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29. Cupido, già Londra, Christie’s. Olio su tela, cm 136,5x64,8. Iscrizioni: “ALOYS. AMID. P. 1619” in basso a sinistra. Il Cupido apparteneva al principe Eugenio di Beauharnais (1781-1824), duca di Leuchtenberg, che probabilmente lo acquistò durante gli anni trascorsi a Milano in qualità di vicerè d’Italia. Passò in seguito a Monaco nella collezione del figlio ed erede Massimiliano Eugenio (1817-1852) (Gemälde... 1835; Verzeichnis... 1843; Passavant 1851), il cui matrimonio con Maria Romanov determinò la nascita del ramo russo della famiglia e il trasferimento del dipinto a San Pietroburgo. Pervenuto ai discendenti di Massimiliano, tra cui Giorgio Nicolaïevitch (Leuchtenbergska... 1917), il Cupido andò disperso durante la rivoluzione e riapparve solo nel 1958 sul mercato antiquario di New York (Parke-Bernet, 23 aprile 1958, n. 6). La firma – “ALOYS. AMID. P. 1619” – veniva ora interpretata quale sigla di Baldassarre Aloisi, il Galanino, e come tale il dipinto veniva riproposto nelle successive aste di Parigi e Londra (Hôtel Drouot Paris, 13 dicembre 1987, n. 40; Christie’s London, 8 dicembre 1989, n. 123); nemmeno la restituzione all’Amidani da parte di Riccomini (1988), confermata dalla Còccioli Mastroviti (1989) e dalla Kustodieva (1994), poneva fine all’equivoco: il nome del Galanino era avanzato ancora da Mondzain (1990) e Landolfi (1995), che, sulla base della data, assegnava la tela al soggiorno romano del pittore. La corretta trascrizione della firma nel catalogo della recente asta Christie’s (1998) toglieva ogni residuo dubbio sull’autografia amidaniana, ribadita ancora da Riccomini (1999; 1999a). Questi nel suo primo intervento (1988, p. 136) aveva confrontato il Cupido con l’angelo della Santa Cecilia di Napoli (cat. 23), per il tipico profilo, e con la ninfa di schiena nel Diana e Atteone di San Pietroburgo (cat. 34), per la resa del corpo in torsione; il successivo accostamento alla Crocifissione di San Pietro a Vigatto (1612) (cat. 7) da parte dello studioso (1999) non è certo condivisibile ed è stato rettificato dallo stesso una volta recepita la corretta cronologia (1999a). Se a Riccomini va il merito del riconoscimento, a Landolfi (1995, p. 79), pur nell’errata attribuzione, tocca quello di aver colto per primo i nessi con la statuaria classica, ad esempio l’Ermafrodito del Louvre, e soprattutto con il Parmigianino. È evidente infatti il rapporto con l’analogo soggetto del Mazzola oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, di cui Luigi dovrebbe aver visto una copia, essendo l’originale a Praga fin dal 1603: da questo deriva l’impostazione complessiva, con la figura di spalle, il capo girato a sinistra e le gambe divaricate. La versione amidaniana perde tuttavia gran parte delle componenti narrative e simboliche, come i due putti e i libri in basso, e avvita la figura attorno a un asse verticale, isolandola al centro della scena. Bibliografia: Gemälde... 1835, p. 18; Verzeichnis... 1843, p. 25; Passavant 1851, p. 16; Leuchtenbergska... 1917, p. 43; Dizionario... 1972, p. 95; Gazette 1987, p. 84; Riccomini 1988, pp. 135-136, 140; Christie’s 1989, n. 123; Còccioli Mastroviti 1989, p. 613; Mondzain 1990, pp. 79-81; Kustodieva 1994, p. 398; Landolfi 1995, pp. 79, 81, 82 n. 36; Christie’s 1998, pp. 114-115, n. 63; Riccomini 1999, p. 80; id. 1999a, p. 56; Drouot-Richelieu 2000, pp. 22-23, n. 22. 95

