieme<br />

essi appaiono frantumati e dispersi. Le esperienze altrui tendono ad<br />

assumere tratti vaghi, imprecisi, restano lontane e sconosciute. La deportazione,<br />

“nella sensibilità generale non sfugge all’indefinitezza. Chi resta a<br />

casa percepisce l’andare “in Germania” come qualcosa di vago e lontano, “più<br />

come uno tra i tanti rischi del periodo che come lo sbocco di una persecuzione<br />

organica in atto da anni, o il prezzo della scelta di opporsi” 44 . Per i pochissimi<br />

deportati e deportate italiani destinati/e a sopravvivere –i più non torneranno-<br />

segnati per sempre dal trauma del contatto con il sistema concentrazionario<br />

nazista, si profila un ritorno tanto agognato quanto difficile.<br />

4c. Cifre<br />

I deportati italiani furono più di 40 mila (secondo le più recenti stime, precisamente<br />

44.488) 45 , cifra che comprende uomini e donne, ebrei e ‘politici’.<br />

Di questi 6881 donne, il 15,46% del totale. Ma le ebree deportate dall’Italia,<br />

come si è visto, furono invece quasi la metà. Circa trentamila furono i deportati<br />

cosiddetti politici. Loro mete prevalenti: Dachau e Mauthausen.<br />

Vittime della Shoah in Italia furono 7579 persone 46 , più un migliaio circa di<br />

dispersi di cui non si è riusciti a ricostruire l’identità. Per i deportati/e fu<br />

Auschwitz la meta prevalente. I deportati/e ebrei/e dall’Italia furono 6806,<br />

più 1819 persone (identificate) dai possedimenti italiani delle Isole Egee<br />

(Dodecaneso). Da Firenze i deportati/e sono stati più di trecento su una<br />

comunità di oltre duemila persone risultante al censimento del 1938.<br />

Nelle deportazione ebraica la percentuale delle donne è quasi la metà dei<br />

deportati, come si è già visto. Più precisamente in Italia ci sono: 3202 deportate<br />

di sesso femminile (408 sopravvissute) e 3169 deportati di sesso<br />

maschile (429 sopravvissuti), più 6 ignoti. Fra i deportati ebrei dall’Italia<br />

più di 700 bambini, quasi tutti uccisi all’arrivo ad Auschwitz.<br />

Le donne deportate italiane finiscono per lo più a Ravensbrück, se sono le<br />

cosiddette ‘politiche’ o ebree miste. Ma per le ebree italiane con i loro figli,<br />

piccoli o neonati, la meta principale è la camera a gas di Auschwitz-<br />

Birkenau.<br />

43 R. Prezzo, La seconda <strong>guerra</strong> mondiale sul filo della memoria. Memoria e soggettività rammemorante.<br />

Il fondo La mia <strong>guerra</strong>, in “L’impegno. Rivista di storia contemporanea. Aspetti<br />

politici, economici, sociali e culturali del Vercellese, del Biellese e della Valsesia”, Borgosesia,<br />

Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea “Cino Moscatelli”, aprile<br />

1993, p. 41.<br />

44 A. Bravo - D. Jalla, Presentazione a La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti<br />

di duecento sopravvissuti, a cura di A. Bravo - D. Jalla, Milano, Angeli, 1986, p. 23.<br />

45 Tibaldi, La geografia della deportazione italiana, cit., p. 168.<br />

46 L. Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano,<br />

Mursia, 2001 (I ed.:1991), pp. 28 e 33. Tutti i dati sulla deportazione “razziale” italiana qui<br />

presentati sono tratti dal libro della Picciotto.


5. La deportazione femminile<br />

La deportazione delle donne<br />

5a. Qualità originarie della memoria dei lager nazisti<br />

Nel tracciare le Conclusioni ad un convegno sulla deportazione delle donne<br />

(tenuto a Torino nell’ottobre 1994), il primo in Italia su queste tematiche,<br />

Lidia Beccaria Rolfi con una certa ironica leggerezza che le era tipica, al<br />

momento dei ringraziamenti commenta:<br />

“Non posso dire grazie ai giornalisti, perché in questi due giorni non ce ne<br />

sono stati, o se c’erano non hanno ritenuto l’argomento sufficientemente<br />

interessante da essere ripreso e commentato sui loro giornali. Avrebbero<br />

raccontato soltanto la storia delle donne deportate, di neonati e di bambini<br />

e, si sa, la storia vera la fanno gli uomini, è destinata agli uomini…” 47 .<br />

Sfuggivano allora alla stampa italiana sia la novità scientifica sia gli inediti<br />

memorialistici del convegno di Torino.<br />

Ma per chi conosce queste tematiche questo non è un elemento sorprendente<br />

perché quel silenzio di otto anni fa si saldava alla vera e propria rimozione<br />

sotto cui la deportazione tutta, non solo quella femminile, era stata seppellita<br />

per tanti decenni sfuggendo sia alla ricerca storiografica sia alle istituzioni<br />

che avrebbero dovuto occuparsene sia all’uso pubblico della storia<br />

nazionale. La precarietà e l’approssimazione che ancora oggi caratterizzano<br />

la ricostruzione dell’aspetto quantitativo della deportazione rappresentano<br />

un segnale inquietante del disinteresse e dell’incuria verso questa realtà da<br />

parte delle istituzioni civili e della storiografia ufficiale, non disponibili ad<br />

integrare la vicenda della deportazione nella “esperienza collettiva della<br />

società italiana negli anni della seconda <strong>guerra</strong> mondiale” 48 .<br />

Malgrado oggi la memoria della deportazione possa essere considerata una<br />

presenza forte 49 all’interno del discorso pubblico non solo italiano, tuttavia<br />

sono in essa presenti i connotati di un ricordo che non è mai stato pacificato<br />

e la cui conflittualità è costituiva ed originaria. Il “laido conato dei revisionisti”<br />

e dei negazionisti di oggi è strettamente connesso, come notava acutamente<br />

Primo Levi, alla coscienza del “colpevoli di ieri” 50 che, mentre perseguivano<br />

le politiche di <strong>sterminio</strong> a vari livelli, pure nel contempo si sforzavano<br />

di nasconderne e camuffarne le tracce a partire dall’utilizzo di un<br />

linguaggio burocratico spersonalizzato e asettico. “Soluzione finale”, “trattamento<br />

speciale”, “eutanasia”, “squadra speciale”, “Ufficio centrale per la<br />

sicurezza del Reich”: sono tutte espressioni eufemistiche che suggeriscono<br />

da una parte la neutralità apparente delle procedure burocratiche e dall’altra<br />

il desiderio di mantenere il segreto sullo <strong>sterminio</strong>. Allo stesso modo<br />

all’avvicinarsi dei nemici, i nazisti per nascondere la realtà criminale dei<br />

lager non esitarono a distruggerne materialmente le prove minando forni<br />

crematori e camere a gas e facendo roghi dei documenti.<br />

Questo tentativo di estirpare la memoria stessa dei propri crimini si esercitava<br />

già nei Lager contro i prigionieri dove la memoria veniva combattuta<br />

esplicitamente. I detenuti non avevano diritto di scrivere (era punibile con<br />

la morte) e venivano ammoniti e scherniti: nessuno avrebbe creduto a ciò<br />

che stava accadendo né alle loro sofferenze. Portare testimonianza di ciò che<br />

si era vissuto e portare memoria dei compagni e delle compagne morte vice-<br />

47 Beccaria Rolfi, Conclusioni, in La deportazione femminile…, cit., p. 161.<br />

48 E. Collotti, Universo concentrazionario e Shoah, “Passato e presente”, n. 38, 1996, p. 171.<br />

49 Fin dai primi anni ‘90 è emersa da parte degli storici una critica all’abuso di memoria. Viene<br />

denunciato a ragione quanto certe “vacche grasse” relativamente alla memoria della Shoah<br />

rappresentino oggi “una merce dell’industria culturale” (cfr. Cavaglion, Ebrei senza saperlo,<br />

Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2002, p. 41). Occorre tuttavia non dimenticare che a lungo<br />

invece le cose sono andate assai diversamente.<br />

50 P. Levi, Prefazione a La vita offesa…, cit., p. 7.<br />

101


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

102<br />

versa sembra essere diventata un’istanza prepotente fin da dentro il Lager,<br />

per uomini e donne indistintamente.<br />

I testimoni-vittime dell’universo concentrazionario nazista percepiscono che<br />

ciò che stanno vivendo appartiene ad una realtà distruttiva così estrema che<br />

la stessa lingua materna non sembra poter contenere né la dimensione della<br />

catastrofe né tutto l’orrore di cui si è vittime. “Come questa nostra fame non<br />

è la sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di avere freddo<br />

esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo ‘fame’, diciamo ‘stanchezza’,<br />

diciamo ‘paura’ e ‘dolore’, diciamo ‘inverno’ e sono altre cose. Sono parole<br />

libere, create, usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle<br />

loro case. Se i lager fossero durati più a lungo, un nuovo più aspro linguaggio<br />

sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare<br />

l’intera giornata nel vento, sotto zero, con indosso solo camicia, mutande,<br />

giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della<br />

fine che viene” 51 .<br />

Dinanzi all’estremo il linguaggio diventa opaco e sembra non servire più.<br />

Pur tuttavia è proprio da queste condizioni limite che emerge il prepotente<br />

desiderio di testimoniare, di portare nel mondo la “mala novella”, di<br />

essere ascoltati, creduti e capiti. Si sogna di raccontare ai propri cari, se e<br />

quando si ritroveranno quel che si è passato. Ma si vuole anche portare<br />

testimonianza per i compagni e le compagne che non sono tornati e che<br />

sono i più. La memoria europea dei reduci dai Lager nazisti rappresenta<br />

fin da subito un’istanza di giustizia e gli italiani e le italiane non fanno<br />

eccezione.<br />

5b. Il ritorno<br />

Una <strong>guerra</strong> così totalizzante e pervasiva come la seconda <strong>guerra</strong> mondiale<br />

lascia molti reduci. Anzi in un certo senso ciascuno e ciascuna sono reduci<br />

da una qualche dura realtà anche nel caso in cui non si siano mai mossi da<br />

casa propria, perché il coinvolgimento dei civili ovunque sul territorio rappresenta,<br />

come si è visto, proprio una delle novità di questa <strong>guerra</strong>. Nel<br />

dopo<strong>guerra</strong> italiano la varietà e quantità di reduci pone anche problemi seri<br />

di scelte politiche, perché i reduci sono tanti, troppi e soprattutto troppo<br />

diversi fra loro. Combattenti e prigionieri della <strong>guerra</strong> contro gli angloamericani,<br />

partigiani e perseguitati politici, internati militari, deportati politici<br />

e ‘razziali’, reduci di Salò e gli stessi civili provati da sfollamenti, bombardamenti,<br />

stragi e rappresaglie sono tutti reduci.<br />

Questa pluralità di esperienze che la <strong>guerra</strong> ha comportato viene invece nel<br />

discorso pubblico accantonata con un tacito accordo. Prevale nella repubblica<br />

che nasce dalla Resistenza, almeno nell’immaginario, la figura del partigiano,<br />

maschio e armato, cui “ogni donna dona un sospir”, come dice la canzone.<br />

È lui il protagonista vincente dell’immaginario collettivo. Figure inermi<br />

e piegate, come i deportati e le deportate, restano sullo sfondo.<br />

Nel grande crogiuolo che è l’Italia del dopo<strong>guerra</strong> la qualità traumatica dei<br />

vissuti si traduce fin da subito in un nuovo tessuto di narrazioni, che troverà<br />

espressione nel neorealismo cinematografico e poi anche in letteratura.<br />

“Allora tutti erano carichi di storie da raccontare, ognuno aveva vissuto la<br />

sua, aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava<br />

la parola di bocca” 52 .<br />

In questa “smania” di narrazioni tutti hanno condotto la loro “propria<br />

<strong>guerra</strong>” 53 e desiderano raccontarla: i reduci, come quelli rimasti a casa,<br />

51 P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1973, p. 164.<br />

52 I. Calvino, Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964 (I ed.: 1947), p. VI.<br />

53 “Dove erano i tempi del passato, della noiosa vita d’ogni giorno, con un marito, una casa, e nulla<br />

che toccasse il cuore? Ora bisognava condurre la propria <strong>guerra</strong>, soli, in un mondo ostile, pieno<br />

di imboscate e di terrori.” (C. Levi, L’orologio, Torino, Einaudi, 1989 (I ed.: 1950), p. 28.


La deportazione delle donne<br />

danno vita a questo “multicolore universo di storie” 54 .<br />

Ma i pochi e le poche sopravvissuti/e ai lager nazisti, i reduci dall’estremo,<br />

non appaiono certo come portatori della spavalda allegria resistenziale a cui<br />

allude Italo Calvino. Chi ha vissuto quell’esperienza, malgrado una così<br />

forte determinazione alla testimonianza, mossa da una necessità interna di<br />

rendere partecipi gli altri di “tanta morte” 55 e di un tale disastro morale, si<br />

trova invece a lottare per farsi ascoltare, beninteso quando ne abbia ancora<br />

la forza. Nel “multicolore universo di storie” del variegato dopo<strong>guerra</strong> italiano<br />

i reduci dai lager nazisti non trovano l’ascolto necessario.<br />

L’universo concentrazionario non può inserirsi in strutture narrative preesistenti,<br />

non appartiene al picaresco, né al mondo dell’avventura. Si tratta<br />

al contrario di sequenze tragiche di una sostanza troppo radicale e nuova<br />

per poter essere condivisa. Inoltre ostacolano la narrazione egemonica e<br />

trionfale dell’antifascismo resistenziale. L’intera memoria della deportazione<br />

porta i segni pesanti di questo rifiuto tanto più penoso perché ribadisce<br />

l’impossibilità di integrare l’esperienza concentrazionaria nella propria esistenza<br />

e ne esalta l’incomunicabilità. L’ambiente che i deportati e le deportate<br />

trovano al loro ritorno, e non solo in Italia, sembra proferire sempre la<br />

stessa richiesta: di tacere o almeno di considerare la propria deportazione<br />

una parentesi. Il momento del ritorno è una lacerazione dolorosa nella vita<br />

degli ex deportati anche perché il non ascolto è intrecciato con la immensa<br />

scommessa di reinserirsi in una vita ‘normale’ affettiva e lavorativa che il<br />

lager ha spezzato.<br />

I racconti di questo ostico ritorno affiorano tardi nei convegni e nella memorialistica,<br />

come se soltanto a distanza di tanti anni fosse possibile mettere<br />

in parole, ancorché tanto amare, l’esperienza del non poter comunicare<br />

anche ai propri cari “ciò che è stato”. Quando Liana Millu ebrea di origine<br />

pisana e resistente deportata ad Auschwitz nel 1945 fa ritorno a casa da<br />

Birkenau tenta invano di raccontare a sua zia: “Qualche volta le venivano<br />

gli occhi lucidi. Ma mi interrompeva sempre. Sovrapponeva i miei ricordi ai<br />

suoi, che erano quelli di una sfollata e a lei sembravano tremendi, a me sembravano<br />

acqua di rose. Cominciavo già a convincermi che la gente non poteva<br />

capire” 56 .<br />

Si scavano proprio con i familiari le incomprensione più difficili da accettare.<br />

Così Lidia Beccaria Rolfi: “Capii che non avrei potuto raccontare. Non si<br />

racconta la fame, non si racconta il freddo, non si raccontano gli appelli, le<br />

umiliazioni, l’incomunicabilità, la disumanizzazione, il crematorio che fuma,<br />

l’odore di morte nei blocchi, la voglia di solitudine, il sudicio che entra nella<br />

pelle e ti incrosta” 57 .<br />

E per le donne emerge un di più di disagio e di vergogna, che travalica la difficoltà<br />

di farsi ascoltare che anche gli ex deportati incontrano e che ha a che<br />

vedere con il sospetto di violazione sessuale e con la perdita della buon reputazione,<br />

necessaria più che mai nella biografia femminile tradizionale.<br />

Lidia Beccaria Rolfi non può confessare a sua madre contadina “una donna<br />

all’antica che aveva sempre lavorato” che ha viaggiato senza mutande, perché<br />

si scandalizzerebbe 58 . La verità è che la madre di Lidia già si vergogna<br />

della figlia. Un giorno esplode e la esorta ad andare a confessarsi e a pensare<br />

al suo avvenire, che di stranezze ne ha già fatte abbastanza. L’accusa<br />

implicita è di essersi inutilmente esposta impicciandosi nella politica in con-<br />

54 Calvino, Prefazione a Il sentiero…, cit., p. VI.<br />

55 J. Semprun, La scrittura o la vita, Parma, Guanda, 1996, pp. 39 e 115.<br />

56 L. Millu, Guardare in un fondo dove strisciano i serpenti, in Il ritorno dai Lager, a cura di A.<br />

Cavaglion, Milano, Angeli, 1993, p. 55.<br />

57 Beccaria Rolfi (Mondovì 1926-1996), L’esile filo della memoria. Ravensbrück 1945: un drammatico<br />

ritorno alla libertà, Torino, Einaudi, 1996, p. 115.<br />

58 Beccaria Rolfi, L’esile filo…, cit., p. 115.<br />

103


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

104<br />

trasto con il tradizionale ruolo domestico di starsene tranquilla dentro le<br />

mura di casa: “Prima vai coi partigiani, poi in Germania… Sei lo scandalo<br />

della famiglia… Pensa un po’ al tuo avvenire e vai a confessarti, fatti vedere<br />

in Chiesa, da quando sei tornata non sei ancora andata a Messa” 59 . Anche<br />

le amiche di infanzia di Mondovì la schivano, perché è stata in Germania,<br />

né lei si trova bene con i suoi coetanei, perché “parlavano di cinema, di attori,<br />

di cantanti che non conoscevo; non parlavano mai della <strong>guerra</strong>, come se<br />

non l’avessero vissuta” 60 . La stessa diffidenza Lidia sperimenta nel 1946,<br />

persino da parte di un famoso comandante partigiano che “subito dopo le<br />

presentazioni” le dice: “Deportata? Le partigiane si fanno uccidere, non si<br />

fanno prendere prigioniere!” 61 .<br />

Talvolta a carico delle donne anche un di più di morbosità. Dora Venezia,<br />

ebrea genovese reduce da Auschwitz, giunge alla stazione Principe di<br />

Genova il 22 settembre 1945. Ha la pancia gonfia per la denutrizione. Così<br />

racconta: “Trovai un prete che si stava occupando dello smistamento di tutti<br />

quelli che ritornavano in città; mi presentai e lui, vedendo la mia pancia<br />

gonfia, mi disse: -Tu vai da quello che ti ha messa incinta…!- Non potevo<br />

credere alle mie orecchie. Lo lasciai perdere e mi misi a dormire per terra<br />

nella stazione” 62 .<br />

Alle difficoltà di comunicazione con il proprio ambiente si aggiungono le<br />

vistose inadempienze dello stato italiano, privo di qualsiasi forma di attenzione<br />

e di tutela fino al 1968.<br />

In chi è tornato dai lager tutto induce alla rabbia e al silenzio. Nei primi<br />

tempi del ritorno si consuma un passaggio importante: l’esperienza vissuta<br />

è difficile da raccontare ma soprattutto non ne vale la pena, perché ci si<br />

scontra con domande stupide, con l’incredulità, con morbosità insopportabili.<br />

“Soprattutto si ha l’impressione netta che non interessi a nessuno” 63 .<br />

D’altro canto la società civile e politica italiana perdono un’occasione cruciale,<br />

perché la portata del genocidio e la sua traduzione nel sistema concentrazionario<br />

e di <strong>sterminio</strong>, come fulcro dell’ideologia e del regime nazista<br />

(ma non solo in Italia) vengono oscurate. Occorrerà molto tempo perché i<br />

tratti del nazismo vengano connessi con la fisionomia delle società moderne<br />

e si comprenda come forme di razionalità produttiva, tecnologica ed amministrativa<br />

configurino in modi nuovi ed inquietanti l’etica pubblica e la<br />

responsabilità morale dei singoli.<br />

L’offuscamento di tutte queste questioni, il prevalere della convinzione che<br />

il nazismo con le sue politiche di genocidio e di <strong>sterminio</strong> rappresentasse<br />

una degenerazione inaspettata, una regressione dell’Occidente piuttosto che<br />

un suo figlio pienamente legittimo, “uno dei suoi prodotti possibili” 64 , non<br />

solo ha permesso l’isolamento e la sensazione di esclusione degli deportati e<br />

delle deportate e il riaffiorare di derive revisionistiche e negazionistiche ma<br />

ha impedito la costruzione sociale di una identità europea che sapesse precocemente<br />

fare tesoro della rilevanza epocale, traumatica ma rivelatrice,<br />

della Shoah.<br />

5c. Memorialistica femminile della deportazione italiana<br />

Nel primo dopo<strong>guerra</strong>, come si è visto, per chi è reduce dai Lager nazisti si<br />

apre un periodo tormentato e infelice. Le ragioni psicologiche di un doloroso<br />

senso di colpa per essere tornati/e, mentre molti ex compagni e compagne di<br />

59 Beccaria Rolfi, L’esile filo…, cit., p. 133.<br />

60 Ibid., p. 139.<br />

61 Ibid., p. 143.<br />

62 Una gioventù offesa. Ebrei genovesi ricordano, a cura di C. Bricarelli, Firenze, Giuntina, 1995,<br />

p. 137.<br />

63 Bravo - Jalla, Prefazione a La vita offesa…, cit., p. 44.<br />

64 Traverso, La violenza nazista, cit., p. 180.


La deportazione delle donne<br />

sventura non ce l’hanno fatta, si sommano a quelle più quotidiane legate ad<br />

un tormentoso reinserimento familiare, lavorativo, sociale ed affettivo.<br />

Eppure molti ex deportati e ex deportate italiane invece di murarsi in un<br />

ostinato silenzio, compiono da subito appena tornati un grande sforzo di<br />

comunicazione tanto più notevole perché solitario, non sostenuto dai partiti<br />

né dallo stato né da case editrici o altre istituzioni culturali né dall’opinione<br />

pubblica. In molti scrivono la loro esperienza. D’altro canto lo sforzo di<br />

memoria tutto a carico dei sopravvissuti caratterizzerà a lungo lo statuto<br />

culturale e storiografico della deportazione italiana. La relativa copiosità di<br />

questa produzione non deve trarre in inganno sulla reale permeabilità della<br />

società italiana all’esperienza dello <strong>sterminio</strong>. Anche quando questi libri<br />

costituiscono anche ottima letteratura, come è il caso di Se questo è un uomo<br />

di Levi, tuttavia non tessono memoria collettiva. Gli ex deportati mettono<br />

per iscritto la loro esperienza come tentativo di instaurare relazioni con chi<br />

non ha conosciuto la realtà concentrazionaria e di connettere la loro nuova<br />

identità di superstiti con il proprio presente di incertezza e spesso di solitudine.<br />

Inoltre cercano di elaborare il lutto per i compagni e le compagne<br />

morte.<br />

Tra il 1944 e il 1947 stesi rapidamente sotto la spinta di una grande urgenza<br />

emotiva escono ben 28 scritti di memoria sulla deportazione dall’Italia,<br />

precisamente 11 nel 1945; quattordici nel 1946; tre nel 1947 65 . La circolazione<br />

di questi libri è così bassa da non assicurare neanche la diffusione su<br />

tutto il territorio nazionale. Si diffondono solo in ambiti ristretti, fortemente<br />

autoreferenziali e localistici, frutto di un associazionismo tra ex deportati<br />

in via di formazione, attivo committente e destinatario insieme di queste<br />

pubblicazioni. Tra queste memorie italiane cinque sono di donne. Dal 1948<br />

al 1952 non usciranno altre memorie: sono gli anni della <strong>guerra</strong> fredda, del<br />

centrismo e del silenzio, a cui farà seguito una più feconda stagione comunicativa.<br />

Tuttavia le donne ex deportate hanno scritto in generale assai<br />

meno dei loro compagni. Su 149 memorie (censite fino al 1993) una ventina<br />

soltanto sono di donne.<br />

5d. Le prime memorie femminili della deportazione italiana<br />

L’accoglienza che le prime memorie di donne italiane deportate trovano è<br />

esigua e in questo, come si è visto, non differiscono dalle memorie maschili.<br />

Le donne hanno raccontato meno la loro vicenda di deportazione perché l’attenzione<br />

istituzionale ed editoriale nei loro confronti era assai bassa ed agivano<br />

verso di loro criteri ancora più selettivi di quelli applicati ai testi<br />

maschili. Occorrerà attendere l’affermazione radicale della soggettività femminile<br />

con i movimenti femministi degli anni settanta perché la deportazione<br />

delle donne esca dall’ombra con la pionieristica opera di storia orale, Le<br />

donne di Ravensbrück 66 , scritta a quattro mani dall’ex deportata Lidia<br />

Beccaria Rolfi, qui già ricordata, e da una insegnante e storica sensibile<br />

all’uso delle fonti orali, Anna Maria Bruzzone.<br />

Tanto più preziose risultano le testimonianze di Frida Misul, Luciana<br />

Nissim, Alba Valech, Giuliana Tedeschi, Liana Millu, uscite nel primo dopo<strong>guerra</strong><br />

67 , proprio perché la loro esistenza è contrassegnata da una maggio-<br />

65 Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, a cura di<br />

A. Bravo - D. Jalla Milano, Angeli, 1994. Tutti i dati quantitativi sulla memorialistica italiana<br />

contenuti nella presente relazione sono tratti da questo prezioso volume.<br />

66 L. Beccaria Rolfi - A.M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche<br />

italiane, Torino, Einaudi, 1978.<br />

67 F. Misul, Fra gli artigli del mostro nazista. La più romanzesca delle realtà, il più realistico dei<br />

romanzi, Livorno, Stabilimento Tipografico Belforte, 1946. L. Nissim, Ricordi della casa dei<br />

morti, in L. Nissim - P. Lewinska, Donne contro il mostro, Torino, Ramella, 1946. A. Valech<br />

Capozzi, A 24029, Siena, Società An. Poligrafica, 1946. G. Fiorentino Tedeschi, Questo povero<br />

