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IL TEATRO, DOPO - Boggio, Maricla

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186 ALESSANDRO FERSEN<br />

non stiamo vivendo un’entusiasmante vigilia teatrale: nulla preannuncia<br />

l’imminenza di una nuova civiltà drammaturgica.<br />

È semmai una nuova civiltà dell’immagine (cinematografica o, piuttosto,<br />

televisiva) che si approssima – e i segni sono molti e pericolosi.<br />

Nessun indizio del genere in campo teatrale. Il fatto è che gli strumenti<br />

classici della drammaturgia appaiono invecchiati. Come la nuova cultura<br />

musicale non si affida più all’uso canonico di strumenti tradizionali<br />

come gli archi e i fiati (ne distorce semmai l’impiego a nuovi effetti<br />

sonori) e ricorre magari a mezzi di espressione discutibili quali l’elettronica,<br />

così anche una nuova cultura drammaturgica dovrebbe<br />

rinunciare a strumenti tradizionali, e spuntati, quali i dialoghi, i personaggi,<br />

la scenografia, la costumistica 1 .<br />

Demiurghi chirurghi<br />

In tale congiuntura lo spazio riservato al drammaturgo viene occupato<br />

dal regista. Assistiamo, da settant’anni in qua, alla rarefazione<br />

progressiva di autorevoli presenze drammaturgiche sulla scena e alla<br />

crescita massiccia dell’intervento registico. Più che un teatro drammatico,<br />

quello contemporaneo è un teatro di regia.<br />

Il sintomo è importante. In tempi floridi di vita teatrale il regista non<br />

c’è: se c’è, non lo si vede. Quali nomi di registi ci ha tramandato l’epoca<br />

elisabettiana o la tragedia greca? Certo, un direttore scenico – un chorodidàskalos<br />

o un capocomico (nel senso originario della formula) – è<br />

sempre esistito: ma si limitava a curare la fedele esecuzione del testo<br />

1 Appare tuttora attuale e singolarmente anticipatore l’invito formulato da B. Dort<br />

al Convegno sul repertorio contemporaneo tenutosi a Firenze nel quadro della II<br />

Rassegna dei Teatri stabili (1966): «I teatri d’oggi che si preoccupino dell’autentica contemporaneità<br />

del proprio repertorio devono impegnarsi in una nuova ricerca, teatrale<br />

quanto e più che strettamente drammaturgica. Ricerca di grande importanza, che forse<br />

li obbligherà a mettere in crisi perfino la struttura delle loro attività e talune conquiste<br />

magari molto recenti (specialmente per ciò che concerne i loro rapporti col pubblico e<br />

con lo Stato). L’attività teatrale deve affondare le proprie radici nella nostra società;<br />

anziché essere templi di una verità storica o estetica, i nostri teatri, sotto pena di sclerotizzarsi,<br />

devono diventare dei laboratori dove autori, registi, attori e spettatori possano<br />

liberamente confrontare le proprie esperienze e le proprie rappresentazioni della<br />

realtà» (Una propedeutica della realtà, in «Sipario», 258, ottobre 1967).

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