libro - Piero della Francesca

RICORDARLI È TENERLI
IN VITA PER SEMPRE
AI CADUTI DI BADICROCE
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Ho letto le bozze di questo libro non avendo, nell’impaginato a disposizione,
l’indicazione dell’autore. Sono arrivato alla fine apprezzando il rigore storico, la
precisione delle ricostruzioni e delle citazioni, la passione civile. Sono rimasto
quindi letteralmente stupefatto leggendo, solo al termine, che gli autori sono gli
studenti del Polo Artistico di Arezzo. Un bellissimo lavoro, reso ancora più tale
dall’età dei suoi autori. Una testimonianza che la scuola, nonostante l’irrilevante
considerazione che storicamente ha da parte dei Governi, riesce a mantenere
livelli di eccellenza. Di questo, penso, dobbiamo rendere onore ai docenti e ai
dirigenti scolastici che si sono dedicati a questo progetto.
Un lavoro di ricostruzione storica destinato ad una delle stragi meno note
nella provincia di Arezzo, ma che ha molte ragioni per tornare all’attenzione di
tutti.
Badicroce, contrariamente ad altri simili e drammatici eventi, non registra
“una” strage. L’esercito tedesco rimane nella zona per settimane e in modo
metodico e crudele brucia le case, fa razzia di animali e cibo, rastrella le famiglie.
Minaccia, intimidisce, violenta. E uccide: 17 persone in giorni diversi. Qui non
siamo di fronte ad una “fiammata” di violenza e di odio. Siamo di fronte ad una
strategia ben precisa. Messa in atto, tra l’altro, con la crudeltà propria dello
sconfitto: le 17 persone uccise a Badicroce, come d’altronde quelle ad Antria,
perdono la vita alla vigilia della liberazione di Arezzo e quindi, almeno in questa
zona, della fine della guerra.
Una tragedia che assume anche i toni dell’assurdità e della più completa
inutilità. Per la quale nessuno ha pagato. Il fascicolo di Badicroce è uno dei 695
rimasti nascosti nell’“armadio della vergogna”. Come ricordano gli autori di
questo volume, è stato necessario arrivare al 1994 per togliere la polvere da
questi fascicoli. Sono iniziate inchieste che hanno portato a condanne definitive
per alcune delle più tremende stragi nella provincia di Arezzo. Per Antria, però,
non abbiamo avuto giustizia. E per Badicroce l’attendiamo, senza sapere con quali
esiti.
Rimane, ovviamente, il giudizio della storia che viene prima di quello
penale. E viene confortato da lavori come questo che consentono alla memoria di
rimanere viva nonostante il passare degli anni. Documenti e testimonianze orali
sono ormai fissati per sempre. Serviranno alle future generazioni non solo per non
dimenticare ma, soprattutto, per costruire un futuro migliore. E sono veramente
felice che a lavorare sulla memoria siano stati giovani che hanno dimostrato non
solo una generica disponibilità a ricostruire un evento ma grandi qualità nel farlo.
Scientifiche e umane. Penso che a loro vada il ringraziamento delle donne e degli
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uomini che in quella lontana estate persero parenti e amici. Ma anche quello della
città di Arezzo che ha visto ricostruito un altro importante tassello della sua storia.
Il Sindaco di Arezzo
Avv. Giuseppe Fanfani
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Vorrei iniziare questa mia breve introduzione partendo dalla mia esperienza
di bambina, poi di adulta e di rappresentante delle Istituzioni.
Ero una bambina quando, la sera, aspettavo con impazienza il ritorno a casa
di mio nonno.
Ho sempre adorato stare con lui: mi prendeva con le sue mani grandi e
forti, mi sedeva nelle sue ginocchia e cominciava i suoi racconti. Rimanevo
affascinata da questi suoi racconti che allora mi sembravano come le storie dei
romanzi di avventura che mi piaceva leggere.
Mi parlava della sua gioventù, della vita semplice all’interno della nostra
Comunità, delle persone care che non c’erano più.
Spesso, mi parlava anche della Guerra… e allora i suoi racconti non avevano
mai un lieto fine. Il ricordo dei momenti felici lasciavano lo spazio alla miseria, la
fame, la paura… la morte.
La guerra, che un tempo si combatteva lontano, era entrata con violenza
nel loro vivere quotidiano.
La nostra Provincia è stata insignita della medaglia d’oro al valore civile e
militare da parte del Presidente della Repubblica proprio perché, durante quelle
tristi stagioni di guerra, nelle nostre vallate vi furono circa 4.000 vittime, fra
militari e civili.
In particolare, il gran numero di vittime civili nella nostra zona – circa mille
solo nel Comune di Arezzo e duemila in tutta la Provincia – è dovuto
principalmente alla sua posizione geografica che ha fatto sì che il conflitto si
fermasse qui da noi più a lungo che altrove.
I tedeschi in ritirata dall’Italia saccheggiavano e disseminavano violenza
ovunque.
In quei giorni, il 30 giugno del 1944, mio nonno perse sua madre: raffiche di
mitra tedesche la raggiunsero mentre accudiva il bestiame.
Come donna e senza nulla togliere alle tante sofferenze della popolazione
maschile, mi sia permesso di affermare che, durante i conflitti, sono proprio le
donne che, più di ogni altro, incarnano questo dolore, perché lo vivono come
mogli e come madri di coloro che morirono, e non solo come vittime esse stesse.
Personalmente, quando poi sono cresciuta, ho sempre partecipato con
profonda emozione alla Giornata di Commemorazione che mi ha permesso di
conoscere, comprendere ed approfondire ancor di più il significato di quelle
drammatiche vicende attraverso la testimonianza di altre persone, nostri
compaesani, che in quei giorni vissero, sulla propria pelle e negli affetti più cari, il
dolore e l’ingiustizia della guerra.
A questo proposito, giusto in tema di esperienze vissute e di testimonianza,
vorrei citare una persona il cui ricordo è e rimarrà per sempre vivo nella mente e
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soprattutto nel cuore di chi ha avuto la fortuna, o meglio il dono, di conoscerlo:
don Giorgio Checchi. Dalle testimonianze di quegli anni orribili emerge con
semplicità la forza del suo coraggio, la coerenza in ciò che credeva, l’anelito di
giustizia e l’amore verso il prossimo.
Don Giorgio, il cui ricordo rimarrà per sempre nelle tante cose che ha fatto,
nei luoghi ove ha vissuto, nel cuore delle persone che ha profondamente amato,
ci ha insegnato che la nostra vita può essere spesa per gli altri, per quei valori per
cui tanti hanno dato la vita : la democrazia, la libertà, la giustizia, la pace. Tutto
questo deve quindi costituire un monito per tutti noi cittadini italiani a portare,
con forza, nel nostro cuore e, per chi ha responsabilità politiche ed
amministrative, a portare anche nelle azioni di governo, quello che poi è scritto
nella nostra Costituzione: che l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione
dei conflitti. E questo monito deve giungere con forza soprattutto a chi ha avuto la
fortuna di non aver vissuto in prima persona quelle tragedie, ma poi non ha avuto
e non avrà più neppure la possibilità di ascoltare le testimonianze dirette di allora:
i giovani.
È per queste ragioni che la nostra Circoscrizione, nel suo piccolo, ha inteso
promuovere in questi anni una serie di iniziative rivolte proprio ai giovani, sia delle
scuole superiori che delle elementari, per far sì che non si perda, anzi rimanga
vivo, il ricordo di tanta sofferenza e, al tempo stesso, la consapevolezza
dell’importanza nella vita di ciascuno di noi, come singolo e come collettività,
nella sfera privata come in quella pubblica, dei valori fondanti della nostra civiltà,
richiamati in modo fulgido dalla nostra Costituzione: la democrazia, la libertà, la
giustizia e la pace.
Presidente circoscrizione 6 Palazzo del Pero
Lucia Sandroni
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Cari ragazzi,
esprimo il più vivo e convinto apprezzamento al lavoro di ricerca e recupero della
memoria che avete svolto su uno degli efferati episodi che hanno interessato il
nostro territorio, come quello di Badicroce dove, durante la ritirata delle truppe
tedesche nel 1944, furono uccisi molti civili inermi, come purtroppo in altre
località di questa provincia.
Mi vengono in mente le parole di Nuto Revelli, scrittore ed esponente di
spicco della Resistenza italiana: «...Volevo che i giovani sapessero, capissero,
aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell'ignoranza,
come eravamo cresciuti noi. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un
bene immenso, senza libertà non si vive...». E’ importante ricordare, conoscere,
cercare di capire, guardando al futuro, con la consapevolezza del passato. Serve a
formare persone consapevoli. E' importante per evitare che ciò che è accaduto
possa verificarsi di nuovo. E con il vostro appassionato contributo ci sentiamo più
forti nel combattere ogni tipo di sopraffazione e violenza. Quello che avete svolto
per questa documentazione è un lavoro prezioso che contestualizza la storia
locale: le vicende di una piccola comunità inserite nella storia mondiale. Credo che
abbiate realizzato un momento educativo fondamentale nella costruzione di una
coscienza critica.
La lezione della storia deve sempre tradursi in una riflessione attuale. La
nostra provincia è stata tra le più colpite dalla ferocia tedesca. Le oltre 1.100
vittime delle rappresaglie e delle stragi nazi-fasciste, le dieci medaglie d'oro, e
tutti gli altri riconoscimenti che sono alla base della concessione al Gonfalone
della Provincia della medaglia d'oro per attività partigiana, testimoniano il tributo
pagato dalla provincia di Arezzo alla liberazione. Ferite che restano ancora oggi
aperte.
L’impegno e la serietà con cui avete ripercorso queste tragiche esperienze,
la raccolta delle testimonianze, ancora così cariche di insegnamenti e di valori, è
motivo di conforto per tutti noi.
Presidente Provincia di Arezzo
Dott. Roberto Vasai
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Il nostro Istituto ha accolto con entusiasmo l’invito della Circoscrizione 6 di
Arezzo di realizzare un monumento commemorativo per i caduti dell’eccidio
nazifascista di Badicroce, nel territorio di Palazzo del Pero. Si, perché ormai da
tempo questa scuola è impegnata in un'azione culturale e artistica volta a
valorizzare il nostro territorio aretino e la propria storia. È stata progettata e
realizzata la scultura e, parallelamente, è stata condotta una ricerca storica
sull’avvenimento attraverso l’analisi di fonti documentarie e la raccolta di
testimonianze di chi ha vissuto quel periodo così drammatico per la storia del
nostro Paese. Il lavoro qui presentato è il frutto finale dell’impegno di insegnanti e
studenti che hanno, in tal modo, potuto analizzare vicende spesso controverse e
portare avanti un’attenta riflessione sul passato, base del presente e, al
contempo, motore del nostro avvenire.
Un Paese che non custodisce con cura la memoria del proprio passato,
sosteneva Norberto Bobbio, non ha speranza alcuna per il proprio futuro. Ecco
allora che ricordare il passato non è e non può essere un astratto elenco di
avvenimenti o un’operazione nostalgica fine a se stessa, ma deve rappresentare
un saldo punto di partenza per orientare verso comportamenti positivi, improntati
al rispetto della dignità umana, dei valori della legalità e della cittadinanza. La
formazione e l’educazione dei nostri ragazzi devono tener conto di questo
presupposto e ben vengano dunque progetti analoghi, che fanno sì che ciò che è
stato non si smarrisca, come purtroppo spesso accade, nella superficialità e nella
frenesia del nostro vivere quotidiano: è questo l'impegno ed il nostro lavoro di
tutti i giorni.
Dirigente Scolastico del Polo delle Arti “Piero della
Francesca” di Arezzo
Prof. Luciano Tagliaferri
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“E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, tu potrai
rispondere loro: Ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremo vinto noi. E
verrà il giorno in cui saremo in grado di ricordare una tale quantità di cose
che potremo costruire la più grande scavatrice meccanica della storia e
scavare, in tal modo, la più grande fossa di tutti i tempi, nella quale
sotterrare la guerra.”
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Ray Bradbury Fahrenheit 451