105


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

106<br />

re straordinarietà rispetto alle memorie maschili coeve. Cinque libri costituiscono<br />

un corpus piccolo, che tuttavia può ben prestarsi ad una indagine<br />

tematica ravvicinata – quanto cercherò di proporre qui – per una sua certa<br />

compattezza interna non derivante solo dal genere delle scrittrici ma anche<br />

da altri fattori.<br />

Intanto tutte e cinque queste memorie escono in uno spazio di tempo assai<br />

breve: tra il 1946 e il 1947. Ciò significa che queste cinque donne, appena<br />

tornate dal Lager hanno composto subito i loro libri e li hanno portati a termine<br />

anche con una notevole rapidità di stesura. Inoltre le cinque autrici<br />

sono assai vicine per età anagrafica, perché sono tutte nate prima degli anni<br />

venti; più precisamente Liana Millu e Giuliana Fiorentino Tedeschi nel<br />

1914; nel 1916 Alba Valech Capozzi; nel 1919 Luciana Nissim e Liana Millu.<br />

Nessuna di loro è giovanissima al momento della deportazione. Alba Valech<br />

e Giuliana Fiorentino Tedeschi hanno già formato una loro famiglia.<br />

Giuliana Tedeschi è riuscita a mettere in salvo a casa le due figlie piccole<br />

che poi si salveranno per la prontezza e la generosità della domestica che le<br />

nasconde. Luciana Nissim è già medico. Frida Misul è una cantante e Liana<br />

Millu resistente come la Nissim (arrestata insieme a Primo Levi) prima<br />

delle leggi razziali faceva già la maestra.<br />

Inoltre tutte e cinque sono ebree e hanno già vissuto e subito nella loro<br />

prima giovinezza le leggi “razziali” con le loro restrizioni e privazioni.<br />

Insomma si tratta di donne giovani ma che hanno già compiuto una certa<br />

maturazione. L’esperienza del lager piomba su di loro come un trauma<br />

potentissimo ma rispetto al quale per età e condizioni sembrano possedere<br />

strumenti di comprensione e di elaborazione che favoriranno il loro passaggio<br />

verso la scrittura.<br />

L’appartenenza all’ebraismo gioca altresì un ruolo non estemporaneo per<br />

quanto riguarda l’accesso alla scrittura delle donne sia per il valore attribuito<br />

allo studio e all’istruzione anche per le ragazze, che caratterizza il percorso<br />

di assimilazione dell’ebraismo italiano, sia per la presenza nei primi<br />

decenni del novecento di una tradizione di scrittrici ebree 68 . Anche fra le<br />

nostre memorialiste due sono laureate, Luciana Nissim e Giuliana Tedeschi;<br />

Liana Millu è maestra, ma aspira a fare la giornalista già prima del tornante<br />

dell’8 settembre 1943.<br />

Inoltre se dapprima sono le reduci ebree in Italia a scrivere c’è un’altra<br />

ragione, più interna, riconducibile a categorie di genere. Per le ex deportate<br />

“politiche” nel dopo<strong>guerra</strong> italiano ci sono maggiori difficoltà a raccontare,<br />

perché lo scarto dal loro ruolo tradizionale domestico è percepito non come<br />

risultato “incolpevole” di una persecuzione generalizzata ma come frutto di<br />

una scelta di impegno politico (e per molte lo è), scelta che in molti casi viene<br />

sanzionata negativamente. “La gente mi guardava con sospetto, quando il<br />

nome di Ravensbrück non si conosceva. Delle donne che tornavano dalla<br />

Germania, che non erano ebree, e che si erano occupate di cose non adatte<br />

alle donne, si diceva – Chissà cosa avevano fatto! –. Le storie che raccontavano<br />

[le ex deportate politiche] probabilmente erano inventate per nascondere<br />

un passato oscuro, un passato di vergogna…” 69 .<br />

corpo, Milano, Editrice Italiana, 1946. L. Millu, Il fumo di Birkenau, Firenze (I ed.: Milano,<br />

1947), Giuntina, 1986. Il memoriale della ex deportata politica polacca Pelagia Lewinska<br />

sopracitato è la traduzione italiana dell’edizione francese (traduzione a sua volta dal polacco<br />

originario) dal titolo, Vingt mois à Auschwitz, Paris, 1945.<br />

68 Cavaglion, Ebrei senza saperlo, cit., p. 99. Si tratta in particolare di autrici di letteratura per<br />

l’infanzia: Paola Carrara Lombroso, Gina Lombroso, Virginia Tedeschi Treves, Laura Cantoni<br />

Orvieto, Ida Finzi (Haydée), Lina Schwarz, Luisa Cohen Enriquez, Marta Ottolenghi<br />

Minerbi, Amelia Rosselli.<br />

69 Beccaria Rolfi, Conclusioni, in La deportazione femminile…, cit., p. 157.


La deportazione delle donne<br />

Per le ebree invece in questo senso è più semplice. Intanto la natura del<br />

genocidio sia pure oscuramente man mano che passano i mesi diventa nota.<br />

Inoltre le comunità ebraiche italiane giocano un ruolo importante in questa<br />

fase: danno e cercano notizie dei dispersi, provvedono ai profughi che transitano<br />

in Italia, organizzano le partenze per chi voglia emigrare in<br />

Palestina, lavorano al recupero dei beni ebraici sequestrati 70 . Insomma<br />

costituiscono un punto di riferimento materiale a supplenza di istituzioni<br />

latitanti, ma soprattutto funzionano come luogo di accoglimento primo della<br />

Shoah italiana e della sua memoria, anche femminile. Mettono insieme<br />

documenti, fotografie; stilano elenchi delle vittime e raccolgono testimonianze<br />

che poi costituiranno il primo nucleo del patrimonio archivistico dell’attuale<br />

CDEC. Chi era ebrea ed era stata deportata poteva avere avuto la<br />

famiglia decimata ed esperienze durissime, ma almeno nell’alveo di minoranza<br />

delle comunità ebraiche italiane non poteva essere fraintesa.<br />

Altro fattore di uniformità per queste prime memorie femminili di deportazione<br />

è costituito dall’itinerario concentrazionario omogeneo. Pur arrestate<br />

tutte in luoghi diversi e dopo una permanenza nelle carceri locali italiane,<br />

le memorialiste qui in esame sono tutte passate da Fossoli e da lì poi<br />

ad Auschwitz Birkenau. La Nissim è la prima delle cinque a partire per la<br />

Polonia. Arrestata dalla milizia di Aosta a Brusson con Primo Levi e<br />

Vanda Maestro il 13 dicembre 1943, viene poi tradotta a Fossoli e da lì<br />

deportata ad Auschwitz con il convoglio del 22 febbraio 1943. Ha venticinque<br />

anni. Giuliana Fiorentino Tedeschi è arrestata a Torino l’8 marzo<br />

1944, insieme con il marito Giorgio Tedeschi (che morirà durante la marcia<br />

di evacuazione da Auschwitz) e la suocera Eleonora Levi (uccisa all’arrivo).<br />

Parte da Fossoli il 5 aprile 1944: compirà trent’anni dopo quattro<br />

giorni. Come militante di un’organizzazione antifascista, Liana Millu<br />

viene arrestata a Venezia il 7 marzo 1944. Anche lei ha quasi trent’anni.<br />

Quando la sua identità di ebrea viene scoperta, è inviata a Fossoli e da lì<br />

parte per Auschwitz con il convoglio del 16 maggio 1944 che è poi lo stesso<br />

su cui viaggia anche Frida Misul, venticinquenne di Livorno, arrestata<br />

il 1° aprile 1944 ad Ardenza. Le due deportate, entrambe future memorialiste,<br />

entrano insieme ad Auschwitz e sono immatricolate una dopo l’altra,<br />

con il numero di matricola A 5383 attribuito a Frida Misul e il numero A<br />

5384 a Liana Millu.<br />

Le vicende relative alla liberazione e ai rimpatri invece sono per queste cinque<br />

donne molte più frastagliate che all’andata. Nessuna di loro è a<br />

Auschwitz quando il campo è raggiunto dai russi il 27 gennaio 1945, perché<br />

chi prima e chi dopo sono state tutte trascinate verso occidente dal ripiegare<br />

nazista del fronte. Scampate alla morte nel Lager, ognuna di queste<br />

donne torna a casa e si trova drammaticamente a fare i conti con il proprio<br />

reinserimento privato e sociale. Qualcuna riprende il suo posto in una realtà<br />

immutata, come Frida Misul. Altre devono confrontarsi con gravi lutti.<br />

Giuliana Fiorentino è ora vedova con due figlie piccole e deve darsi molto da<br />

fare per mantenerle, come lei stessa racconta 71 . Alba Valech ha perso gran<br />

parte della sua famiglia nella Shoah: padre, madre, una sorella e un fratello<br />

più piccolo ma almeno ritrova l’amato marito. Liana Millu è sola e il tentativo<br />

di tornare a vivere con la zia a Pisa non funziona. Luciana Nissim che<br />

sembra aver conservato un ricordo meno traumatico del proprio ritorno<br />

rispetto alle altre, tuttavia come una sorta di riparazione simbolica si iscrive<br />

a pediatria, scelta che “c’entra col campo, perché avevo visto morire tanti<br />

70 L. Picciotto Fargion, La ricerca del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, in<br />

Storia e memoria della deportazione. Modelli di ricerca e di comunicazione in Italia e in<br />

Francia, a cura di P. Momigliono Levi, Firenze, Giuntina, 1996, p. 55.<br />

71 La vita offesa…, cit., p. 363.<br />

107


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

108<br />

bambini, avevo saputo di neonati uccisi dalle dottoresse per nasconderli ai<br />

tedeschi e salvare la madre” 72 .<br />

Come risulta anche da queste poche notizie, le vicende del reinserimento, un<br />

esito positivo del proprio ritorno, dipendono molto anche dalle risorse individuali<br />

di ciascun ex deportato e deportata, dalla solidarietà e dalla solidità<br />

familiare, dal carattere e dalle condizioni fisiche. In questa varietà di esiti<br />

ciò che accomuna le nostre memorialiste è proprio la scelta della scrittura,<br />

apparentemente antieconomica per chi aveva già tanti problemi, in realtà<br />

decisiva per molte ragioni.<br />

Nei Ponti di Schwerin il romanzo autobiografico che Liana Millu ha dedicato<br />

alle difficoltà del suo ritorno da Birkenau, nel momento cruciale dei fallimenti<br />

della protagonista, quando tutte le aspettative vanno amaramente<br />

deluse, l’unico punto di forza in grado di contrastare l’autodistruzione è un<br />

Tagebuch gualcito “con la copertina di finto coccodrillo e la serratura antindiscreti”<br />

73 . Raccolto in una vecchia cantina tedesca pochi giorni dopo la liberazione,<br />

ha accompagnato Elmina (la protagonista del libro, alter ego di<br />

Liana nella scrittura) durante il lungo rimpatrio, ne ha seguito passo passo<br />

tutte le disillusioni e alla fine davanti alla tentazione del suicidio diventa<br />

simbolo di una “vivida schiarita interna”, che è la rinnovata capacità di<br />

intravedere un futuro e non solo un semplice sopravvivere.<br />

Scrivere dopo l’esperienza del lager rappresenta un modo per riformulare la<br />

propria identità, un tentativo per mettere in comunicazione i due mondi che<br />

le memorialiste ex deportate hanno attraversato e che sono percepiti come<br />

irrimediabilmente inconciliabili. Presuppone un fare i conti con ciò che si è<br />

diventate, con ciò che si è conosciuto, con quella “conoscenza infinita intrasmissibile”<br />

74 che è per tutti i reduci e le reduci l’ingombrante sapere del<br />

lager.<br />

6. Esperienze femminili di deportazione<br />

Senza cedere a improvvide suggestioni frutto di interpretazioni essenzialistiche,<br />

per capire meglio la deportazione femminile pare necessario invece<br />

concentrare l’attenzione intorno alle tematiche connesse al corpo femminile<br />

e alle sue esperienze specifiche nel sistema concentrazionario. Come ha<br />

notato Anna Bravo, “nessun filone narrativo ha probabilmente dato tanto<br />

spazio al corpo come il racconto, orale o scritto, della prigionia nei campi<br />

nazisti e sovietici” 75 . Inoltre il corpo che da “luogo della singolarità insostituibile<br />

di ciascuno” 76 viene programmaticamente ridotto ad una nullità<br />

senza significato può rappresentare anche, pur nella sua vulnerabilità, “un<br />

terreno di resistenza e una risorsa” 77 .<br />

Il sistema concentrazionario stesso forza l’esistenza dei prigionieri verso un<br />

annichilimento programmatico della loro identità esistenziale e sociale in<br />

un processo di disumanizzazione violenta perseguita scientemente e non<br />

lascia altro a donne a uomini che il loro proprio corpo sessuato nella sua<br />

“nuda vita” 78 . Ciò non significa che non emergano nella vita del lager sia<br />

72 A. Guadagni, La memoria del bene. Luciana Nissim, “Diario della settimana”, n. 8, 1997, p.<br />

18.<br />

73 L. Millu, I ponti di Schwerin, Genova, Edizioni Culturali Internazionali Genova ECIG, 1994,<br />

p. 214.<br />

74 Antelme, La specie umana, cit., p. 284.<br />

75 A. Bravo, Corpi senza diritti, L’invasione del potere totalitario, in Corpi e storia. Donne e uomini<br />

dal mondo antico all’età contemporanea, in N.M. Filippini - T. Plebani - A. Scattino, Roma,<br />

Viella, 2002, p. 122.<br />

76 Bravo, ibid., p. 116.<br />

77 Bravo, ibid., p. 106.<br />

78 G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone (Homo sacer III), Torino,<br />

Einaudi, 1998, p. 146.


La deportazione delle donne<br />

pure per frammenti altri aspetti non meramente ‘corporei’ della vita delle<br />

donne, non diversamente in sostanza che nelle esperienze dei deportati<br />

uomini. Affetti, vita spirituale, legami sociali, pensieri, emozioni si rinvengono<br />

nelle memorie e sono tematizzabili come tanti aspetti della resistenza,<br />

perché tali in quelle condizioni apparivano. “Ascoltare le voci di donne che<br />

sono sopravvissute in quei luoghi ci ricorda che in quegli anni gli aspetti di<br />

genere che influenzano il comportamento svolsero un ruolo decisamente<br />

meno importante del consueto” 79 .<br />

Nel lager dunque proprio il dominio esercitato sui corpi sbalza in primo<br />

piano gli eventi ‘biologici’ del corpo nudo e i suoi profondi significati simbolici.<br />

Così intorno a gravidanze, parti e mestruazioni, tappe di un processo<br />

vitale femminile ‘normale’ e potenzialmente gioioso, si attua nel lager una<br />

sorta di ribaltamento feroce: gli eventi ‘naturali’ della vita femminile vengono<br />

rovesciati in una torsione violenta e mortifera diventando soltanto<br />

occasioni di dolore e spesso di morte certa. Tuttavia anche “quando il corpo<br />

ha smesso di essere amico” 80 capita che emergano nelle singole come nell’immaginario<br />

collettivo resistenze inaspettate e rappresentazioni di grande<br />

forza. Resta tuttavia una ferita specifica, di genere, inferta alle donne che<br />

colpisce al cuore la vita femminile nei suoi passaggi vitali e si traduce non<br />

solo in una specifica sofferenza materiale, ma anche nella lesione di un<br />

“ordine simbolico” di cui le donne erano parte e che avevano padroneggiato<br />

fino al loro ingresso nell’universo concentrazionario. Diventando nel lager<br />

“rane d’inverno”, le donne hanno toccato una sorta di punto zero del loro<br />

stare al mondo in quanto donne.<br />

A questa violenza specifica contro di loro, le donne si opposero dentro i lager<br />

e fuori. Le più sono state sommerse, ma anche per quelle che sono tornate i<br />

conti con quanto l’esperienza concentrazionaria aveva sedimentato nel loro<br />

destino saranno difficili e lunghi quanto il resto delle loro vite.<br />

6a. Maternità<br />

Le donne non sono state uccise e maltrattate nei lager in maniera diversa<br />

che gli uomini. Anzi la politica dello <strong>sterminio</strong> attua, a modo suo, una sorta<br />

di “equiparazione” fra i sessi: stessi appelli, stessi lavori pesanti, stesse<br />

“coje”, stessa razione di cibo, stesse morti. Il processo di disumanizzazione<br />

comprende per entrambi i generi anche una sorta di perdita della propria<br />

identità sessuata.<br />

Tuttavia per le donne che hanno subito con la deportazione una torsione violenta<br />

dei loro ruoli femminili tradizionali all’interno della famiglia, la scossa<br />

identitaria è stata incalcolabile, perché in questa esperienza che le ha<br />

travolte anche il contesto protettivo tradizionale della domesticità e del loro<br />

ruolo all’interno della famiglia è venuto meno del tutto. La ferita specifica e<br />

più profonda delle donne che hanno subito la deportazione riguarda l’ambito<br />

del materno. Il nazismo attua dentro i lager (ma anche fuori come si è<br />

visto) una politica programmatica contro la maternità, non più interpretata<br />

come una facoltà che attiene alla conservazione della specie umana, ma<br />

come campo esclusivo di intervento statale.<br />

Le donne deportate possono rappresentare, limitatamente nel tempo e se ne<br />

hanno l’idoneità fisica, delle schiave da sfruttare ma non devono in nessun<br />

caso procreare, perché la loro funzione di schiave ne risulterebbe compromessa.<br />

Le donne deportate perdono nei lager tra gli altri diritti quello loro<br />

specifico di diventare madri. Se sono ebree poi sono solo dei “pezzi” da sterminare,<br />

perché il loro destino biologico è quello di mettere al mondo bambi-<br />

79 L.L. Langer, Le donne nelle testimonianze sull’Olocausto, in Donne nell’Olocausto a cura di D.<br />

Ofer - L.J. Weitzman, presentazione all’ed. it. di A. Bravo, Firenze, Le Lettere, 2001, p. 369.<br />

80 Bravo, Corpi senza diritti…, cit., p. 124.<br />

109


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

110<br />

ni razzialmente inaccettabili. Le prime a finire nella camera a gas nelle selezioni<br />

all’arrivo ad Auschwitz, i soggetti più vulnerabili, erano proprio le<br />

donne ebree incinte.<br />

Luciana Nissim che è medico e lavora al Revier di Auschwitz racconta il<br />

sistematico <strong>sterminio</strong> delle ebree incinte:<br />

I soldati SS dicevano alle nuove arrivate:<br />

Se qualcuna di voi aspetta un bambino, lo dichiari e noi le assegneremo un lavoro più<br />

leggero, le daremo un vitto più nutriente”. Le donne che aspettavano un bambino lo<br />

dichiaravano e… i soldati le mandavano in gas. Ma a poco a poco questo trucco non<br />

ebbe più effetto, le donne incinte nascondevano la loro condizione e lavoravano coraggiosamente<br />

fino a che il bambino non nasceva 81 .<br />

Se si partorisce, lo si fa clandestinamente a rischio della vita e i neonati nati<br />

in Lager o muoiono di stenti o vengono uccisi subito, talvolta dalle stesse<br />

dottoresse detenute (al Revier di Auschwitz, per esempio) per evitare che<br />

venga assassinata anche la madre, se scoperta.<br />

In narrazioni sempre sospese tra folle speranza di rigenerazione e terrore<br />

della morte certa, occupano grande spazio nelle memorie delle donne questi<br />

parti. Nel suo memoriale Giuliana Fiorentino Tedeschi dedica alla storia di<br />

un parto un intero capitolo intitolato significativamente Natale, quasi a<br />

significare il rovesciamento nella morte di un evento lieto. L’ebrea ungherese<br />

Edith “dai capelli tizianeschi” 82 , dopo un travaglio in assoluta solitudine<br />

dà alla luce un bambino morto. Il racconto indugia qui sulla commozione<br />

della scrittrice testimone per quel bambino che non ha voluto “respirare l’aria<br />

impura di una landa gelida e desolata” 83 e per quella madre che diventa<br />

tra l’altro uno dei ritratti più efficaci del libro.<br />

Nelle pagine di Liana Millu lo spazio dedicato alle madri in lager è cospicuo.<br />

Due su sei dei racconti che compongono Il fumo di Birkenau sono dedicati a<br />

figure di deportate madri. L’epilogo è tragico sia per Bruna (Alta tensione)<br />

che decide di suicidarsi con il figlio adolescente perché lo sa votato a morte<br />

certa, sia per Maria (la clandestina), una giovane morava che dopo essere<br />

riuscita a nascondere la sua gravidanza morirà dissanguata insieme al<br />

figlio subito dopo il parto. Le storie di Liana Millu non sono edificanti né i<br />

toni sono sempre commossi. Spesso i suoi affreschi della vita di Birkenau<br />

fanno emergere in tutta la loro crudeltà anche i sentimenti di odio e di violenza<br />

feroce che covano tra le prigioniere, anche madri. In Clandestina la<br />

vecchia Adela, che ha perso sua figlia incinta nella camera a gas, odia la protagonista<br />

del racconto, la giovane morava, che sembra in un primo tempo<br />

riuscire a portare avanti la gravidanza. Anche la Millu indugia sulla descrizione<br />

di questo parto clandestino che sembra sfidare le leggi di morte di<br />

Auschwitz con un atto di “dolcissima speranza” ma anche di “pazza superbia”<br />

davanti al quale le compagne in un primo tempo non riescono a perdonare<br />

alla giovane “di aver voluto sfuggire al comune destino” 84 . Tuttavia,<br />

quando poi dopo infiniti stenti il parto una notte arriva, le donne di tutto il<br />

blocco partecipano all’evento con “la misteriosa deferenza che invade religiosamente<br />

coloro che assistono al rito sanguinante della maternità” 85 .<br />

La scrittura di questi parti tragici ha la funzione salvifica di registrare una<br />

prevalenza sia pure fugace dell’ordine umano materno sopra le leggi profon-<br />

81 Nissim, Ricordi della casa dei morti, cit., p. 45.<br />

82 Fiorentino Tedeschi, Questo povero corpo…, cit. p. 70.<br />

83 Fiorentino Tedeschi, Questo povero corpo…, cit., p. 74. Cfr. anche per il racconto in prima persona<br />

di un parto avvenuto nel lager di Ravensbrück e successiva morte del neonato, Danilo,<br />

vissuto solo quattordici giorni: M. Coslovich, Storia di Savina. Testimonianza di una madre<br />

deportata (pref. di L. Violante), Milano, Mursia, 2000, pp. 82 e segg.<br />

84 Millu, Il fumo di Birkenau…, cit., p. 65.<br />

85 Ibid., p. 73.


La deportazione delle donne<br />

damente disordinanti e maligne di Birkenau. La scrittura si fa gesto riparatorio<br />

verso la maternità ferita nel lager, una sorta di simbolica “fecondità”<br />

capace di contrastare il progetto di distruzione.<br />

Per i bambini che vengono al mondo in lager, questi ‘nulla’, “figli della<br />

morte” 86 , non c’è scampo. La loro residualità nel sistema concentrazionario<br />

nazista non si discute: o muoiono da soli di stenti o vengono uccisi. La stessa<br />

Nissim testimonia di casi del genere nella sua baracca. Tutto l’orrore di<br />

questi omicidi è registrato, con lo stile sobrio proprio della Nissim, nel dolore<br />

delle madri e in questi neonati vivi che muoiono chiedendo il latte. Lo<br />

“strazio del materno” consiste proprio nella violazione brutale e sistematica<br />

di diritti naturali come la procreazione e la salvaguardia della prole che<br />

si mette al mondo. Le deportate madri che sopravvivono all’uccisione dei<br />

propri figli sono state infatti obbligate nei lager a sperimentare la spaventosa<br />

possibilità di non aver potuto in alcun modo tenere in vita, curare e<br />

proteggere i propri bambini.<br />

Ma anche essere deportate insieme con i propri figli nei lager è una delle<br />

condizioni più abbiette della realtà concentrazionaria: nel caso della deportazione<br />

razziale ciò ha significato trovare morte immediata all’arrivo. Anche<br />

laddove come ad Auschwitz una donna sola, giovane e in salute avrebbe<br />

forse avuto la possibilità di essere immatricolata e quindi di non essere uccisa<br />

subito, per le madri ebree con figli piccoli questa possibilità veniva meno<br />

ed erano condotte verso lo <strong>sterminio</strong> insieme ai loro bambini. Tutte queste<br />

donne sono state costrette a morire in presenza della morte dei propri figli.<br />

Si tratta di un orrore tale da meritare solo il nostro silenzio.<br />

Le donne invece che avevano con sé figli abbastanza grandi da potere essere<br />

immatricolati, o nella deportazione “politica”, venivano separate dai figli<br />

maschi (che seguivano gli uomini) ed entravano nel lager insieme con le figlie<br />

femmine. Ovviamente cercavano di stare insieme e di non perdere i contatti.<br />

Se ci riuscivano dovevano subire poi non solo le proprie personali sofferenze<br />

ma contemporaneamente la brutalità di dover assistere impotenti alle sofferenze<br />

delle figlie. Ruth Klüger racconta di come la prima sera, appena arrivate<br />

a Birkenau da Therensienstadt, rifiutò la proposta di sua madre: gettarsi<br />

entrambe sulla rete elettrificata del campo per morire. “Avevo dodici anni e il<br />

pensiero di crepare dentro un filo spinato elettrico, fra le convulsioni, e per<br />

giunta su proposta di mia madre, e subito, oltrepassava le mie capacità di<br />

comprensione. Mi salvai rifugiandomi nella convinzione che lei non dicesse sul<br />

serio. (…) Mi chiedo se le ho mai perdonato quella sera, la peggiore della mia<br />

vita. Non ne abbiamo mai più parlato. (…) Solo quando ebbi a mia volta dei<br />

figli mi resi conto che è possibile pensare di uccidere i propri figli ad<br />

Auschwitz, anziché aspettare” 87 . Questa stessa madre della Klüger qualche<br />

tempo dopo, in un soprassalto di materno tanto potente e duraturo quanto<br />

apparentemente antieconomico, “adottò” una bambina ad Auschwitz, le salvò<br />

la vita facendola diventare una propria figlia 88 .<br />

Questi aspetti del materno sono stati indagati solo da poco e con difficoltà<br />

tanto più se si trattava di rendere conto degli stravolgimenti dolorosi subiti<br />

da legami così intimi; anche nelle memorie comprensibilmente è stata molto<br />

forte la spinta al pudore e al silenzio. Lo strazio del materno non colpisce<br />

tuttavia solo le madri effettive o le misere puerpere del lager ma tutte le<br />

donne, in quanto madri possibili, anche quelle che sono partite da sole e che<br />

avevano la famiglia in Italia magari al sicuro. Si tratta di una novità dalle<br />

86 P. Levi, La tregua, Torino, Einaudi, 1963, p. 23.<br />

87 R. Klüger, Vivere ancora, Torino, Einaudi, 1995, p. 110.<br />

88 “Questa è la cosa migliore che io possa raccontare di mia madre, e la più insolita: ad<br />

