Ippogrifo 1-2003:Ippogrifo 1/2003 - Comune di Jesi

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20 5/03 DALLA TERRA AL CIELO E’ i l C e n t r o d i S t u d i Metapsichici di Camerino, che pubblica nel 1974 il poema “Dalla terra al cielo” ad offrirci la stupefacente opportunità di leggere e conoscere un nuovo Dante, un Dante inedito. Pare infatti che, attraverso sedute medianiche, un’Entità, definitasi Dante Alighieri, abbia dettato, post-mortem, centinaia di versi che indubbiamente lasciano toccato il lettore che, pure incredulo, ad essi si accosta. “Dalla terra al cielo” rappresenta il perfezionamento, a livello cont e n u t i s t i c o , d e l l a D i v i n a Commedia: non soltanto vengono radicalmente scardinati taluni principi della dottrina cristiana di c u i s i e r g e v a a d i f e s a l a Commedia, ma l’opera, complessivamente, si presenta come riflessione drammatica e personale dello spirito che medita sul suo post-mortem, sulle leggi universali che regolano vita ed oltrevita: terra e, appunto, cielo, nonché il fondamentale nesso di complementarità che li lega inscindibilmente, proponendosi l’obiettivo d’illuminare all’uomo la via della salvezza, attraverso il ricordo e la dettagliata descrizione dell’esperienza post-mortem; sicché assente è il grandioso apparato scenografico che costituiva un perno della Commedia, quale assente è la figura d’uno scrittore giudice di un’epoca e dell’umanità. Dante mette di nuovo in scena se stesso, questa volta protagonista reale dell’avventura spirituale: viene a cadere la finzione letteraria. D’altra parte il poema è una sorta di monologo interiore che, nel tentativo di creare un sacro ponte tra terra e cielo, una sorta di dialogo tra i due mondi, di tanto in tanto s’apre ad accorate esortazioni, concitati inviti volti all’intera umanità. Di tale peculiare natura è segno manifesto l’incipit stesso: “O popol che t’appresti al grande passo per superar la soglia della morte non cadere nel tragico collasso de li peccata e fa’ che tu sia forte: vicin ti guata il demone maligno perché diventi tua la sua mal sorte, fuggi quindi l’invito e quinci il ghigno acciocché tu possa salir festoso nel regno di Colui giusto e benigno.” In esso, accanto all’esplicito invito, si coglie il monito dantesco all’umanità (“popol”) che, di fatto, s’appresta a varcare la soglia che scinde vita e morte; l’esortazione alla forza rivela, d’altra parte, l’intrinseca debolezza umana: è “tragico collasso” la catastrofe che incombe sull’uomo qualora s’abbandoni a “li peccata”, le trame ordite dal demone del male. In tale prima sezione l’assunto fondamentale è che la vita postmortem si avrà gioiosa o meno in rispondenza delle azioni, della vita condotta in terra. Dante passa dunque a definire la natura immortale dell’anima (“Su quest’eterna Essenza anco la morte/ che regina ti sembra invitta e fiera, / mesta inchinar si dee perché men forte) e mette nettamente in luce l’ineluttabile sconfitta della morte, la quale, personificata, va ad assumere sembiante di tetra regina, regina del nulla; è codesta morte, mesta, abbattuta cui Dante si rivolge: “Non t’affannar, non darti pene e doglie col tuo ideal di sterminar le genti… Non t’affannar, perché come le foglie che a la triste stagion dei freddi venti, allor che la natura sta nel sonno, morte giacciono e gialle, oppur cadenti, ma che al tornar di primavera ponno brulle rame vestir, così l’amata falciata gente, per amor del Donno, scossa dal suo torpor, risollevata d’ogni bassa tristezza e sofferenza, nel mondo tornerà rinnovellata. Nuova per suo vigor, per sua esperienza, l’antichi errori trova e li corregge migliorando così la sua esistenza: china quindi di fronte a l’Alta Legge, tetra regina il volto tuo regale, ch’è più regal di te Chi tutto regge!” Perché mai la morte, che regna sull’uomo finché esso non riconosce il vano spauracchio ch’essa costituisce, nulla in realtà regge? Poiché il Donno (il Creatore) non solo concede agli animi l’immortalità, ma finanche permette ad essi il ritorno in terra, la palingenesi, finché, rinnovandosi attraverso la reiterata esperienza del Bene e del Male, l’umanità non giunga a perfezione e non s’involi finalmente nel Regno Celeste, laddove la morte non costituisce affatto un “essente”. Tale passo riprende una similitudine consolidata ormai dalla tradizione: gli uomini sono come le foglie; pure, Dante fa di tale similitudine la forza dell’uomo, rovesciando manifestamente il tradizionale significato. Il paragone non si concentra sulla precarietà e la fragilità dell’oggetto “foglia”, ma sulla possibilità di tornare alla vita, che di essa è prerogativa, con l’avvento della primavera: in tale modo la pianta, che