I LUOGHI
Tu non sai le colline / dove si è sparso il sangue
Cesare Pavese
Nel cuore della provincia di Arezzo, tra la città capoluogo e la Valtiberina, si
trova la Valcerfone: zona quasi esclusivamente montana, è attraversata dal
torrente Cerfone le cui acque, nell’antichità, erano ritenute sacre.
Panorama della Valcerfone
A nord abbiamo Anghiari, a nord-est Monterchi e Monte S. Maria Tiberina,
ad est Città di Castello, a sud Cortona, a sud-ovest Castiglion Fiorentino. La
popolazione è concentrata nei tre centri di Molin Nuovo, S. Maria alla Rassinata e
soprattutto Palazzo del Pero, paese principale della Circoscrizione 6: la zona conta
complessivamente poco più di 1.200 abitanti.
Panorami mozzafiato fanno da cornice a questi luoghi traboccanti di storia,
nei quali sono evidenti le tracce di insediamenti romani e bizantini, impreziositi da
bellezze architettoniche e artistiche: basti pensare alle numerosi pievi
paleocristiane e altomedievali, come quella di S. Donnino a Maiano, edificata al
tempo della prima evangelizzazione cristiana e arricchita successivamente da
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affreschi, in particolare, in epoca rinascimentale, la Madonna del Latte, posta
sull’altare di destra, che si inserisce nella tradizione galattofora della valle, con le
fonti cosiddette “lattaie” cui le nutrici si recavano, in una sorta di pellegrinaggio
propiziatorio. Nella stessa pieve si trovava un dipinto del Vasari raffigurante San
Rocco, che è andato perduto. Altre pievi di non meno pregio sono quelle di San
Cassiano a Corneta e dei SS. Lorentino e Piergentino a Ranco.
Pieve di S. Donnino a Maiano
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Pieve di Ranco
Dei 21 castelli edificati tra XI e XIII secolo - Sasseto, Cornia, Largnano,
Vignale, Croci - purtroppo non rimane granchè, talvolta è incerta la loro esatta
ubicazione; gli unici che hanno lasciato una qualche traccia significativa sono
Bivignano, le cui mura racchiudevano l’antico borgo medievale, e Ranco, punto di
riferimento di Leonardo da Vinci nella sua carta della Val di Chiana.
Castello di Ranco
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Borgo di Bivignano
Tradizione e fascino, però, non hanno reso immuni questi luoghi dal
passaggio della Storia, quella più crudele e feroce, che si concretizza, durante la
guerra di Liberazione, in due stragi di civili, a pochi giorni di distanza l’una
dall’altra, la prima in località Muraglione, la seconda nella fattoria di Badicroce.
La calda estate del 1944 era cominciata da meno di un mese: i ragazzi
avevano terminato la scuola e scorazzavano spensierati per il paese; gli uomini
erano impegnati nelle consuete attività lavorative; le donne svolgevano con
dedizione le faccende domestiche. L’Italia era in guerra, una guerra sciagurata
iniziata quattro anni prima che aveva costretto molti giovani uomini a separarsi
dalle proprie famiglie. Da qualche mese, però, il fronte si era ribaltato: con
l’armistizio dell’8 settembre 1943 la Germania, da alleata, era diventata nemica,
eccetto per coloro che avevano aderito alla Repubblica di Salò e che continuavano
ad appoggiare Mussolini e Hitler.
Il territorio aretino, in conseguenza di ciò, si trova ad essere al centro di un
pericoloso tiro incrociato: da un lato le truppe tedesche che, incalzate dagli angloamericani,
sono costrette ad arretrare da Sud verso Nord, portandosi dietro una
rabbia indomita che riversano sulla popolazione; dall’altro le formazioni partigiane
che, costituitesi all’indomani della firma dell’armistizio, affiancano ora le truppe
alleate e lottano con le unghie e con i denti per riconquistare la libertà alla loro
patria. Gruppi di partigiani si muovono nella zona, anzitutto nel Pratomagno, dove
si trovano sia bande ben organizzate e numericamente consistenti, sia formazioni
più esigue e isolate, che poi confluiranno nelle Divisioni Partigiane della zona, la
23ª Brigata Garibaldina “Pio Borri” e la 24ª Brigata “Bande Esterne”.
Già alla caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, comitati antifascisti erano sorti in
vari centri, coordinati dalle sezioni locali del Comitato di Liberazione Nazionale: in
Toscana opera il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN) e nella zona di
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Palazzo del Pero, fondato da Antonio Curina, si riunisce il Comitato Provinciale di
Concentrazione Antifascista (CPCA) che poi, il 12 aprile 1944, si trasformerà nel
Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale (CPLN).
Antonio Curina
Intanto, a nord, l’Appennino era in fase di fortificazione: dall’ottobre del ’43
italiani, tedeschi e slovacchi erano sottoposti ad un lavoro incessante per mettere
in collegamento le città di Massa e Pesaro attraverso i circa 300 Km della Linea
Gotica o, come fu successivamente ribattezzata, Linea Verde, che avrebbe dovuto
fungere da baluardo e da difesa per le truppe germaniche.
Linea Gotica
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L’abitato di Palazzo del Pero si era nel frattempo andato ingrossando,
perché da Arezzo molte persone si erano qui riversate per sfuggire ai
bombardamenti alleati che fin dall’inverno del ’43 si abbattevano sulla città:
bambini, donne, anziani avevano trovato ovunque un’accoglienza generosa; la
canonica offriva rifugio a chi lo chiedesse; le gallerie del trenino dell’Appennino,
che metteva in collegamento Arezzo, Sansepolcro e Fossalto di Vico e che si
trovava in sosta forzata, fornivano un naturale riparo a centinaia di aretini. 1
1 Don S. Pieri, La Valcerfone, Cortona, Arti tipografiche Toscane, 1998, p. 145. Pare che a
fine aprile 1944 la popolazione di Arezzo fosse ridotta a poco più di 100 abitanti, cfr. G.
Bronzi, Il fascismo aretino da Renzino a Besozzo – 1921/1945, Etruria, 1988, p. 56.
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I FATTI
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Con il piede straniero sopra il cuore
Salvatore Quasimodo
Fin dal marzo 1944 c’è da registrare un importante aumento dell’attività
partigiana lungo l’Appennino, in un contesto definito dai comandanti tedeschi “di
difficile gestione”.
Per fronteggiare la situazione la Repubblica di Salò, con il generale Graziani,
aveva provveduto al richiamo alla leva per le classi ’23, ’24, ’25, in modo da
costituire un esercito di giovani forze, mentre il bando del 18 febbraio decretava
la pena di morte per i renitenti:
Ripristinando l’onore, metteremo mano alla costruzione delle nuove milizie del popolo
italiano, modernamente armate, idealmente partecipi di una fede e di una volontà.
Ufficiali e soldati ancora una volta il destino vi offre una possibilità e vi schiude le porte. La
vostra risposta deciderà sulla sorte delle generazioni venture. Con l’aiuto di Dio e con la
purezza dei nostri cuori, noi supereremo vittoriosamente la prova. Viva l’Italia!
L’attesa risposta in massa degli italiani non ci fu, molti preferirono disertare
e darsi alla macchia, ingrossando le fila delle bande sparse sulle montagne,
cosicché il 7 aprile Albert Kesselring, Comandante in capo delle forze di
occupazione in Italia, dispone le prime misure per frenarne l’azione:
Le bande vanno affrontate con operazioni sistematiche. Al tempo stesso, tuttavia,
bisognerà provvedere a proteggere in ogni momento la truppa da aggressioni e attentati
(…). Durante la marcia in territori infestati dalle bande le armi dovranno essere sempre
tenute pronte al tiro. In caso di aggressione dovrà subito essere aperto il fuoco, senza
badare alla presenza di eventuali passanti (…). L’imperativo primo è agire in modo
energico, deciso e rapido. I comandanti deboli e indecisi dovranno renderne conto a me, in
quanto mettono in pericolo la sicurezza delle truppe loro affidate e il prestigio della
Wehrmacht. Nella situazione attuale, l’essere intervenuti duramente non costituirà mai
motivo di punizione. 2
2 L. Klinkhammer, La politica di repressione della Wehrmacht in Italia, in L. Paggi (a cura
di) La memoria del nazismo nell’Europa di oggi, Scandicci, La Nuova Italia, pp. 98-99

