Il cane e la scimmia - Geografia per la scuola primaria e dell'infanzia

Prefazione
Mentre ero in un giardino
con un libro tra le mani,
un Vecchio saggio
si avvicina piano piano
e dice verso di me:
Cos'hai che sei turbato?
Che devo avere? Guarda,
adocchio un buon libro,
vedo che è fasullo,
lo trovo un colabrodo.
Questo tarlo è un'orribile
pestilenza che rovina tutto!
Io dissi tra di me:
O costui è tutto pazzo
oppure mi prende in giro.
Vide il mio imbarazzo
il Vecchio e, passato un po',
riprende il discorso:
Mi sembri stupito;
pensi che io scantoni?
Io parlo da assennato
e sono propenso anche a rivelarti
i miei segreti più grandi,
nascosti da cento anni.
Sappi che io discendo direttamente
per linea maschile
da Esopo, che in Egitto
fu un mare di sapienza,
che io ho appreso per la maggior parte
non già da libri e carte
ma dagli animali e dagli insetti
che per l'uomo sono muti;
quello con i perfetti
sensi e la sua grandi capacità
avendo pratica di quei gerghi
compose una grammatica
che con un fidecommesso
la stessa scritta da lui
poi ce l'ha tramandata
sempre per linea diretta
e per primogenitura,
fin tanto che dura la sua stirpe.
Dunque, io, presi in esame
questi fogli tarlati,
trovo che questi ricami

sono lettere scolpite,
sono cifre e asterischi
di codici animaleschi.
Per istinto di natura
a gloria degli animali,
il tarlo ha cura
d'inciderne la storia,
i motti, le sentenze,
le arti e le scienze.
Scorrazza per tutti i libri,
non supericiali,
li mastica, li inghiotte
ne fa succo vitale;
poi negli intagli scrive
i fatti più istruttivi.
Che fatti, intagli e arti,
io ripresi, che motti?
La mente mi parte!...
Eh, via come si inghiotte
questa pillola? Non sia mai,
bada che è grossa assai.
Il Vecchio non desiste,
ma morto dalle risate
mi dice: Capiresti
un turco e un cinese?
Eppure, son tutti e due
uomini come noi.
Va bene, io gli risposi,
ti voglio accordare anche
che i gerghi più astrusi
per te siano chiari,
ma dimmi: E poi in questa prova
che guadagno ci si trova?
Una cosa molto ridicola
sarebbe per noi questo acquisto;
se parla, si manifesta
sempre più una bestia;
non è d’aiuto né istruisce,
è un bene che non si capisca.
Riprende il Vecchio:
Tu allora hai deciso
subito e alla cieca!
La causa non è matura;
ne tieni scritti e carte?
Hai sentito mai le parti?
Se non capisci un acca
dei versi animaleschi

la sua ragione è ignota;
dunque, se adesso
ti mancano queste guide
chi è bestia? Chi decide.
Tant’è che non sono muti
che la voce la sentiamo;
hanno la sensibilità acuta
e questo lo vediamo;
conoscono i pericoli,
notano i cavilli,
perché per avere sentore
di quaglie o di fagiani
l’uomo, che ha un odorato ampio,
ricorre e si serve del cane?
Segno è che è convinto
che un cane possieda un odorato migliore.
In quanto a vista l’aquila supera
di molto la specie umana:
dall’alto e a gran distanza
scopre nella tana
una piccola serpicella
che sporge la testolina.
Il gallo! E si può dare
barometro più sicuro?
Si può definire anzi
un almanacco aperto
e insieme un buon orologio
con la sveglia.
Che attenzione e vigilanza
ha per il suo pollaio!
Nei confronti chi chi viene avanti
Si fa scudo e riparo;
espone il petto, azzarda,
non guarda pericoli.
Mantiene l’armonia
tra tutti e quando qualche
gallina s’azzuffa,
corre e con grosse beccate,
con gridi e colpi d’ali
la fa ridiventare socievole.
Se ha visto per terra chicchi
o d’orzo o di frumento
non pensa di farne acquisto
per proprio nutrimento,
ma fermo e a piedi stretti
chiama e li divide a tutti.
Qual meraviglia, dunque,