si climatizza, si ambienta, si rafforza andrà a possedere una folta chioma di foglie salde e resistenti. Ciò è in netta contraddizione con la dottrina cristiana, una sorta di aureo filone della Commedia: è, dunque, come dicevo in principio, un nuovo Dante, temprato dall’esperienza spirituale, quello che ora ci parla, che generosamente offre il frutto della comprensione, scaturito dal proprio vissuto, che vuole fornire all’uomo un messaggio veridico sull’al di là, dopo la finzione letteraria della Commedia. Se i primi tre canti costituiscono di fatto il monito alla sempre vacillante umanità, è il IV canto che lascia il lettore più sorpreso; in esso compare la guida di Dante nell’oltretomba: è, ancora una volta, Virgilio, che il Cielo ha realmente concesso a Dante guida. Di ciò Dante stesso si sgomenta: pare infatti un premio troppo lauto, al sommo vate, poter ottenere ciò che aveva in terra meramente vagheggiato nella Commedia: “O magnanimo Autor di ciò che esiste! Qual premio Tu volesti che assegnato Fusse a lo spirto mio! Ché se conquiste, finché venne il fatal commiato, potei vantar per intelletto e fede, pur non potei restar senza peccato. Chi sulla terra ispirazion mi diede e in mio pensier fu guida al gran viaggio, fu da Colui che tutto presiede a me assegnato qual lucente raggio, qual guida che m’aiuti al gran capire col suo spirituale alto linguaggio.” Il tema che percorre l’opera è ad ogni modo l’esortazione all’uomo ad imboccare senza tentennamento la “diritta via”, anticipata nell’incipit del nono canto dall’invocazione e preghiera rivolte all’ “Immortale Padre dei mortali” e ripresa più audacemente in quello del decimo, in cui Dante fervidamente sprona i mortali affinché lascino affiorare il supremo amore che di essi è esclusivo appannaggio; l’apostrofe all’amore, che fa il verso alle tre celeberrime terzine dedicate all’amore stesso intonate da Francesca nel canto V dell’Inferno (quantunque l’amore ora trattato sia di natura esclusivamente divina e si esplichi essenzialmente nell’esercizio assoluto del perdono incondizionato), si accompagna all’ormai noto monito, che riverbera nel poema con diverse sfumature: “Surga l’amor che voi sopito avete per vostro agire e favella bugiarda dell’alma, prima che vi bagni il Lete! Surga l’amore in voi; dall’alto guarda Dio ch’Amor vi donò perch’il donaste E tal donar non sia vostr’opra tarda! Surga l’amor che voi, nati, serraste Nella coscienza, allor fulgido scrigno E fatto immondo, poi, perché peccaste!” E’ dunque tale connaturato, genuino, nobile amore che deve copiosamente fluire nell’uomo perché esso possa ritrovarsi celeste; sempre tale amore dev’essere l’oggetto di una quiete interiore che conduca alla definitiva sconfitta dei mali dell’animo, ad una completa liberazione: giunto a tale sublime condizione, pure in terra, l’uomo non può che riconoscersi ed essere degno del Cielo. Gemma Polonara L.C., II B
Ad un bambino di otto anni viene fatto acquistare dalla sua insegnante d’italiano un libro: il bambino lo compra e a casa non lo legge nemmeno perché la lettura del testo sarà fatta in classe. Quel bambino di otto anni sono io ed il libro in questione è “Il piccolo principe” di Antoine de Saint Exupery. Durante la prima lettura, avvenuta in terza elementare, non ero in grado né di capire il significato della dedica iniziale (“dedicato a Leone Werth quando era un bambino”) né di cogliere il messaggio del libro. Infatti, l’avevo trovato un racconto carino, ma dopo questa lettura “obbligata” in classe, quel piccolo libricino non è stato più aperto per otto anni… È stato un mio amico, Alessio, a farmi riscoprire questa fantastica storia che io avevo dimenticato nel fondo di un armadio. Devo ammettere che all’inizio ero un po’ scettico e pensavo che fosse un libro esclusivamente per bambini, ma grazie all’insistenza del mio amico, un giorno dell’estate 2001, mi sono messo a frugare tra le mie vecchie robe e sono riuscito a trovare, sotto altri libri dimenticati, “Il piccolo principe”. Allora, mi sono sdraiato sul mio letto ed ho iniziato a leggere. Dopo meno di un’ora ero all’ultima pagina e, concluso il libro, è stato come svegliarsi da un dolce sogno: con le lacrime agli occhi, commosso, mi dispiacevo per il fatto che quello che avevo appena letto fosse solo un libro e, proprio come si fa con un bel sogno, desideravo (e desidero) che da qualche parte nel deserto, nel mondo o nell’universo vi fosse un piccolo principe da coccolare, da ascoltare e da capire. Purtroppo, un bambino di otto anni, non può intravedere ne “Il piccolo principe” quello che una persona più grande riesce a captare e forse è proprio perché da piccoli non si riesce a capirlo pienamente che, crescendo, si rischia di non apprezzarlo, ma è necessario riscoprirlo. Per me è stato come un grido, un rispecchiarmi dentro a delle pagine di carta; è stato un po’ come se quello che sono mi fosse stato in parte spiegato: nel mio modo d’essere c’è sempre stato un qualcosa che ho constatato ne “Il piccolo principe”. Leggendo il capitolo dove il piccolo principe incontra la volpe, mi sono messo a piangere: “ Mi vorresti addomesticare?” “Cos’è addomesticare?”