Albert Kesselring
In Toscana le operazioni antipartigiane si fanno più serrate dal 10 aprile e
riguardano in primo luogo il Mugello, nel versante nord-orientale del Monte
Morello; poi si spostano più a sud, nel Casentino, dove la presenza delle bande è
considerata molto più preoccupante e pericolosa che altrove, favorita d’altronde
dalla stessa conformazione del territorio. Sono passati pochi giorni dall’attacco di
via Rasella e dalla risposta delle Fosse Ardeatine, si vuole dare un segnale forte,
dimostrare come i tedeschi non abbiano affatto intenzione di mollare la presa: la
barbarie nel territorio di Arezzo è così inaugurata dalla strage di Vallucciole del 13
aprile, in cui si colpiscono in modo indiscriminato donne e bambini, per un totale
di 289 vittime, come drammaticamente narra Carlo Levi:
I tedeschi entravano: gli uomini venivano buttati fuori e caricati con le cassette: la nostra
fila si allungava. Nelle case le donne e i bambini venivano ammazzati subito. E le bestie,
anche, nelle stalle. E poi davano fuoco. Cambiavano soltanto il modo; qui con la benzina, in
un’altra casa con le bombe incendiarie, e massacravano con le bombe, coi fucili, coi mitra,
con le mazze, coi coltelli. Avevano arsenali di armi e le adoperavano. 3
Il 1 maggio 1944 Kesselring assume il comando di tutte le SS e le forze di
polizia stanziate in Italia, col compito preciso di condurre la lotta contro i gruppi
partigiani, raccogliendo l’ordine diramato dal Feldmaresciallo Keitel, Comandante
delle forze tedesche, preoccupato di fronte alla crescente pericolosità del
movimento: furono stabilite nuove regole nella condotta bellica, tutte con un
comune denominatore, l’adozione di ogni mezzo e della massima severità,
3 C. Levi, La Pasqua di Vallucciole, in G.P. Carocci, La resistenza italiana, Milano,
Garzanti 1963
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secondo una logica militare-terroristica attentamente studiata dai vertici tedeschi
in Italia e già largamente sperimentata nelle zone occupate dell’Europa orientale e
dei Balcani.
Alla data del 25 maggio è fissata la scadenza di un bando che mirava a
smantellare le bande partigiane: la spontanea consegna delle armi e
l’arruolamento nell’esercito repubblichino sarebbero stati garanzia della
cancellazione di ogni reato; in caso contrario si sarebbe proceduto alla immediata
fucilazione.
La risposta della resistenza aretina non si fece attendere e si tradusse nella
suggestiva “notte dei fuochi”: alle 21.15, ad un segnale prestabilito, i crinali delle
zone montuose, dall’Alpe di Catenaia all’Alpe di Poti, si illuminarono di grandi falò,
in aperto atto di sfida verso il nemico occupante e segnale importante della
consistenza numerica e della compattezza del movimento.
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Tra la metà di maggio e l’inizio di giugno la rottura della Linea Gustav a
Cassino sancisce una rapida ripresa dell’avanzata alleata, che culmina il 4 giugno
con la liberazione di Roma, dopodichè gli anglo-americani si distribuiscono lungo
due direttrici: da una parte la valle del Tevere, in direzione di Perugia, Arezzo, per
puntare quindi su Firenze; dall’altra il versante occidentale, verso Grosseto,
Livorno e Pisa. Tutto procede piuttosto rapidamente almeno fino al 20 giugno, poi
c’è un sensibile rallentamento sul lago Trasimeno, lungo la Linea Albert, che
correva da Castiglion della Pescaia al mar Adriatico, dove si ebbero una serie di
scontri durissimi con i quali i tedeschi, applicando la “difesa attiva”, tentarono di
guadagnare tempo per irrobustire la Linea Gotica, contando così di fermare i
nemici.
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Come è facile intuire il territorio aretino si trova stretto in una morsa,
proprio nel momento in cui viene adottata la strategia della “ritirata aggressiva”,
fissata da Hitler e messa in atto da Kesselring, che comporta l’utilizzo di metodi
feroci e brutali, ben oltre la già di per sé dura condotta di guerra: si vuol
procedere ad una bonifica del territorio sia in prossimità del fronte sia più
lontano, in modo da muoversi senza incontrare ostacoli.
Ma il movimento partigiano acquista, se possibile, nuova linfa, soprattutto
nell’intensità delle azioni, anche in conseguenza del proclama del 6 giugno,
ribadito da altri due messaggi del 7 e del 9 giugno, da parte del generale
britannico Alexander, Comandante delle Forze alleate nel Mediterraneo, che
incita a raddoppiare gli sforzi, uccidere i tedeschi, distruggere i loro trasporti. Le
testimonianze dei generali nell’immediato dopoguerra ci restituiscono una
situazione di allarme permanente, lo stesso Kesselring, nelle sue memorie, ricorda
le preoccupazioni di fronte al repentino allargarsi della guerriglia:
Dopo l’abbandono di Roma si ebbe un inasprimento dell’attività partigiana, in misura per
me affatto inattesa. Questo periodo di tempo può essere considerato come la data di
nascita della “guerra partigiana illimitata” in Italia. L’afflusso di nuovi elementi alle bande,
che agivano specialmente tra il fronte e gli Appennini, andò intensificandosi in modo
visibile *…+. A partire da quell’epoca la guerra partigiana diventò per il comando tedesco
un pericolo reale, la cui eliminazione era un obiettivo di importanza capitale. 4
Anche il generale von Senger und Etterlin, comandante del XVI Corpo
d’armata corazzato, vede come momento di svolta della guerra lo sfondamento
degli alleati e la ritirata verso l’Arno, allorché i gruppi, senza organizzazione
militare, distintivi, e in grado di tenere sotto controllo il territorio, iniziano ad
attaccare alle spalle i tedeschi che, in evidente difficoltà, prendono di mira la
popolazione civile con una brutalità che ha essenzialmente un obiettivo punitivo.
La situazione è attentamente monitorata dall’ Ic-Abteilung dello Stato
maggiore della 14ª Armata (Armeeoberkommando 14) che, durante i mesi di
permanenza in Toscana, diffonde bollettini sull’attività nemica nel suo complesso:
eserciti alleati, formazioni partigiane e popolazione civile, vista sempre e
comunque con sospetto. 5 L’ufficio esaminava le informazioni che giungevano dai
comandi delle Divisioni e dei Corpi d’armata subordinati e le inviava
tempestivamente al comando del maresciallo Kesselring; ai comandi ed alle
truppe arrivavano i supporti documentari su cui basare l’ azione repressiva. Gli
4 Albert Kesselring, Memorie di guerra, Milano, Garzanti, 1954, p. 252
5 A livello del comando di armata, l’ufficio era composto dall’Ic-Offizier, il titolare, l’Ic-AO,
l'ufficiale del controspionaggio militare, ed un ufficiale assistente
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strumenti di questo lavoro di intelligence erano i bollettini giornalieri (Ic-
Tagesmeldungen), quelli periodici, bisettimanali o mensili (Ic-
Bandenlageberichte), e le carte della situazione e dell'attività partigiana (Ic-
Bandenlagekarten).
Mappa dell’esercito tedesco
Nelle settimane successive vengono diramati nuovi ordini: è del 17 giugno
1944 la particolarmente severa Nuova regolamentazione per la lotta alle bande,
che non esita a violare le norme esplicitate dai trattati internazionali, autorizzando
metodi crudeli nei confronti dei civili, considerati senza distinzione di sorta
complici dei partigiani, e garantendo inoltre l’impunità per i comandanti:
La situazione dei partigiani in Italia, particolarmente nel centro Italia, si è recentemente
acutizzata, e ciò costituisce un serio pericolo per le truppe combattenti e per i rifornimenti,
sia per ciò che concerne il materiale bellico, sia per il potenziale economico. La lotta contro
i partigiani deve essere condotta con tutti i mezzi a nostra disposizione e con la maggiore
severità. Io proteggerò quei comandanti che eccedessero nei loro metodi di lotta ai
partigiani. In questo caso suona bene il vecchio proverbio che dice: meglio sbagliare la
scelta del metodo ma eseguire gli ordini, che essere negligenti o non eseguirli affatto.
Soltanto la massima prontezza e la massima severità nelle punizioni saranno valido
deterrente per stroncare sul nascere altri oltraggi o per impedire la loro espansione. 6
Kesselring autorizza di fatto massacri indiscriminati, dopo i quali si
complimenta con i suoi per le “brillanti” operazioni compiute:
6 M. Battini - P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro.
Toscana 1944, Venezia, Marsilio, pagg 424 e ss.
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L’appartenenza al movimento partigiano non era più stabilita sulla base di elementi di
carattere militare (il possesso di armi, l’indossare un uniforme, il vivere in accampamenti),
bensì su supposizioni e consapevolmente anche la popolazione civile ne fu considerata
parte. La durezza delle misure dipese in gran parte dai comandanti locali, che avevano
ampia autonomia nel realizzare i loro compiti (…). Dopo che per tre mesi gli ordini
draconiani erano stati ripetuti in modo martellante, ad ogni unità tedesca operante in
Italia dovette apparire evidente che i comandi militari si aspettavano nei cosiddetti
“Bandengebiete” (zona di bande) un comportamento spietato nei confronti della
popolazione civile. Più alto era il numero dei morti che si poteva comunicare nel rapporto
al Comando supremo, maggiore l’encomio da parte di Kesselring. 7
Kesselring sul fronte italiano
È ora che si collocano le stragi di Palazzo del Pero.
La relazione del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri Reali, stilata il
7 agosto 1944, fa riferimento in primo luogo ad un’uccisione isolata, il 17 giugno,
di un giovane patriota di cui non viene menzionato il nome. Tale fatto però
appartiene al ricordo di Sebastiano Buzzini:
A San Donnino fu fucilato un ragazzo, non sappiamo il nome, aveva 20 anni: sentii urla, lo
picchiavano perché volevano informazioni sui partigiani. Lo fecero appoggiare con le mani
7 L. Klinkhammer, Le stragi naziste in Italia, Roma, Donzelli, 2006, p. 94
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alzate al capanno vicino alla chiesa e gli spararono. Io scappai impaurito. Nella parete
sono rimasti due buchi. 8
Il 23 giugno due tedeschi si trovano a passare nella zona a bordo di un
sidecar; attratti da un albero di ciliegie, si fermano: sono colpiti da una raffica di
spari, vengono feriti, uno muore. La risposta è immediata: una quarantina di
uomini del paese sono radunati all’Ufficio dell’Anagrafe, scelti i 10 più giovani,
condotti sulla strada che da Palazzo del Pero porta a Molin Nuovo, in località
Muraglione - zona anche chiamata Intoppo -, fatti allineare sul lato destro della
strada. Gli uomini si stringono in un abbraccio disperato, mentre il plotone di
esecuzione apre il fuoco. Per essere sicuri della loro morte viene sparato un colpo
di grazia a distanza ravvicinata. Verranno inoltre bruciate 3 case.
Muraglione
8 Testimonianza raccolta il 14 maggio 2010 in occasione del ciclo di incontri I venerdì di
Palazzo del Pero. Conversazioni sulla storia della Valcerfone
23

Piazzetta dell’eccidio
Il terrore per quanto accaduto si diffonde nella comunità, accompagnato
dalla rabbia di chi vuole vendicare quelle 10 morti innocenti: il medico di Palazzo
del Pero, dottor Stanghellini, avverte Curina che i partigiani hanno deciso di
eliminare i prigionieri detenuti nel campo di Marzana, a est di Cortona, nella zona
del Monte Favalto. Curina si oppone, sono inviate due ragazze ad avvertire di un
incontro: dopo 2 ore di accese discussioni la posizione di Curina ha
fortunatamente la meglio. 9
Il 1° luglio Kesselring ribadisce gli ordini del 17 giugno, indicando inoltre, tra
le misure da adottare
(...) arresti nelle zone in cui fossero presenti partigiani e, nel caso di episodi di violenza,
l’immediata fucilazione. In presenza di numeri considerevoli di gruppi partigiani una parte
della popolazione maschile di quell’area doveva essere arrestata. Nel caso in cui fossero
stati commessi di atti di violenza, questi uomini sarebbero stati uccisi. La popolazione
doveva essere informata di ciò. Nel caso in cui le truppe fossero state fatte oggetto di
attacchi di fuoco da un villaggio, quel villaggio sarebbe stato bruciato. Gli esecutori
dell’azione o i leader che guidavano il gioco sarebbero stati impiccati pubblicamente (…)
9 E. Droandi, Arezzo distrutta, Cortona, Calosci, 1995, p. 166
24

