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IL TEATRO, DOPO - Boggio, Maricla

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100 ALESSANDRO FERSEN<br />

Grande assente resta la tragedia. Stentatamente la tragedia elisabettiana,<br />

in modo affatto negativo la tragedia greca si prestano alle procedure<br />

psicosceniche 9 . La tragedia presuppone l’ingresso nei territori<br />

della poesia dai quali è bandito lo psicologismo. Presuppone dunque<br />

altri comportamenti: più antichi. Ravvicinati alle origini rituali del teatro.<br />

(Utili, ma non determinanti sono stati gli studi sulla possibilità di<br />

una «dizione poetica», quale propedeutica alla recitazione «tragica».)<br />

Oggi un teatro naturalistico, discorsivo, psicologico trova più adeguato<br />

il linguaggio dello schermo, che con i «primi piani», gli «stacchi»,<br />

le «dissolvenze» ha possibilità di narrazione incommensurabilmente<br />

superiori a quelle della scena 10 . È una questione di funzionalità che<br />

non può essere elusa. La «tecnica psicoscenica» ha una sua parentela<br />

col teatro psicologico sette-ottocentesco e con le sue propaggini nel<br />

primo Novecento. Due secoli di storia o poco più: un periodo troppo<br />

circoscritto per ricavarne una teoria dell’attore, per definire un’identità<br />

teatrale.<br />

ro dell’attore. Di fronte ai testi del primo Adamov e di Ionesco, la «tecnica psicoscenica<br />

dell’attore» si dimostrava totalmente inefficiente.<br />

9 Stanislavskij settantacinquenne constatava l’inadeguatezza del «metodo» per la<br />

recitazione tragica. Agli attori dello «Studio Vachtangov» egli dichiara nel 1937: «Recitar<br />

personaggi come Amleto, Otello, Macbeth, Riccardo III, fondandosi dall’inizio alla fine<br />

sul sentimento, è impossibile. Non bastano le forze umane. Cinque minuti col sentimento,<br />

e il resto con la tecnica – soltanto così si potranno recitare i drammi di<br />

Shakespeare» (cit. in A. M. Ripellino, op. cit., p. 89).<br />

10 Cfr. A. Fersen, Il teatro salvato dal cinema, in «Sipario», 48, 1950: in questo breve<br />

saggio avanzavo l’ipotesi che il cinema, assorbendo tutti gli umori narrativi e descrittivi<br />

di cui il teatro ottocentesco si era appropriato, avrebbe aiutato il teatro a ritrovare il<br />

proprio linguaggio originario. Successivamente sviluppai questa impostazione nella<br />

relazione su Linguaggio teatrale e linguaggio cinematografico che presentai al<br />

«Seminario internazionale di teatro» tenutosi allo Studio Fersen nel 1964. In essa ipotizzavo<br />

un linguaggio teatrale antirealistico, una recitazione liberata dalle convenzioni<br />

sceniche, il ricorso a una rigorosa «povertà teatrale», «non perché il dettaglio o il fastoso<br />

siano superflui a teatro, bensì perché sono antiteatrali: perché annullano ogni possibilità<br />

di invenzione, di partecipazione vera da parte del pubblico. […] Povertà, perché<br />

il simbolo rituale è volutamente scarno, onde lasciare margine all’attenzione e all’invenzione<br />

partecipatrice dei presenti. Mentre le compiacenze cinematografiche, i decorativismi<br />

descrittivi bloccano ogni possibilità di ricorso alle profonde matrici del teatro.<br />

E questo valga come condanna teorica degli spagnolismi seicenteschi, che da anni<br />

imperversano sulle nostre scene, diseducando il pubblico, soffocando la genuina vita<br />

teatrale nel suo nascere» (Teatro oggi: funzione e linguaggio, Atti del Seminario, in<br />

«Marcatré», 19-22, 1966).

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