. Nel dialogo tra i due personaggi è spiegato nella maniera più chiara e sem- IL PICCOLO PRINCIPE plice perché ci si affeziona a delle persone ed anche ad alcune cose; quando il piccolo principe chiede alla volpe perché voleva essere addomesticata da lui, nella risposta c’è uno dei passi più belli per chiarezza, semplicità e grandezza che io abbia mai letto: “Perché in questo modo i tuoi capelli biondi saranno per me il campo di grano e così, ogni volta che vedrò un campo di grano, io sarò felice e penserò a te anche quando sarai lontano…”. Dopo essere stata addomesticata, nel mondo non ci sarà più nessuno come il suo piccolo principe e per la volpe il guadagno sarà il vento che scuote il grano nei campi, che gli ricorderà i suoi capelli biondi. E così mi sono reso conto di essere stato addomesticato anch’ io in qualche modo ed ho capito il motivo per cui la mia lei è per me una su sei miliardi: lei è per me il profumo di vaniglia, il verde di un prato, un cielo stellato, una canzone e quando vedo o sento queste cose io penso a lei e sono felice. Leggendo quel passo, ho capito che quella volpe rappresentava per lui l’unica volpe e la rosa del suo pianeta l’unica rosa, come la mia lei rappresenta per me l’unica lei ed in quel momento (e tuttora) mi sono sentito un po’ piccolo principe anch’io. Quest’aspetto affettivo del piccolo principe mi si è trasmesso anche sulle cose materiali: non sarei in grado di cambiare il mio zaino con nessun altro zaino al mondo, nonostante il fatto che sia vecchio e danneggiato perché per me quello zaino rappresenta i miei quattro anni di superiori, i concerti cui sono andato, le marce per la pace, il mare, la Spagna. L’esempio non è superficiale, ma bisogna pensare da bambini per poterlo capire pienamente. In tutto il racconto, vi sono delle allegorie, che possono apparire di per sé buffe, ma se lette più attentamente nascondono una triste ironia: un esempio è il povero ubriacone che beve continuamente ed alla domanda del piccolo principe “Ma perché bevi ?” risponde “Bevo per dimenticare che ho vergogna di bere”; oppure il re di un pianeta senza abitanti che è convinto di avere dei sudditi ( anche se pure lui ha qualche dubbio) e quando arriva il piccolo principe lo supplica di rimanere, ma poi, vedendo che non può fermarlo, lo nomina suo ambasciatore nell’ universo. Questi e gli altri incontri possono essere considerati allegorie della solitudine umana, portata all’estremo (ognuno dei personaggi è solo in un pianeta dell’universo), che, però, non è molto differente della solitudine di chi vive chiuso in se stesso e si rifiuta, come il re, di rendersi conto della realtà o, come l’ubriacone, preferisce dimenticare con l’alcool tutti i suoi guai ed anche se stesso. La conclusione è triste: il piccolo principe torna sulla sua stella, mentre l’ autore-protagonista rimane qui sulla Terra. Tuttavia quando quest’ultimo alzerà gli occhi al cielo in una notte stellata, vedrà una stella più brillante di tutte e quella sarà la sua stella ed ogni volta che la guarderà, penserà anche lui al suo piccolo principe. In seguito alla lettura, alcuni aspetti del mio carattere si sono accentuati: “l’ essenziale è invisibile agli occhi”. Nei rapporti con le persone, gli aspetti materialistici non mi sono mai interessati molto, ma non avevo mai pensato in maniera seria e realmente cosciente che i vestiti, l’aspetto fisico e tutti gli altri caratteri esteriori non sono rilevanti nel determinare una persona, ed ho realizzato in pieno che la cosa importante, “essenziale”, è come uno si sente quando sta con una persona, l’emozione che prova e che nessun occhio umano è in grado di cogliere. Dopo aver chiuso il libro, ho iniziato a fantasticare sulla scomparsa nel deserto di Antoine de Saint Exupery con il suo aeroplano e mi piace immaginare che egli abbia realmente incontrato il piccolo principe e sia andato con lui sulla sua stella. Se ciò non fosse vero,io so che il piccolo principe è dentro ognuno di noi ed è lì per ricordarci il bambino che tutti siamo stati. Tuttavia a volte ce ne dimentichiamo, ma è nelle nostre capacità riuscire ad ascoltarlo e soprattutto a capirlo. • Mosé Tinti L.C., II A 21 5/03
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