Tutte le contromisure devono essere dure ma giuste. Lo richiede la dignità del soldato
tedesco.
Le segnalazioni della situazione partigiana da parte dell’IC Abteilung si
infittiscono a partire da questi giorni e, dal 2 luglio in avanti, i bollettini diventano
quotidiani.
La violenza si ripresenta agli abitanti della Valcerfone, questa volta nella
fattoria di Badicroce, situata a 4 Km da Palazzo nel Pero.
Ingresso della fattoria
Le notizie sull’episodio sono frammentarie, talvolta discordanti per quanto
riguarda il numero dei caduti: alcune fonti parlano di almeno trenta morti; Enzo
Droandi presenta un elenco di 17 vittime, corredato da alcuni punti interrogativi
relativi ai luoghi di provenienza ed all’età. Nel PRO - Public Record Office -, sezione
War Office di Londra, che raccoglie le testimonianze dell’epoca, l’episodio è
contenuto nel fascicolo 204/11480 - X.C. - 15843 Badicroce, firmato da R. W.
Carlile e datato 17 aprile 1945, dove si parla di 16 vittime civili. Gli ultimi studi, in
particolare il progetto portato avanti dal Gruppo di Ricerca sulle Stragi Nazisti del
Dipartimento di Storia Contemporanea dell’Università di Pisa, che ha effettuato
un censimento delle stragi in Toscana, hanno riconfermato il dato di 17 morti. 10
Tutto ha inizio dalla metà di giugno, quando i tedeschi arrivano a Badicroce
e, fin da subito, palesano aggressività e prepotenza; spesso, nei giorni successivi,
si recano alla fattoria, di proprietà del dottor Alberto Lisi e della moglie Derna,
chiedendo cibo e razziando tutto ciò di cui avevano bisogno; dalle colline
circostanti partono colpi nella loro direzione.
10 www.stm.unipi.it.
25

Colline attorno a Badicroce
Pochi giorni dopo la scena si ripete con maggior crudezza, ma non è chiaro
se ci siano stati feriti o morti tra i soldati 11 ; questi rispondono sparando in aria, al
proprietario della fattoria, ai piedi di una povera contadina che cammina.
Ritenendo tutti i civili, a vario titolo, collusi con le bande partigiane, cominciano a
profferire accuse, passando ben presto all’azione. Il 30 giugno un centinaio di
tedeschi, equipaggiati di carrarmati, si ripresentano e mettono a ferro e fuoco
l’abitato di Badicroce; il 1 luglio sono circa 150, si impossessano della fattoria,
saccheggiano le case cacciando i proprietari, talvolta le bruciano, sparano
cannonate verso le abitazioni delle montagne, prendono ostaggi, stuprano donne.
Il controllo del territorio deve servire ad un agevole passaggio delle truppe, che
fanno da spola tra il fronte e il presidio militare di Arezzo e non si vogliono pericoli
in vista; il fermo delle persone serve anche per eventuali ritorsioni,
continuamente intimate per scoraggiare attacchi da parte dei partigiani.
Il 3 luglio c’è la cattura di alcuni uomini nell’abitato di Palazzo del Pero, il
loro trasferimento a Badicroce, la loro esecuzione: i primi a cadere sotto i colpi del
fuoco tedesco sono Angelo e Virgilio Bianchini, padre e figlio, e Angelo Romanelli,
mugnaio del paese, suocero di Virgilio. Due famiglie distrutte. È d’ora in poi che i
fatti si fanno confusi: è certo però che, almeno fino al 9-10 luglio, abbiamo
sequestri, violenze, morti. Tra le famiglie rastrellate c’è quella dei Brunetti:
l’anziano Epifanio, claudicante, è spintonato, fatto cadere per terra e infine ucciso.
11 Le testimonianze raccolte discordano; nei documenti esaminati si parla genericamente di
spari provenienti dalle colline circostanti
26

Si segnala, sempre il 3 luglio, la scomparsa di Sabatino Conticini, rinvenuto senza
vita nei giorni seguenti.
La base operativa dei tedeschi è posta nella stalla dell’Aia Vecchia, una casa
colonica dentro il complesso di Badicroce, gestita dal contadino Luigi Cangi, il cui
destino è presto segnato: visto per l’ultima volta in vita attorno alle ore 10 del 4
luglio, il suo cadavere e quello della moglie Pasqua Lazzarotto saranno ritrovati il
giorno seguente, assieme al corpo di Luigi Carnesciali, dalla figlia Amerite. Dal
pomeriggio dello stesso giorno si perdono le tracce di Giuseppe Caselli, Enzo Cangi
e Nello Crulli.
Nella stalla sono raccolte molte persone, almeno 27, costrette a dormire sul
pavimento: tra queste Olga Badini, sfollata da Arezzo, sottoposta come tutti gli
altri a massacranti lavori di forza, soprattutto scavi di trincee per il
posizionamento di mitragliatrici. È subito presa di mira per il suo carattere
indomito e coraggioso, restia a piegarsi alle sopraffazioni e spesso schieratasi in
difesa delle ragazze maltrattate: scompare il 9 luglio, dopo essere stata chiamata
fuori della stalla dell’Aia Vecchia; il suo cadavere, mezzo sepolto da un cumulo di
terra e orrendamente straziato, verrà trovato più tardi in località Ranchino.
Strada che conduce alle vallate dell’eccidio
L’8 luglio c’è la cattura di Antonio Faralli, di Vitiano: i tedeschi si fingono
inglesi e gli chiedono dove sono posizionate le trincee; lui le indica, cadendo nel
27

tranello perfidamente ordito. Trasferito ad Aia Vecchia, è costretto a scavare una
fossa, presagio del suo destino, maltrattato e torturato fisicamente e
psicologicamente, infine ucciso.
Un testimone dell’epoca è Pietro Seri, che racconta anche di 11 civili
catturati e portati con la forza a Frugnolo, dove vengono rinchiusi in una stanza di
Villa Sandrelli. Le sue parole permettono anche di ricostruire la vicenda di don
Paolo Roggi, prete della Congregazione dei Maristi che, nel tratto di strada verso
S. Andrea a Pigli, viene fermato, perquisito e trovato in possesso di un’arma,
consegnatagli da un uomo terrorizzato da un’eventuale perquisizione e che lui
non aveva esitato a prendere con sè: picchiato, torturato, preso a frustate,
dileggiato, è alla fine ucciso a colpi in testa.
Nell’imminenza della liberazione di Arezzo, dove gli inglesi entrano il 16
luglio, e mentre i soldati neozelandesi iniziano a dilagare nella zona di Lignano, la
violenza continua: Bernardo Rossi e Giovanni Monanni, catturati rispettivamente
il 16 e il 17 luglio, vengono ritrovati legati insieme in una fossa, probabilmente
morti soffocati.
Le storie delle vittime di Badicroce, così come quelle di tutti i caduti, sono
storie dolorose. Padri, madri, figli, fratelli sono strappati agli affetti più cari ma
non perché “è la guerra”: quegli episodi sono da configurare non come azioni
belliche, ma come veri e propri crimini che violano ogni legge e ogni convenzione
internazionale.
Le prime indagini pongono l’accento su azioni di rappresaglia e rilevano
anzitutto la responsabilità di Kesselring: è significativa in tal senso la relazione
German Reprisals for Partisan Activity in Italy, della fine del 1945, che tra i 22
episodi fully investigated cita anche Palazzo del Pero e Badicroce. Tuttavia, a
queste ipotesi, si intrecciano altri filoni investigativi e prende piede, già
nell’immediato, la convinzione che in Italia si sia combattuta una “guerra ai civili”:
appena un mese dopo l’armistizio lo Stato Maggiore dell’Esercito dirama una nota
affinché si cerchino prove per atti di barbarie compiuti da nazisti e fascisti;
successivamente i vari Comitati di Liberazione Nazionale iniziano a ricevere
denunce ed esposti, e in Toscana viene istituita, alla fine del ’44, una Commissione
di indagine sui crimini nazisti e fascisti, con sede a Firenze, con lo scopo preciso,
oltre che di fornire dati statistici, di accertare le atrocità commesse dall’8
settembre alla Liberazione e di punire i colpevoli. Nelle settimane successive
commissioni di tal tipo sorgono in altre province.
Il 9 luglio 1945 un ufficiale della British War Crime Section parla
chiaramente di una “sistematica politica di sterminio, di saccheggi, di pirateria e di
terrorismo”, sottolineando proprio come le operazioni contro i civili fossero
attentamente pianificate. Gli studi più recenti sono concordi sulla definizione di
28

“guerra ai civili”, a partire da un ben preciso “sistema degli ordini” che muove
dagli alti vertici militari fino a raggiungere i gradi più bassi dell’esercito. La
spietatezza delle azioni prescinde molto spesso dalla presenza delle bande sul
territorio ed ha soprattutto funzione preventiva, intimidatoria e punitiva. Lo
studio portato avanti da Paolo Pezzino Guerra ai civili. Per un atlante delle stragi
naziste in Italia, che collima con i risultati del gruppo di ricerca coordinato da Enzo
Collotti, testimonia come l’80% delle stragi, in Toscana e in altre regioni, non
debba attribuirsi a rappresaglie per azioni partigiane, ma siano di natura diversa:
solo in pochi casi c’è la risposta ad una qualche azione partigiana, per lo più si
tratta di atti deliberati che fanno capo ad una vera e propria “politica delle stragi”,
in cui entra in gioco una ferocia gratuita. 12
Il tiro della violenza si è alzato e si alzerà ancora, per il desiderio di punire
quegli italiani, razza inferiore, che hanno tradito e di cui non ci si può fidare.
12 I. Tognarini, (a cura di) La guerra di liberazione in provincia di Arezzo 1943-1944,
Amministrazione provinciale di Arezzo, 1987, pp. 51-53; P. Pezzino, Guerra ai civili. Le
stragi tra storia e memoria, in “Passato presente”, Anno XXI (2003), n°58.
29

LE RESPONSABILITÀ
30
Meditate che questo è stato
Primo Levi
Dall’aprile all’agosto 1944 la provincia di Arezzo è tra le più colpite dalla
ferocia tedesca, in uno stillicidio pressoché quotidiano di efferatezze: la fredda
evidenza dei numeri parla di 971 episodi di violenza (stragi, saccheggi, stupri) e
951 vittime sotto i colpi della Wehrmacht e delle SS, spesso coadiuvate dai
repubblichini di Salò 13 . Tutta la Toscana paga un prezzo altissimo: 80 comuni
preda della violenza dei nazifascisti, 4461 vittime 14 .
Le stragi nel Comune di Arezzo
Nel territorio, nell’estate del 1944, gravita la Divisione Herman Göering
guidata dal Wilhelm Schmaltz, colonnello poi promosso generale, e composta da
13 Fonte Carte USSME, 27, Arezzo, Specchio riepilogativo, 23 aprile 1945.
14 Dati della Presidenza del Consiglio. Un elenco delle stragi compiute in Italia dai reparti
tedeschi è stato compilato da Carlo Gentile per il gruppo di ricerca dell’Università di Pisa
sulla base della documentazione conservata presso gli archivi tedeschi, presso il Public
Record Office di Londra e i National Archives di Washington, oltre che sulla bibliografia
sull’argomento; lo stesso gruppo ha pubblicato sul sito del Dipartimento una tabella
sinottica sulle stragi nella regione Toscana.