Auschwitz adottò un bambino. Con la massima naturalezza, e senza far storie considerò quella<br />

ragazzina come una parte di noi..” (Klüger, Vivere…, cit., p. 149).<br />

111


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

112<br />

risonanze emotive così forti e durature da non risultare del tutto comprensibile<br />

neppure alle donne che l’hanno vissuta né facilmente superabile con<br />

l’arrivo della liberazione. Emerge da ricerche sulla memorialistica femminile<br />

che molte donne tenderanno a vivere, anche una volta tornate a casa, un<br />

forte senso di perdita e ad associare vissuti emotivi di morte e annientamento<br />

alle nascite nel dopo<strong>guerra</strong> dei loro propri figli 89 . La scrittura memorialistica<br />

può anche in questi casi fornire una sorta di lenimento: si narrano<br />

le violenze orribili vissute e contemporaneamente si cercano spiegazioni che<br />

le rendano meno assurde.<br />

Quando Frida Misul viene a sapere che nei lager i neonati vengono uccisi<br />

subito dopo la nascita, lo spiega attribuendo ai tedeschi “lo spirito satanico<br />

dei carnefici”, “esseri inqualificabili nel cui animo di annidavano mille perfidie<br />

e mille crudeltà, degli esseri pervertiti e sconci che sapevano appagare<br />

in ogni maniera il loro sadico desiderio del più iniquo piacere” 90 . La Misul<br />

fa risalire gli orrori dell’universo concentrazionario essenzialmente al sadismo<br />

attribuito ai tedeschi. Oggi noi sappiamo invece che la stragrande maggioranza<br />

dei “carnefici” non erano affatto sadici ma casomai convinti nazisti<br />

e bravi burocrati che facevano il loro “lavoro” di pulizia razziale. Ma anche<br />

se i quadri interpretativi delle testimoni superstiti talvolta difettano,<br />

comunque rispondono alla imperante necessità di spiegare il male che<br />

hanno vissuto, che tanto le ha minacciate e a cui molto spesso hanno l’impressione<br />

di essere sfuggite solo per caso.<br />

Per molte poi, anche fra coloro che non subirono esperimenti medici, persiste<br />

al ritorno come un’eco di questo male una diffusa paura di non potere più<br />

avere figli, tanto più profonda quando tanti bambini si sono visti morire e<br />

tante madri morire con i loro bambini. Pare difficile anche a casa poter<br />

“medicare” questa immagine del materno violato. Quando Luciana Nissim,<br />

che dirige nel dopo<strong>guerra</strong> l’asilo olivettiano a Ivrea, perde la sua prima bambina<br />

che aveva chiamato Vanda come la sua amica Vanda Maestro morta ad<br />

Auschwitz, ne attribuisce la colpa alla permanenza nel Lager: “…dopotutto<br />

non mi ero risparmiata. Rimasi in ospedale per mesi e ne uscii sconvolta” 91 .<br />

Così alla nascita del proprio figlio nel dopo<strong>guerra</strong> Lidia Beccaria Rolfi è felice<br />

perché adesso sa che “almeno nella maternità non erano riusciti a mutilarmi”<br />

92 . Quando sembra che Giuliana Fiorentino Tedeschi sia stata scelta<br />

per il blocco degli esperimenti medici (a cui poi invece non sarà destinata<br />

per un improvviso e casuale trasferimento), dà sfogo ad una “folle disperazione”.<br />

“Pensavo al mio corpo brutalmente mutilato della sua vitalità, alla<br />

rinuncia alla funzione più femminile imposta dalla natura, a questa<br />

mostruosa innaturale violazione”. Ma la tragicità di sentire tutta la riduzione,<br />

l’azzeramento di umanità insito in quell’essere solo “carne, carne da<br />

eliminare o al crematorio o con le torture” si coniuga per la Tedeschi con un<br />

desiderio fortissimo, “come un grido” 93 , contrastante con la minacciosa<br />

realtà del lager: avere un altro figlio, allattare, sentire di potere ancora<br />

disporre di un corpo procreante.<br />

Un altro aspetto fra i molti che assume nell’universo concentrazionario la<br />

violazione del materno avviene quando madri e figlie sono deportate insieme<br />

ed è proprio quel vincolo che viene offeso. Le madri, soprattutto quelle<br />

che hanno figlie abbastanza grandi da essere immatricolate, di solito non<br />

sono più giovanissime, quindi nella brutalità di condizioni del lager sono<br />

maggiormente esposte ad una fine precoce. Le figlie attonite, tra le altre sof-<br />

89 S.R. Horowitz, Le donne nella letteratura sull’Olocausto. La dimensione di genere nella memoria<br />

del trauma, in Donne nell’Olocausto, cit., p. 383.<br />

90 Misul, Fra gli artigli del mostro nazista…, cit., p. 30.<br />

91 Guadagni, La memoria del bene…, cit., p. 20.<br />

92 Beccaria Rolfi, L’esile filo…, cit., p. 94.<br />

93 Fiorentino Tedeschi, Questo povero corpo…, cit., p. 51-52.


La deportazione delle donne<br />

ferenze, assistono al veloce degrado della madre in uno stravolgimento di<br />

ruoli che, non indolore neanche nel corso normale della vita (c’è un’età in cui<br />

sono le figlie mature a prendersi cura delle madri vecchie) nel Lager avviene<br />

spietatamente e di colpo.<br />

Molte testimonianze di figlie 94 narrano di questi corpi materni esposti, dapprima<br />

alla vergogna del denudamento forzato e poi al progressivo decadimento<br />

ed è qui che si invertono i ruoli: la madre perde di colpo la sua funzione<br />

materna di proteggere e curare, e la figlia nel diventare madre della<br />

propria madre subisce una perdita, anche prima di vedere la propria madre<br />

morire davvero senza potere fare niente 95 . I lager nazisti producono questo<br />

doppio strazio: madri giovani che non possono accudire e proteggere i propri<br />

figli piccoli e madri mature che necessitano di cure da parte delle proprie<br />

figlie adolescenti. Queste a loro volta si dimostrano pressoché impotenti 96 a<br />

proteggere le proprie madri e rapidamente finiscono orfane.<br />

A tutti viene imposta nei lager la contemplazione da vicino della propria e<br />

dell’altrui morte, ma in quel “mondo capovolto” 97 anche la morte è diventata<br />

speciale, subendo una sua spaventosa mutazione: svilita a produzione in<br />

serie, a mera “fabbricazione di cadaveri” 98 la morte ha perso ogni sua<br />

dignità. Per chi arriva nei lager insieme con i propri affetti lo strazio si moltiplica<br />

perché viene costretto ad assistere a questo processo di degradazione<br />

della morte incarnato nei propri cari.<br />

Assieme ai molti gesti di solidarietà e di fratellanza che uomini e donne prigionieri<br />

riuscivano comunque a scambiarsi, la memorialistica segnala allo<br />

stesso modo come nel dispiegarsi della lotta per sopravvivere indotta dalle<br />

disumane condizioni del lager potesse accadere che anche i legami affettivi<br />

più intimi subissero un crollo. Nel tenere conto della estrema varietà delle<br />

esperienze -che a mio avviso rappresenta l’ottica privilegiata cui avvicinarsi<br />

alla memorialistica- accade anche che il male perverta le sue vittime<br />

intaccando la loro stessa integrità morale e depositando anche in chi si salverà<br />

la trista sapienza intorno ai propri limiti etici e affettivi. Come ci ricorda<br />

Ruth Klüger “ad Auschwitz l’amore non poteva salvarti la vita, né poteva<br />

farlo la ragione” 99 . “Nelle mente dei prigionieri (parlo sempre di donne)<br />

dopo i primi tempi, fatti di pianti e di disperazioni, non c’era più posto per<br />

niente. Solo la voglia di salvarsi a rischio della morte altrui, che annebbiava<br />

la ragione. Spesso diventavamo nemiche anche tra noi e le madri strappavano<br />

il boccone di bocca alle figlie e viceversa” 100 .<br />

Desideri parricidi serpeggiano anche tra i giovani figli maschi.<br />

94 Tra le altre, cfr. la testimonianza delle ex deportate politiche Lina e Nella Baroncini che<br />

descrivono la fine della propria madre a Ravensbrück, in Beccaria Rolfi - Bruzzone, Le donne<br />

di Ravensbrück…, cit. pp. 260-261.<br />

95 Da un’intuizione di Giacomo Debenedetti (riferita però ad entrambi i genitori e non solo alle<br />

madri) intorno alla “mutilazione del non essere più in grado di tutelare i figli” è partita Anna<br />

Maria Bruzzone per indagare acutamente questo rovesciamento di ruoli nel rapporto madrefiglia<br />

che compare nel saggio, Madri e figlie in La deportazione femminile…, cit., pp. 109-118.<br />

96 Così nella testimonianza dell’ebrea Cecilie Klein, citata da Myrna Goldenberg: “Mentre un<br />

ufficiale delle SS stava lì a guardare come uno scemo e a insultarci, una donna ci frugò nelle<br />

parti intime con un bastone. Le mie guance infiammate tradirono la vergogna e l’umiliazione<br />

che provavo. Singhiozzavo per mia madre sottoposta a un’intrusione così bestiale.” (Myrna<br />

Goldenberg, Le memorie dei sopravvissuti di Auschwitz, in Donne nell’Olocausto…, cit., p.<br />

347).<br />

97 P. Levi, Auschwitz, città tranquilla, in Il fabbricante di specchi…, cit., p. 50.<br />

98 Agamben, Quel che resta di Auschwitz…, cit., p. 70.<br />

99 Klüger, Vivere ancora, cit., p. 124. Anche in un’altra pagina del suo libro (cit., p. 51) la Klüger<br />

spiega come le opinioni sul fatto che “i perseguitati avrebbero dovuto essere più solidali fra<br />

loro” non siano altro che “sciocchezze lacrimose, fondate su funeste idee di purificazione<br />

attraverso il dolore. Nel silenzio della propria stanzetta, e ciascuno per sé, lo sanno tutti<br />

come vanno realmente le cose: là dove c’è più da sopportare, anche la tolleranza verso il prossimo,<br />

comunque precaria, mostra la corda e i legami familiari si incrinano”.<br />

100 E. Bruck, Signora Auschwitz. Il dono della parola, Venezia, Marsilio, 1999, p. 23.<br />

113


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

114<br />

“Se potessi sbarazzarmi di quel peso morto – pensa vergognandosene subito<br />

Elie Wiesel –così da poter lottare con tutte le mie forze per la mia sopravvivenza,<br />

occupandomi solo di me stesso” 101 . Anche Elisa Springer insieme<br />

con i “gesti d’amore verso gli altri” ricorda di Auschwitz episodi di questa<br />

“disfatta dei sentimenti”: in particolare un rapporto madre e figlia distrutto.<br />

Nell’agosto del 1944, a Birkenau “di notte spesso venivamo svegliate,<br />

nella baracca, dalle grida di alcune compagne che litigavano ferocemente.<br />

Ricordo una notte erano due belghe, madre e figlia. La figlia accusava sua<br />

madre di approfittare del buio e del sonno, per rubarle il pezzo di pane che<br />

si era messa da parte sotto il cuscino per il giorno dopo. La ragazza rinfacciava<br />

alla madre di essere avida e senza scrupoli” 102 . Nello stile lirico dialogante<br />

che le è proprio Isabella Leitner, che pure ha vissuto nel lager una<br />

forte esperienza di solidarietà con le sue tre sorelle, narra che nella spaventosa<br />

marcia forzata da Auschwitz verso occidente capisce ad un certo punto<br />

di dover “imparare a rompere” il vincolo di solidarietà che fino ad allora l’ha<br />

legata a loro: “dobbiamo fare un nuovo patto: ognuna per se stessa. Non possiamo<br />

più combattere l’una per l’altra come prima” 103 .<br />

6b. Una leggenda consolatrice<br />

In ogni caso il materno resta uno dei temi cruciali della memorialistica concentrazionaria<br />

femminile. C’è la necessità per queste donne deportate di trovare<br />

senso nel “codice materno” 104 narrandone le tragiche peripezie avvenute<br />

dentro il lager dove pure in ogni aspetto è stato sommamente violato.<br />

Tuttavia quel codice inteso come reticolo di interpretazioni, di vissuti e di<br />

immagini conosciute appare in grado, nella cesura traumatica rappresentata<br />

dalla propria deportazione, di connettere il passato con le speranze di un<br />

futuro eventuale. L’“universalità del materno” 105 anche nel lager funziona<br />

come mito di speranza e di continuità con il mondo esterno e con la propria<br />

interiorità offesa. I racconti di maternità (parti, madri e figlie, aborti, figli<br />

lontani) danno dunque conto di una specifica ferita subita e nel contempo si<br />

propongono come gesto di memoria sul piano di una sorta di riparazione<br />

simbolica. Ridotta “senza più forza di ricordare” e con “freddo il grembo come<br />

una rana d’inverno”, la donna memorialista sembra volere contrastare consapevolmente<br />

il progetto del suo <strong>sterminio</strong> su entrambi questi piani.<br />

Traccia della centralità del codice materno viene confermata dalla presenza<br />

e dalla vitalità di una leggenda diffusa a Birkenau, che ben due fra le cinque<br />

memorialiste italiane degli anni ’40 riportano. Già Marc Bloch riflettendo<br />

in un articolo del 1921 sulle false notizie prodotte nella prima <strong>guerra</strong><br />

mondiale ne faceva risiedere l’origine tanto in “disposizioni emotive” quanto<br />

in “rappresentazioni intellettuali”. “Uno stato d’animo collettivo” 106 genera<br />

questi falsi. È importante studiarli ed interpretarli per capire quali sono<br />

“i pregiudizi, gli odi, le paure, tutte le violente emozioni” 107 del gruppo sociale<br />

che li produce. Come avvertiva Bloch, affinché le false notizie possano<br />

crearsi e circolare, occorrono particolari situazioni di isolamento, di fatica<br />

101 E. Wiesel, La notte, prefazione di F. Mauriac, Firenze, Giuntina, 1993, p. 104.<br />

102 E. Springer, Il silenzio dei vivi. All’ombra di Auschwitz un racconto di morte e di resurrezione,<br />

Venezia, Marsilio, 1997, p. 81.<br />

103 I. Leitner - I.A. Leitner, Frammenti di Isabella. Memoria di Auschwitz, Milano, Mursia, 1996,<br />

p. 69.<br />

104 A. Bravo - A.M. Bruzzone, In <strong>guerra</strong> senza armi. Storie di donne 1940-1945, Roma-Bari,<br />

Laterza, 1995, p. 74.<br />

105 Bravo - Bruzzone, In <strong>guerra</strong> senza armi…, cit., p. 66.<br />

106 M. Bloch, Riflessioni di uno storico sulle false notizie di <strong>guerra</strong>, in Metodo storico e scienze<br />

sociali: La Revue de synthèse historique (1900-1930), a cura di B. Arcangeli - M. Platania,<br />

Roma, Bulzoni Editore, 1981, p. 255.<br />

107 Ibid., p. 246.


La deportazione delle donne<br />

fisica e mentale e di censura, presenti già su tutti i fronti della prima <strong>guerra</strong><br />

mondiale e, ben più esasperate, nella realtà concentrazionaria nazista. In<br />

questo ritorno della tradizione orale, “madre antica delle leggende e dei<br />

miti”, la falsa notizia rappresenta “lo specchio in cui la coscienza collettiva<br />

contempla i propri tratti” 108 . La situazione estrema del lager sembra un<br />

laboratorio ideale per queste produzioni dell’immaginario.<br />

Ecco le due diverse varianti con cui si presenta la suggestiva leggenda che<br />

riguarda una madre nelle nostre memorialiste.<br />

Giuliana Fiorentino Tedeschi dedica a questa storia il terzo capitolo del suo<br />

primo memoriale, Questo povero corpo del 1946 109 . Narrata in terza persona,<br />

ricca di dialoghi e di particolari narrativi, la vicenda non è presentata<br />

come una leggenda. Tutto si svolge all’arrivo di un convoglio dalla Francia.<br />

Nelle procedure di Birkenau è appunto questo il drammatico momento in<br />

cui avviene la prima selezione verso le camere a gas di deportati e deportate<br />

ebree. Naturalmente i nuovi arrivati per lo più non lo sanno e le SS,<br />

per evitare che il panico dilaghi, hanno studiato ed attuato delle apposite<br />

strategie. Chi invece è a conoscenza della effettiva ed atroce realtà di ciò<br />

che sta per accadere ai nuovi arrivati sono gli altri prigionieri che conoscono<br />

benissimo le modalità dello <strong>sterminio</strong> in atto. Le regole vogliono che il<br />

grosso degli Häftlinge sia obbligato a rimanere nei blocchi. Ma non è evitabile<br />

che i nuovi arrivati entrino in contatto con il Kommando (gruppo di<br />

lavoro) formato da prigionieri, che lavora proprio a sbarazzare il convoglio.<br />

È in questo contesto di estremo pericolo che prende corpo la affabulazione<br />

leggendaria.<br />

Una donna “con due occhi neri e un viso non privo di arguzia” ma già anziana<br />

– in lager ciò significava la morte certa quasi sempre subito – tarda a<br />

scendere dal vagone perché cerca lo spazzolino da denti. Un prigioniero la<br />

sollecita bruscamente e in un rapido scambio di battute il giovane si fa sfuggire<br />

che certamente lo spazzolino non le servirà a niente. A quel punto:<br />

La donna si levò, lasciò cadere quel che aveva in grembo, il suo sguardo si fece più acuto,<br />

balenò nei suoi occhi un barlume di sospetto. Fece due passi avanti, si piantò dinanzi al<br />

giovane, lo fissò intensamente. Per la prima volta lo sguardo di lui si posò sulla donna,<br />

batté un attimo le ciglia, ebbe un istante di esitazione che gli addolcì fugacemente la<br />

fisionomia. Poi distolse gli occhi da lei, si voltò di scatto a gettare un altro pacco dal vagone.<br />

La donna lesta gli fu accanto, con le sue mani gli serrò forte i polsi, appuntò gli occhi<br />

negli occhi di lui, lo costrinse a sopportare il suo sguardo. La sua espressione era intensa,<br />

le labbra semiaperte tremavano leggermente, la voce era rotta, alterata quando<br />

disse: - Dimmi, hai una madre tu? -<br />

Con tono sordo come se venisse di lontano, ruvidamente rispose:<br />

- L’avevo… prima di arrivare qui! -. La luce le si fece strada nell’animo. Concitata senza<br />

abbandonare i polsi di lui, ipnotizzandolo quasi col suo sguardo:<br />

- Bene - gli disse - in questo momento io sono tua madre. Cosa devo fare?-<br />

- Che età hai?- chiese l’uomo considerandone il fisico vigoroso.<br />

- Cinquantaquattro.-<br />

- Quando l’ufficiale tedesco ti domanderà l’età, di’ quarantacinque e va a sinistra… a<br />

sinistra! - disse in fretta e saltò dal vagone per celare la sua emozione.<br />

L’operazione di scelta continuava. Quando fu il suo turno la donna con tono sicuro rispose:<br />

- Quarantacinque - e l’ufficiale le indicò la sinistra. Salva! A pochi passi scorse il giovane<br />

sconosciuto con un’espressione mutata nel volto, quell’espressione umana che sembrava<br />

esserne sparita per sempre.<br />

- Adesso anch’io ho una madre! - sussurrò egli e un commosso sorriso lo trasfigurava 110 .<br />

108 Ibid., p. 259.<br />

109 La stessa leggenda compare con interessanti varianti anche al capitolo XVI del libro successivo<br />

di G. Fiorentino Tedeschi, C’è un punto della terra… Una donna nel Lager di<br />

Birkenau, Torino, Loescher, 1989, pp. 121-123.<br />

110 Fiorentino Tedeschi, Questo povero corpo, cit., pp. 37-38. Le sottolineature non sono del testo<br />

ma aggiunte da chi scrive.<br />

115


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

116<br />

L’altra versione della leggenda della “madre salvata” è contenuta nel libro<br />

di Liana Millu. L’impianto narrativo è assai simile, ma ci sono anche alcuni<br />

punti di differenza. Intanto la vicenda è presentata dalla stessa autrice con<br />

scetticismo esplicito. Il racconto è in terza persona, riferito da un’altra prigioniera<br />

all’io narrante, che dice subito di non credere a “questa storia” 111 .<br />

La donna scampata inoltre qui ha un nome, Marie, e un’identità ben precisa:<br />

“tutto il campo la conosceva” come la “santa” che parla con gli spiriti.<br />

Lavorava allo Scheisskommando (squadra incaricata delle latrine) del<br />

Lager A, una “stracciona” che tirava il carro “pregando alta voce”. Per sua<br />

fortuna inoltre Marie è viennese, come viennese – e non tedesco – è anche il<br />

giovane guardiano che la salverà. Creati dalla fantasia popolare a Roma<br />

dopo la razzia nel ghetto abbiamo conosciuto altri due leggendari austriaci,<br />

“SS di gran cuore” 112 li chiama Giacomo Debenedetti. La mitopoiesi intorno<br />

ai “carcerieri buoni” li preferisce austriaci, vale a dire germanofoni ma non<br />

tedeschi, perché nemmeno in via leggendaria si accettano eccezioni alla ferocia<br />

e alla disumanità teutoniche.<br />

In ogni caso la viennese Marie viene scelta ad un certo punto per essere<br />

uccisa e giunge alla soglia del crematorio n. 2, “quello subito fuori del<br />

campo” con molte altre donne. Anche qui siamo in un contesto di pericolo<br />

massimo di vita come nella versione della Fiorentino Tedeschi:<br />

Come al solito, quando furono sulla porta, le donne cominciarono a urlare e non volevano<br />

saperne di entrare dentro; urlavano tanto che si sentivano fino alle baracche e<br />

le ragazze che l’indomani dovevano recarsi al lavoro brontolavano, disturbate.<br />

A furia di calci e bastonate i Posten [guardiani S.S.] fecero entrare tutte nella gran<br />

sala. Ma, mentre uno stava per chiudere la porta contro cui si accalcavano le disperate,<br />

se ne trovò ancora una addosso: era Frau Marie che lo guardava.<br />

- Dentro - impose lui. Era un ragazzo molto giovane, con le guance rosee e i limpidi<br />

occhi azzurri; voleva andarsene e cercò di spingere quella che, a un tratto, lo prese<br />

per i polsi, guardandolo con occhi spiritati.<br />

- Io sono tua madre! - diceva la vecchia pazza, e il ragazzo riconobbe il buon fresco<br />

accento di Vienna.<br />

- Io sono tua madre! Perché vuoi uccidermi? Tu non ucciderai tua madre!<br />

Continuava a stringerlo per i polsi alitandogli le sue pazze parole sul viso, e il ragazzo<br />

si sentì a disagio, tanto più che l’uscio non era ancora completamente chiuso e le<br />

altre facevano forza. Era la prima volta che gli capitava quel lavoro e non voleva<br />

grane. Così non trovò di meglio che chiudere l’uscio lasciando Maria fuori, e quando<br />

si accorse dello sbaglio alzò le spalle prendendo una gran decisione.<br />

- Sarà per un’altra volta! - minacciò. - Tu sei una vecchia strega e me l’hai fatta!<br />

Così Marie tornò in campo e divenne Maria del miracolo: quale miracolo più grande<br />

poteva essere stato quello fatto tramite lei: muovere a buon consiglio il cuore di una<br />

giovane S.S.? 113 .<br />

Anche qui la vicenda della “madre salvata” si conclude con il lieto fine, almeno<br />

in quest’episodio 114 . Il ragazzo delle S.S. lascia Marie fuori dalla porta<br />

della camera a gas. Anche qui, come nella precedente versione della storia,<br />

il vero “miracolo” è quello educativo compiuto da queste donne che riescono<br />

a muovere i cuori induriti di giovani uomini, facendoli loro figli.<br />

111 “Maria del miracolo una vera santa! – Figurati- obiettai scandalizzata. – E voi ci credete a<br />

questa storia? Deve essere maniaca se se l’è inventata per rendersi interessante!<br />

Naturalmente Lise e Lillike mi dettero sulla voce, affermando che la storia era verissima.”<br />

(Millu, Il fumo di Birkenau, cit., p. 160).<br />

112 “Come in tutte le Mie prigioni c’è sempre un carceriere buono, così in questa razzia [razzia<br />

di ebrei a Roma avvenuta il 16 ottobre 1943] ci saranno le S.S. di gran cuore: questi due per<br />

esempio. La leggenda formatasi poi nel Ghetto ha deciso che fossero due austriaci.” (G.<br />

Debenedetti, 16 ottobre 1943, Palermo, Sellerio, 1993, p. 43).<br />

113 Millu, Il fumo…, cit., pp. 159-160. Anche qui le sottolineature non appartengono al testo ma<br />

sono di chi scrive.<br />

114 Anche Maria dei miracoli non sfugge alla sorte comune e viene data per morta senza altri<br />

dettagli in un dialogo fra prigioniere di poche pagine dopo (Millu, Il fumo …, cit., p. 162).


