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IL TEATRO, DOPO - Boggio, Maricla

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52 ALESSANDRO FERSEN<br />

Noi a teatro<br />

Noi sediamo insieme in questa platea, ma non siamo un insieme.<br />

Siamo una quantità che non riesce a divenire una qualità. A fronte di<br />

altre platee, le platee felici in cui la rituale attenzione avvolgeva nell’antico<br />

abbraccio un pubblico consenziente, noi siamo spettatori<br />

dispersi, spettatori disorganici, neutri. Perché ci siamo dati appuntamento?<br />

perché qui e non altrove? Siamo un insieme a brandelli.<br />

Certo, fasce omogenee di attenzione sono rintracciabili in questa<br />

folla; si avverte qua e là la presenza di gruppi di spettatori catalogabili<br />

per categorie di comportamento, secondo la fluida antropologia di<br />

ogni sera di spettacolo. Ma queste affinità sparpagliate non fanno pubblico,<br />

non determinano un atteggiamento culturale.<br />

L’obiezione più immediata, che viene a opporsi a questa visione<br />

non ottimistica delle cose teatrali, è quella dell’«universalità dell’arte».<br />

Perché una rappresentazione teatrale non potrebbe essere recepita a<br />

livelli diversi e secondo diverse modalità di approccio? Siamo un pubblico<br />

moderno, capillarmente differenziato, materiato di esperienze<br />

culturali e umane diverse, un pubblico di varia estrazione età sesso<br />

censo carattere. Questa è la grandezza dell’opera d’arte: che ognuno<br />

vi ritrova un proprio spazio intellettuale ed emotivo, una propria possibilità<br />

d’immaginazione e di giudizio critico. Perché pretendere d’imporre<br />

a questa platea multiforme una uniformità di reazioni?<br />

Qui s’insinua un’insidiosa confusione fra due situazioni diverse.<br />

Forse l’«universale» invocato può applicarsi alla lettura dell’opera d’arte<br />

drammaturgica: è un equivoco estendere questa universalità dalla<br />

pagina scritta all’evento scenico. Alla lettura, il testo è disponibile per<br />

qualsiasi interpretazione, la lettura può effettuarsi ai livelli più disparati,<br />

da quello ingenuo a quello filologico. Ma a teatro lo spettatore<br />

dimentichi il lettore! Guai a mischiare queste operazioni diverse. Qui<br />

za il produttore e il consumatore del proprio spettacolo. Si tratta insomma di una sorta<br />

di rito in circuito chiuso: il pubblico produce e consuma nell’occasione di certe feste e<br />

ricorrenze […] il proprio spettacolo. Tale pubblico si ritrova dunque offrendosi un rito<br />

particolare che lo diverte, lo distrae, e insieme consacra la sua egemonia, sancisce la<br />

sua superiorità socio-culturale. È un rito di divertimento, ma è anche un rito simbolico<br />

di prestigio, dovuto all’appartenenza a un’élite sociale, di censo e intellettuale, fondata<br />

sulla complicità di cui si è detto».

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