circa 16.000 soldati in giovanissima età, 18-19 anni, che avrebbero lasciato il
fronte italiano a partire dal 15 luglio, a ridosso della liberazione di Arezzo, per
dirigersi in Polonia, dove alcuni reparti furono impiegati nei combattimenti di
Varsavia di agosto. La 16ª Divisione ReichsführerSS-Panzergrenadier, comandata
da Max Simon, si distingueva per la sua spiccata crudeltà: ai posti di comando
c’erano SS provenienti da campi di concentramento, ufficiali che si erano
macchiati dei peggiori crimini di guerra sul fronte orientale, compiendo stragi di
ebrei e di partigiani in Bielorussia e nei Balcani.
La I Compagnia della Feldgendarmerie-Abteilung (mot) 692, reparto di
polizia militare rastrella a Palazzo del Pero, il 24 giugno, gli uomini destinati a
morire al Muraglione, mentre i responsabili di Badicroce sono i militari del
Grenadier Regiment-274, reparto dipendente dalla 94ª Divisione di fanteria
aggregato, in queste convulse settimane, alla 305ª Divisione di fanteria guidata
dal colonnello Wolf Ewert, di lì a poco protagonista di un altro massacro, l’eccidio
di S. Polo. Un ufficiale della divisione era Heinz Barz, tra gli autori della strage di
Civitella in Val di Chiana del 29 giugno 1944.
Max Simon Wolf Ewert
Queste informazioni provengono dalla Special Investigation Branch, gruppo
di inchiesta inglese istituito già nel 1944, parallelo ad un gruppo d’indagine
americano; le testimonianze dei coniugi Lisi e di Vanda Occhini, la cui abitazione a
S. Donnino era stata requisita dai tedeschi per insediarvi il Platzkommandatur, e
nella quale vengono lasciati documenti probanti, portano alla ribalta i seguenti
nomi, di cui non sappiamo però nient’altro: il maggiore Oskar von Jagwitz, il
sottufficiale Hans Deutsch, i soldati Carl Lehne e Oscar Mueller. Tutti i fascicoli a
loro carico furono inviati alla Procura Generale Militare ma, a questo punto,
comincia un’altra vicenda, non altrettanto tragica ma parimenti dolorosa per chi
nutriva la speranza che la giustizia potesse, infine, trionfare.
Tutto è da mettere in relazione con il famigerato “armadio della vergogna”.
La vicenda è nota. Grazie all’intervento del procuratore militare Antonino
Intelisano, nel 1994, finalmente, si perlustrò a fondo la sede della Procura
31

Generale Militare di Roma, sita a Palazzo Cesi in via degli Acquasparta, alla ricerca
di documenti di cui si sapeva l’esistenza, nello specifico prove a carico del
capitano delle SS Eric Priebke, incriminato per la strage delle Fosse Ardeatine. In
un locale al pianterreno, una specie di sottoscala nascosto e semibuio, chiuso da
un cancello in ferro, fu trovato un armadio con le ante sigillate e rivolte contro
una parete, da cui saltarono fuori ben 695 fascicoli riguardanti i crimini commessi
dai nazifascisti. 15 Nel gennaio 1960, l’allora Capo della Procura Enrico Santacroce
aveva apposto sugli incartamenti la dicitura “archiviazione provvisoria” –
procedimento tra l’altro inesistente e pertanto illegale. È questo l’ultimo di una
serie di interventi ad opera di altrettanti procuratori generali mossi non da
volontà e convincimenti personali, bensì da una precisa “ragion di Stato” che
prende quota nell’immediato dopoguerra, in piena Guerra Fredda: non è
opportuno che l’Italia processi e condanni criminali tedeschi, ora che la Germania
è sua alleata in seno alla Nato e in virtù del suo importante ruolo in funzione
antisovietica. Dice Lutz Klinkhammer, esperto di Storia contemporanea e
collaboratore dell’Istituto Storico germanico di Roma:
L’avvio di processi penali contro centinaia di criminali di guerra tedeschi negli anni
Cinquanta e Sessanta, avrebbe sicuramente creato delle difficoltà per l’immagine
internazionale della Germania nonché per la sua integrazione europea. Il problema si
sarebbe aggravato, poi, per la mancata estradizione degli accusati, con una sfilata di
processi in contumacia che avrebbero rafforzato nell’opinione pubblica l’immagine
negativa della Germania.
In un clima postbellico in cui si desidera solo mettere la parola fine su ciò
che è stato, tra il 1947 e il 1951 vengono celebrati solo 13 processi, fra cui quello
contro Wilhelm Schmalz, assolto per le stragi dell’aretino dal tribunale militare
territoriale di Roma nel luglio 1950, e contro Walter Reder, condannato
nell’ottobre dell’anno seguente sia per episodi in Toscana che per la
responsabilità della strage di Marzabotto del 29 settembre 1944.
Nella maggior parte dei casi si era a conoscenza di nomi e cognomi: 415
fascicoli recano l’identità di italiani e tedeschi ritenuti responsabili, 280 sono a
carico di ignoti ma indagini condotte nell’immediato avrebbero agevolmente
facilitato il riconoscimento, basti pensare che l’United War Crimes Commission
raccoglie la documentazione per una futura incriminazione già dal gennaio 1944.
Inoltre, dal novembre 1944, il Ministero degli Esteri, d’intesa con la Presidenza del
Consiglio, e con la collaborazione del Ministero della Guerra, del Ministero di
Grazia e Giustizia e del Ministero dell’Interno, aveva avviato ricerche sulle zone
15 Pare che in realtà i fascicoli siano stati trovati non in un armadio, ma nel mezzanino.
32

liberate per documentare le stragi e le distruzioni compiute dalla forza di
occupazione tedesca e per compilare quindi una lista di criminali di guerra che, in
base alla dichiarazione sottoscritta dalla Conferenza di Mosca del 30 ottobre
1943, sarebbero stati da porre sotto inchiesta. All’indomani della Liberazione le
prove sui crimini nazisti furono raccolte da una Commissione centrale, istituita
presso il Ministero per l’Italia occupata e presieduta dal sottosegretario
Aldobrando Medici-Tornaquinci. Gli alleati offrirono piena disponibilità a
coadiuvare gli italiani nelle indagini.
Ma solo a distanza di 50 anni, nelle comprensibili difficoltà, si è potuto
agire: i fascicoli, tra il 1994 e il 1996, furono trasmessi alle procure competenti,
per la Toscana quella di La Spezia guidata dal procuratore Marco De Paolis, e
ebbero inizio i processi, per la maggior parte dei quali si è dichiarato il non luogo a
procedere per prescrizione o per il decesso degli imputati; laddove non ci fossero
queste condizioni, le udienze si sono svolte ma in contumacia, poiché una legge
tedesca impedisce di fatto l’estradizione senza il consenso del diretto interessato.
Per fare chiarezza sulle responsabilità dell’occultamento dei fascicoli, fu
istituita nel 2003 una Commissione parlamentare d’inchiesta, i cui lavori si sono
chiusi nel febbraio 2006.
Dal momento del ritrovamento dei fascicoli, sono stati celebrati solo tre
processi; molte istruttorie risultano ancora aperte, fra queste c’è Badicroce 16 : il
fascicolo è stato rubricato a La Spezia come fasc. 235/01, unito al 377/96. Gli
inquirenti inglesi indicano il generale Rodt della 15 Panzer Grenadier Division
come persona a conoscenza della verità e degli esecutori materiali, ma la
responsabilità, sia di questi che di molti altri fatti, furono attribuite a Albert
Kesselring, in qualità di mandante per gli ordini diffusi nel mese di giugno.
Tuttavia, nel corso del dibattimento tenutosi a Venezia tra il 17 febbraio e il 6
maggio 1947, l’avvocato difensore Hans Laternser ha sostenuto l’inconsistenza
delle accuse ed è riuscito a far cadere il capo di imputazione. Nei confronti di
Kesselring, così come per molti altri, il primo pronunciamento di pena capitale è
commutato in ergastolo, e poi in una progressiva diminuzione della pena fino alla
scarcerazione, avvenuta “per gravi motivi di salute” nel 1952. E lo stesso tocca ai
generali von Mackensen e Mälzer, processati per le Fosse Ardeatine, condannati a
morte il 20 novembre 1946 e all’ergastolo il 29 giugno 1947. Il 26 giugno 1947,
sempre a Padova, si conclude il processo contro il generale Max Simon,
condannato a morte e poi all’ergastolo, trasferito in Germania per scontare la
pena e quindi scarcerato nel 1954.
16 F. Giustolisi, Le stragi della vergogna. Eccidi senza colpevoli in “L’Espresso”, 13 agosto
2002
33

Per quanto riguarda la strage del Muraglione, i verbali redatti dai
Carabinieri tra settembre e ottobre 1944, sono ora pubblicati sul sito Internet del
quotidiano Il Tirreno 17 . Nel Public Record Office, sezione War Office, fascicolo
310/106, con procedimento della Court of Inquiry, troviamo il resoconto di
udienze tenutesi ad Arezzo dal 20 al 22 dicembre 1944 contro i contumaci
maggiore van Werden, tenente Dreyhaupt, e sottotenente Zundorf, individuati
come colpevoli. Il processo si protrasse per 3 giorni, furono sentiti 24 testimoni,
concordi nella ricostruzione dell’episodio. Il caso fu archiviato il 14 gennaio 1960,
ritrovato nell’“armadio” e trasmesso alla Procura militare di La Spezia l’8 marzo
1995, fasc. 221/96 e fasc. 293/96. Dopo una breve istruttoria, il 26 marzo 2002 è
stato archiviato.
Molti parenti delle vittime delle stragi del ’44 si stanno tuttora battendo per
arrivare alla verità, supportate dalla Regione Toscana, che nel 1999 ha varato la
legge 59 finalizzata a salvare la memoria delle stragi nazifasciste, e dalla Provincia
di Arezzo, che si sono costituite parte civile: nel 1998 i sindaci dei comuni di
Bucine, Cavriglia, Civitella della Chiana, Stia hanno incaricato lo storico Carlo
Gentile di fare piena luce sulle vicende e l’indagine ha prodotto una relazione,
corredata da nomi e cognomi, che è stata consegnata alla Procura militare di La
Spezia.
Tra ottobre 2008 e agosto 2009 ci sono state una serie di condanne
definitive per le stragi di Civitella, Fivizzano, Fosdinovo, Falzano di Cortona.
L’accusa, qui come altrove, è quella di
azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso in parte in ossequio alle direttive del
comando di appartenenza ma anche di propria iniziativa sempre e comunque aderendo al
programma criminale, senza necessità e senza giustificato motivo, per cause estranee alla
guerra e anzi nell’ambito e con finalità di ampie operazioni punitive contro i partigiani e la
popolazione civile. (…) la morte di numerosi privati cittadini italiani che non prendevano
parte alle operazioni militari fra cui donne, anziani e bambini inermi, agendo con crudeltà
e premeditazione. 18
Molti si chiedono se, a distanza di tanti anni, abbia un senso continuare a
cercare i nomi dei colpevoli, uomini di 80-90 anni, anziani, malati o deceduti. Sì,
ha un senso, è un segno vitale di democrazia e di civiltà, senza desiderio di
vendetta e senza perpetrare rancori, ma per arrivare ad un’ultima verità.
“Chiedere giustizia anche mezzo secolo dopo”, commenta Leonardo Paggi,
17 http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2007/07/18/news/gli-atti-integrali-delle-
inchieste-sulle-stragi
18 Stralcio della chiusura delle indagini in C. Fusani, Stragi naziste, a giudizio
sessantacinque anni dopo, “L’Unità” 5 marzo 2009
34

docente di Storia contemporanea all’Università di Modena “non significa voler
fare vendetta. Significa ridare volti e nomi ai massacratori. Perché la storia non si
può scrivere solo con le testimonianze delle vittime”. Claudio Martini, Presidente
della Regione Toscana dal 2000 al 2010, ha così commentato: “Non ci ha animato
alcun desiderio di vendetta, sentimento che non ci appartiene, ma il bisogno di
scrivere una parola di verità su questa terribile pagina di storia. Anche se sono
passati 65 anni non dobbiamo mai dimenticare quello che è successo: queste
atroci vicende devono servire alle giovani generazioni a far crescere e a coltivare
una cultura di pace e di rispetto fra i popoli”. 19
19 In “Toscana Oggi”, 26 giugno 2009
Non si può non essere d’accordo.
35