In entrambe le versioni la leggenda della “donna salvata” contiene al suo centro<br />

l’esaltazione dell’autorità e del potere materno. Non si tratta ovviamente<br />

di un potere riconoscibile socialmente nel contesto del lager, anzi la donnamadre<br />

è qui minacciata lei stessa di morte in entrambe le varianti della vicenda.<br />

Ma in ogni caso, sembra dire la leggenda, accade che questo potere materno<br />

talvolta si mostri e dispieghi la propria efficacia autoprotettiva rendendo<br />

invulnerabile chi invece non lo è affatto. D’altra parte perché ciò accada è indispensabile<br />

che la donna in pericolo sia riconosciuta come madre da qualcuno<br />

che potrebbe esserle figlio. “Io sono tua madre” funziona se in qualche misura<br />

l’altro, il giovane “adottato” come figlio, filialmente obbedisce. Nella versione<br />

più intimistica della Tedeschi, il giovane prigioniero accettando completamente<br />

la maternità della sconosciuta (“Adesso anch’io ho una madre!”) esce<br />

“trasfigurato” e con questa nuova identità di figlio, proprio per il fatto di avere<br />

di nuovo una madre, riacquista una sua dimensione umana. Non accettare di<br />

riconoscersi come figlio fa presupporre uno scivolamento verso la disumanità.<br />

Il giovane figlio tratteggiato nel racconto della Millu invece assolve egualmente<br />

la sua funzione salvifica verso Frau Marie, madre acquisita ma più<br />

casualmente, come frutto di un momentaneo smarrimento più che di una<br />

vera “conversione”. D’altronde nel racconto, anche se austriaco, il giovane<br />

resta pur sempre un milite delle S.S. (viceversa dell’altro che è un semplice<br />

Häftling) e una adesione piena alla religione del materno avrebbe potuto<br />

alla fine risultare non convincente. Nella leggenda la potenza di queste<br />

madri forti consiste principalmente nello sguardo. Gli occhi sono “spiritati”,<br />

in grado di “ipnotizzare”, di piegare la volontà altrui. Ma decisiva è anche la<br />

stretta ai polsi, il contatto fisico che inchioda il giovane figlio riottoso allo<br />

sguardo materno, mentre le parole di evidenza biblica, “io sono tua madre”,<br />

suonano quasi come un comandamento ineludibile. Questi tre elementi – lo<br />

sguardo, le parole pronunciate dalla madre e il serrare i polsi del “figlio” –<br />

data l’importanza della loro simbologia compaiono del tutto identici nelle<br />

due versioni italiane della storia. È come se la leggenda volesse ribadire che<br />

laddove le madri rischiano di essere uccise esiste un ordine violato. Davanti<br />

a questo sovvertimento, la figura della madre, se viene riconosciuta come<br />

tale, si propone comunque come restauratrice dell’ordine del mondo, diventa<br />

autoprotettiva e salvifica e può persino fare i “miracoli”, come Marie.<br />

La leggenda della “madre salvata” intende forse compensare attraverso la<br />

mitopoiesi le tante figure delle madri reali completamente annientate dalla<br />

politica di <strong>sterminio</strong> nazista, come se l’immaginario collettivo delle donne di<br />

Birkenau riluttasse ad ammettere una così ampia disfatta del materno e<br />

tentasse di ripararsi dalla percezione della catastrofe attraverso la storia<br />

leggendaria di una madre – almeno una – in grado di guadagnare anche in<br />

quel luogo una sorta di inviolabilità.<br />

6c. Mestruazioni<br />

Altro aspetto della specificità femminile legato al corpo ed anche al materno,<br />

quasi sempre presente nella memorialistica delle donne deportate, è rappresentato<br />

dalle mestruazioni e in particolare dalla loro scomparsa. Tra i<br />

molti mali le donne in deportazione perdono anche le mestruazioni. Si tratta<br />

di una amenorrea generalizzata dovuta alla situazione di stress e di sottonutrizione,<br />

ma come è ben immaginabile a questo evento così inedito nell’esperienza<br />

femminile si affiancano paure e malesseri di ogni genere: “Negli<br />

ultimi tempi l’assenza delle mestruazioni preoccupava tutte, ci sentivamo<br />

vecchie, in menopausa, destinate alla sterilità, avevamo l’impressione che ci<br />

avessero mutilate” 115 . “Non avevamo più le mestruazioni, nessuna le aveva<br />

più. Se capitava che qualcheduna vedeva un gocciolino di sangue, si mette-<br />

115 Beccaria Rolfi, L’esile filo…, cit., p. 75.<br />

La deportazione delle donne<br />

117


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

118<br />

va a ballare. Io chiedevo: - Ma cos’ha? È matta quella lì? - Mi dicevano: - Eh,<br />

è perché ha visto una goccia di sangue” 116 . Ma Ruth Bondy, deportata dapprima<br />

a Theresienstadt poi ad Auschwitz-Birkenau ed infine a Bergen<br />

Belsen, suffragando il principio che l’estrema varietà dei vissuti nei lager<br />

renda sempre poco produttive le generalizzazioni, presenta un altro versante<br />

dell’esperienza femminile riguardo l’amenorrea e nota che “contrariamente<br />

all’idea che l’interruzione delle mestruazioni fosse causa di depressione<br />

e del timore di perdere in futuro la fertilità, questa circostanza, per<br />

quanto ho potuto riscontrare, veniva accolta con sollievo. Non erano disponibili<br />

né assorbenti igienici né cotone idrofilo, e i pannolini di cotone o le<br />

pezze di tessuto ripiegate assorbivano poco, irritavano ed erano difficili da<br />

lavare” 117 .<br />

Nelle memorialistica femminile italiana emerge tuttavia con maggiore frequenza<br />

l’aspetto negativo dell’assenza del flusso mestruale. In ogni caso<br />

sembra che la disfunzione contenga anche valenze fortemente simboliche<br />

per la psicologia femminile, che nei lager tenderebbero a trasfigurarsi. A<br />

proposito delle mestruazioni si crea e circola una falsa notizia: le stesse<br />

S.S. introdurrebbero un medicinale apposito nel cibo per fare scomparire<br />

il flusso, una delle loro tante nefandezze. Ma “non ci sono prove che venisse<br />

aggiunto bromuro ai cibi o alle bevande somministrate nei campi” 118 .<br />

La credenza invece è tenace e diffusa: ci crede Liana Millu 119 ; ci crede la<br />

polacca Pelagia Lewinska (lei pensa che ne sia causa il salnitro) 120 ; ci<br />

crede la senese Alba Valech, che ritiene anche di sentire in bocca il bruciore<br />

del “medicinale” 121 ; ci credono infine le testimoni, tutte reduci da<br />

Auschwitz, interpellate verso i primi anni ’90 da Mimma Paulesu<br />

Quercioli 122 .<br />

Non così molti anni dopo Giuliana Tedeschi nel suo secondo libro su<br />

Birkenau del 1988 123 né Lidia Beccaria Rolfi nel suo libro sul ritorno del<br />

1996: “In Lager dicevano che questo [l’amenorrea] era dovuto a una polverina<br />

misteriosa che mettevano nella minestra per arrestare il ciclo<br />

mestruale che avrebbe provocato problemi non indifferenti in una comunità<br />

di decine di migliaia di donne: nell’economia del campo anche gli assorbenti<br />

avrebbero avuto un costo. Questo si diceva, ma ora [dopo la liberazione]<br />

non mangiavamo più la minestra del Lager da almeno due mesi, e il<br />

ciclo non tornava” 124 .<br />

All’interno dell’esperienza concentrazionaria, piuttosto che assistere impotenti<br />

ad un rifiuto così radicale verso le proprie funzioni fisiologiche vitali<br />

da parte del proprio corpo, doveva apparire certo più facile credere alla fer-<br />

116 Testimonianza di Livia Borsi Rossi in Beccaria Rolfi - Bruzzone, Le donne di Ravensbrück…,<br />

cit., p. 216.<br />

117 R. Bondy, Le donne di Theresienstadt, in Donne nell’Olocausto…, cit., p. 331.<br />

118 Donne nell’Olocausto…, cit., p. 291.<br />

119 Millu, I ponti di Schwerin, cit., pp. 74 e 118.<br />

120 Lewinska, Venti mesi a Oswiecim, cit., p. 136.<br />

121 Valech Capozzi, A 24029, cit., p. 81.<br />

122 M. Paulesu Quercioli, L’erba non cresceva ad Auschwitz (presentazione di G. Maris e prefazione<br />

di S. Vegetti Finzi), Milano, Mursia, 1994. Cfr. la testimonianze dell’ebrea Arianna<br />

Szörényi: “Al mattino [ci davano] la brodaglia scura con dentro chissà quale mistura per fermare<br />

il mestruo mensile”, p. 33. Cfr. anche la testimonianza della deportata politica<br />

Loredana: “Certo nel cibo delle donne le S.S. mettevano qualche sostanza che influiva sul funzionamento<br />

delle loro ovaie.”, p. 63. Infine la testimonianza di Zita, deportata ebrea: “Le<br />

mestruazioni si erano interrotte: certamente [le S.S.] le avevano drogate perché potessero<br />

vivere in quel campo dove non c’erano né acqua né servizi.” p. 116.<br />

123 “Con la perdita della funzione mensile in conseguenza della denutrizione e dello shock, le<br />

donne non si sentivano più donne” (Fiorentino Tedeschi, C’è un punto della terra…, cit., p.<br />

76). Tuttavia l’autrice nella stessa pagina avalla la notizia, non provata, che nella brodaglia<br />

del lager fosse introdotto il bromuro in funzione di calmante.<br />

124 Beccaria Rolfi, L’esile filo…, cit., p. 60.


La deportazione delle donne<br />

rea organizzazione teutonica che provvedeva anche al risparmio degli assorbenti<br />

o a scelleratezze deliberate delle S.S., come la “bevanda malefica” 125<br />

nella minestra. Spesso è difficile per le deportate cogliere e accettare la qualità<br />

anonima ed impersonale della disumanizzazione cui sono sottoposte: in<br />

ogni caso il loro punto di vista è interno alla propria personale tragedia (e<br />

dei propri cari) e in questo contesto appare più “umano” ed accettabile attribuire<br />

a piani diabolici degli aguzzini ciò che terrorizza e che non si sa come<br />

spiegare.<br />

Del resto le spiegazioni spesso mancano in generale nel contesto che le<br />

deportate trovano dopo la liberazione. Nel corso del rimpatrio, Lidia<br />

Beccaria Rolfi “rossa dalla vergogna”, perché “parlare a quei tempi di<br />

mestruazioni anche con un medico non era decente”, espone il caso dell’amenorrea<br />

a un medico militare. Questi, che nella sua carriera “non aveva<br />

mai dovuto occuparsi di problemi femminili”, perplesso ed inesperto, sa consigliare<br />

solo di aspettare “perché la natura farà senz’altro il suo corso” 126 .<br />

Per donne reduci da Ravensbrück in viaggio verso casa, pare essere questo<br />

il solo conforto: attendere la provvidenza di madre natura.<br />

6d. Violabilità sessuale femminile<br />

Altra tematica rilevante e specifica nell’esperienza femminile della deportazione<br />

– e molto difficile da affrontare – è quella connessa alla violabilità<br />

sessuale.<br />

In una prima raccolta italiana di testimonianze di ebrei ed ebree italiane<br />

deportati, una testimone, a proposito del campo di Bolzano, avrebbe dichiarato<br />

al giornalista che “oltre ai maltrattamenti di ogni genere, le donne<br />

dovevano subire anche le violenze carnali degli aguzzini delle SS. Afferma<br />

la Costi Berta [la testimone intervistata] che quasi tutte le ragazze che venivano<br />

condotte in cella erano sottoposte a sconce infamie. Alcune di queste<br />

ragazze infatti portavano in seno il frutto della vergognosa polluzione” 127 .<br />

Emerge qui la rappresentazione corrente che una donna prigioniera rappresenti<br />

sempre una preda sessuale per il nemico dell’altro sesso, idea che<br />

implica tanto lo stereotipo quanto tragiche realtà di effettive violenze sessuali<br />

sulle donne. Questa specifica violabilità femminile in situazioni di conflitti<br />

e di prigionia è stata estesa anche ai lager nazisti e spiega come spesso<br />

le accoglienze riservate alle donne ex deportate fossero così profondamente<br />

pregiudiziali da questo punto di vista. Proprio questi sospetti e queste<br />

curiosità morbose indussero probabilmente le donne ex deportate a<br />

“ritrarsi in un doloroso silenzio e a rimuovere episodi su cui nemmeno oggi<br />

è possibile fare piena luce” 128 .<br />

“Sebbene il contatto con le donne ebree fosse punito come ‘peccato di razza’,<br />

sebbene lo sfruttamento fosse piuttosto praticato istituzionalmente nei bordelli<br />

istituiti in alcuni campi, c’è notizia di casi isolati di stupro, e soprattutto<br />

di una pratica diffusa di umiliazione dei corpi femminili” 129 .<br />

Nelle memorie italiane questo aspetto resta pudicamente in secondo piano<br />

ma non è taciuto. Liana Millu, narra la storia della piccola Lise che decide<br />

di tradire il marito lontano prostituendosi con un Hochane (sorvegliante)<br />

che suona l’armonica 130 per sfamarsi. E ancora la Millu racconta del terribile<br />

conflitto che si scatena fra due sorelle olandesi, quando una di loro sce-<br />

125 S. Vegetti Finzi, Prefazione, in M. Paulesu Quercioli, L’erba non cresceva ad Auschwitz…, cit.,<br />

p. 12.<br />

126 Beccaria Rolfi, L’esile filo della memoria…, cit., p. 61.<br />

127 G. Ottani, Un popolo piange. La tragedia degli ebrei italiani, Milano, Editore Spartaco<br />

Giovene, 1945, p. 125.<br />

128 Deportazione e memorie femminili…, cit., p. 123.<br />

129 Bravo, Corpi senza diritti…, cit, p. 125.<br />

130 Millu, Il fumo di Birkenau, cit. pp. 162-163.<br />

119


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

120<br />

glie di presentarsi al Puffkommando (il bordello) dove si mangia in abbondanza,<br />

e l’altra la odia per questo, ne rifiuta i doni e si lascia morire 131 . Del<br />

bordello di Auschwitz e delle sue ospiti “prostitute volontarie ariane” 132 , da<br />

cui talvolta le prigioniere più affamate accattonano senza successo un po’ di<br />

cibo, parla anche Giuliana Fiorentino Tedeschi. E pure Edith Bruck: “A<br />

parte la lotta per non morire, le donne, le più giovani, le più belle rischiavano<br />

di essere selezionate per i bordelli…” 133 . Anche nella recente raccolta di<br />

testimonianze di Mimma Paulesu Quercioli, Arianna Szörényi, deportata<br />

undicenne dal Friuli ad Auschwitz, accenna al fatto che nel Kinderblock<br />

dove lei si trovava, “certe volte, alla sera i tedeschi venivano a prendere<br />

anche delle bambine scegliendo fra quelle più grandi” 134 . Nella stessa raccolta,<br />

troviamo anche un vero e proprio racconto di stupro, che resta “come<br />

un segno per tutta la vita” 135 : Teresa, antifascista arrestata nel mantovano,<br />

viene violentata da un fascista di guardia e poi deportata come politica in<br />

un sottocampo di Auschwitz. La stessa Teresa racconta di baci scambiati,<br />

malgrado lo schifo, in cambio di patate con un vecchio “viscido come una<br />

serpe, brutto, disgustoso” 136 .<br />

Non sempre la Rassenschande (vergogna della razza) ovvero il comportamento<br />

indegno della propria razza, in base a cui non era consentito agli “ariani”<br />

avere rapporti sessuali con ebree, sembrava proteggere le prigioniere “razziali”.<br />

Emergono racconti di abusi sessuali da parte di “alcune donne ebree anche<br />

all’interno dei campi di concentramento e di <strong>sterminio</strong>” 137 .<br />

Tuttavia per molto tempo, come rileva Joan Ringelheim, “la maggior parte<br />

degli studiosi che hanno scritto sulle persone che si nascosero, che fuggirono,<br />

vissero in incognito, o che parteciparono alla Resistenza, ha minimizzato<br />

o ignorato la questione della vulnerabilità delle donne e degli abusi sessuali<br />

che esse subirono” 138 .<br />

131 Millu, Il fumo di Birkenau, cit., pp. 143-145.<br />

132 Fiorentino Tedeschi, C’è un punto della terra…, cit., pp. 151-152<br />

133 E. Bruck, Le mie esperienze con le donne, in L. Monaco (a cura di), La deportazione femminile…,<br />

op. cit., p. 68<br />

134 Paulesu Quercioli, L’erba non cresceva ad Auschwitz…, cit., p. 39.<br />

135 Paulesu Quercioli, L’erba non cresceva ad Auschwitz…, cit., p. 85.<br />

136 Paulesu Quercioli, L’erba non cresceva ad Auschwitz…, cit., p. 98.<br />

137 “Ad Auschwitz sono stata violentata”. Così si apre la testimonianza di un’ebrea deportata,<br />

raccolta nel 1982 dalla studiosa dell’Holocaust Memorial Museum di Washington, Joan<br />

Ringelheim, che ha poi lavorato su abusi sessuali e vulnerabilità femminile nell’Olocausto (J.<br />

Ringelheim, La scissione fra dimensione di genere ed Olocausto, in Donne nell’Olocausto…,<br />

cit., p. 358).<br />

138 Ringelheim, La scissione…, cit., p. 360. Per illuminare meglio questo silenzio sulle violenze<br />

subite dalle donne italiane durante la seconda <strong>guerra</strong> mondiale, occorre tenere presente<br />

anche il contributo di C. Venturoli, La violenza taciuta. Percorsi di ricerca sugli abusi sessuali<br />

fra il passaggio e l’arrestarsi del fronte, in Donne <strong>guerra</strong> e politica…, cit., pp. 111-137, oltre<br />

quello pionieristico di Bravo - Bruzzone, In <strong>guerra</strong> senz’armi. Storie di donne. 1940-1945,<br />

Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 131-159 e il più recente intervento di G. Gribaudi, Le voci dissonanti<br />

della retorica nazionale e lo stereotipo dell’identità italiana, “Genesis. Rivista della<br />

Società Italiana delle Storiche”, I/1, 2002, pp. 234-242.


Far parlare il silenzio:<br />

i bambini e la Shoah<br />

Bruno Maida, Storico, Università di Torino<br />

1. Nel mio intervento vorrei affrontare tre questioni, chiarendo così, fin da<br />

subito, il significato del titolo che ho proposto. La prima questione è il rapporto<br />

tra bambini e Shoah che deve essere inserita nel più ampio capitolo<br />

della politica nazista nei confronti dell’infanzia. È necessario infatti ribadire<br />

costantemente l’importanza della storicizzazione della Shoah, il che significa,<br />

da un lato, considerarla al pari di ogni fenomeno storico un processo, e<br />

quindi non un punto fermo nel tempo e nello spazio, che necessita di verifiche<br />

e revisione, spesso faticose e dolorose (per esempio, il caso del volume di<br />

Benjamin Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia 1939-1948, Mondadori,<br />

Milano, 1996); dall’altro, vuole dire contestualizzare, cogliere gli intrecci tra<br />

lungo, medio e breve periodo, comparare e utilizzare gli strumenti che le<br />

altre scienze sociali offrono a noi storici. Ciò risulta tanto più importante<br />

quando affrontiamo il tema dei bambini, soggetti della commozione più viva<br />

ma assenti dalla storia, potenziali e spesso reali strumenti dell’uso politico<br />

della storia o più semplicemente – ma in modo non meno grave – di una storia<br />

che punta solo sull’emotività. La seconda questione è quella del “silenzio”,<br />

e qui si impone chiarimento immediato. Certo, si può parlare di silenzio<br />

per quanto riguarda l’infanzia, argomento poco presente negli studi storici,<br />

e che non conosce fino a tempi recenti una specifica attenzione verso il<br />

destino dei bambini ebrei, zingari, slavi, malati di mente o handicappati<br />

sotto il regime nazista. E di silenzio si può parlare pensando ai numeri dello<br />

<strong>sterminio</strong> che, per le sue stesse caratteristiche, colpisce in modo particolarmente<br />

radicale le fasce più giovani (si pensi solo al 90 per cento di bambini<br />

italiani deportati e uccisi). Ma allo stesso tempo ciò non deve indurre a pensare<br />

che tale silenzio non consenta di raccontare – sebbene attraverso molte<br />

difficoltà – le vicende e le specificità della deportazione infantile: esistono<br />

fonti e strumenti del tutto adeguati e sufficienti che naturalmente richiedono<br />

impegno e sensibilità. La terza questione – direttamente connessa alla<br />

precedente – è però come raccontare la Shoah dei bambini e come raccontarla<br />

ai bambini. Raccontare e insegnare, dunque. Non è mia intenzione né<br />

appartiene alle mie capacità individuare strade privilegiate o scelte obbligate,<br />

tuttavia ritengo possibile riflettere intorno ad alcune cautele da avere<br />

presenti, intorno a problemi che non possono essere elusi, intorno a strumenti<br />

in grado di accompagnarci e di aiutarci in questo percorso.<br />

121


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

122<br />

2. I bambini come vittime del nazismo significa indagare sia l’esistenza di<br />

una specifica politica nazista nei confronti dell’infanzia sia come i bambini<br />

vissero il nazismo e quali mutamenti conobbero. Vuol dire altresì allargare<br />

lo sguardo a categorie e gruppi assai meno studiati come, per esempio, gli<br />

stessi bambini tedeschi. Raccontava Erika Mann che un ipotetico bambino<br />

che, nella Germania nazista, usciva la mattina per andare a scuola iniziava<br />

ad esclamare, fin sulle scale dove incontrava il “capo-isolato”, il primo del<br />

centinaio di Heil Hitler che lo avrebbe accompagnato nella sua giornata.<br />

Questo bambino assumeva un atteggiamento marziale e, camminando per<br />

le strade, non aveva ragione di domandarsi il perché dalle finestre spuntavano<br />

grandi bandiere con una croce uncinata in campo rosso, perché incontrava<br />

molti uomini in uniforme, perché su numerosi cartelli comparivano<br />

scritte che ringraziavano il Führer per il lavoro. “La strada per la scuola –<br />

scriveva Mann – lo porta a passare davanti a ristoranti, alberghi e piscine<br />

coperte. Anche qui spiccano dei cartelli, sui quali stavolta però campeggia la<br />

scritta: “L’entrata è vietata agli ebrei”, “Qui gli ebrei non sono desiderati”,<br />

“Non per ebrei!” Cosa prova il bambino alla loro vista? Consenso?<br />

Ribellione? Gioia? Disgusto? Certamente no. Sono quasi cinque anni che il<br />

bambino li conosce. “È naturale”, pensa, “logico che l’entrata sia vietata agli<br />

ebrei”. Non pensa altro. Troppo forte la situazione contingente, già arcinoto<br />

il cartello. Cinque anni nella vita di un bambino di nove costituiscono in<br />

realtà la sua vita, poiché i primi quattro anni è un piccino e soltanto nel<br />

quinto anno d’età ha in certo modo inizia la sua vera esistenza cosciente e<br />

ricettiva” [E. Mann, La scuola dei barbari. L’educazione della gioventù nel<br />

Terzo Reich, introd. di T. Mann, Giuntina, Firenze, 1997 (1 a ed. New York,<br />

1938), p. 28].<br />

Attraverso il percorso – metaforico e concreto – che il piccolo tedesco compie<br />

verso e dentro la scuola, si possono cogliere le tre essenziali dimensioni che<br />

caratterizzano un’analisi complessiva della persecuzione e dello <strong>sterminio</strong><br />

degli ebrei: l’insieme delle discriminazioni e delle esclusioni via via introdotte<br />

e che vengono poi definite attraverso le leggi razziali, sia in Germania<br />

sia in Italia sia ancora nei diversi paesi dell’Europa occupata (e quindi nel<br />

contesto della diffusione dei fascismi tra le due guerre); l’organizzazione e la<br />

pianificazione della deportazione e dello <strong>sterminio</strong>, che nel racconto di Erika<br />

Mann non compaiono, anche se quest’ultimo ci fa comunque comprendere<br />

come la persecuzione non si realizzi nel vuoto e sia tutt’altro che una radicalizzazione<br />

di un atteggiamento ideologico; le conseguenze psicologiche e<br />

culturali di cui sono vittime i sopravvissuti, le loro famiglie nonché i giovani<br />

tedeschi cresciuti nel cono d’ombra del nazismo.<br />

In questo contesto, la specifica politica nazista verso i bambini deve essere<br />

considerata, a mio modo di vedere, sotto diverse prospettive. Una – la più<br />

immediata ed evidente – è quella dell’emarginazione, della persecuzione e<br />

dello <strong>sterminio</strong> che colpisce in particolar modo ebrei, zingari e slavi, ai quali<br />

tuttavia è necessario aggiungere una quota di “bambini politici” come, per<br />

esempio, quelli nati e per lo più morti a Ravensbrück. Complessivamente<br />

nei Lager i bambini non hanno possibilità di sopravvivenza. Nei campi<br />

dell’Operazione Reinhard (Chelmo, Sobibor, Treblinka, Belzec) i bambini<br />

scampati alla morte si contano sulle punta delle dita di una mano. Il tredicenne<br />

Simon Srebnik diventa la mascotte delle SS di Chelmno. Alla liquidazione<br />

del campo le SS gli sparano ma, creduto morto, riuscirà a salvarsi.<br />

Anche Simha Bialowitz ha tredici anni e sopravvive a Sobibor lavorando<br />

nella foresta. Due anni in più ha Stanislaw Szmajzner che, nello stesso<br />

campo, durante la rivolta riesce ad evadere. Sono però casi isolati. I bambini<br />

che entrano nei centri della morte sono, nel migliore dei casi, utilizzati<br />

per brevi periodi come lavoratori-schiavi, e poi come tutti gli ebrei mandati<br />

a morire. Ad Auschwitz quelli troppo piccoli per lavorare sono immediata-


Far parlare il silenzio: i bambini e la Shoah<br />

mente uccisi. Le donne in stato interessante sono costrette ad abortire o<br />

sono eliminate con il neonato. Altre si salvano ma debbono sopprimere il<br />

figlio. Nel 1943 molti bambini biondi e con gli occhi azzurri sono sottratti<br />

dalle SS ai fini dell’Operazione Lebensborn. A settembre dello stesso anno<br />

viene iscritta per la prima volta nel registro del campo una bambina partorita<br />

ad Auschwitz. Nel complesso, nel Lager polacco si registrano almeno<br />

680 nascite. I gemelli o i bambini con deformazioni sono utilizzati dal dottor<br />

Mengele per “esperimenti medici”. A Ravensbrück la sorte dei bambini cambia<br />

invece continuamente. Fino a quando nel Lager vi sono quasi esclusivamente<br />

donne tedesche, i neonati sono sottratti alle madri per l’Operazione<br />

Lebensborn. Dal 1942 le prigioniere sono obbligate ad abortire, poi nel 1943<br />

il nuovo direttore sanitario decide che la gravidanza deve essere portata a<br />

termine ma, con maggiore crudeltà, ordina di sopprimere i neonati immediatamente,<br />

facendoli strangolare o annegare in un secchio d’acqua davanti<br />

alla madre. Le disposizioni cambiano con rapidità: nello stesso anno viene<br />

deciso che i neonati possono vivere ma alla madre non sarà fornito alcun<br />

aiuto in vestiti o in cibo. Nessuno sopravvive. Infine, nel settembre 1944 il<br />

direttore sanitario ordina che sia allestita una Kinderzimmer con cinque<br />

deportate utilizzate come infermiere. Malgrado la dedizione, le privazioni e<br />

la fantasia che le prigioniere mettono in atto per salvare questi neonati, la<br />

maggior parte muore. Le cifre più prudenti parlano di 509 bambini nati a<br />

Ravensbrück con una percentuale di mortalità del 74,8 per cento.<br />

Un’altra prospettiva riguarda lo <strong>sterminio</strong> eugenetico che trova la sua massima<br />

espressione nell’Operazione Eutanasia che vede la morte di circa 71<br />

mila persone di cui 5 mila bambini. Una parte subisce la stessa sorte degli<br />

adulti, inviati nei veri e propri centri dell’Eutanasia (Grafeneck, Hadamar,<br />

Brandenburg, Bernburg, Sonnenstein, Hartheim) e qui soppressi nelle<br />

camere a gas, nei camion a gas o in altre maniere brutali. Altri bambini sono<br />

lasciati morire di fame oppure – ed è la maggior parte – sono uccisi soprattutto<br />

attraverso la somministrazione, ripetuta per diversi giorni, di compresse<br />

di luminal, un sedativo che porta progressivamente ad un sonno continuo.<br />

Se questo metodo non funziona si utilizza una iniezione di morfina e<br />

scopolamina. I farmaci hanno inoltre il vantaggio che non provocano la<br />

morte direttamente bensì attraverso le complicazioni – per lo più polmonite<br />

– che derivano dall’overdose. Ne consegue che i medici possono registrare il<br />

decesso come “morte naturale”.<br />

Un’altra prospettiva ancora si riferisce allo sfruttamento dell’infanzia,<br />

drammaticamente ed esemplarmente evidenziato dall’Operazione<br />

Lebensborn, sulla quale vorrei soffermarmi, dato che costituisce uno dei<br />

capitoli meno noti e intorno a quali è maggiore l’ambiguità delle ricostruzioni.<br />