30. Sacra Famiglia con i Santi Agnese, Francesco e Genesio, Parma, Galleria Nazionale (inv. n. 147). Olio su tela, cm 300x200. La grande pala era citata per la prima volta da Mauro Oddi (XVII sec.), che, parlando della chiesa di Santa Maria del Quartiere, ricordava l’“Ancona di S. Genesio dell’Amidani”. Altrettanto sintetico era il successivo riferimento di Maurizio Zappata (inizi XVIII sec.), che riferiva: “unam pariter [tabulam pinxit] Amidanus in honorem S. Genesii”, mentre più dettagliata si rivelava la descrizione di Clemente Ruta (1739): “Nell’entrare in Chiesa a mano sinistra il Quadro del secondo Altare, rappresentante S. Genesio, S. Agnese, e S. Francesco è dell’Amidano, Scolaro del sopradetto Francesco Mazzola, detto il Parmegianino, e fiorì del 1550. Il gusto, ed inventare di tal’Autore molto diletta, atteso di vedere nelle sue operazioni la Scuola Parmigianinesca, onde in detto Quadro si conosce non solo un buon impasto di colori, ma altresì un grazioso componimento”. Se poi Baistrocchi (1787 ca.) ci informava delle precarie condizioni del dipinto allo scadere del secolo, riferendo che “ha un po’ sofferto per chi lo volle malamente ripulire; ciò non ostante conserva ancora certi vezzi, che il gusto Parmigianinesco palesano”, Ireneo Affò (1794, p. 67) si contrapponeva a gran parte della critica contemporanea identicando l’artefice in Pomponio Amidani, anzichè in Giulio Cesare. La tesi veniva accolta da Lanzi (1809), che aggiungeva poi la notizia di un improbabile scambio attributivo col Mazzola: “Si è anco tenuto dietro allo stile più che alla storia, ponendo fra gli scolari del Parmigianino un Pomponio Amidano. Dee però contarsi fra’ suoi seguaci più diligenti; fino ad essere stata ascritta a Francesco (e non da pittori volgari) una tavola dell’Amidano, ch’è alla Madonna del Quartiere ed è la più bella opera che ne abbia Parma”. Nel corso dell’Ottocento prevaleva però il riferimento a Giulio Cesare, pur riproponendo alcuni il nome di Pomponio (Paulucci di Calboli 1819; Inventario... 1820; Gabbi XIX sec.). La pala, segnalata nella chiesa del Quartiere fino al 1809 (Bodoni), veniva asportata al tempo delle soppressioni napoleoniche e quindi trasferita in Accademia, dove era ricordata nel 1816 da De Lama. Se Bodoni (1809, p. XIII) si riallacciava ancora alla tradizione critica settecentesca, riconoscendo nella tela le ultime conseguenze della maniera parmigianinesca, Corrado Ricci (1896, p. 155) vi individuava i tratti peculiari dell’Amidani nelle superfici piatte, poco modellate e troppo chiaroscurate, evidenziando però la qualità dei tipi infantili. Non dissimile era il parere di Sorrentino (1931), mentre Copertini (1935, p. 121) poneva l’accento sui rapporti con il Correggio e Quintavalle (1939, p. 61) su quelli con lo Schedoni. Una sintesi di tali posizioni veniva offerta dalla Fornari Schianchi (1983), che accennava ai motivi correggeschi e schedoniani, ma individuava altresì persistenze tardomanieriste e modi ormai attardati. Di cadenze arcaiche parlava anche la Frisoni (1986), riferendosi alla fattura secca e generica delle ultime opere. Vanno segnalati da ultimo gli interventi di Marco Riccomini, decisivi non solo per la corretta restituzione del dipinto a Luigi (Riccomini 1999a), ma anche per una serie di puntuali confronti. Il viso della Vergine, obliquo e parzialmente in ombra, ricompare infatti nella Sacra Famiglia con i Santi Elisabetta e Giovanni- 96

30. Sacra Famiglia con i Santi Agnese, Francesco e Genesio, Parma, Galleria<br />

Nazionale (<strong>in</strong>v. n. 147).<br />

Olio su tela, cm 300x200.<br />

La grande pala era citata <strong>per</strong> la prima volta da Mauro Oddi (XVII sec.), che,<br />

parlando della chiesa di Santa Maria del Quartiere, ricordava l’“Ancona di S.<br />

Genesio dell’Amidani”. Altrettanto s<strong>in</strong>tetico era <strong>il</strong> successivo riferimento di<br />

Maurizio Zappata (<strong>in</strong>izi XVIII sec.), che riferiva: “unam pariter [tabulam<br />

p<strong>in</strong>xit] Amidanus <strong>in</strong> honorem S. Genesii”, mentre più dettagliata si rivelava la<br />

descrizione di Clemente Ruta (1739): “Nell’entrare <strong>in</strong> Chiesa a mano s<strong>in</strong>istra <strong>il</strong><br />

Quadro del secondo Altare, rappresentante S. Genesio, S. Agnese, e S. Francesco<br />