TESTIMONIANZE
A distanza di 66 anni, sembra tutto come ieri: il tempo si è fermato per
coloro che hanno toccato con mano il dolore, lo strazio, la morte. Gli occhi si
fanno lucidi, le mani si contorcono, la voce trema, ma il ricordo è lì, immutato e
immutabile: le parole si trasformano in immagini e ci proiettano in un attimo
nell’estate di sangue del ’44. Le fucilazioni, le cannonate, i bombardamenti, si
intrecciano con la vita quotidiana, tra le difficoltà di portare sulla tavola un pezzo
di pane, mentre i padri sono in guerra e i giovani alla macchia. Con le persone
incontrate, che in quegli anni erano ragazzi, talvolta poco più che bambini,
abbiamo rivissuto la drammatica atmosfera di quel periodo. Ma quello che
colpisce, in questi racconti, è la tenacia, la voglia di non arrendersi, di non lasciarsi
sopraffare anche quando tutto sembra perduto. È un prezioso messaggio: la vita
che trionfa, sempre e comunque.
Franco Blasi
A Badicroce, oggi, non è possibile entrare. Dentro c’è una valle con un
rigagnolo, una strada che sale su e una fattoria; c’è una chiesa antichissima, c’era
una comunità religiosa. È una cosa che fa parte della storia di queste contrade.
Interno della Chiesa di Badicroce
Per vari motivi non ci fanno entrare, i rapporti tra la proprietà e la gente del
posto si sono inaspriti. Noi, come Circoscrizione, andavamo su a portare una
corona, nel luogo dove è accaduta la parte più grande dell’eccidio, ma non ci
siamo più potuti entrare. Allora abbiamo deciso di collocare il monumento ai
caduti da un’altra parte, vicino alla chiesa: alle spalle di questo luogo ci sono le
colline all’interno delle quali sono avvenuti i fatti.
36

Le fonti sono dure da reperire anche perché i fatti, quelli veri, li sanno solo
quelli che sono morti.
Noi, tra giugno e luglio del ‘44, subimmo le vendette tedesche, anche in
conseguenza della lotta partigiana. Quando arrivarono le prime pattuglie angloamericane,
ad agosto, i tedeschi non c’erano più, erano già andati via, i tedeschi
non si fecero mai agganciare in maniera diretta.
Mi ricordo bene, perché li ho vissuti, i fatti del Muraglione: presero tanti
uomini, li portarono all’Ufficio anagrafe, dove ora c’è la caserma dei carabinieri,
scelsero i più giovani, e li fucilarono.
L’eccidio di Badicroce è avvenuto qualche giorno più tardi. La fattoria è di
molti ettari, le persone sono state ammazzate in vari luoghi. Nella cosiddetta Aia
Vecchia, c’è una lapide, posta dove successe il fatto maggiore: vicino al muro dove
furono fucilate le persone c’era un trogolo per i maiali, dicono che fosse pieno di
sangue.
Io ho raccolto l’appello del vecchio prete di Palazzo del Pero, don Giorgio:
un giorno, era novembre, mentre spazzavo il cortile di casa mia, mi disse “Tu ti
dovresti vergognare!” “Perché, che ho fatto?” risposi. “ Lì all’Intoppo c’è quel
monumentino abbandonato, ti dovresti interessare”. Questo mi colpì. Gli promisi
che l’ultima domenica di giugno avremmo fatto una manifestazione. Da allora,
sarà stato il 1990, è sempre stata fatta, in memoria dei caduti di tutte le guerre.
Amedeo Sereni
Monumento alle vittime del Muraglione
Nel 1944 avevo 18 anni. La mia famiglia era antifascista, mio padre è stato
in prigione per 17 anni per aver ucciso uno squadrista; io subii tutte le
conseguenze di questo. Mi portarono ad Alessandria, lì ero sotto i fascisti aretini
che erano scappati e fuggiti nell’alessandrino.
37

Quando ci fu il bando di reclutamento della Repubblica di Salò, io rigettai ed
andai “alla montagna”, nella zona di Sansepolcro, dove si costituì una grossa
formazione partigiana, ben accolta dalla popolazione: il 19 marzo 1944 ci fu
l’insurrezione della popolazione, i fascisti scapparono. Poi, però, ci fu subito la
ritorsione, i tedeschi fecero saltare la torre che era in mezzo alla piazza.
Sono stato partigiano dal marzo 1944 fino alla liberazione: nel nostro
gruppo c’erano anche stranieri, albanesi soprattutto, radunatisi a Cortona dopo
essere fuggiti dai campi di prigionia: uno di questi, dirigente politico, è stato con
me per tutto il periodo della lotta, lui non sparava, aveva paura di toccare un
fucile, ma collaborava, cercava le case dove rifugiarsi, andava a ricevere e a
portare notizie da parte del Comitato di Liberazione che coordinava le varie
formazioni e che si riuniva proprio a Palazzo del Pero, dove si trovava un folto
gruppo di partigiani: il comandante era il colonnello che poi guidò la brigata “Pio
Borri” .
Alla fattoria di Badicroce io conoscevo la signora e gli uomini che
lavoravano con lei: ci accoglieva, ci dava da mangiare, ci nascondeva e ci forniva
anche le armi. Lì alla fattoria venivano tutti i giorni con il sidecar i tedeschi, a
prendere pane, vettovaglie e tutto quello di cui avevano bisogno. A Badicroce
c’era una chiesa, il prete ci suggeriva di stare attenti, ci metteva in guardia, ci
avvisò di nasconderci perché sapeva che sarebbe passata l’armata di Kesserling.
Una sera tre tedeschi sul sidecar erano entrati nella fattoria: quando
uscirono cominciammo a sparargli addosso e loro fecero altrettanto; due di loro
rimasero feriti gravemente, uno di loro morì, l’altro fu portato all’ospedale
militare, sembra si sia salvato. Ci furono ritorsioni. I proprietari della fattoria
scapparono e tornarono a Firenze, la loro città di origine.
La liberazione dell’aretino è avvenuta con grande sforzo delle forze
politiche. La cosa esemplare è questa: subito dopo la liberazione del nostro
territorio non andammo a casa, ma partimmo volontari, ci aggregammo ai gruppi
di combattimento, le varie divisioni - Cremona, Friuli – che, provenienti da Sud,
combattevano per liberare l’Italia. Io sono partigiano combattente e anche
combattente della liberazione nazionale, facevo parte della divisione Cremona,
che liberò Alfonsine, nel ravennate. Noi, a quell’epoca, sentivamo l’esigenza di
combattere per la liberazione del nostro paese, era qualcosa in cui si credeva.
Ilario Venturini
Facevo il militare nell’officina dell’artiglieria a Biella; dopo un mese venne
l’armistizio, tornai a casa a piedi, ci misi 22 giorni.
38

Arrivato a casa mi dissero di ripresentarmi alle armi ma mi sono rifiutato di
andare con i repubblichini e, con due amici, disertai: alla macchia abbiamo
passato tutti i mesi invernali.
Le colonne tedesche parcheggiavano qua intorno a Molin Nuovo, in questa
valle, per ripararsi dagli Spitfire, i bombardieri inglesi che facevano fuoco. Si
fermavano qua e razziavano quello che gli serviva, cibo, indumenti, erano in
ritirata e avevano bisogno di tutto.
Fu ammazzato un tedesco da parte di due partigiani e allora ci fu la
rappresaglia e furono uccisi i 10 al Muraglione.
Lo stesso accadde per Badicroce, spararono ai tedeschi e questi, per
rappresaglia, fecero tutto quello che hanno fatto.
Un giorno due partigiani presero un tedesco, passarono il fiume e lo
portarono nel bosco: lì lo minacciarono con la pistola, lo volevano uccidere. Io ed
un mio amico, intervenimmo: sapevamo quello che era successo a Palazzo del
Pero, e avevamo paura ci fosse poi un’altra rappresaglia. Dicemmo di lasciarlo
andare: lui capiva l’italiano e quando sentì che avevamo preso le sue difese,
piangendo, si frugò in tasca e tirò fuori una foto con 3 bambini. Fu lasciato andare.
Romolo Bianchini
Tra la primavera e la fine del luglio 1944 ci fu il passaggio del fronte. Ho
ancora presente il periodo: il passaggio del fronte e la ritirata dei tedeschi. Noi ci
siamo trovati in mezzo. Fu un momento tragico: miseria e fame nera,
bombardamenti continui, cannonate, volavano querce come ramoscelli.
A Badicroce ho avuto uccisi mio padre, di 37 anni e i miei nonni. Io avevo 7
anni, mia madre 25.
C’era disperazione e prostrazione, però c’era solidarietà tra la popolazione.
La guerra è morte, distruzione, irrazionalità della storia, perdita della ragione:
tutto e il contrario di tutto. Vita allo sbando, gallerie scavate, cannoni, incendi,
bombardamenti. I cieli erano solcati da squadriglie aeree, 7-10 aerei, che si
annunciavano e poi scaricavano le bombe. I tedeschi erano affamati e chiedevano
cibo.
Ho visto morire un tedesco di 19 anni: l’hanno ammazzato come un cane, il
corpo abbandonato e lasciato putrefare. Sulla sua tomba è nato un edificio, non
ha avuto neppure una sepoltura. Le persone vanno rispettate, gli esseri umani
devono essere rispettati.
La Resistenza si onora andando avanti, adoperandosi nella società,
combattendo i nemici dei nostri giorni.
39