se tanto rispettato
lui viene dai suoi?
E l’uomo, che vantato
si è quale tempio di ragione
non imita questo esempio?
Cosa mai dirò delle api?
Che monarchie saggissime!
Rispettano i capi,
e costoro al vantaggio
della società
sono tutti dediti.
Se avessi lena e fiato
direi delle formiche.
Ma basta: Ho dimostrato
che gli animali non sono ridicoli
e che anche i più teneri
ci offrono da imparare.
Il tessere e il filare
con i piedi e le manine
ce lo dovettero insegnare
tarantole e vermuzzi,
quelli che molto pulita
ci tessono la seta.
I nostri progenitori,
attenti ai castori,
di case e di capanne
forse i rudimenti
appresero e imitarono
che poi perfezionarono.
Ci fece apprendere
l’arte del pescare
il pesce Pescatore
che in mare due cannucce
sporge dalla testa e prende all’amo
e pesca pesci come lui.
Se oggi si pratica
tra di noi il salasso,
o grosso ippopotamo,
lo abbiamo appreso da te
che se hai le vene piene
te le apri con le spine.
Forse a quelle menti vergini
in quell’età d’allora
il tarlo l’origine
diede dell’incisione
ed anche, se non sbaglio,
del ricamo e dell’intaglio.

Si deve alla cicogna
l’uso del clistere:
costei, quando occorre,
si adatta al di dietro
il becco pieno d’acqua
e spinge a forza nell’intestino.
Si pensa che un’apina,
poggiata su un ramo
a mo’ di barchetta,
portata via dalla corrente,
dovette dare agli uomini
l’idea del navigare.
Direte: Ma l’asino
si vede che è balordo,
non sente verga o richiamo;
C’è di più? Con tutto il basto
si torce groppa e schiena
e vi cammina barcollando!
Questo voi interpretate
vera balordaggine?
Ma come lo provate?
Può darsi che desideri
per il suo sangue pigro
uno stimolo gagliardo.
Può darsi sia di una razza
di Stoici e di Zenoni
che sopportano il bastone,
i calci e gli spintoni
per rendere i sensi
abituati alle avversità.
Può darsi che per operare
voglia essere informato
di ciò che deve fare
per eseguirlo a regola
e, trovandosi all’oscuro,
non agisce in modo sicuro.
Il servo che discute
quando il suo padrone
gli dice: Presto, corri!
né spiega la ragione,
né dove lo destina,
si confonde e non cammina.
Ora, che volete
da un asino, se gli salite in groppa
senza aver sintonizzato
le lingue e le volontà?
Poste questa verità,

è molto quel che fa.
E poi vi sia concesso
tra tanti e tanti animali
l’asino per insensato,
per stupido e balordo,
che importa? Tra noi stessi
quanti ce n’è di questi?
Forse verrà infamata
per questo la specie umana,
perché in ogni nidiata,
due terzi per dozzina,
tolta l’apparenza,
quanto a senno sono asini?
Aggiungo anche di più:
questa stessa asinità
che voi disprezzate
li rende cari e graditi
a più d’una persona
che manca di coraggio.
Ma poi, per loro compenso,
ci sono animali scaltri, oh quanti!
Esalta la prudenza
dell’elefante Plinio
mentre altri hanno abbastanza
furbizia e attenzione.
La volpe, eh! Che vi pare?
Il lupo!… Oh, com’è furbo!
E chi lo può ingannare?
Il corvo! È un dritto!
Noi, nei confronti delle loro malizie,
non siamo che novizi.
Perché natura volle dividere tra i viventi
a ognuno la sua porzione
di istinti e di talenti
quanto poteva bastare
a conservare la propria specie.
Arrivando all’uomo, si accorse
che aveva consumati
gli istinti suddetti
perciò ne raccoglie
gran parte dalle bestie
e li divide agli uomini.
Per questo spesso fare complimenti
vediamo l’uomo-volpe
che ossequia i malvagi,
che è cattivo e le sue colpe
le scarica e depone

sulle brave persone.
Vediamo l’uomo-lupo
che sembra un medaglione,
serio, devoto e cupo;
ostenta la ragione
impastata col miele,
ma in cuor suo ha fiele.
L’uomo-leone ha un fondo
intrepido e costante;
rovini pure il mondo
sta immobile là davanti
e alla sua possibile rovina
oppone petto e schiena.
C’è l’uomo-scimmia tutto preso
dalle grandi mode e usanze,
bandiera ad ogni vento,
muta, riforma e scuce
abiti, braghe e insegne
guardando le altre scimmie.
È l’uomo-talpa quello
che vive innomorato
di chi non si cura di lui
e ne è tanto accecato
che non crede più agli occhi
ma alle chiacchiere e ai papocchi.
Così c’è l’uomo-cane,
che abbaia a tutte le ore
ai poveri, ai villani,
ai ladri, ai traditori,
ma dandogli un tozzo
porge le fauci.
Abbiamo l’uomo-gatto
Che si mette a dire miao
appena vede un piatto;
avido come Ebreo
stende le unghie a tutto,
prende e di più sgranfigna.
Tralascio i becchi-uomini
che sono tema dei Satirici;
io cito i fenomeni
al modo degli Empirici
e vado avanti e mi confondo
nell’andare troppo a fondo.
Avanti, che c’è più…
Ci sono uomini tali
(ma sia detto tra di noi)
che stanno al di sotto degli animali,