Il Lebesborn (letteralmente “sorgente di vita”) costituisce una delle<br />

istituzioni più controverse ed ambigue del Terzo Reich. Si tratta di un insieme<br />

di cliniche aperte in Germania, e poi anche nei territori occupati, descritte<br />

di volta in volta come bordelli, luoghi per la “procreazione forzata”, cliniche<br />

per l’assistenza alle ragazze-madri ariane, organizzazioni per il rapimento,<br />

nei territori occupati, di bambini considerati ariani e “germanizzati”.<br />

Viene fondata a Berlino da dieci Führern-SS il 12 dicembre 1935 e registrata<br />

regolarmente come società per iniziativa dell’Ufficio centrale della<br />

Razza e del Popolamento, in accordo con diverse organizzazioni per la protezione<br />

della madre e del fanciullo. Dal gennaio 1938 Lebensborn passa sotto<br />

la tutela dello Stato Maggiore SS, quindi sotto la diretta autorità del<br />

Reichsführer-SS Himmler, con il nome di ufficio “L”. Per assumere maggiore<br />

autonomia da Berlino, tre mesi dopo gli uffici sono spostati a Monaco. La<br />

sede centrale del Lebesborn è a Monaco, nei locali del Centro comunitario<br />

ebraico e della casa requisita a Thomas Mann. La prima clinica è aperta nell’agosto<br />

1936 a Steinhöring.. Prima dello scoppio della seconda <strong>guerra</strong> mon-<br />

123


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

124<br />

diale, funzionano sei cliniche Lebensborn, con 263 letti per le donne e 487<br />

per i bambini. L’organizzazione Lebensborn è finanziata dall’ente di<br />

Previdenza sociale nazionalsocialista attraverso una tassa obbligatoria che<br />

i dirigenti delle SS devono pagare. Gli ufficiali legati, in un modo o nell’altro,<br />

alle SS sono costretti da Himmler a farne parte; per tutte le altre SS l’adesione<br />

rimane volontaria. La nuova organizzazione non sembra peraltro<br />

ottenere un particolare successo se si pensa che nel 1939 le SS sono 238 mila<br />

di cui solo 8 mila aderiscono al Lebensborn che conta, nel complesso, 13 mila<br />

membri. Il motto del Lebensborn è “Per noi sia sacra ogni madre di buon<br />

sangue”. L’obiettivo delle cliniche Lebensborn è quello di garantire alle<br />

ragazze e alle donne che possano dimostrare la propria “purezza” razziale –<br />

siano oppure no sposate con membri delle SS, quindi comprese le ragazzemadri<br />

– le migliori condizioni per partorire. Himmler spera inoltre di frenare<br />

il numero degli aborti e dei bambini nati con malattie o malformazioni.<br />

Vuole diminuire la mortalità infantile e intende persino cambiare la concezione<br />

negativa che la gente comune ha verso le ragazze-madri. Insomma,<br />

quando nascono, le cliniche Lebensborn rappresentano il volto razziale della<br />

politica demografica di assistenza alla maternità. La “degenerazione progressiva<br />

della razza germanica”, secondo le parole di Himmler, viene combattuta<br />

nei Lebensborn in un contesto di notevole segretezza dovuta sia alla<br />

tradizionale aura di mistero che si vuole ammanti le SS sia, soprattutto, alla<br />

necessaria riservatezza che altrimenti allontanerebbe le potenziali ragazzemadri<br />

le quali, probabilmente, cercano spesso di fuggire dalle ire dei genitori,<br />

del pastore, del parroco o dal giudizio popolare del loro paese. Rimane<br />

anche segreto il nome della famiglia nel caso in cui il bambino sia adottato.<br />

È il Lebensborn a decidere se la ragazza-madre è idonea oppure no a tenere<br />

il bambino ma in ogni caso concede un anno di tempo per valutare le condizioni<br />

economiche e morali nelle quali il bambino sta crescendo. È peraltro<br />

vero che il Lebensborn ricorre poco frequentemente all’adozione. Vi è comunque<br />

la garanzia che tutti i documenti, tutte le notizie, tutti gli atti relativi al<br />

parto saranno distrutti e che sarà impossibile, anche volendo, risalire alla<br />

paternità e alla maternità del bambino nato all’interno dell’organizzazione.<br />

D’altra parte, l’atmosfera di mistero che aleggia intorno alle cliniche<br />

Lebensborn suscita immediatamente pettegolezzi e dicerie. Nel dopo<strong>guerra</strong><br />

la visione dei Lebensborn come bordelli ha comunque avuto una notevole<br />

fortuna, incoraggiata dalla morbosa curiosità verso gli abusi e i crimini nazisti,<br />

veri e falsi, di natura sessuale. La realtà demografica in cui si dibatte il<br />

nazismo è assai meno misteriosa: il tasso di nascita in Germania è molto<br />

basso e diminuisce dopo il 1933. Nel 1938, tra le coppie che si sono sposate<br />

nel 1933, il 31 per cento non ha ancora figli. La maggior parte si limita a uno<br />

o due figli, secondo un andamento demografico tipico dei paesi industrializzati<br />

che il nazismo eredita e non è in grado di modificare. Se poi si guarda<br />

alla situazione interna alle SS, il quadro è anche più grave. Nel 1939 i membri<br />

dell’“Ordine nero” che sono sposati raggiungono la cifra di 93 mila con<br />

circa 100 mila figli, dunque con una media di 1,1 per famiglia. Un po’ poco<br />

per questi “antenati di future generazioni e indispensabili alla vita eterna<br />

del popolo tedesco”, secondo le parole di Himmler. Tra gli ufficiali la media<br />

si alza a 1,5 e anche scorporando la fascia più giovane di questi non si supera<br />

l’1,7. L’età media del matrimonio tra le SS è alta, 32 anni, persino di un<br />

lustro superiore a quella complessiva della Germania. D’altra parte, la carriera<br />

di una SS è difficile, caratterizzata da spostamenti, dedizione e una<br />

forte competizione all’interno del gruppo. Sposarsi, peraltro, non è un’operazione<br />

semplice per una SS: deve fornire un’ampia documentazione per sé<br />

e per la futura moglie, sottostare a visite e giudizi continui, ottenere certificati<br />

firmati direttamente dal Reichsführer-SS. Himmler rimane senza parole<br />

quando, nel 1937, si accorge che l’Ufficio Razza e Popolamento è in arre-


Far parlare il silenzio: i bambini e la Shoah<br />

trato di 20 mila richieste di matrimonio. I risultati complessivi appaiono<br />

deludenti. Per quanto sia difficile giungere a cifre del tutto precise, è probabile<br />

che nei Lebensborn aperti in Germania non partoriscano più di 2 mila<br />

donne. Nel 1938 si rivolgono alle cliniche 653 madri e pur considerando i<br />

sottili distinguo degli addetti ai Lebensborn – i quali indicano 1.600 donne<br />

di cui la maggior parte rifiutate perché senza i requisiti razziali richiesti –<br />

la cifra appare davvero misera. Per i bambini illegittimi la questione è ancora<br />

più difficile da dipanare ma le statistiche delle SS, sempre per il 1938, ne<br />

indicano solo duecento. Con lo scoppio della <strong>guerra</strong> il Programma<br />

Lebensborn cambia volto a partire dal decreto del 28 ottobre 1939 dove, dopo<br />

due mesi di <strong>guerra</strong>, il Reichsführer-SS invita le SS a concepire figli prima di<br />

andare a combattere: “Al di là dei limiti imposti dalle leggi, dai costumi e<br />

dalle opinioni borghesi, forse necessari, – scrive Himmler – oggi per le donne<br />

e le ragazze di puro sangue tedesco diventerà una nobile missione il chiedere<br />

ai soldati in partenza per il fronte, siano esse sposate o no, di renderle<br />

madri”. Durante la <strong>guerra</strong> Himmler interverrà più volte sull’argomento e<br />

nell’agosto 1942, con ordine di Hitler, ritira dal fronte gli ultimogeniti dandogli<br />

il compito di far sì che attraverso la nascita di bambini “di sangue<br />

buono” le loro famiglie non si estinguano. È abbastanza naturale, quindi, che<br />

con l’inizio della <strong>guerra</strong> e con l’occupazione dell’Europa il Lebensborn allarghi<br />

la sua attività. Crea sezioni in Norvegia, Olanda, Belgio e Francia, con<br />

compiti in parte diversi da quelli svolti in Germania. Sebbene, anche in questo<br />

caso, coloro che si presentano a queste cliniche non siano ragazze irretite,<br />

sedotte o violentate dai soldati di occupazione – sollecitate ad affidarsi<br />

all’organizzazione “per nascondere il peccato”, con le più ampie garanzie di<br />

anonimato e la promessa di poter rientrare, a parto avvenuto, nei paesi d’origine<br />

–, nondimeno i Lebensborn realizzati nei paesi occupati non hanno<br />

solo una funzione ideologicamente condannabile ma a volte si macchiano di<br />

veri e propri crimini, come il rapimento di bambini. Con un’ordinanza dell’inverno<br />

1941, viene emanato l’ordine di individuare il “buon sangue” su<br />

tutto il territorio polacco. Dapprima la ricerca avviene negli orfanotrofi e<br />

presso le famiglie che, a causa del loro aspetto esteriore, sono da considerare<br />

come di razza nordica. I bambini fra i sei e i dodici anni che a un esame<br />

superficiale appaiono biologicamente idonei devono essere portati sul territorio<br />

germanico, sottoposti ad esame razziale e psicologico accurato e a visita<br />

medica approfondita da parte del servizio della Sanità. I bambini rimangono<br />

però sempre a disposizione degli ispettori del Lebensborn e dell’ispettore<br />

delle scuole a partire dal 1° aprile 1942. Invece i bambini dai due ai sei<br />

anni, adatti ad essere integrati nella nazione tedesca, dovranno essere trasferiti<br />

in una “casa” di proprietà del Lebensborn e di lì sistemati in famiglie<br />

di membri delle SS, senza figli, che avessero intenzione di adottarli. Anche<br />

in questo caso la tutela dei bambini rimane sempre all’organizzazione<br />

Lebensborn competente in materia di germanizzazione, compresi la scelta<br />

del nome e del cognome che devono essere rigorosamente tedeschi. Stabilite<br />

le regole della germanizzazione, inizia in Polonia il “ratto dei bambini”. La<br />

caccia ai futuri piccoli tedeschi è condotta in tutte le direzioni. Vengono controllati<br />

i luoghi istituzionali come asili, scuole, orfanotrofi; si cerca all’interno<br />

delle famiglie polacche adottive, presso le ragazze-madri, nei matrimoni<br />

misti, tra i genitori ostili alla germanizzazione, nei matrimoni misti in cui i<br />

genitori hanno divorziato. Ai bambini così rintracciati si aggiungono quelli<br />

di genitori deportati, sterminati o espulsi; i bambini presi a caso; quelli nati<br />

in campo di concentramento o in campi di lavoro, da madri deportate per<br />

lavori forzati; i bambini abbandonati oppure individuati a occhio come<br />

appartenenti a una “buona razza”, per strada, nei campi, dai ricercatori<br />

sguinzagliati su tutto il territorio; i bambini che hanno la sola colpa di essere<br />

nati con gli occhi azzurri e i capelli biondi. Ai bambini, conferita loro una<br />

125


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

126<br />

nuova identità e nuovi genitori, viene vietato di parlare nella lingua d’origine.<br />

La prassi si modifica a partire dal 1942: rinchiusi in centri di raccolta, i<br />

bambini idonei razzialmente sono affidati alla prima organizzazione mentre<br />

la seconda si occupa dei “bambini di eccezionale valore razziale”; quelli considerati<br />

“inferiori” vengono semplicemente lasciati morire. Non è mai stato<br />

possibile stabilire il numero esatto dei bambini rubati, poiché molto spesso<br />

i genitori furono uccisi o deportati e tutta la famiglia dispersa. Le stime più<br />

recenti indicano 200 mila bambini di cui il 15-20 per cento soltanto ha potuto<br />

riunirsi alla famiglia d’origine. Secondo il governo polacco i bambini<br />

strappati alle loro famiglie rappresentano il quindici per cento della popolazione<br />

infantile.<br />

Un’ultima – meno evidente ma non meno importante – prospettiva attiene<br />

agli effetti della politica nazista sui bambini tedeschi. Si tratta da un lato<br />

dell’organizzazione di una “educazione alla morte” che informa la scuola<br />

nonché le organizzazioni paramilitari quanto quelle ricreative; dall’altro<br />

degli effetti psicologici di lungo periodo per quanto riguarda sia la capacità<br />

dei tedeschi di riflettere da adulti sulla loro infanzia “nazista” sia i problemi<br />

vissuti o rimossi dai figli dei protagonisti o dei gregari dell’apparato<br />

burocratico, amministrativo, partitico e militare di Hitler. Nella Germania<br />

nazista non si parla più di “pedagogia” bensì di “scienza dell’educazione”,<br />

una sottolineatura che fin da subito rende evidente come al centro del progetto<br />

scolastico-educativo del Terzo Reich non vi sia l’individuo. O meglio:<br />

non vi è l’individuo nel suo percorso di crescita e formazione ma come parte<br />

di un’unità biologica. “Compito della scienza dell’educazione è allora quello<br />

di inserire l’individuo nella comunità etnica; comunità che ha nello stato<br />

nazionale lo strumento per esprimere la propria potenza” (B. Bandini, M.<br />

Pizzolini, Scuola e pedagogia nella Germania nazista, Loescher, Torino,<br />

1981, p. 16). Nel Mein Kampf, Hitler ha esposto in modo chiarissimo il suo<br />

pensiero sull’istruzione da impartire nella scuola: “Il complesso lavoro d’istruzione<br />

e d’educazione dello Stato nazionale – scrive il futuro Führer –<br />

deve trovare il suo coronamento nell’infondere, nel cuore e nel cervello della<br />

gioventù a lui affidata, il senso e il sentimento di razza, conforme all’istinto<br />

e alla ragione […]. Del resto, anche questa educazione deve trovare, dal<br />

punto di vista della razza, il suo adempimento supremo nel servizio militare.<br />

E in generale il tempo del servizio militare deve essere considerato la<br />

conclusione dell’educazione normale del Tedesco medio”. Come la famiglia,<br />

anche la scuola deve essere progressivamente subordinata alla dimensione<br />

militarista della vita quotidiana del Terzo Reich. La stato nazista deve però<br />

recuperare soprattutto quello che viene trascurato negli altri paesi e nelle<br />

altre culture; deve mettere la razza al centro della vita nazionale, deve<br />

preoccuparsi di conservarla pura e deve dichiarare il bambino il bene più<br />

prezioso di un popolo: “Primo perché – scrive ancora Hitler – la gioventù,<br />

appunto in virtù della sua ignoranza, rappresenta quasi sempre il soggetto<br />

che meno oppone resistenza e, secondo, i bambini di oggi saranno gli adulti<br />

di domani e chi li ha veramente conquistati può credersi signore del futuro”.<br />

La Germania, per vendicarsi della sconfitta della prima <strong>guerra</strong> mondiale,<br />

non ha bisogno – secondo il Führer – di nozioni, di una cultura scientifica,<br />

bensì di carattere. E questo può essere forgiato solo attraverso una cultura<br />

della forza. L’educazione fisica e l’educazione all’azione sono perciò le uniche<br />

degne di attenzione. Nelle scuole naziste non vi è posto per i deboli. Quelli<br />

che non sono fisicamente adatti e non sono sufficientemente ubbidienti e<br />

sottomessi devono essere espulsi. Ciò sarà ben espresso dal Decalogo sul<br />

dovere di essere sano elaborato dalla Hitlerjugend, che al punto primo recita<br />

“il tuo corpo appartiene alla tua nazione, perché a essa devi la tua esistenza,<br />

dinanzi a essa sei responsabile del tuo corpo”, che definisce una serie<br />

di precetti igienico-alimentari (tenere il corpo pulito, curare i denti, assu-


Far parlare il silenzio: i bambini e la Shoah<br />

mere molte vitamine, evitare alcool e tabacco, dormire nove ore per notte),<br />

che invita ad esercitarsi nel pronto soccorso (“Potrai salvare la vita ai tuoi<br />

camerati”) e che all’ultimo punto afferma “Al di sopra di ogni tua azione sta<br />

la parola d’ordine: Hai il dovere di essere sano!”). Questa appartenenza completa<br />

allo stato esemplifica, con chiarezza, la dimensione totalitaria a cui<br />

tende il nazismo e che per quanto riguarda la politica scolastica passa attraverso<br />

una serie di momenti e interventi: l’unificazione e la centralizzazione<br />

del sistema educativo (che comprende severe restrizioni agli istituti privati,<br />

tanto che la maggioranza di essi è costretta a interrompere l’attività); la<br />

riorganizzazione degli uffici pubblici con l’espulsione dei “non ariani”; la<br />

revisione dei piani scolastici e degli strumenti didattici; la formazione di<br />

“scuole apposite per la formazione della propria élite razziale-nazionale”;<br />

l’inserimento dell’iter scolastico in un più ampio e complesso percorso educativo<br />

composto di istituzioni ed esperienze esterne alla scuola (organizzazione<br />

politica della gioventù e mondo del lavoro) ma tutte rivolte a creare<br />

l’“uomo nazista”.<br />

3. La storia dei bambini (non solo ebrei), per quanto riguarda sia la politica<br />

nazista sia quella fascista, necessita ancora di ampie e approfondite messe<br />

a punto, non solo in relazione ai modelli di educazione e di formazione ma<br />

anche ad aspetti non secondari quali, per esempio, il tempo libero, il vissuto<br />

della <strong>guerra</strong>, ecc. Negli ultimi anni, tuttavia, una serie di lavori e di riflessioni<br />

hanno indicato fertili strade di ricerca, in parte proficuamente percorse:<br />

il fondamentale lavoro di D. Dwork, Nascere con la stella. I bambini ebrei<br />

nell’Europa nazista (Marsilio, Venezia, 1994) mentre per l’Italia sono<br />

costretto a rinviare al volume di Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida, Il futuro<br />

spezzato. Il nazismo contro i bambini (Giuntina, Firenze, 1997); su un<br />

piano che intreccia storia e pedagogia penso ai lavori curati da Nardi e<br />

Giuntella, ma anche alle sintetiche ma assai utili pagine conclusive del saggio<br />

di Maria Bacchi (Cercando Luisa. Storie di bambini in <strong>guerra</strong>, 1938-<br />

1945, Sansoni, Milano, 2000). Vorrei infine segnalare due tesi di laurea –<br />

una discussa all’Università di Siena, una all’Università di Torino – che indicano<br />

perlomeno un parziale (e spero non del tutto casuale) mutamento di<br />

rotta: la prima incentrata sul tema della memoria, la seconda sulla letteratura<br />

per l’infanzia. Mentre poi è sostanzialmente assente qualsiasi<br />

approfondimento sugli zingari (si può segnalare solo il quaderno Bambini<br />

Zingari nei Lager, a cura dell’Associazione Italiana Zingari Oggi, Quaderni<br />

Zingari n. 38, suppl. a “Zingari Oggi”, dicembre 1992), per quanto riguarda<br />

le leggi razziali in Italia sono nuovamente costretto in tal senso a rinviare<br />

ad un volume da me curato 1938. I bambini e le leggi razziali (Giuntina,<br />

Firenze, 1999). Certo, le difficoltà nel ricostruire tali dimensioni non sono<br />

poche. Vale la pena ricordare infine un volume appena apparso per i tipi di<br />

Zamorani dal titolo C’era una volta la <strong>guerra</strong>, curato da Sonia Brunetti e<br />

Fabio Levi, che raccoglie una selezione mirata di testimonianze raccolte nel<br />

corso di un’iniziativa di qualche anno fa della Scuola ebraica di Torino dal<br />

titolo “I nonni raccontano”. Perché all’interno di una ormai vastissima produzione<br />

storiografica sulla Shoah, così poco spazio è stato dedicato ai bambini?<br />

Innanzitutto, nella “Soluzione finale” i bambini sono destinati alla<br />

morte immediata, anzi, come nota Deborah Dwork, non sono neanche percepiti<br />

come persone bensì come appendici dei genitori, nello specifico delle<br />

madri, e quindi non registrati. “Quando i tedeschi diedero inizio all’annientamento<br />

in massa degli ebrei – scrive la storica americana –, la meticolosità<br />

burocratica fece posto a considerazioni di efficienza operazionale; se per i<br />

funzionari i giovani erano stati irrilevanti, per i carnefici furono semplicemente<br />

irritanti. Non erano altrettanto facilmente controllabili degli adulti<br />

(avevano difficoltà a capire gli ordini, piangevano, si ribellavano all’interru-<br />

127


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

128<br />

zione delle consuete abitudini), rappresentavano un ostacolo per l’efficienza<br />

del sistema di <strong>sterminio</strong> che dipendeva dal mantenimento della calma e dall’illusione<br />

della normalità” (p. 319). Peraltro, per quanto attiene allo specifico<br />

nazista, la distruzione quasi totale dei testimoni più piccoli e persino l’assenza<br />

del loro passaggio nelle “fabbriche della morte” si affianca ad un analogo<br />

impegno di occultamento presente sia nelle operazioni che presiedono<br />

l’Operazione Eutanasia sia, tanto più, nella preparazione e nella realizzazione<br />

dell’Operazione Lebensborn. Né bisogna dimenticare che le stesse persone<br />

che si impegnano a nascondere e a proteggere i bambini dalla deportazione<br />

e dallo <strong>sterminio</strong> distruggono a loro volta quel materiale documentario<br />

che potrebbe essere utile ai carnefici per rintracciarli. E ancora: non si<br />

deve essere condizionati eccessivamente dall’esperienza, per molti versi<br />

unica, di Anna Frank, perché – è sempre Dwork a notarlo – “a causa della<br />

grande popolarità del diario […] si è diffusa l’errata convinzione che per<br />

quei giovani, che come Anna vissero isolati, nascosti in solai o cantine, tenere<br />

un diario fosse una normale attività, dipendente più dal temperamento<br />

individuale che dalle circostanze” (p. 325). Al contrario, per la maggior parte<br />

dei bambini e dei giovani risulta difficile se non impossibile avere gli strumenti<br />

oppure la possibilità di tenere qualsiasi sorta di diario o di appunto,<br />

se non altro per i rischi che si potrebbero correre genere nel caso in cui si<br />

venisse sorpresi. Questo senza tenere conto della fascia dei bambini più piccoli<br />

i quali naturalmente non producono testimonianze scritte.<br />

Ciò nondimeno – ed è stato ampiamente dimostrato a livello europeo – è sufficiente<br />

allargare il proprio sguardo a fonti meno tradizionali per rendersi<br />

conto delle possibilità di ricerca e di didattica esistenti. Vorrei limitarmi a<br />

due esempi. Il primo riguarda la fotografia. “Guardo le facce dei passanti –<br />

scrive nel suo diario, dal ghetto di Varsavia, Mary Berg [Il ghetto di<br />

Varsavia. Diario (1939-1944), Einaudi, Torino, 1991], alla data del 5 febbraio<br />

1941 – livide di freddo, e cerco di imprimermi nella mente le immagini delle<br />

donne senza tetto, avvolte in stracci, e quelle dei bambini con le guance screpolate<br />

dal gelo. Questi disgraziati si ammucchiano insieme sperando di<br />

riscaldarsi un poco”. In quegli stessi giorni, approfittando di uno dei tanti<br />

varchi che si aprono nel muro – gli stessi che i bambini utilizzano per fare<br />

contrabbando, quando non passano per le fogne – un militare tedesco entra<br />

nel ghetto per cercare una conoscente di prima della <strong>guerra</strong>. Il trentacinquenne<br />

Joe Julius Heydecker, soldato della Wehrmacht, inviato a Varsavia<br />

con la compagnia Propaganda 689 come assistente di laboratorio fotografico,<br />

viene così a contatto con la realtà dello <strong>sterminio</strong> degli ebrei. Vede intorno<br />

a sé i volti emaciati dei bambini, le teste chine dei passanti che devono<br />

togliersi il cappello quando passa un tedesco, i mendicanti di tutte le età<br />

lungo le strade, le stanze con decine di persone che le abitano, stese sul freddo<br />

pavimento. Heydecker, che non è un fanatico nazista, anzi per cultura e<br />

formazione sente di essere un “nemico” del regime di Hitler, torna un mese<br />

dopo per documentare, con la macchina fotografica, la realtà del ghetto, convinto<br />

“che di tutte quelle infelici persone si fosse decisa, anzi premeditata,<br />

la morte”. Il centinaio di immagini che Heydecker realizza costituiscono uno<br />

straordinario reportage sul ghetto di Varsavia (Il Ghetto di Varsavia. Cento<br />

foto scattate da un soldato tedesco nel 1941, La Giuntina, Firenze, 2000). Il<br />

fotografo racconta la sua storia di soldato che viene a diretta conoscenza dei<br />

crimini nazisti e tedeschi – perché di questa doppia e inscindibile dimensione<br />

appare del tutto consapevole – e, da un lato, non è in grado di ribellarsi,<br />

dall’altro una spinta etica lo porta a fermare almeno nell’immagine l’orrore<br />

di cui è testimone. Le sue fotografie sono forse meno esemplari della violenza<br />

esistente nel ghetto rispetto, per esempio, a quelle scattate a Varsavia da<br />

un altro soldato tedesco, Heinz Jöst, nel settembre 1941, e caratterizzate<br />

dagli aspetti più disumani e crudeli, specie attraverso le immagini dei corpi


Far parlare il silenzio: i bambini e la Shoah<br />

scheletriti dei bambini riversi e morenti sulle strade. Tuttavia, Heydecker<br />

sembra voler testimoniare – specie attraverso l’insistenza sui volti – la sofferenza<br />

più profonda, quella dell’umiliazione, dell’offesa all’umanità e alla<br />

dignità. Vi è parallelamente una chiara attenzione alla vita quotidiana, al<br />

gesto consueto, ad una sorta di normalità di cui lo stesso fotografo non riesce<br />

a dare conto dopo tanti anni, sapendo come poi in breve tempo le condizioni<br />

del ghetto e dei suoi abitanti sarebbero decisamente peggiorate. Così,<br />

in un’immagine dove un gruppo di persone sembra camminare compatto<br />

verso la macchina fotografica, emergono al di sopra delle teste alcuni palloncini:<br />

“In tutti gli anni passati – scrive Heydecker –, finché questa foto non<br />

fu ingrandita, se mi avessero domandato se nel ghetto mi ero imbattuto in<br />

un venditore di palloncini per bambini, avrei giudicato del tutto stravagante<br />

la domanda ed escluso la possibilità; tuttavia la fotografia lo prova: in<br />

principio c’erano ancora i palloncini nel ghetto di Varsavia. Bisogna essere<br />

prudenti coi ricordi”.<br />

Il secondo si riferisce alla musica. Esemplari, da questo punto di vista, le<br />

possibilità che offrono i materiali documentari e musicali riguardanti<br />

Terezin, come composizione sia scritte nel periodo di <strong>guerra</strong> sia successivamente:<br />

a titolo di esempio, si veda l’ampio materiale esistente su Gideon<br />

Klein, F. Waxmann (The Song of Terezín) e V. Ullmann (Prima e Seconda<br />

sinfonia), ma anche le ricche schede in Musiche da un campo di concentramento:<br />