è dell’Amidano, Scolaro del sopradetto Francesco Mazzola, detto <strong>il</strong> Parmegian<strong>in</strong>o,<br />

e fiorì del 1550. Il gusto, ed <strong>in</strong>ventare di tal’Autore molto d<strong>il</strong>etta, atteso<br />

di vedere nelle sue o<strong>per</strong>azioni la Scuola Parmigian<strong>in</strong>esca, onde <strong>in</strong> detto Quadro<br />

si conosce non solo un buon impasto di colori, ma altresì un grazioso componimento”.<br />

Se poi Baistrocchi (1787 ca.) ci <strong>in</strong>formava delle precarie condizioni del<br />

dip<strong>in</strong>to allo scadere del secolo, riferendo che “ha un po’ sofferto <strong>per</strong> chi lo volle<br />

malamente ripulire; ciò non ostante conserva ancora certi vezzi, che <strong>il</strong> gusto<br />

Parmigian<strong>in</strong>esco palesano”, Ireneo Affò (1794, p. 67) si contrapponeva a gran<br />

parte della critica contemporanea identicando l’artefice <strong>in</strong> Pomponio Amidani,<br />

anzichè <strong>in</strong> Giulio Cesare. La tesi veniva accolta da Lanzi (1809), che aggiungeva<br />

poi la notizia di un improbab<strong>il</strong>e scambio attributivo col Mazzola: “Si è anco tenuto<br />

dietro allo st<strong>il</strong>e più che alla storia, ponendo fra gli scolari del Parmigian<strong>in</strong>o un<br />

Pomponio Amidano. Dee <strong>per</strong>ò contarsi fra’ suoi seguaci più d<strong>il</strong>igenti; f<strong>in</strong>o ad<br />

essere stata ascritta a Francesco (e non da pittori volgari) una tavola dell’Amidano,<br />

ch’è alla Madonna del Quartiere ed è la più bella o<strong>per</strong>a che ne abbia Parma”.<br />

Nel corso dell’Ottocento prevaleva <strong>per</strong>ò <strong>il</strong> riferimento a Giulio Cesare, pur<br />

riproponendo alcuni <strong>il</strong> nome di Pomponio (Paulucci di Calboli 1819; Inventario...<br />

1820; Gabbi XIX sec.). La pala, segnalata nella chiesa del Quartiere f<strong>in</strong>o<br />

al 1809 (Bodoni), veniva asportata al tempo delle soppressioni napoleoniche e<br />

qu<strong>in</strong>di trasferita <strong>in</strong> Accademia, dove era ricordata nel 1816 da De Lama. Se<br />

Bodoni (1809, p. XIII) si riallacciava ancora alla tradizione critica settecentesca,<br />

riconoscendo nella tela le ultime conseguenze della maniera parmigian<strong>in</strong>esca,<br />

Corrado Ricci (1896, p. 155) vi <strong>in</strong>dividuava i tratti peculiari dell’Amidani nelle<br />

su<strong>per</strong>fici piatte, poco modellate e troppo chiaroscurate, evidenziando <strong>per</strong>ò la<br />

qualità dei tipi <strong>in</strong>fant<strong>il</strong>i. Non dissim<strong>il</strong>e era <strong>il</strong> parere di Sorrent<strong>in</strong>o (1931), mentre<br />

Co<strong>per</strong>t<strong>in</strong>i (1935, p. 121) poneva l’accento sui rapporti con <strong>il</strong> Correggio e Qu<strong>in</strong>tavalle<br />

(1939, p. 61) su quelli con lo Schedoni. Una s<strong>in</strong>tesi di tali posizioni veniva<br />

offerta dalla Fornari Schianchi (1983), che accennava ai motivi correggeschi e<br />

schedoniani, ma <strong>in</strong>dividuava altresì <strong>per</strong>sistenze tardomanieriste e modi ormai<br />

attardati. Di cadenze arcaiche parlava anche la Frisoni (1986), riferendosi alla<br />

fattura secca e generica delle ultime o<strong>per</strong>e.<br />

Vanno segnalati da ultimo gli <strong>in</strong>terventi di Marco Riccom<strong>in</strong>i, decisivi non solo<br />

<strong>per</strong> la corretta restituzione del dip<strong>in</strong>to a Luigi (Riccom<strong>in</strong>i 1999a), ma anche <strong>per</strong><br />

una serie di puntuali confronti. Il viso della Verg<strong>in</strong>e, obliquo e parzialmente <strong>in</strong><br />

ombra, ricompare <strong>in</strong>fatti nella Sacra Famiglia con i Santi Elisabetta e Giovanni-<br />

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