È fondamentale la memoria storica, che deve essere attualizzata. La scuola
è il luogo di formazione, dove si combatte e si formano le future generazioni. È
necessaria un’educazione etica, che purtroppo spesso manca.
Quella che abbiamo vissuto è stata una dura lezione, però ha fatto sì che
molti giovani capissero che la vita è solidarietà e fraternità.
È stato un fatto negativo, dal quale però la gente ha imparato ad amare la
vita.
Livio Bianchini
Con l’arrivo degli alleati ed il ritiro dei tedeschi c’era una confusione
enorme: si sentivano bombardamenti, mitragliamenti; uscivi di casa e ti trovavi col
fucile puntato contro, come è successo a me. Io abitavo nella zona di Palazzo del
Pero che va alla Salceta, è un gruppetto di case dove abitavano 14-15 famiglie: era
estate e una sera, alle 9, ho trovato un tedesco in fondo alle scale con un mitra
rivolto a me.
Io ricordo che a Palazzo del Pero ci sono stati 3 episodi: uno non lo sa forse
nessuno, era luglio, fu ucciso un certo Giuseppe Tacconi. Io ero con il mio babbo
nella vigna che lui aveva tra Palazzo del Pero e la Salceta, vedemmo dei tedeschi
che avevano preso quest’uomo e ci nascondemmo in mezzo al grano; lo
portarono in cima all’ Aiuola, un casolare che era lassù e lo ammazzarono. Sembra
che i tedeschi gli avessero chiesto “Dove stanno i partigiani?”, e lui abbia risposto
“Sono lassù, nella zona di Favalto”, effettivamente stavano nella zona di Favalto e
di Marzano. Portarono lassù quest’uomo, non trovarono i partigiani e allora lo
uccisero. Il Tacconi abitava alla Salceta, prima di iniziare la salita che va alla
Rassinata: c’era una botteghina di generi alimentari, chiamata “da Beppone” (ora
è un ristorante), che vendeva il tabacco, era osteria, si giocava a carte. Lui abitava
a 200 metri da lì, in una casetta lungo la strada, con la madre.
C’è stato poi un altro caso di cui non si parla: ad una curva fu ucciso un
uomo, Bino della Rocca. Io mi ricordo che quest’uomo passava da Palazzo del Pero
e si fermava sempre da Beppone.
Mi ricordo poi di aver visto trasportare in un barroccio un morto, anche
quello ammazzato non si sa da chi, come e quando: pare che non fosse italiano.
Quando accadde l’episodio di Badicroce, mi ricordo che ero con altri ragazzi
di fronte a casa mia: passarono i tedeschi, avevano muli, cavalli; c’erano 3 uomini
sotto un pergolato, Bianchini Arcangiolo, Bianchini Virgilio, padre e figlio, e
Romanelli Angiolo, suocero di Virgilio. Gli ordinarono di seguirli. Avevano preso
anche un mio zio e un altro giovane di circa 25 anni.
La strada che porta alla fattoria è una piccola strada che, andando in su, si
restringe ancora di più: a destra e sinistra è piena di alberi, poi c’è un
40

fiumiciattolo. Mio zio e il giovane, vedendo i tedeschi un attimo distratti, fecero
un salto nel fiume e si salvarono.
Si seppe del fatto quando i tedeschi non c’erano ormai più, quando furono
trovati i corpi. C’era anche una certa Olga Badini, fu la prima donna che
ammazzarono. C’erano anche altri morti, di cui si seppe solo in quel momento.
Mi ricordo anche di Don Roggi, un giovane sacerdote ammazzato sulla
strada di Lignano, lì c’è una croce che lo ricorda.
Alcuni giorni prima c’era stato l’episodio del Muraglione, anche quello
tragico: tra i morti c’erano dei ragazzi poco più grandi di me, me li ricordo quando
andavamo insieme alla scuola elementare. Tra questi Bianchini Nello, che abitava
alle Lastre, e Bianchini Alberto. Li presero, li portarono giù e li fecero fuori. Io ho
visto i loro cadaveri: mi ricordo che avevano tutti un foro alla testa, come un colpo
di grazia. Questi li ho visti coi miei occhi, quelli di Badicroce no.
Oltre a queste cose ne ho viste altre, ad esempio alla stazione di Arezzo: io
venivo a scuola con il treno e arrivavo presto la mattina. Erano gli anni ‘41-‘42, io
andavo a scuola, nel ‘43 la scuola fu chiusa e riprese dopo il 1945. Sul 1° binario ho
visto gente che era stata radunata per essere mandata nei campi di
concentramento. Ho visto anche morti, prigionieri non italiani che provenivano
dai campi di concentramento di Laterina e Anghiari.
Il periodo è stato drammatico: io ero giovane. La sorte che è toccata a quei
giovani poteva toccare a me.
Rinaldo Bianchini
Mio padre è stato ucciso dai tedeschi all’Intoppo: aveva 39 anni. Io avevo 9
anni, 2 sorelle di 16 e 18 anni, un fratello di 4, mia madre 34. Lo presero mentre
stava dando il ramato alle viti; presero anche mio nonno, che poi fu rilasciato. Li
tennero lì vicino a casa mia, dove c’è un rio, poi li portarono via: erano in diversi,
poi li scelsero in base all’età, presero i più giovani e li fucilarono. Alisi Alfredo
scappò via ferito, andò giù sotto la Badia, il suo corpo fu ritrovato a settembre.
41

Tutto questo per rappresaglia: era stato ammazzato un tedesco, un
portaordine.
Dei 10 morti, nessuno aveva a che fare con i partigiani, furono presi per
caso; era tutta gente che abitava vicino a dove avevano ammazzato il tedesco.
Del passaggio dei tedeschi in ritirata mi ricordo un episodio: un giorno che
pioveva un camion delle SS, con 12-15 persone a bordo, di fronte a casa mia bucò.
I soldati si fermarono, parcheggiarono il camion sotto una grande pianta e
salirono in casa, armati fino ai denti. Mia mamma gli fece da mangiare, i
maccheroni con il sugo. Rimasero lì dalla mattina alla sera; andarono in cantina,
puntarono la pistola contro mio zio e si fecero dare il vino. Il comandante fece
posare tutte le armi in un angolo vicino alla madia. Poi, sotto la pioggia,
cambiarono la ruota. Vicino alla ruota c’era uno sputo e uno di loro ammiccava a
me, come se ce lo avessi fatto io, per spregio: io dicevo di no, ero piccolo, un
bambino, ma questo mi prese per i pantaloni e mi volò su per 12 scalini. Ebbi
tanta paura.
Domenico Favilli
Ho 90 anni. Ho combattuto in Africa, a El Alamein: nel 1944 ero prigioniero,
sono tornato dall’Egitto nel ’46. Non so bene come sono andati i fatti, so quello
che mi hanno raccontato.
Al Muraglione hanno ammazzato mio fratello, aveva 31 anni: lo presero e lo
portarono via scalzo come lo trovarono. Tanti non sapevano niente di quello che
era successo. Li portarono nella caserma e poi laggiù. Uno riuscì a fuggire.
Anche di Badicroce so quelle cose che mi hanno detto, anche lassù ci furono
tanti morti.
Io la guerra l’ho vissuta in prima persona, ho combattuto: a El Alamein è
stata dura, ma ho avuto fortuna, mi sono salvato.
42

Giuseppe Mazzi
Io avevo 14 anni. Conoscevo bene 3 uomini che hanno ammazzato a
Badicroce. Romanelli Angiolo, che abitava a Palazzo del Pero e faceva il mugnaio;
quando arrivarono i tedeschi presero lui e Bianchini Arcangelo e Virgilio, padre e
figlio. Gli altri che sono stati ammazzati non li conoscevo bene perchè abitavano
fuori dal paese. So che a tutti, una volta portati nella fattoria, fecero fare una
buca, a ognuno la sua, poi li fucilarono e vi caddero dentro. Su ognuna fu messa la
croce. C’era anche una donna che fu prima straziata e poi uccisa. Io non l’ho vista,
me l’hanno raccontato.
Un uomo riuscì a scappare: era stato incaricato di portare i muli, che i
tedeschi avevano con sé, a bere: arrivato giù al fosso, lasciò i muli e se la diede a
gambe.
Tra quelli uccisi al Muraglione c’erano due cugini, Bianchini Alberto e
Tacchini Guido: il giorno prima i tedeschi li avevano presi e portati ad Arezzo; poi li
lasciarono. Loro tornarono verso casa ma quando stavano per arrivare al paese,
dovevano solo attraversare la strada, furono catturati.
A Palazzo del Pero buttarono anche le bombe, per sbaglio dissero. Il ponte
del paese era stato distrutto con le mine, e quello della ferrovia anche. Un
paesano, Ugo Badini, trovò una mina inesplosa e saltò in aria. Questo accadde
dopo che era passato il fronte.
I tedeschi bruciarono anche tre case, una di queste era quella della mia
famiglia. Si rimase senza niente e poi si andò sfollati verso la zona chiamata le
Corbelle. Eravamo in tanti, rifugiati qua e là nelle case in mezzo al bosco. Tra tanta
sofferenza, però, c’è anche qualcosa di bello: io lassù mi innamorai di quella che
poi sarebbe diventata mia moglie.
Silvano Favilli
43