Terezín (Programma di Sala, Orchestra Sinfonica Nazionale della<br />

Rai, Torino, 16/19 giugno 1998), nonché le informazioni contenute in molti<br />

siti Internet. The Song of Terezín di Franz Waxman fa parte, così come A<br />

Survivor from Warsaw di Arnold Schönberg, la Deutsche Sinfonie de Hanns<br />

Eisler ed il Requiem Ebraico di Eric Zeisl, di quei monumenti musicali alla<br />

memoria delle sofferenze causate dal regime nazista. Nato in Germania nel<br />

1906 (morirà nel 1967 a Los Angeles), ebreo, Franz Waxman, dopo aver subito<br />

maltrattamenti e percosse in una strada di Berlino nel 1934, fugge a<br />

Parigi, poi emigra in California dove inizia a scrivere partiture per musica<br />

da film. L’idea di The Song of Terezín nasce da una commissione. Waxman<br />

sta cercando un testo per un’opera sui bambini e con i bambini (tema imposto<br />

dal Cincinnati May Festival) quando sente parlare nel 1964 della raccolta<br />

di poemi e di disegni dei bambini cecoslovacchi del campo d’internamento<br />

di Terezín. Alcuni di essi, tra i pochi sopravvissuti, sono riusciti<br />

durante la loro permanenza nel campo di concentramento – secondo l’analisi<br />

di Waxman – a scorgere dal loro inferno la vita all’esterno del muro, a<br />

richiamare i ricordi della loro vita precedente, o a fuggire in un paradiso<br />

immaginario attraverso il sogno e l’universo dei racconti. Nell’arco di tre<br />

mesi (dal novembre 1964 al 12 febbraio 1965), Waxman compone The Song<br />

of Terezín per coro di bambini, mezzo soprano e orchestra, che viene eseguito<br />

il 22 maggio 1965 con 600 cantori, la Cincinnati Synphony Orchestra e la<br />

solista Betty Allen. Il successo della prima è confermato nelle numerose<br />

repliche a Los Angeles (dirette dallo stesso Waxman), a New York (il 19<br />

marzo 1968), a Vienna e durante la cerimonia d’inaugurazione dell’Archivio<br />

Video per le Testimonianze dell’Olocausto presso l’Università di Yale (il 27<br />

aprile 1987). Secondo i critici, il carattere espressionista della musica di<br />

Waxman aggiunge alle visioni (sogni e immaginazione) dei bambini la consapevolezza<br />

del loro destino. Solo qualche passo, come il terzo movimento,<br />

lascia sfuggire la musica, a beneficio del testo, verso un’atmosfera giocosa<br />

portata da un tono leggero, sereno, che per un breve momento lascia dimenticare<br />

il luogo in cui ci si trova. Gli altri movimenti sono dominati dall’oppressione<br />

di un’atmosfera minacciosa. Non esiste unità formale, ma “lo spirito<br />

nel quale l’opera è stata pensata globalmente, le circostanze tragiche, la<br />

presenza malinconica e il coraggio di quegli innocenti”, sono le caratteristiche<br />

che conferiscono unità ai Lieder, secondo Waxman. Così come nella cita-<br />

129


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

130<br />

zione della Sonata al chiaro di luna di Beethoven nel sesto lied tutta l’opera<br />

fa nascere, unitamente ai ricordi e alle speranze dei bambini, un’atmosfera<br />

in cui risuscitano i tempi passati e scomparsi.<br />

Mi preme, prima di passare a trattare l’ultimo punto, sottolineare l’importanza<br />

progressiva – ma la cui rilevanza non mi pare sia stata ancora sufficientemente<br />

compresa ed elaborata – della memoria dei bambini ebrei non<br />

deportati, che solo negli ultimi anni hanno iniziato a raccontare le loro<br />

vicende. In questo caso, ci troviamo in un ambito storiografico ancora in<br />

gran parte insondato, anche in ragione della scarsa consuetudine nei confronti<br />

di approcci interdisciplinari – nello specifico, soprattutto utilizzando<br />

strumenti e categorie psicologiche – a fronte di una produzione memorialistica<br />

in costante aumento. Le ragioni del lungo silenzio di quei bambini di<br />

allora sono molteplici. Se ne possono sottolineare alcune, che hanno anche<br />

inciso in parte su tutta la produzione di scritti di memoria sulla deportazione<br />

nei Lager nazisti, almeno per quanto riguarda l’Italia. Innanzitutto, si<br />

deve rilevare l’idea diffusa di una sorta di razzismo e di antisemitismo edulcorati<br />

che avrebbero caratterizzato il nostro paese unitamente al mito degli<br />

“italiani brava gente”, elementi che hanno costituito un importante ostacolo<br />

per chi doveva spesso raccontare di isolamento, rifiuto, arresti e delazioni<br />

da parte dei connazionali. Nel complesso, la scoperta della “parola ebreo”<br />

– per fare riferimento alla bella testimonianza di Rosetta Loy (La parola<br />

ebreo, Einaudi, Torino, 1997) – ha rappresentato un problema, un trauma,<br />

una conquista, un rifiuto che in ogni caso ha significato, nei diversi paesi<br />

dominati dal nazismo o alleati con esso, un processo difficile e in parte ancora<br />

da indagare. In secondo luogo, nell’immediato dopo<strong>guerra</strong> i bambini<br />

sopravvissuti sono ancora troppo piccoli per raccontare mentre quando, all’inizio<br />

degli anni Sessanta, inizia una più fertile stagione per la letteratura<br />

della deportazione sono il Lager e la sua violenza ad essere al centro del racconto,<br />

non certo coloro che non vi sono nemmeno stati. In terzo luogo, non si<br />

possono tralasciare le profonde ragioni individuali legate al senso di colpa<br />

del sopravvissuto – anzi dello scampato – di fronte a famiglie completamente<br />

distrutte. In quarto luogo, un ruolo decisivo gioca l’esaltazione della<br />

Resistenza armata, l’aura di eroismo che accompagna il combattente mentre<br />

il Lager, e tanto più chi si è nascosto, appaiono come forme minori – per<br />

non dire inesistenti – di ribellione o rifiuto del fascismo e del nazismo.<br />

4. Per quanto riguarda il problema di come raccontare la Shoah, vorrei<br />

innanzitutto sottolineare – sebbene in forma radicalmente sintetica ma il<br />

discorso ci porterebbe troppo lontano – che, a mio modo di vedere, esso è condizione<br />

essenziale per giungere ad insegnare Auschwitz. “Raccontare è<br />

comunicare un senso”, ha scritto giustamente Massimo Giuliani (Auschwitz<br />

nel pensiero ebraico, Morcelliana, Brescia, 1998, p. 18), aggiungendo:<br />

“Dubitare di questa narrabilità è dubitare che il narrato sia sensato e credibile”.<br />

Decidere quindi di raccontare la Shoah costituisce quindi una prima<br />

netta, laica e storiografica presa di posizione. Decidere poi di raccontare la<br />

Shoah (mettendo cioè l’accento sul secondo termine) è una seconda importante<br />

scelta, invece che porre in rilievo l’olocausto, la catastrofe, Auschwitz.<br />

Non voglio qui entrare in un dibattito che è già stato ampiamente sintetizzato<br />

da Anna-Vera Sullam Calimani (I nomi dello <strong>sterminio</strong>, Einaudi,<br />

Torino, 2001) ma vale la pena di sottolineare come non si tratti di una semplice<br />

questione nominalistica: “Anche i nomi dati allo <strong>sterminio</strong> – ci ricorda<br />

la Calimani – sono delle metafore che dimostrano in quali archetipi e in<br />

quali paradigmi di altre epoche gli eventi di quegli anni furono inseriti dai<br />

primi testimoni o commentatori e, successivamente, come queste metafore<br />

abbiano dato vita ad altre metafore che hanno lentamente modificato la<br />

nostra percezione dello <strong>sterminio</strong> stesso” (pp. 10-11).


Far parlare il silenzio: i bambini e la Shoah<br />

Vi propongo quindi, in forma del tutto schematica e in maniera non originale,<br />

un decalogo che si basa sulle riflessioni in tal senso sviluppate da<br />

Sonia Brunetti e Fabio Levi (I ventenni e lo <strong>sterminio</strong> degli ebrei, Zamorani,<br />

Torino, 1999) in forma direi prescrittiva e da Alberto Cavaglion (Piccoli consigli<br />

al ventenne che in Italia studia la Shoah, in “Belfagor”, n. 326, 31 marzo<br />

2000) in modo polemico. Ciò che ho provato a fare è semplicemente di ricavare<br />

una serie di indicazioni per affrontare il rapporto tra bambini e Shoah.<br />

Alcune hanno carattere generale, altre si riferiscono alla dimensione specifica:<br />

– Emotività e racconto: se l’insegnamento è un rapporto fortemente personalizzato<br />

e se una conoscenza condivisa passa anche attraverso la capacità<br />

di suscitare emozioni, ciò lo sarà ancora di più con la Shoah dove le risonanze<br />

emotive si amplificano e ancor di più se al centro vi sono i bambini.<br />

Ma parlare di bambini non è questione di buon cuore bensì storica e di trasmissione<br />

culturale.<br />

– I testimoni e i fatti: storia e memoria non sono la stessa cosa. I testimoni<br />

non possono raccontare ciò che la storia non può dire: essi possono raccontare<br />

ciò che hanno visto (spesso una frazione molto piccola dell’universo concentrazionario),<br />

aiutare a entrare in dinamiche umane e disumane difficilmente<br />

comprensibili per lo studioso, possono illuminare aspetti che i documenti<br />

non sono in grado di rilevare. Insomma sono una fonte straordinariamente<br />

importante – tanto più perché umana – per la storia. La storia viceversa<br />

deve essere attenta nel rigore nella sequenza dei fatti, nell’uso di un<br />

linguaggio adeguato (e continuamente decodificato), nel controbattere con<br />

cura i pregiudizi più radicati.<br />

– La storia è un processo e come tale è sottoposto ad una continua revisione<br />

storiografica.<br />

– Non esiste solo la deportazione razziale, ma anche quella politica e quella<br />

militare. Vi sono differenze e analogie ma tutte devono essere comprese perlomeno<br />

nella più generale storia del nazismo, del fascismo e della seconda<br />

<strong>guerra</strong> mondiale.<br />

– Gli strumenti e le fonti sono molte e diverse. Ciò individua una straordinaria<br />

possibilità per lo studioso ma anche la necessità di fornirsi del bagaglio<br />

culturale adeguato.<br />

– Oblio e memoria; amnesia e amnistia.<br />

– La Shoah non può essere imposta dall’alto per circolare ministeriale.<br />

– La Shoah avvelena chi se ne occupa: il pericolo di diventare professionisti<br />

della Shoah esiste ma è anche vero che si è trattato spesso di una dovuta<br />

supplenza di fronte al silenzio.<br />

– Non si può abbellire ma neanche usare l’orrore. Il punto è un altro: “le storie<br />

su Auschwitz non sono state concepite per confortarti ma per affliggerti”<br />

(Cavaglion).<br />

– Parlare ai bambini dei bambini significa raccontare un universo comprensibile<br />

e ricostruibile, ma a condizione che si guardi con gli occhi dei bambini.<br />

131


fgsgf


Testimonianza<br />

Liliana Segre, Ex-deportata ad Auschwitz<br />

È sempre difficile per me cominciare la mia testimonianza, perché fino a un<br />

minuto fa ero quella che sono, una vecchia signora di 72 anni, una moglie,<br />

una mamma, una nonna, una donna qualunque; poi quando comincio a raccontare,<br />

perché io c’ero, torno a essere quella bambina, quella bambina di<br />

allora perché tutto sommato ognuno di noi resta il bambino che è stato,<br />

anche se diventa vecchio, anche se ha le rughe, anche se fa fatica a camminare,<br />

dentro di sé è sempre quel bambino che è stato. E io ero una bambina,<br />

una bambina milanese, perché sono nata a Milano nel 1930, da una famiglia<br />

ebraica, agnostica, laica, non praticante assolutamente, una famiglia italiana<br />

da secoli, in una famiglia estremamente integrata nel contesto della<br />

città, e io ero una bambina amatissima, una piccola famiglia borghese. Non<br />

avevo la mamma, vivevo con mio papà e i miei nonni, figlia unica super<br />

amata, una famiglia qualunque, una famiglia come tante. Ero una bambina<br />

uguale alle altre bambine che come me avevano frequentato la prima e la<br />

seconda elementare in una scuola pubblica, improvvisamente, mio papà<br />

cercò di spiegarmi che in quell’autunno non avrei più potuto andare nella<br />

mia scuola. In quell’attimo lo stupore di allora, lo stupore di essere considerata<br />

diversa, io che mi sentivo così uguale. E mi ricordo, uno dei miei primi<br />

ricordi di quell’anno, del 1938, che per andare nella nuova scuola (privata)<br />

attraversavo le stesse vie più o meno del quartiere dove abitavo, incrociavo<br />

le bambine che mi consideravano diversa perché mi segnavano col dito, quelle<br />

che erano state le mie compagne di scuola in prima e in seconda elementare,<br />

dicevano: “Quella lì è la Segre, non può più venire a scuola perché è<br />

ebrea”. E io lo dico sempre quando parlo ai ragazzi che quel momento è<br />

rimasto impresso nella mia testa perché è stato un momento molto grave<br />

nella mia vita, quell’essere segnata a dito, essere considerata diversa. Mi<br />

ricordo quegli anni della persecuzione razziale fascista, quegli anni in cui<br />

non potevamo tenere la donna di servizio, veniva la polizia in casa continuamente<br />

a controllare i nostri documenti, a perquisire. Io mi ricordo che<br />

nella nuova scuola non parlavo mai di quello che succedeva a casa mia, io<br />

ricordo che allora cominciai a vivere su due piani. Perché mentre nella scuola<br />

io ero una bambina assolutamente uguale alle altre, quando uscivo ecco<br />

che già negli occhi di mio papà vedevo quella tristezza, quell’umiliazione e<br />

capivo delle cose che alla mia età di solito non si capiscono. Io non raccontavo<br />

di come entravano i poliziotti con aria truce, in casa andavo ad aprire<br />

assieme alla nonna, che era una vecchia signora dell’800, e si stagliavano<br />

133


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

134<br />

nella porta le figure di poliziotti, entravano e rimanevano spiazzati da quella<br />

vecchia signora che li faceva accomodare in salotto e offriva loro dei dolcetti.<br />

Eravamo nemici della patria! La nonna mi diceva: vai di là a giocare.<br />

Io ricordo che come lei chiudeva la porta avevo una grande tentazione di<br />

stare a sentire cosa avevano da dire i poliziotti in casa mia, però avevo anche<br />

paura di questo e andavo di là a giocare. Ma diventavo grande, giocavo sempre<br />

meno, poi non ho giocato più.<br />

Poi è scoppiata la <strong>guerra</strong> e con i primi bombardamenti su Milano del 1942,<br />

bombardamenti molto forti, sfollammo in un paese della Brianza dove non<br />

c’era la scuola privata, quindi io alla pubblica non potevo andare, a 12 anni<br />

stavo sempre a casa. Accudivo con amore infinito mio nonno che aveva il<br />

morbo di Parkinson. Era il mio nonno, con cui ero andata al cinema, con cui<br />

avevo fatto passeggiate nella nostra vita precedente; ora era un rottame,<br />

purtroppo col cervello molto sveglio per capire quello che succedeva, la tragedia<br />

che incombeva su di noi, anche se ancora nessuno aveva capito o voleva<br />

capire le dimensioni della tragedia. Mi ricordo che sentivo la radio dei<br />

vicini, perché la polizia era venuta in casa nostra anche lì e aveva sigillato<br />

l’apparecchio radio su un’unica stazione italiana, mentre dai vicini – che<br />

erano cattolici e non avevano queste proibizioni – si poteva girare la manopola<br />

a noi proibita e sentire Radio Londra. Nei miei 12 anni ero diventata<br />

un’esperta di bollettini di <strong>guerra</strong> e di quella specie di rebus che erano i messaggi<br />

in codice che venivano comunicati dal famoso colonnello Stevens e che<br />

davano speranze, illusioni, voglia di tradurre i messaggi che venivano da un<br />

mondo che sembrava lontanissimo. Dopo l’8 settembre del 1943 i nazisti<br />

divennero padroni dell’Italia del Nord, ecco che alle leggi razziali fasciste,<br />

severe, umilianti, persecutorie e degradanti, si sovrapposero le leggi razziali<br />

di Norimberga che avevano due paroline nel loro testo e contesto: “soluzione<br />

finale”, a cui nessuno voleva o sapeva dare il giusto significato.<br />

Cominciò una caccia all’uomo casa per casa, ecco che i nazisti, aiutati dai<br />

loro servi repubblichini, avevano in mano gli elenchi che questori e prefetti<br />

già da tempo avevano loro consegnato, con tutti gli indirizzi e i nomi degli<br />

Ebrei italiani. Venivamo ricercati casa per casa, con uno spiegamento di<br />

forze quasi ridicolo, se avessimo avuto voglia di ridere, perché guardie armate<br />

fino ai denti andavano cercando casa per casa, vecchi, donne incinte,<br />

ragazzi, chiunque. Loro non arrivarono a prendere me in quel momento perché<br />

mio papà decise che io sarei andata via di casa, e mi ricordo che degli<br />

amici eroici, perché allora bisognava essere eroici per tenere nascosta una<br />

ragazzina ebrea in casa con i documenti falsi così come avevo io, mio papà<br />

mi obbligò ad andare da quegli amici che mi tennero nascosta. E io non sapevo<br />

che non avrei più visto i miei nonni, non sapevo che non avrei mai più<br />

visto la mia casa di allora, nonostante questo non volevo partire, non volevo<br />

andare via proprio solo io. Ma non ci fu da discutere, quella volta mio papà,<br />

che era dolcissimo e non assolutamente severo, si impose con la forza della<br />

disperazione e mi obbligò ad andare con quegli amici. Fui nascosta prima in<br />

montagna e poi vicino a Milano a Castellanza, dove fui per tutto ottobre e<br />

per tutto novembre 1943, morta già di nostalgia di casa e mio papà, con gran<br />

pericolo, veniva a trovarmi. Io lo supplicavo: scappiamo in Svizzera, andiamo<br />

in Svizzera, scappiamo, scappiamo, lui non voleva lasciare i suoi genitori.<br />

Ma ecco che riuscì ad avere a caro prezzo un permesso dalla Questura di<br />

Como, un permesso che io ritrovai poi tra delle vecchie carte, in cui c’era<br />

scritto che il questore di Como dava il permesso che i vecchi Olga e Giuseppe<br />

Segre, ammalati, “impossibilitati a nuocere al grande Reich tedesco” (certo<br />

erano veramente impossibilitati a nuocere al grande Reich tedesco), potevano<br />

stare nella loro casa di Inverigo sotto l’obbligo di sorveglianza da parte<br />

dei padroni di casa. Con questo permesso che non sapevamo sarebbe stato<br />

carta straccia, visto che i miei nonni in quelle condizioni vennero arrestati,


Testimonianza<br />

deportati ad Auschwitz, gasati e bruciati nei forni per la colpa di essere nati<br />

quando io e mio papà già eravamo prigionieri da tempo; no, noi, credendo a<br />

quel permesso, ecco che accettammo l’aiuto morale e psicologico dei nostri<br />

amici eroici che organizzarono per noi la partenza per la Svizzera. Era il 6<br />

di dicembre, andammo sulle montagne dietro Varese, in una casina quasi<br />

misteriosa di contrabbandieri che all’alba del giorno dopo ci avrebbero fatto<br />

passare il confine. Noi borghesi piccoli piccoli, imbranati, inadatti alla clandestinità,<br />

cittadini, vivemmo quell’avventura, io soprattutto mi sentivo una<br />

di quelle eroine di quei filmetti stupidi che avevo visto, di quei romanzetti<br />

che avevo letto, e con la mano nella mano di mio papà lo seguivo sulla montagna<br />

mentre quei contrabbandieri dicevano: più forte, camminate più in<br />

fretta perché passa la ronda, le sentinelle vi arrestano, ci sparano a tutti. E<br />

riuscimmo all’alba a passare là nei buchi della rete, quelle cose che mai<br />

avremmo immaginato di fare, noi così sciocchi, così grotteschi, così onesti.<br />

Ed eravamo di là, eravamo arrivati nella terra di nessuno, ci dissero: scendete<br />

quella cava di sassi e poi attraversate un boschetto e siete arrivati,<br />

siete in Svizzera. Era così infatti. C’era una pioggerella sottile e noi bagnati<br />

fradici, insieme a due vecchi cugini che si erano uniti a noi all’ultimo<br />

momento, scendemmo da quella cava di sassi e attraversammo quel boschetto.<br />

Eravamo liberi, eravamo felici, ci abbracciavamo tutti e quattro, così inadatti<br />

a quell’avventura, ce l’avevamo fatta, avevamo passato la montagna<br />

d’inverno, avevamo passato la rete dai buchi, era una cosa incredibile. E<br />

piangevamo felici. Ecco che la sentinella che ci vide in quel boschetto ci<br />

accompagnò al comando di polizia di Arzo, primo comune del Canton Ticino,<br />

e lì l’ufficiale svizzero tedesco, dopo una lunga anticamera, quando ci ricevette,<br />

con grande disprezzo disse no, non è vero che gli Ebrei in Italia sono<br />

perseguitati, venite qui perché c’è la <strong>guerra</strong> da voi e qui si vive meglio. E non<br />

ci fu niente da fare. Io mi ricordo che mi buttai per terra, lo abbracciavo alle<br />

gambe, lo stringevo, lo supplicavo piangendo, di tenerci in tutti i modi, avevo<br />

capito. Quello mi allontanava con un calcio così come si fa con un cucciolo<br />

sgradito e ci fece riaccompagnare più o meno là da dove eravamo venuti,<br />

dalle guardie armate che ridevano.<br />

Due o tre anni fa la televisione Svizzera del Canton Ticino fece una trasmissione<br />

che si chiamava “Svizzera terra d’asilo” commentando un libro<br />

della scrittrice Broggini, che aveva scritto infatti sulla situazione della<br />

Svizzera durante la <strong>guerra</strong>, e mi invitarono come voce fuori dal coro, perché<br />

per me non era stata terra d’asilo. Ebbi l’opportunità, dopo tanti anni, di<br />

dire come la condanna a morte di quattro persone, condanna che era stata<br />

poi eseguita dai nazisti salvo che per me, perché né mio papà né i due cugini<br />

Ravenna sono certo tornati, era stata decretata da quell’ufficiale svizzero.<br />

Poi nei giorni a seguire fu un plebiscito di fiori, di lettere, di attestazioni<br />

di svizzeri, di persone: ma noi non immaginavamo… Ma mentre io parlavo<br />

alla televisione, sul monitor c’erano dei dati di chi era stato accolto e di chi<br />

era stato espulso. Espulsi: 28.000 persone, tra politici, militari e Ebrei; e io<br />

invitai gli ascoltatori di quel momento a riflettere chi potevano essere quei<br />

28.000 che cercavano asilo e che erano stati respinti. Sì, fummo respinti, e lì<br />

sul confine fummo arrestati. E io mi ricordo come entrai a 13 anni nel carcere<br />

femminile di Varese da sola, mio papà in quello maschile. Mi ricordo<br />

come piangevo disperata, dopo la fotografia le impronte digitali, spinta in un<br />

corridoio, buttata dentro una cella, e fui una settimana al carcere di Varese,<br />

una settimana in quello di Como, e poi portati a Milano nel grande carcere<br />

di San Vittore. Quando racconto di San Vittore a volte i ragazzi si stupiscono<br />

perché io dico che sono stata felice a San Vittore, pur nel terrore, pur<br />

nella aspettativa di qualche cosa di tremendo che era annunciato già, perché<br />

quella cella che io divisi con mio papà per 40 giorni fu l’ultima casina<br />

che noi avemmo insieme. E io mi ricordo dopo essere stata divisa nel carce-<br />

135


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

136<br />

re di Varese e di Como mi sembrava straordinario che fossimo di nuovo<br />

insieme. La Gestapo chiamava continuamente gli uomini per degli interrogatori<br />

spietati, e io rimanevo sola in quella cella aspettando che tornasse<br />

mio papà, sapevo che torturavano, sapevo che picchiavano. Restavo sola e le<br />

scritte graffite sui muri della cella di chi era passato da lì prima di noi erano<br />

l’unica compagnia, erano firme, erano adii, erano benedizioni, erano maledizioni.<br />

Poi lui tornava, ci abbracciavamo in silenzio, non ero più la sua bambina,<br />

ero sua madre, ero sua sorella. Oggi io sono una donna molto fortunata,<br />

ho tre figli e due nipoti e il mio figlio maggiore si chiama Alberto come si<br />

chiamava mio papà. Mio figlio oggi è più vecchio di come era mio papà allora,<br />

perché mio papà allora aveva 43 anni, mio figlio ne ha 49. Mi succede una<br />

cosa molto strana, perché nel mio ricordo mio papà è mio figlio e quando<br />

vedo mio figlio (che è andato nella stessa scuola dalla quale io sono stata<br />

espulsa e vi è potuto andare anche mio nipote), mi si accavallano questi due<br />

amori, questi due Alberto della mia vita. Ma allora lo stringevo a me<br />

quell’Alberto di allora con le occhiaie profonde e la barba lunga. Poi un<br />

pomeriggio entrò un tedesco nel raggio degli Ebrei e lesse un elenco di più<br />

di 600 nomi che si dovevano preparare il giorno dopo a partire. Era uno dei<br />

tanti trasporti che dall’Italia sono partiti per la Germania, per la Polonia.<br />