Ho dei parenti tra i caduti: al Muraglione mio zio, Favilli Gino; un mio
cugino, Caselli Giuseppe, è morto a Badicroce.
Con la mia famiglia eravamo sfollati, ci ritrovammo sotto le gallerie del
Torrino malandati, coperti da due stracci. I tedeschi erano in ritirata. Il problema
era il mangiare, i tedeschi razziavano tutto: pecore, maiali, cavalli, cibo; mio
nonno aveva nascosto il formaggio in una buca.
Mia zia e mio fratello facevano la spola tra la casa della zia e il posto dove
eravamo noi, portavano il grano che si pestava con il mortaio usato per il sale, e
poi si impastava e si cuoceva. I tedeschi avevano messo nei campi delle mine,
delle scatoline legate con un piccolo filo invisibile; mia zia ne ha calpestata una, ha
rotto il filo e la mina è esplosa: è stata colpita ed ha le gambe segnate dalle
schegge.
La guerra noi non l’abbiamo fatta con i fucili al fronte, noi ne abbiamo fatta
un’altra, forse peggiore, chissà.
Mia mamma era rimasta sola con 3 figli, mio padre era in guerra. C’era la
tessera del pane: per i più poveri c’era un’assegnazione quotidiana di pane,
avevamo un librettino con la copertina nera, la signora Maria, la bottegaia,
scriveva giorno per giorno quanto pane ci dava, oltre quello non si poteva, finito
quello non ce n’era più.
C’era miseria, povertà, si giocava con il pallone di carta e gli zoccoli di legno.
Per fortuna c’era il fiume, il Cerfone, che era pulito e ci dava da mangiare, c’erano
tanti pesci e ci dava anche altro: quando ogni tanto c’erano le piene, la corrente
portava giù le tomaie delle scarpe che i benestanti buttavano via, e con quelle noi
ci facevamo fare gli zoccoli.
Queste sono storie purtroppo dimenticate, ma è importante che rimanga
traccia di quello che è stato. Tra le molte attività che svolgo da pensionato c’è
quella dello scrittore: scrivo poesie. Nel settembre 2006 ho scritto una poesia “Le
ultime pagine di un libro mai scritto”, dedicata a quelle persone, ormai anziane,
che hanno vissuto quel tragico periodo ma che nessuno ha mai ascoltato.
Erano in tanti, non più giovani ma forti
oggi sono rimasti in pochi, i più sono morti
Avevano tante cose da raccontare
nessuno di noi le ha volute ascoltare
Molta storia di questa vallata
con la loro scomparsa è stata perduta
(…)
Chissà quante volte l’avranno raccontato
ma non rimane traccia del loro passato
Se le ultime pagine ancora in vita sono fragili
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Placido Aramini
il tempo le logora, prima o poi sarà finita
Gli autori di questo libro rimasto nel buio nero
leggeremo il loro nome nelle lapidi al cimitero.
Avevo 12 anni, abitavo in un casolare con altre 9 famiglie.
A Badicroce c’erano circa 10 famiglie. Il proprietario era il Dottor Lisi, la
moglie, Derna, era una bellissima signora e brava di carattere. Tentarono di
stuprarla. I partigiani furono avvertiti, uscirono fuori e fecero fuoco sui tedeschi,
ma non furono colpiti, fecero finta di essere morti buttandosi dentro una fossa.
Verso mezzanotte, l’una rimisero in moto la motocicletta con cui erano arrivati e
se ne andarono verso Castiglion Fiorentino. Il giorno dopo tornarono e uccisero;
incendiarono tutto. Fecero la retata, chiusero tutti dentro una stalla. C’era un
certo Brunetti, anziano, che non camminava: gli spararono. C’erano Bianchini
Virgilio, che faceva il cantoniere e suo suocero, Angiolo Romanelli, che faceva il
mugnaio. C’erano altri due o tre, che non conoscevo, alcuni riuscirono a scappare,
gli altri invece li ammazzarono. Conoscevo la Domestici che era di Palazzo del
Pero. Il cadavere di Conticini lo ritrovarono dopo venti giorni.
Francesco Nocentini
Mio padre si chiamava Donato Nocentini, ma a Palazzo del Pero e oltre era
conosciuto quasi solo col soprannome di “PISELLO”.
Lui è morto da poco, nel 2010 a 86 anni, quindi non è tra quelli morti
tragicamente per le rappresaglie tedesche verificatesi in paese verso la fine della
guerra, non è stato, come altri che avevano qualche anno più di lui, a combattere
al fronte né prigioniero in Germania.
Però anche lui ha pagato il suo contributo di sangue e paura a quella guerra,
e per questo motivo si è sempre sentito parte di quel gruppo (sempre più sottile)
di combattenti e reduci che ogni anno celebra la commemorazione portando
corone di alloro ai monumenti ai caduti, e non è mai mancato, tranne
quest’ultimo anno che aveva da combattere con la sua ultima malattia.
Io a quell’epoca non ero ancora nato, per cui riferisco quello che lui ogni
tanto mi raccontava, con quel pizzico di ironia di chi sa di aver avuto fortuna.
Era il 13 luglio del 1944 (la data è scritta sulla tomba di Ugo Badini, che quel
giorno non ebbe la stessa fortuna), i tedeschi avevano appena lasciato Palazzo del
45

Pero e stavano per arrivare le truppe alleate, molte famiglie erano ancora
“sfollate” nelle case delle frazioni sparse sui monti intorno al paese.
La curiosità di vedere il paese libero dopo mesi dall’esercito invasore faceva
muovere qualcuno verso il centro; mio padre camminava a qualche passo di
distanza da Ugo Badini poco prima del ponte sul Cerfone, diretto verso la piazza
del paese; una mina lasciata dai tedeschi sotto la massicciata stradale esplose
calpestata dal Badini , che morì sul colpo.
Mio padre fu colpito da diverse schegge e, sanguinante, corse alla Casina
(sotto Le Lastre) dove si ricordava che abitava “sfollato” il dottor Reale, che gli
prestò le prime cure togliendogli dalla testa, dal collo e da altre parti le schegge
accessibili e pericolose.
Alcune schegge gli erano rimaste per anni, una mi ricordo che se la tolse da
solo con un coltello da una mano un giorno che lavorava nel suo laboratorio di
falegname. Una nel polso se l’è portata nella tomba, e ad ogni radiografia doveva
spiegare ai medici cos’era quella strana macchia scura, anche nelle ultime TAC che
ha fatto quest’anno.
46

CONCLUSIONI
Il lavoro svolto dagli studenti della classe V D vuole essere una ricostruzione
dei drammatici fatti che hanno interessato il nostro territorio durante la lotta di
Liberazione.
L’intreccio tra macrostoria e microstoria, tra fenomeni di carattere generale
e storia locale, rappresenta il cuore di questa ricerca: attraverso la lettura e
l’analisi delle fonti documentarie e storiografiche, sia cartacee che multimediali, è
stato possibile ricostruire il contesto di riferimento, italiano e internazionale, che
è stato messo in relazione con le vicende di una piccola comunità.
Il recupero della memoria dalla viva voce dei testimoni, diretti o indiretti, ha
offerto agli studenti l’opportunità di cogliere un senso della storia nuovo,
combinando insieme il passato collettivo e l’identità soggettiva, i fatti e le
emozioni. Anche e soprattutto le piccole grandi storie della gente comune, i
particolari minimi e apparentemente superflui, sono serviti a restituire il
significato di ciò che è stato e hanno fatto sì che gli studenti, inizialmente un po’
titubanti, si sentissero coinvolti davvero “dentro la storia”, conversando con le
persone e ascoltando i loro racconti carichi di dolore.
Molto spesso hanno chiesto: Ma come è potuto succedere tutto questo? Il
rischio di semplificare e anche banalizzare è sempre alto. Per quanto possibile, si è
cercato di non offrire risposte preconfezionate, ma si è lasciato che ciascuno
riflettesse personalmente e giungesse ad elaborare un proprio punto di vista,
improntato sempre e comunque sul rispetto della dignità umana e della legalità,
da cui non si può prescindere per formare persone consapevoli e responsabili,
cittadini che, a loro volta, promuovano i valori del vivere democratico.
Classe 5DAS Indirizzo Liceo Biologico a.s. 2009/2010
47
Prof.ssa Sonia Cicchitelli
Giulia Bardelli, Carolina Ensoli, Alessandro Frappi, Stefano Giorni, Jacopo
Giuliattini, Martina Guiducci, Stefano Lazzerini, Jessica Lusini, Chiara Papi,
Maurizio Tallarino, Lucia Tavant, Diletta Volpi.

LA SCULTURA
Questo gruppo scultoreo, che invita al silenzio, alla riflessione e allontana
l’oscurità, che è poesia e messaggio di morte, di vita, di speranza, è pervaso di una
pregnante simbologia: il basamento è un triangolo, tre sono le figure
rappresentate in un perfetto equilibrio formale e ciò dà sacralità all’opera,
rendendo eterno l’umano.
Tre, come si è detto, sono le figure: un uomo, una donna, una fanciulla.
Le prime due, prone, mentre l’altra invece si erge, sono il simbolo
dell’offesa e della speranza, sono l’immagine di una vita negata, di un’ingiustizia
bestiale subita, ma anche, nel loro tragico immolarsi, la più alta espressione della
vittoria dell’amore sulla morte, la testimonianza di un sacrificio che è dono totale
e che pertanto si tramuta da scuro e perpetuo dolore nella forza dell’attesa.
L’adolescente, a sua volta, pur guardando avanti raccoglie in sé, in quel
rimanere unita a chi si è sacrificato, quell’amore che è ricchezza e forza interiore e
spinge alla vita e al futuro.
Così diventa l’umanità che si ricrea nel cuore, simbolo di una memoria
sempre presente e attuale.
Prof.ssa Maria Laura Ghinassi
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LAVORAZIONE DELLA SCULTURA
Il bozzetto in creta
49
L’armatura
Lavorazione in classe della scultura in creta
La scultura in creta finita

La scultura in cera
Lo scultore Gianfranco Giorni
50
Particolare in cera
Il prof. Carlo De Matteis
I proff. Carlo De Matteis - Maurizio Papini – Gianfranco Giorni
La scultura in bronzo è stata fusa nel laboratorio “L’ACQUAVIOLA”

le ragazze della 3B al lavoro della scultura in creta
Voglio ringraziare di cuore le mie ragazze della 3 sez. B indirizzo Moda e
Costume Teatrale dell’Istituto d’Arte a.s. 2009-2010 che hanno saputo, con lavoro
ed amore per la materia, esprimere la drammaticità dell’evento con forme
plastiche degne di uno scultore.
Classe 3B Moda e Costume Teatrale a.s. 2009/2010
51
Prof. Carlo De Matteis
Bucarelli Lucrezia, Bushgjokaj Ermelinda, Cappelletti Carolina, Della Lena Ramona,
Dini Chiara, Doricchi Ilaria, Galantini Simona, Grandi Samanta, Mariani Giulia,
Parrini Sara, Rusu Catalina Maria, Santolini Marta.

RINGRAZIAMENTI
Un ringraziamento particolare per la partecipazione va a: Placido Aramini,
Giovanni Bianchini, Livio Bianchini, Rinaldo Bianchini, Romolo Bianchini, Franco
Blasi, Sebastiano Buzzini, Domenico Favilli , Silvano Favilli, Gianluca Fulvetti ,
Giovanni Galli, Giuseppe Mazzi, Amedeo Sereni, Ilario Venturini, Francesco
Nocentini, Centro Sociale “Valcerfone”, la Circoscrizione 6 Palazzo del Pero
Comune di Arezzo: il Presidente Lucia Sandroni, i consiglieri, la segreteria e tutti
coloro che hanno partecipato; Associazione Nazionale Combattenti Reduci
sezione di Palazzo del Pero, prof.ssa Maria Laura Ghinassi, prof.ssa Sonia
Cicchitelli (coordinatrice del libro), prof. Carlo De Matteis (coordinatore della
scultura e impaginazione del libro), prof. Gian Franco Cherici, Antonello Orsini
(tecnico di ripresa).
Un ringraziamento di cuore per la disponibilità all’amico scultore Gianfranco
Giorni.
Un doveroso ringraziamento al coordinatore generale e insostituibile
aiutante prof. Maurizio Papini.
52

BIBLIOGRAFIA
M. Battini - P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del
massacro. Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997
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53

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nazista e fascista in Italia, a cura dell’Istituto regionale per la storia del
movimento di liberazione del Friuli Venezia Giulia, Milano, Electa, 1997
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P. Pezzino- L. Baldissarra Crimini e memorie di guerra. Violenza contro le
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54

SITOGRAFIA
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www.anpi.it
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www.eccidi1943-44.toscana.it
www.iltirreno.gelocal.it
www.insmli.it
www.memoria.provincia.arezzo.it
www.novecento.org
www.regione.toscana.it/memoriedel900
www.repubblica.it
www.sissco.it
www.stm.unipi.it/stragi
55

INDICE
Introduzione del Sindaco di Arezzo 3
Introduzione Presidente Circoscrizione Lucia Sandroni 5
Introduzione del Presidente Provincia di Arezzo 7
Introduzione del Dirigente scolastico 9
56
Pag.
I luoghi 13
I fatti 19
Le responsabilità 35
Testimonianze 43
Conclusioni 55
La scultura 57
Lavorazione della scultura 59
Ringraziamenti 63
Bibliografia 64
Sitografia 66

Copyright © 2010 Polo delle Arti “Piero della Francesca”di Arezzo
Impaginato presso la Tipografia dell’Istituto
Collana De Artibus * I Edizione Novembre 2010
59