Anche i nostri nomi furono scanditi. Il cugino Ravenna, che con grande<br />

sacrificio aveva pagato i contrabbandieri che si facevano pagare carissimi,<br />

aveva passato la montagna d’inverno, aveva più di 70 anni, ce l’aveva fatta,<br />

a sentire il suo nome si suicidò gettandosi giù dalla cella. Io e mio padre (che<br />

per me avrebbe voluto il massimo dalla vita) con mano nella mano stavamo<br />

uscendo da un carcere per andare verso un treno che partiva per ignota<br />

destinazione. Come ci si pone, come ci si guarda, cosa ci si dice? E lui come<br />

guarda te, cosa ti dice, lui che avrebbe voluto darti tutto nella vita? Non<br />

avevo il coraggio di guardarlo, ma sempre racconto ai ragazzi una cosa stupenda<br />

che ci accadde all’uscita del carcere di San Vittore. Per uscire dal carcere<br />

attraversammo un altro raggio, un altro reparto del carcere in cui c’erano<br />

detenuti comuni che sicuramente avevano l’ora d’aria. Questi affacciati<br />

fuori dalle celle furono uomini, che potevano essere ladri, rapinatori,<br />

assassini, qualunque cosa, furono uomini che ebbero pietà di altri uomini e<br />

di altre donne e di bambini, colpevoli solo di essere nati, loro lo sanno nei<br />

carceri chi è innocente e chi non lo è; c’è un radio carcere che la fa in barba<br />

a giudici e avvocati, i detenuti sanno chi è innocente e chi no. E ci buttarono<br />

chi una mela, chi un’arancia, chi una sciarpa, ma soprattutto ci urlarono<br />

addii, saluti e benedizioni, e io ricordo sempre un certo Bianchi, perché mi<br />

urlò lui che si chiamava Bianchi, che mi buttò un pacchettino di biscotti che<br />

mi centrò proprio, e io alzai gli occhi per vedere chi me l’aveva buttato, e<br />

quell’omone grande e grosso, con la divisa che portavano allora i prigionieri<br />

nelle carceri, mi disse in dialetto milanese: “Ragazza mi chiamo Bianchi,<br />

ricordati di me, vedrai che ce la farai!” E non lo so chi fosse il Bianchi, ma<br />

certamente per me è stato un ricordo straordinario tutta la vita, gli sono<br />

stata molto grata per quell’atto di umanità. Poi ci volle più di un anno e<br />

mezzo per incontrare altri uomini dopo i detenuti di San Vittore, perché<br />

incontrai solo mostri, erano quei mostri che a tavolino avevano preparato<br />

per altri uomini e per altre donne un destino come quello che volevano fosse<br />

il nostro.<br />

Caricati su camion, a calci e pugni, fummo portati nei sotterranei della stazione<br />

Centrale di Milano e lì nel buio, rotto da fari, fra latrati, fischi, comandi,<br />

fummo caricati con grande violenza sui vagoni preparati per noi che si<br />

chiamano giustamente vagoni bestiame. Nella mia vita poi adulta mi è sempre<br />

successo, attraversando qualche stazione, di aver rivisto qualche treno<br />

bestiame carico di vitelli, per esempio, che andavano al mattatoio, e ho sempre<br />

pensato vedendo quei musi che premono le piccole grate di quei fine-


Testimonianza<br />

strini che ci sono nei vagoni bestiame e fanno quel verso, i vitelli chiedono<br />

aiuto nelle stazioni, forse chiedono da bere, forse chiedono di non andare a<br />

morire. Anche noi eravamo così, anche noi eravamo come dei vitelli che<br />

vanno al mattatoio, anche noi facevamo con i nostri musi un muggito alle<br />

stazioni chiedendo acqua, chiedendo di non andare a morire, ma come nessuno<br />

si occupa dei vitelli, nessuno si occupò di noi. Quando il treno poi si<br />

mosse ci trovammo pressati dentro i vagoni dove c’era solo un po’ di paglia<br />

per terra e un secchio per gli escrementi che ben presto si riempì e debordò.<br />

Nel vagone c’era un odore terribile di urina, di corpi sudati, di gente impaurita.<br />

Cominciò quel viaggio verso il nulla, verso ignota destinazione che<br />

durava una settimana, senza luce, senza acqua. Come ci si pone, come ci si<br />

guarda, cosa si dice al proprio caro quando ti trovi seduta per terra nel vagone,<br />

la schiena appoggiata alla parete del vagone e senti quel rumore delle<br />

ruote, delle ruote, delle ruote che ti allontana dai tuoi odori, dai tuoi sapori,<br />

dalla tua casa, dai tuoi amori, dalla tua lingua. Passi il confine, scendono i<br />

ferrovieri italiani, si saranno chiesti i ferrovieri italiani: ma dove vanno<br />

tutte queste persone, questo treno che parte pieno ma torna vuoto dove va,<br />

capostazioni, quelli che alzano i passaggi a livello. E salgono i ferrovieri<br />

austriaci, e cominci a vedere un panorama che non è più il tuo, cominci a<br />

vedere un panorama d’inverno, la neve, i paesi carini dell’Austria, il campanile,<br />

le case col comignolo col filo di fumo, i bambini che escono per andare<br />

a scuola, le tendine civettuole alle finestre, e il treno intanto va, va, va, e poi<br />

diventa Germania, la Foresta Nera. E dove va il treno?<br />

Io racconto ai ragazzi le fasi di quel viaggio di cui tutti parlano pochissimo,<br />

anche chi ha raccontato certo molto meglio di me la sua storia di deportato,<br />

le fasi di quel viaggio così importante che dalla tua vita di prima ti porta a<br />

un “dopo” indimenticabile per sempre. La prima fase è stata quella del pianto,<br />

in cui tutti piangevano, non c’era uomo, giovanotto, persona fortissima<br />

che non piangesse. La seconda fase (peccato non sono stata nella mia vita né<br />

una scrittrice né una regista, niente, sono persona che solo può ricordare,<br />

testimoniare, perché la scena della seconda fase del viaggio la vorrei saper<br />

descrivere) nel semi buio del vagone, la fase della preghiera: uomini pii si<br />

riunivano nel centro del vagone, avvolti nello scialle di preghiera, e salmodiavano<br />

lodando Dio anche in quell’occasione. Sapevano pregare, pregavano<br />

anche per noi che non ne eravamo capaci. Era una scena surreale, una scena<br />

kafkiana, una scena indelebile, perché mi ricordo alcune di quelle persone,<br />

che poi andarono subito al gas. La terza fase, l’ultima, è quella che ho più in<br />

onore, è la fase del silenzio. Di quel silenzio oggi sconosciuto, di quel silenzio<br />

delle ultime cose, di quando si è soli con la morte e non c’è più niente da<br />

dire. Io invito sempre i ragazzi che mi ascoltano a trovare nella loro vita un<br />

momento di silenzio per ascoltare la propria coscienza, per ascoltare loro<br />

stessi, loro che vivono in un mondo fatto di rumori, in cui non c’è un momento<br />

della giornata che non sia accompagnato da rumore stordente e che non<br />

sanno più trovare loro stessi, perché obnubilati e distratti dal rumore assordante<br />

del nulla in cui sono avvolti. Quello era un silenzio importante, era un<br />

silenzio pieno di significati: eravamo tutti alla vigilia di qualche cosa più<br />

grande di noi.<br />

Ecco che arrivati ad Auschwitz, a quel silenzio si sostituì di colpo, quando il<br />

treno si fermò, il rumore osceno degli assassini intorno a noi. Ecco che vennero<br />

aperti i portelli del vagone con una violenza inaudita e ci fu lo spettacolo<br />

per i nostri occhi non più abituati alla luce, con le nostre gambe anchilosate<br />

da una settimana di vagone, uno spettacolo incredibile, una spianata<br />

di neve grigia e una folla di persone. Binari morti, treni fermi che aspettavano<br />

di essere scaricati dal loro carico umano o treni già vuoti che dovevano<br />

tornare indietro per essere ricaricati un’altra volta da tutta l’Europa<br />

occupata dai nazisti. Era uno spettacolo indimenticabile, eravamo noi un<br />

137


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

138<br />

gruppo di italiani tirati giù da quei vagoni con grande violenza, poi c’erano<br />

le guardie con i loro cani, tanto ben addestrati, poveri cani, diventati SS<br />

anche loro, e poi una miriade di prigionieri, uomini con la testa rasata, vestiti<br />

a righe che comandati dai diavoli SS si incaricavano di tirarci giù dal<br />

treno, di ammucchiare le nostre valigie e di dividerci: uomini di qui, donne<br />

di là. Le guardie, gli SS, ci tenevano calmi, con un sorriso gelido, dicevano in<br />

tedesco, qualcuno poi traduceva: calmi, state tutti tranquilli, vi dobbiamo<br />

solo registrare, poi le famiglie saranno riunite. Noi volevamo crederci. Era<br />

uno spettacolo talmente incredibile quello che era davanti ai nostri occhi che<br />

noi volevamo credere a quello che ci veniva detto, e solo per questo non<br />

siamo diventati pazzi in quel momento, aggrappati a quelle parole.<br />

Ecco che io mi trovai nella fila delle donne con la signora Morais e i suoi<br />

figli. La signora Morais era una buona signora che mi viene in mente in questo<br />

momento; mio papà aveva conosciuto la famiglia Morais a San Vittore,<br />

era una bella famiglia, c’erano i nonni, i genitori e due ragazzi, Alberto e<br />

Graziella. Alberto aveva la mia età ma era più piccolo di me, un po’ gracile,<br />

Graziella avrà avuto forse 15 anni. Mio papà, vedovo abituato a fare da papà<br />

e mamma, immaginando, ricordando che a Varese e Como eravamo stati<br />

divisi, quando stavamo per partire disse alla signora Morais: “Lei che è così<br />

una brava mamma, se dovessero poi dividere gli uomini dalle donne, per<br />

favore mi prometta di occuparsi anche della mia bambina”. E lei aveva detto<br />

di si, così come si dicono queste cose. Ero nella fila con la signora Morais e i<br />

suoi due ragazzi; passai la selezione, che non sapevo fosse la selezione per la<br />

vita e la morte, davanti al piccolo tribunale di due o tre ufficiali SS che con<br />

un gesto facevano segno chi doveva andare a destra e chi a sinistra, e avevano<br />

deciso quel giorno che sarebbero entrati 31 donne di quel trasporto e<br />

60 circa uomini. Scelsero 31 donne tra le prime giovani che trovarono in<br />

quella fila, io passai prima della signora Morais, ero alta, dimostravo di più<br />

dei miei 13 anni, espressione grave, stanchezza di quel viaggio, fui scelta<br />

quel giorno chissà perché per la vita. Alla signora Morais non chiesero niente,<br />

la mandarono dall’altra parte. Io quando vidi che non ero con la signora<br />

Morais, abituata com’ero a obbedire a mio papà, che mi aveva detto di stare<br />

vicino alla signora Morais, facevo di tutto per raggiungere la signora dall’altra<br />

parte della fila, ma non è che uno lì potesse scegliere, e mi rimandarono<br />

dall’altra parte. La signora Morais coi suoi figli andò direttamente al<br />

gas, ma io certo quello non lo potevo sapere, e con le altre 30 ragazze, scelte<br />

come me quel giorno per la vita così a caso, fummo avviate al grande campo<br />

femminile di Birkenau-Auschwitz.<br />

Vedevo da lontano la fila degli uomini e facevo dei piccoli saluti a mio papà<br />

cercando di ricacciare indietro le lacrime, e poi non l’ho visto più, mai più.<br />

Così, completamente sbandata, completamente fuori di me, completamente<br />

impazzita da quella situazione entrai con le altre ragazze, che non conoscevo,<br />

ma ci univa la lingua italiana in quel momento, entrai nel grande campo<br />

femminile di Birkenau-Auschwitz, “una città” di circa 60.000 donne (tra<br />

quelle che uscivano per andare al gas e le nuove arrivate c’era circa una<br />

popolazione di 60.000 donne sempre). Traversammo quel cancello, ci guardavamo<br />

intorno, ma dove siamo, dove siamo arrivate, ma perché, era una<br />

cosa incredibile, una fila di baracche grigie, donne scheletrite, la testa rasata,<br />

vestite a righe, che portavano pesi, che venivano picchiate. Mentre le sorveglianti<br />

donne, le SS, a volte più crudeli degli uomini, col frustino spingevano,<br />

mandavano persone di qua e di là, in fondo una ciminiera col fuoco, triplo<br />

filo spinato elettrificato, torrette ogni 20-25 metri, con le guardie con le<br />

mitragliatrici voltate verso il campo. Ma dove siamo arrivati, ma che posto<br />

è questo, nessuno aveva mai immaginato che al mondo esistesse una struttura<br />

di morte di quel tipo. E nella prima baracca in cui entrammo fummo<br />

denudate completamente. Della nostra vita precedente non ci restò nulla,


Testimonianza<br />

neanche un fazzoletto, una fotografia, un libro. I soldati passavano e ci irridevano,<br />

povere ragazze nude che cercavano con il loro pudore di coprirsi,<br />

mentre quelli passavano sghignazzando: era persecuzione. Denudate completamente<br />

ci venivano rasati i peli delle ascelle e del pube e ci venivano<br />

rapate le teste. Cadevano i capelli per terra e insieme ai capelli cadeva la<br />

nostra vita precedente. Rivestite poi con la divisa a righe (perché quando<br />

entrai io in campo c’erano ancora le divise a righe che poi si esaurirono nei<br />

mesi e non rimasero che stracci), e zoccoli nei piedi, un fazzoletto per coprire<br />

la nudità volgare della testa. Non eravamo già più quelle che erano scese<br />

un’ora-due ore prima dal treno in cui qualcuno ci aveva detto: amore, tesoro;<br />

non eravamo già più quelle. Poi un’altra prigioniera ci tatuò un numero<br />

sul braccio, cosa vuol dire il numero tatuato sul braccio? Devo dire in questo<br />

i nostri assassini sono riusciti veramente a sostituire la nostra identità con<br />

quel numero, perché noi sopravvissuti di Auschwitz siamo essenzialmente<br />

quel numero, al di là del nostro nome nel nostro profondo essere, noi siamo<br />

quel numero, che sostituiva in quel momento tutto il nostro passato, tutta la<br />

nostra identità di persone, uomini e donne, che non avevano più diritto di<br />

esistere per la colpa di essere nati. Io sono il numero 75.190, e lo porto con<br />

grande onore. Mi capita d’estate, e mi è capitato fin da quando sono tornata,<br />

che qualcuno, bambino o adulto, mi chieda, si stupisca, ancora non sa o<br />

non vuole sapere. E io per anni, per i lunghi anni del mio silenzio sulla mia<br />

Shoah, rispondevo una cosa qualunque. Mi ricordo una volta ho risposto:<br />

non ho memoria, mi sono scritta il numero di telefono. Adesso no, già da<br />

molti anni rispondo: “Ha presente Auschwitz, dove ci mettevano nei forni?<br />

Per caso io sono qui a raccontare”. E le persone restano stupite, a volte nei<br />

contesti più incredibili, sulla spiaggia, giocando a carte, in un salotto, sul<br />

tram, le persone rimangono così, ma cosa devo dire? Che non ho memoria e<br />

ho scritto il mio numero di telefono, o è meglio che finalmente le persone si<br />

sentano dire Auschwitz, dove ci mettevano nei forni? Io credo che sia meglio<br />

dire la verità, divento testimone anche in quei piccoli momenti.<br />

Cominciò la nostra vita di prigioniere schiave, di ragazze nulla, a cui niente<br />

era più permesso, niente era dovuto, se non imparare immediatamente la<br />

lingua dei nostri persecutori: molti sono morti per essere stati sordi e muti<br />

al tedesco. Ci dissero le ragazze, le francesi prigioniere, le prime che incontrammo<br />

quel primo giorno, ci dissero dove eravamo arrivate. Ci dissero<br />

cos’era quella ciminiera in fondo al campo, ci dissero cos’era quell’odore dolciastro<br />

che era l’odore della carne bruciata, ci dissero perché la neve era grigia,<br />

che era la cenere, ci dissero quelli che avete lasciato alla stazione non li<br />

rivedrete mai più, sono già al gas. Cosa? Noi le guardavamo quelle ragazze<br />

che erano nel campo da 15 giorni e dicevamo fra di noi: ecco dove siamo arrivati,<br />

in un manicomio, queste sono ragazze pazze, anche noi diventeremo<br />

così, perché come è possibile che esista un posto in cui bruciano le persone,<br />

esista un posto come questo, è un incubo da cui ci sveglieremo. No, non era<br />

un incubo, era una struttura di morte preparata da altri uomini a tavolino<br />

per noi. E cominciò la nostra vita; ognuno di noi sopravvissuti ha trovato un<br />

sistema per sopravvivere. Quando io ero già molto adulta, se non anziana,<br />

ho letto Sopravvivere di Bettelheim, è un libro durissimo, che non condivido<br />

in parte, lessi che Bettelheim che aveva fatto anche lui il lager e che poi a<br />

più di 80 anni si era suicidato, aveva scritto da par suo, molto intelligente,<br />

molto preparato, dei vari escamotage che i sopravvissuti, ognuno a suo modo<br />

aveva trovato per sopravvivere. Io mi ricordo che in quel contesto di morte,<br />

nella mia solitudine assoluta, nella mia età così acerba, staccata da tutto e<br />

tutti, in una solitudine che è stata la costante della mia prigionia per scelta,<br />

perché non ho voluto assolutamente attaccarmi a nessuno, perché non<br />

volevo soffrire più, io avevo trovato un sistema: di non essere lì. Io ho usato<br />

in modo molto più spinto il sistema che usavo quando andavo a scuola, in<br />

139


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

140<br />

terza, quarta e quinta elementare, di vivere su due piani. Allora bastava non<br />

raccontare quello che succedeva a casa mia alle altre bambine, qui ero veramente<br />

io che non volevo essere lì. E se non fosse stato il mio corpo che nei<br />

mesi diventò scheletro, che al posto dell’acerbo seno aveva un po’ di pelle<br />

cascante, che dove c’erano le mie anche aveva le piaghe perché le ossa sporgevano,<br />

se non avessi sofferto così tanto per la fame, per il freddo, per le<br />

botte, io veramente mi ero creata una doppia vita, perché con una vigliaccheria<br />

profonda volevo non essere lì e non mi guardavo intorno. Io non volevo<br />

guardare il crematorio, sapevo che c’era, lo vedevo ma non lo volevo guardare;<br />

io non guardavo le compagne in punizione, io non guardavo i mucchi<br />

di cadaveri scheletriti fuori dal crematorio pronti per essere bruciati, io non<br />

guardavo le compagne in punizione, io non volevo essere lì. Io mi ero identificata<br />

in una stellina, io ero quella, ero quella stellina che quando era buio<br />

nelle notti invernali terse dicevo: “finché quella stellina brillerà io sarò viva<br />

e viceversa”. Sceglievo la vita, sceglievo la vita, volevo vivere, non volevo<br />

morire a 13 anni, a 14 che compii quando ero a Birkenau-Auschwitz, io non<br />

volevo morire, sceglievo la vita, sceglievo di mimetizzarmi, non guardavo<br />

mai in faccia i miei assassini, volevo essere trasparente, cercavo di difendermi<br />

da quegli orrori, da quelle brutture. Ero sola, di una solitudine profonda,<br />

mi proibii il pianto, mi proibii la nostalgia, mi proibii i ricordi, io volevo<br />

vivere. Volevo vivere, sceglievo la vita, sceglievo la vita, sceglievo la vita, e a<br />

dire la verità io la scelgo sempre la vita, la scelgo anche adesso, e dico sempre<br />

ai ragazzi: scegliete la vita, non buttate via la vostra vita per un gioco<br />

sciocco, per provare una droga, per un piccolo amore andato a male, scegliete<br />

la vita che è un dono così stupendo, straordinario nelle vostre mani, di cui<br />

potete fare un capolavoro, perché può essere un capolavoro anche se sarete<br />

un piccolo impiegato, anche se non sarete una grande personalità, ma vi<br />

basterà essere una Persona, avere la straordinaria fortuna di essere<br />

Persona e di scegliere, scegliere sempre la vita. Perché è una cosa così importante<br />

secondo me che oggi scorre tra le dita dei giovani, non c’è un aggancio<br />

importante, ma solo chi ha visto così da vicino la morte capisce quanto invece<br />

sia importante scegliere la vita. Noi la sceglievamo tutte la vita e non è<br />

che siamo rimasti vivi noi sopravvissuti perché abbiamo scelto la vita, ma<br />

certamente questo ha aiutato tantissimo a sopravvivere, così come aiuta i<br />

malati negli ospedali, così come aiuta chi soffre profondamente, scegliere la<br />

vita, scegliere sempre e comunque la vita perché ne vale la pena. Noi sceglievamo<br />

la vita ma intorno a noi era morte, era disperazione, era solitudine,<br />

ed era soprattutto vedere la cattiveria come si rifletteva nello specchio<br />

di ogni giorno anche nelle persone, in altri prigionieri intorno a noi, che<br />

incattiviti dalla situazione a volte loro stessi erano feroci con altri prigionieri.<br />

Certamente non mai come i nostri torturatori, questo no, però quando<br />

si vive una situazione estrema come quella è molto importante che la propria<br />

mente, la propria coscienza restino salde. Io fui scelta, ed ebbi molta fortuna,<br />

per diventare operaia nella fabbrica Union.<br />

È una fabbrica che esiste ancora adesso, mi hanno raccontato amici che sono<br />

stati ad Auschwitz, che è ancora lì così come io l’ho descritta più volte nelle<br />

mie testimonianze. Era una fabbrica di munizioni durante la <strong>guerra</strong> e che<br />

in tempo di pace invece fabbricava automobili. Gli industriali tedeschi erano<br />

naturalmente ben contenti di avere manodopera schiava che continuava a<br />

sostituirsi man mano che qualcuno moriva o si ammalava, c’era sempre<br />

nuova forza lavoro. Io, la più stupida di tutte, una ragazzina che non sapeva<br />

fare assolutamente niente, fui scelta con altre compagne. Eravamo un<br />

gruppo di 700 donne di tutte le nazionalità, c’erano francesi, cecoslovacche,<br />

tedesche, polacche, greche, ungheresi più tardi, 700 donne del turno di giorno,<br />

700 del turno di notte, la fabbrica non si fermava mai, lavorava per la<br />

<strong>guerra</strong> e non si fermava mai. Uscivamo alla mattina dal campo ed era una


Testimonianza<br />

grande fortuna non passare la giornata nel campo, passavamo quel cancello,<br />

con l’orchestrina delle donne violiniste obbligata a suonare motivetti allegri,<br />

magari piangendo. Le orchestrine obbligate a suonare Rossini, Mozart,<br />

marcette allegre erano impressionanti, perché a volte le ragazze violiniste<br />

mentre suonavano quelle marcette marziali o allegrissime piangevano e<br />

magari vedevano andare al gas una persona che conoscevano, magari una<br />

sorella. Uscivamo dal campo, facevamo un tragitto di due o tre chilometri,<br />

andavamo nella città di Auschwitz alla fabbrica e quasi ogni mattina incontravamo<br />

un gruppetto di giovani nostri coetanei della HitlerJugend, bei<br />

ragazzi, biondi, ariani, con delle belle biciclette. Mi ricordo che notavo le biciclette<br />

sempre perché avevo lasciato la mia amata bicicletta a casa. Quei<br />

ragazzi ci incrociavano, ci sputavano addosso, ci insultavano con gli epiteti<br />

peggiori. Non mi potevo persuadere. Quando qualcuno mi tradusse, ancora<br />

non avevo imparato perfettamente le parolacce in tedesco (poi le imparai<br />

tutte perché ci venivano dette tutti i giorni, quindi era un lessico diventato<br />

familiare), non ci potevo credere, dicevo: ma come, dopo averci portato via<br />

tutto, la famiglia, la casa, ormai solo la vita ci resta, l’odio era tale che oltre<br />

a sputarci addosso trovavano la fantasia di epiteti uno peggiore dell’altro. Io<br />

li odiavo. Lo dico ai ragazzi sempre quando racconto che li odiavo, li odiavo<br />

con tutta me stessa. E fu una sorpresa straordinaria nella mia maturità<br />

quando di colpo un giorno ripensando a quei ragazzi mi accorsi che ne avevo<br />

pena. Fu una conquista personale straordinaria, di accorgermi che la mia<br />

maturità mi aveva portato ad avere pena di quegli stessi ragazzi che avevo<br />

odiato; era la coscienza di essere così contenta di essere stata vittima, figlia<br />

di vittima, nipote di vittima, e di come ero stata fortunata a non essere uno<br />

di questi, che da adulto se avesse ripensato con una presa di coscienza a<br />

quello che aveva fatto o che avevano fatto i suoi genitori, io potevo ricordare<br />

me stessa vittima inconsapevole, potevo ricordare i miei dolcissimi martiri,<br />

mentre quelli diventati adulti avrebbero ricordato il padre SS. Fu una<br />

conquista strepitosa accorgermi di averne pena. Allora no, allora li odiavo<br />

con tutte le mie forze e mi ricordo con che fatica riprendevamo il cammino e<br />

arrivavamo alla fabbrica dove lavoravamo tutto il giorno, non c’erano i sindacati<br />

certo per noi, era manodopera schiava.<br />

Si lavorava tutto il giorno e si tornava alla sera nel lager, si ritornava indietro,<br />

là in fondo la fiamma del crematorio o il fumo. Non c’era bisogno di parlare,<br />

sapevamo che cosa stava succedendo, e poi c’era la notte. La notte del<br />

lager, le dita nelle orecchie per non sentire i fischi, i latrati, i richiami di<br />

quelli che andavano al gas. Quando arrivarono tutte le migliaia di persone<br />

dall’Ungheria che andarono direttamente al gas, andarono direttamente al<br />

crematorio e passavano attraverso il campo in una specie di corridoio tra<br />

due fili spinati e si richiamavano, le madri che perdevano i bambini in quella<br />

confusione, i fratelli che perdevano le sorelle, le mogli i mariti. Noi non<br />

volevamo sentire, le dita nelle orecchie, dormivamo vestite, gli zoccoli sotto<br />

la testa come cuscino se no le compagne ce li avrebbero rubati, e volevamo<br />

dormire, dovevamo dormire, per la stanchezza della giornata. Era la notte,<br />

la notte del lager. Poi la mattina dopo, eravamo ancora vive, svegliate da una<br />

bastonata, c’era l’appello. Un’ora, due ore fuori e ricominciava tutto, eravamo<br />

ancora vive, ogni giorno eravamo vive, ogni giorno eravamo ancora vive,<br />

più magre, più denutrite, più dure, più fredde, più indifferenti a quello che<br />

succedeva intorno a noi. Ma volevamo vivere a testa bassa. Tre volte passai<br />

la selezione nell’anno che passai a Birkenau-Auschwitz, non era la selezione<br />

della stazione. Io non posso sentire ancora adesso, perché selezione voleva<br />

dire scegliere chi poteva ancora lavorare o chi doveva andare al gas. Ecco<br />

che le kapò dopo averci chiuse nelle baracche poi a gruppi di 60-70 ci portavano<br />

nei locali delle docce, lì nude, solita umiliazione persecutoria, dovevamo<br />

in fila indiana attraversare un lungo spazio, obbligate a uscire da una<br />

141


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

142<br />

certa porta. Lì il tribunale: due SS e il medico, io allora non sapevo i nomi,<br />

dopo lessi che era Menghele, era un medico. I medici SS avevano fatto anche<br />

loro il giuramento di Ippocrate di dedicare la loro vita ad aiutare il prossimo<br />

bisognoso, forse loro in cuor loro non avevano giurato, erano medici speciali.<br />

Come ci si pone, come si attraversa una sala nude, consce della propria<br />

nudità, consce della propria nudità scheletrica? Il cuore batte come un pazzo<br />

dal terrore, mentre la mente dice voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere, e<br />

io sceglievo senza nessuno che mi consigliasse, arrivavo lì e sceglievo un<br />

atteggiamento indifferente. Non mi buttavo ai piedi dei miei persecutori<br />

come qualcuno faceva, quell’ebreuccio del ghetto pronto a prendere la bastonata<br />

che piaceva molto a loro. Quello no, quello non glielo volevo dare anche<br />

se ero terrorizzata e avrei sì supplicato. Neanche ero così sfrontata perché<br />

non lo ero, ero paurosissima, di guardarli in faccia sfidando. Sceglievo l’indifferenza,<br />

mentre il cuore stava per uscire dal mio petto scarnito, il mio viso<br />

era assolutamente indifferente, arrivavo lì e mi ricordo la prima volta che<br />

passai la selezione il medico mi toccò lì sulla mia povera pancia dove due<br />

anni prima avevo fatto l’operazione dell’appendicite. Era rimasta una cicatrice<br />

un po’ brutta. Io pensai, ecco, ho la cicatrice, mi manda a morte. Invece<br />

lui no, tutto compiaciuto mi chiese di dov’ero, e io dissi Italienerin, così con<br />

un filo di voce, e disse a quegli altri assassini suoi colleghi: “Ma povera<br />

ragazza, guarda questo medico italiano che brutta cicatrice ha fatto per una<br />

semplice appendicite, anche quando sarà adulta e si metterà nuda si vedrà<br />

sempre questa cicatrice”. Lui invece spiegò che la fa molto meglio, lui la fa<br />

sottilissima, in modo che dopo un po’ non si vede più. E tutto compiaciuto<br />

dal fatto che lui era più bravo fece segno che potevo andare avanti.<br />

Ero felice, felice, felice, ero viva, ero viva, facevo quel passo e non mi importava<br />

niente di dov’ero, della solitudine, della disperazione che era dentro di<br />

me, ero felice perché ero viva, ero viva, mi rivestivo e non mi voltavo. E lo<br />

racconto sempre, anche oggi lo racconto. Lavoravo alla macchina con una<br />

ragazza francese che si chiamava Janine, era una ragazza che avrà avuto 22<br />

anni, dolcissima, bionda, ricciolini di due centimetri che erano ricresciuti,<br />

occhi celesti, molto carina, dolce voce, lavorava con me alla macchina; la<br />

macchina in fabbrica le aveva tagliato due dita un po’ di giorni prima, lei<br />

nuda com’era aveva messo uno straccio sulla mano, ovviamente gli assassini<br />

hanno visto che aveva due dita tagliate e io ero appena passata, sentii che<br />

fermavano Janine e che la scrivana prendeva il suo numero per andare al<br />

gas. Non mi sono voltata, sono stata di una vigliaccheria spaventosa, non<br />

sono stata come i detenuti di San Vittore, non le ho detto coraggio, ti voglio<br />

bene, una cosa qualsiasi. Io lavoravo da mesi alla macchina con lei, ma io<br />

non potevo sopportare più distacchi, non potevo sopportare più di affezionarmi<br />

a nessuno, ero viva, ero viva, mi sono rivestita e non mi sono voltata<br />

a salutare Janine, e questa è una cosa che mi ha tormentato e mi tormenterà<br />

fino all’ultimo giorno della mia vita, tant’è vero che dal momento che ho<br />

scelto di diventare una testimone lo racconto sempre ai ragazzi, perché<br />

spero che in questo modo Janine resti viva nel ricordo: francese, 22 anni, due<br />

centimetri di capelli ricciolini biondi, occhi celesti, dolce voce, mandata al<br />

gas per la colpa di essere nata.<br />

Ero quasi da un anno prigioniera, ma ecco che alla fine di gennaio del 1945<br />

cominciammo a sentire rumori di <strong>guerra</strong> che si avvicinava. Noi non avevamo<br />

mai notizie, non avevamo un giornale, non avevamo la radio, non avevamo<br />

calendario, non avevamo orologio, non sapevamo che giorno fosse, che<br />

ora fosse, che cosa ci fosse intorno a quelle isole che erano le migliaia di<br />

lager appunto disseminati in Europa, isole del silenzio, quel silenzio intorno<br />

a noi che andava dal silenzio degli Alleati che non bombardarono mai le ferrovie<br />

che portavano i treni, che andava al silenzio della Chiesa, che andava<br />

fino al silenzio di Dio. Eravamo sole nel silenzio, e di colpo cominciammo a


Note<br />

sentire rumori di <strong>guerra</strong> che si avvicinavano, infatti erano i Russi che avendo<br />

rotto il fronte dell’Est si stavano avvicinando molto più in fretta di quanto<br />

i Tedeschi non pensassero ad Auschwitz. E quindi decisero i nostri assassini<br />

di evacuare il lager di Auschwitz dopo averlo fatto saltare. Noi eravamo<br />

in fabbrica, sentimmo rumori lontani, ci fecero uscire dalla fabbrica così<br />

come eravamo e ci avviarono, sempre da prigioniere, sulle strade della<br />

Polonia prima, della Germania poi per fare quella marcia, giustamente chiamata<br />

marcia della morte, che per tanti chilometri, a piedi, in inverno, scheletriti,<br />

ci portò su su verso il nord della Germania, sempre con le guardie<br />

dietro.<br />

Vedevamo i fuochi in lontananza perché avevano cercato di bruciare e di far<br />

saltare quasi completamente il lager di Auschwitz, cosa che come sappiamo<br />

non è riuscita del tutto, ma in gran parte sì, perché i Russi arrivarono più<br />

in fretta. Noi cominciammo la marcia, chiamata giustamente marcia della<br />

morte. Quando i ragazzi che della marcia della morte sentono parlare molto<br />

raramente, ne sanno molto poco, mi domandano: signora, come ha potuto<br />

dopo un anno di prigionia camminare per così tanti giorni senza mangiare?<br />

Io non lo so, se dovessi dire come abbiamo fatto, 56.000 prigionieri che a<br />

piedi sono stati buttati sulle strade per giorni senza mangiare. Non siamo<br />

arrivati in molti, ma anche quei pochi che sono riusciti a superare la marcia<br />

della morte hanno dimostrato che forza incredibile c’è in ognuno di noi. Non<br />

bisogna dire non ce la faccio più, perché ce la facciamo, nell’uomo, nella<br />

donna c’è una forza enorme, è la forza della volontà. E perché c’era questa<br />

forza di volontà? Era il desiderio di sopravvivere, era il sapere che chi cadeva<br />

veniva ucciso dalle guardie della scorta. Sui bordi della strada dove la<br />

neve era rossa e i morti senza tomba sono rimasti lì su quelle strade perché<br />

nessuno poteva cadere e rimanere vivo. Il cervello comandava alle gambe:<br />

cammina, cammina, cammina, cammina, e gli occhi lo trasmettevano all’altra,<br />

nessuno si poteva appoggiare a un’altra compagna, nessuno di noi aveva<br />

forza quasi neanche per se stesso, quindi se qualcuno si appoggiava veniva<br />

mandato via immediatamente.<br />

Oltre alla neve sporca di sangue, che non volevo guardare, come non volevo<br />

guardare le teste sfracellate, c’erano i letamai, i grandi letamai che noi che<br />

marciavamo soprattutto di notte, vedevamo stagliati nella notte: erano la<br />

nostra felicità. Ci buttavamo come pazzi, come dei piranha su quegli schifosi<br />

resti, e brucavamo come dei maiali, come delle povere bestie affamate,<br />

rubandoci una con l’altra un torso di cavolo marcio, bucce di patate crude<br />

sporche di terra, ci guardavamo una con l’altra. Eravamo delle povere ragazze<br />

che brucavano in quello schifo ed eravamo con le bocche sporche, degli<br />

scheletri schifosi, ma sapevamo puntuale sarebbe stato il giorno dopo il<br />

vomito e la diarrea, ma intanto lo stomaco si riempiva. Poi fu Ravensbruck<br />

e poi ci fu l’ultimo campo, Marschow nel nord della Germania, dove fui nella<br />

primavera del 1945. Era arrivata anche lì la primavera. È un miracolo quello<br />

della natura a cui siamo assolutamente abituati e non ci stupiamo più, ma<br />

mentre ad Auschwitz non c’era un filo d’erba, a Marschow il campo era piccolo,<br />

si vedevano i confini e al di là del filo spinato c’erano i prati verdi.<br />

C’erano degli alberi con le foglie e noi da dentro vedevamo quegli alberi ricchi<br />

di foglie, sognavamo di uscire da quel cancello, di strappare foglie e fili<br />

d’erba, di metterli in bocca e di masticarli, sentire quel sapore della clorofilla,<br />

e poi neanche masticarli perché ormai i nostri denti ballavano nelle<br />

nostre bocche giovani come quelli dei vecchi che hanno ormai poco da masticare,<br />

sognavamo il sapore della clorofilla, quel sapore acido. Uscivamo dietro<br />

la baracca quelle poche che stavano ancora in piedi, scheletri, non sentivamo<br />

più niente, non sentivamo neanche più la fame. Sembravamo senza<br />

sesso e senza età, sarebbe stato difficile classificarci come donne giovani in<br />

quel momento, eravamo creature insensibili, eravamo quasi degli animali,<br />

143


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

144<br />

eravamo da più di un anno nei lager. Cominciammo a vedere giorno dopo<br />

giorno che ai confini del lager che appunto era piccolo, saremmo stati a una<br />

ventina di metri dai fili spinati, cominciammo a veder passare dei ragazzi<br />

francesi. Erano dei prigionieri di <strong>guerra</strong> francesi che già da anni lavoravano<br />

nelle fattorie tedesche e che quindi non erano diventati magrissimi come<br />

eravamo noi perché avevano sempre mangiato, e questi giorno dopo giorno<br />

vedendo le figure ectoplasmiche che eravamo noi, cominciarono da lontano<br />

a gridare: chi siete? E noi in coro con un filo di voce rispondevamo: siamo<br />

delle ragazze ebree. Ragazze? Questi dicevano, ma che età avete? Allora una<br />

diceva: io ho vent’anni, io ne ho 15, io ne ho 25. Loro, dopo i detenuti di San<br />

Vittore, furono le prime persone che ebbero di nuovo pietà di noi, e dissero:<br />

poverine, siete malate? Sì, siamo malate, avevamo tutte le malattie del<br />

lager. Avevamo la dissenteria, avevamo gli ascessi, avevamo la piorrea, avevamo<br />

soprattutto una debolezza che se la <strong>guerra</strong> non fosse finita al più presto<br />

saremmo morte di stenti. E loro furono straordinari perché sentivano la<br />

radio, perché leggevano i giornali, ci dissero: non morite, vi diamo noi le notizie<br />

della <strong>guerra</strong> che sono straordinarie, i Tedeschi stanno perdendo la <strong>guerra</strong><br />

su due fronti: da una parte ci sono gli Americani che arrivano, dall’altra<br />

i Russi, non morite proprio adesso. Noi eravamo sbalordite, noi ragazze<br />

schiave, ragazze nulla, ragazze che erano abituate a tutte le sofferenze del<br />

mondo, alla gioia non eravamo abituate. E il cuore faceva male, io mi ricordo<br />

proprio di aver avuto dei dolori nel petto tipo infarto, perché una notizia<br />

di quel genere, che la <strong>guerra</strong> stava per finire e che i Tedeschi la stavano perdendo<br />

era qualcosa di inimmaginabile per noi che eravamo sotto questo<br />

giogo crudele, senza un attimo di sosta nella giornata e nella notte, era<br />

incredibile, era al di là delle nostre speranze che ormai sembravano agonizzanti<br />

anche loro. Rientravamo nelle baracche, a quelle tante che non scendevano<br />

più da quei giacigli luridi, dicevamo non morite, ci hanno detto di<br />

non morire, di tener duro per una settimana, dieci giorni al massimo che<br />

stanno per arrivare gli Americani di qui, i Russi di là, e quelle povere che<br />

ormai erano solo occhi nelle teste ormai teschi, dicevano: ma è vero, dite la<br />

verità? Sì, era vero, era vero, e i nostri aguzzini innervositi incominciarono<br />

in quegli ultimi giorni a caricare documenti sopra i camion, scrivanie, macchine<br />

da scrivere, portavano via tutto perché preparavano per i posteri quelle<br />

situazioni di negazione, perché revisione è troppo poco, allora si voleva<br />

assolutamente negare quello che con un coraggio incredibile ancora oggi,<br />

ancora con qualcuno di noi che come me alza forte e chiara la sua voce nel<br />

ricordo, osa negare quello che è successo a milioni di persone in Europa.<br />

Preparavano questo mondo nuovo in cui diventando vinti non volevano<br />

lasciare ai vincitori le prove di quello che avevano fatto.<br />

E a noi cosa succederà, ci domandavamo, adesso non siamo in grado di evacuare<br />

questo campo. Ci uccideranno tutte. Ma non fu così, perché negli ultimissimi<br />

giorni di aprile ecco che improvvisamente i nostri aguzzini aprirono<br />

quel cancello che avevamo tanto sognato di vedere aperto, e ancora prigionieri<br />

con le guardie uscimmo su quella strada di campagna, strappammo<br />

quelle foglie, le mettemmo in bocca e il sapore della clorofilla era così splendido<br />

come avevamo immaginato nei nostri sogni, era una cosa straordinaria,<br />

era una meraviglia proprio solo toccarla la foglia, toccare il ramo. E furono<br />

le ultime ore, e noi fummo testimoni della storia che cambiava davanti ai<br />

nostri occhi attoniti. Improvvisamente quella strada tedesca si riempiva di<br />

gente, erano i civili che uscivano dalle case dove erano stati asserragliati e<br />

caricavano sui carri tutte le loro masserizie, trascinavano il maiale, qualunque<br />

cosa perché stavano arrivando i Russi e loro volevano andare nella zona<br />

americana. Poi si vide che l’occupazione russa fu ben più severa e più triste<br />

per i tedeschi dell’occupazione americana. Si mescolavano a noi, e c’erano gli<br />

aguzzini che buttavano le loro divise e si mettevano in borghese. Era uno


Testimonianza<br />

spettacolo incredibile per noi vedere i soldati che si mettevano in mutande<br />

vicino a noi, avevano paura, mandavano via i cani. E loro si mettevano in<br />

borghese, tornavano alle loro case, tornavano a essere il maestro, il bancario,<br />

il professore, il postino, il contadino. Noi guardavamo tutto questo con<br />

gli occhi esterrefatti. Il comandante di quell’ultimo campo, elegantissimo<br />

fino a un momento prima, si mise anche lui in mutande, si mise anche lui in<br />

borghese. Io lo guardavo esterrefatta, l’avevo temuto fino a un minuto<br />

prima, aveva diritto di vita e di morte su di me, si metteva in mutande, si<br />

rivestiva e buttò la sua pistola praticamente ai miei piedi. Io in quel momento<br />

ebbi una grande tentazione, lo dico sempre, io mi ero nutrita di odio e di<br />

vendetta, pensai: adesso mi chino, raccolgo la pistola e gli sparo. Mi sembrava<br />

proprio il giusto finale per tutta la violenza che avevo vissuto in prima<br />

persona e che avevo visto sugli altri inermi. Un attimo, fu un attimo straordinario<br />

nella mia vita, perché capii in quel momento che io mai, per nessun<br />

motivo, avrei potuto uccidere qualcuno. Pensai che nella mia estrema debolezza<br />

io ero molto più forte del mio assassino, perché io lo lasciavo andare a<br />

casa, perché io in quel momento avevo scelto la vita, non potevo uccidere.<br />

E da quel momento sono stata libera.<br />

A proposito del ritorno che come argomento si è sfiorato stamattina, se mi<br />

concedete ancora cinque minuti, voglio un attimo parlare del ritorno. Perché<br />

il ritorno del sopravvissuto ad Auschwitz è tragico, anche se è un ritorno. Al<br />

contrario dei deportati politici le nostre famiglie non ci aspettavano al ritorno,<br />

le case erano vuote o occupate da altre persone. E la mentalità di uno che<br />

ha passato la paura, l’arresto, la deportazione, la prigionia, ma che pure si è<br />

salvato, è così diversa anni luce da quelli che sono rimasti a casa. Io mi ricordo<br />

la difficoltà incredibile con le mie coetanee. Io ero vecchia, io ero molto<br />

più vecchia dentro di me di come sono adesso, perché i miei figli prima e i<br />

miei nipoti poi mi hanno riportato a vivere una seconda e una terza giovinezza<br />

che non avevo avuto tutto sommato. Allora ero vecchia. Mi ricordo che<br />

cercai di rimettermi in pari con gli studi e quando poi, dopo aver fatto privatamente<br />

molti anni, feci il liceo classico la mia insegnante di italiano mi<br />

diceva: “Segre, dare un voto a te in italiano è impossibile, perché davanti allo<br />

stesso titolo del tema, il tuo è un tema da adulto maturo, gli altri sono temi<br />

delle tue coetanee che hanno 16 anni”. E non mi voleva mai dare il voto. In<br />

realtà la mia solitudine era grandissima, e tanto avevo lottato per la vita,<br />

tanto volevo morire quando sono tornata, perché il mondo intorno a me non<br />

era per niente quello che io avevo sognato nelle notti del lager. Non avevo<br />

più quella mia famiglia, non avevo più la casa, non avevo più gli oggetti, non<br />

avevo più niente. E sarei probabilmente rimasta una donna strana, sarei<br />

diventata una donna strana, potevo diventare addirittura quelle che girano<br />

coi sacchetti di plastica per le città, a Milano c’è una vecchia signora che<br />

dicono addirittura che sia una laureata in filosofia che ha caricato la sua<br />

bicicletta di sacchi di plastica pieni di ogni cosa sporca, stracci, è la sua casa<br />

viaggiante, e quando io la incontro, molto raramente naturalmente, la guardo<br />

con una predilezione, affetto, comprensione, un sentimento strano verso<br />

questa persona che non chiede nulla, non è una mendicante, perché io forse<br />

avrei potuto diventare così. Mi sentivo talmente estranea al mondo al quale<br />

ero tornata, non potevo avere amiche perché le mie coetanee erano giustamente<br />

delle ragazzine interessate ai primi amori, interessate al vestito, io<br />

ero un’adolescente sgraziata, molto brutta, diventata grassa perché dopo<br />

quella magrezza ero ingrassata 40 chili, quindi ero veramente gonfia, molto<br />

poco femminile, e completamente disadattata. I miei parenti sopravvissuti<br />

in varie situazioni con i quali vivevo mi invitavano a dimenticare, e io non<br />

potevo condividere con nessuno. Voi pensate che mi facevano osservazione<br />

perché non stavo composta a tavola e il letamaio era di sette mesi prima.<br />

Dov’era la realtà? Era dovevo stare composta a tavola, o era il letamaio?<br />

145


<strong>Civiltà</strong>, <strong>guerra</strong> e <strong>sterminio</strong><br />

146<br />

Dovevo salutare educatamente quando incontravo le persone, oppure ero<br />

quella della selezione? Era difficilissimo rientrare nel mio ruolo di ragazza<br />

di famiglia borghese, e sarei forse diventata una pazza. Ed è stato l’amore<br />

che mi ha invece riportato dopo tanto odio sulla soglia della normalità a cui<br />

appartengo, è stato un incontro molto fortunato quando avevo 18 anni con<br />

un ragazzo che è ancora il mio vecchio ragazzo. Abbiamo fatto l’anno scorso<br />

le nozze d’oro e tre meravigliosi figli e due nipoti hanno coronato in modo<br />

straordinario la mia scelta di vita. E attraverso l’amore che ho ricevuto e che<br />

sono stata in grado di nuovo di dare ho ritrovato una normalità e anche la<br />

forza di essere qui davanti a voi oggi.


Titoli pubblicati CD-Rom Web Volume cartaceo<br />

Collana Formazione<br />

Studi e ricerche<br />

1. La formazione dei gruppi dirigenti<br />

2. Gli operatori e i luoghi della formazione<br />

3. L’attività di Formazione Professionale. Rapporto 1997<br />

– Volume 1: Monitoraggio e Valutazione ex post<br />

– Volume 2: Rapporto provinciale<br />

4. L’attività di Formazione Professionale. Rapporto 1998<br />

– Volume 1: Monitoraggio e Valutazione ex post<br />

– Volume 2: Rapporto provinciale<br />

5. Programma Operativo <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> - Obiettivo 3 - 2000-2006<br />

– Volume 1: Rapporti annuali di esecuzione 2000-2001<br />

– Volume 2: Rapporto di valutazione 2001<br />

Strumenti didattici e operativi<br />

1. Corso di tornitura a CNC<br />

2. Seiduesei. Per la formazione sulla sicurezza sui luoghi di lavoro<br />

3. A.C.E. – Assurance by Computer Edutainment.<br />

Un’avventura interattiva sul set della vendita<br />

4. CLIMA. Corso di Lingua Italiana Multimediale in Autoistruzione<br />

5. ATELIER. Rappresentazione e promozione della professione sartoriale<br />

6. SisteMA. Tecnologie e sistemi di monitoraggio ambientale<br />

7. Introduzione al mondo assicurativo<br />

8. Evoluzione F@D calzaturiero. La Fad nel settore calzaturiero<br />

9. Progetto Alzheimer. Corso di formazione per operatori dell’assistenza ai malati di Alzheimer<br />

10. Progetto Telok. I protocolli di Internet<br />

11. Siderurgia ciclo integrale (voll. I-IV)<br />

12. Tetra. Introduzione ai sistemi radar<br />

13. Meteorologia applicata<br />

14.1 Dalla fibra al tessuto: il controllo qualità<br />

14.2 Il tessuto e la confezione: conoscersi per capirsi<br />

15. Formazione a distanza per persone disabili<br />

Collana Educazione<br />

Studi e ricerche<br />

1. Un’Italia minore. Famiglia, istruzione e tradizioni civiche in Valdelsa, a cura di P. Ginsborg<br />

e F. Ramella<br />

2. D. Ragazzini - P. Causarano - M.G. Boeri, Rimuovere gli ostacoli. Politiche educative e culturali<br />

degli Enti locali dopo la regionalizzazione<br />

3. S. Cannoni - G. Tassinari, La scuola e l’Ente locale per l’innovazione educativa


4. La condizione giovanile in <strong>Toscana</strong>. Un’indagine IARD per la <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong>, a cura di C.<br />

Buzzi<br />

5. AA.VV., Le “nuove tipologie” in <strong>Toscana</strong><br />

6. Comunità locale e prevenzione formativa: i CIAF della <strong>Toscana</strong>, a cura di E. Catarsi e G.<br />

Faenzi<br />

7. Il diritto allo studio universitario. L’efficacia delle borse di studio<br />

8. Dalla scuola all’università. Percorsi dell’istruzione in <strong>Toscana</strong><br />

9. Il sistema universitario. L’istruzione post-diploma in <strong>Toscana</strong><br />

10. L’educazione degli adulti. Rapporto sull’offerta educativa non formale in <strong>Toscana</strong><br />

11. Il diritto alla scuola. Politiche della <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong><br />

12. Scelte e percorsi formativi delle studentesse. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong><br />

13. La qualità del sistema scolastico. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2001<br />

14. L’educazione scientifica nelle scuole della <strong>Toscana</strong>. Atti del convegno 7 dicembre 2001<br />

15. Verso una costituente toscana per la scuola. Atti del convegno 22 febbraio 2002<br />

16. Educazione ambientale. Linee guida della <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong><br />

17.1 All – Letteratismo e abilità per la vita. Rapporto indagine pilota<br />

17.2 All – Letteratismo e abilità per la vita. I dati per regione: Campania, Piemonte, <strong>Toscana</strong><br />

18. Scelte di vita e cultura giovanile in <strong>Toscana</strong>. Seconda indagine IARD sulla condizione dei<br />

giovani<br />

19. F. Cambi, M. Piscitelli, Argomentare attraverso i testi. Una frontiera della formazione logica<br />

per lo sviluppo delle abilità linguistiche<br />

20. L’analisi dell’Istruzione e Formazione Tecnica Superiore in <strong>Toscana</strong><br />

21. Curricoli europei a confronto, a cura di F. Cambi, G. Bernardi, M. Viaggi<br />

Strumenti didattici e operativi<br />

1. Struttura di genere e società. Tempi sociali, lavoro e istruzione<br />

2. ForMedia. Introduzione alla multimedialità<br />

3. S. Tagliagambe, Nuovi Percorsi per l’obbligo formativo<br />

4. <strong>Civiltà</strong> Guerra e Sterminio. Atti dei seminari di formazione per insegnanti<br />

Collana Lavoro<br />

Studi e ricerche<br />

1. L’occupazione femminile. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

2. Immigrazione e lavoro. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

3. I lavori atipici. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

4. Il lavoro minorile. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

5. Il terzo settore. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

6. Servizi per l’impiego. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Indagine 1999<br />

7. Il lavoro in età avanzata. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Indagine 1999<br />

8. L’evoluzione degli ammortizzatori sociali. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Indagine 1999<br />

9. Categorie protette e soggetti del disagio sociale. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

10. Il mercato del lavoro. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000


11. Qualità e condizioni di lavoro. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 1999<br />

12. I nuovi bacini occupazionali. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

13. Il lavoro sommerso. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

14. Dalla scuola al lavoro. Percorsi scolastici e sbocchi professionali dei diplomati delle scuole<br />

medie superiori<br />

15. Politiche del lavoro e sviluppo locale. I Patti territoriali<br />

16. La <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> in Europa. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

17. La situazione sociale della <strong>Toscana</strong>. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

18. L’editoria libraria. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

19. Le iniziative locali per l’occupazione. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

20. Le donne tra famiglia e lavoro. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

21. La ricerca scientifica e tecnologica. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

22. Il settore lapideo. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

23. Liberalizzazione dei mercati, privatizzazioni e lavoro. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

24. Il costo del lavoro. Salari, tecnologia e capitale umano nella <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong><br />

25. Information and Communication Technologies. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

26. I canali della domanda e dell’offerta. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2000<br />

27. L’occupazione femminile. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2001<br />

28. Il mercato del lavoro. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2001<br />

29. Pari Opportunità. Rapporti delle imprese medio-grandi toscane. Biennio 1998-1999<br />

30. I lavori atipici. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong> Rapporto 2001<br />

31. La situazione sociale della <strong>Toscana</strong>. Secondo Rapporto Censis<br />

32. L’offerta di lavoro giovanile in <strong>Toscana</strong>. Rapporto finale - Settembre 2002<br />

33. L’occupazione femminile. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong>, Rapporto 2002<br />

34. I lavori atipici. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong>, Rapporto 2002<br />

35. Nuove forme di flessibilità nelle imprese toscane. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong>, Rapporto 2002<br />

36. Il terziario e le relazioni intersettoriali in <strong>Toscana</strong>. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong>, Rapporto 2002<br />

37. Professioni medio-alte e reti sociali in <strong>Toscana</strong><br />

38. Il sistema bancario in <strong>Toscana</strong>. Struttura, tecnologia e domanda di lavoro<br />

39. Il mercato del lavoro. <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong>, Rapporto 2002<br />

Strumenti didattici e operativi<br />

1. Centri per l’impiego della <strong>Regione</strong> <strong>Toscana</strong>


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Finito di stampare nel mese di Dicembre 2003<br />

presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A. - Pisa<br />

per conto di EDIZIONI PLUS - Università di Pisa


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