quant’è sotto uno scimmione
una cassa oppure uno scrigno.
Tal è il ricco avaro,
una sorta di uomo-cassa;
si conserva il denaro,
lo chiude, se lo mette in cassa,
si dissecca e infradicisce
sempre guardando i gingilli.
Ci sono, senza che io li nomini,
degli autentici uomini-pupi
ossia automat-uomini;
l’amica o la moglie,
o un servo muove il laccio
e fa fare loro azioni.
Tu credi forse che io sia
corrucciato o di mala voglia
contro la mia specie?
Ah! La natura umana
(e chi non se ne accorge?)
cadde in bassa fortuna!
È il gran Colosseo
che dell’antico fasto
non conserva per trofeo
che qualche oscura impronta
che si scorge appena
tra le eterne rovine.
È dunque la ragione
l’unica cosa buona in noi?
Ma quanto sia malaticcia
già lo vedete da voi;
il suo titolo risuona,
ma non ha voce in capitolo.
Capitolo, voglio dire,
quando le passioni
focose e dinamiche
alla riflessione
che si presenta timida
chiudono la porta in faccia.
In quale specie o razza
di bruti o d’animali
se ne trova una così folle
che tanti oltraggi e mali
s’impegna a escogitare
contro i suoi simili?
In una vampata privare
di vita cento e mille
fatti allo stesso modo

con carne e con capelli
è un’arte di cui l’uomo
ne ha scritto più di un tomo.
Ognuno vanta in sé
la ragione come guida.
Questo è il peggio, ahimé!
Ragioni a milioni,
quanti gli uomini che sono al mondo!
Vai a pescare in questo fondo!
Questi mantengono in guerra
i regni con i regni,
fomentano qua sulla terra
cause, liti e obbligazioni;
anche la gente malvagia
adduce la propria ragione.
Gli avvisi e i manifesti,
che tra i nemici sono
preludi di funeste
guerre desolatrici
tutte, dalla prima all’ultima,
sono pieni di ragione.
Gli immensi scartafacci
che ingrassano il foro,
che estorcono sentenze
e l’oro dalle borse,
che imbrogliano il mondo,
sono tutti ragione.
Ragioni che derivano
da altre e queste altre ancora
da altre che infine arrivano
a deviare fuori
delle ragioni e hanno
radice nell’inganno.
Perché in noi le passioni
spesso si presentano
con maschere molto buone
e poi vanno all’assalto;
la maschera comune
è per esse la ragione.
Però tra gli animali
il solo e nudo istinto
governa senza rivali
dentro il suo recinto
e stabilisce i suoi obiettivi
sulla sua stessa specie.
Dunque, chi si prefigge
di studiare i bruti

studia la natura,
unico e singolare
libro di sensi arcani
che racchiude le scienze.
Benissimo, diss’io,
tu forse peschi in fondo;
però la mia mente
mi sembra in un altro mondo;
hai discorso così bene
che io sono mezzo morto.
Mi ci hai saputo indurre
con le maniere e l’arte;
via, mettiti a tradurre
queste carte tarlate…
Dissi e il Vecchio comincia a leggere
le sue traduzioni.
Io aggiungerò in più
qualche moralità
che deriva dal testo
(sebbene là non ci sia)
perché non s’abbia a dirmi
che non ci ho messo niente.
I
I topi
Un topolino, leggero di testa,
aveva preso una mala strada
e conduceva una vita scialacquata
con gli amiconi del suo giro.
Lo zio tentò di trarlo sulla retta via
ma zappò l’acqua, perch’era audace
e in più aveva leccato la sugna,
esperto di taverne e di pizzicagnoli.
Alla fine micina fece presa:
quello grida: Zio, zio con interno dolore;
suo zio per il rammarico si stringe in sé,
poi dice: Il tuo caso mi addolora,
ma adesso mi cerchi? Cappio che ti soffochi!
Paga per quando andasti alla taverna.
II
I granchi
Un granchio si vantava

di educare i figli
e li riempiva
di massime e consigli
insistendo: Vi ho detto
di camminare dritto.
Quelli, che avevano puntati
gli occhi su di lui e l’osservavano,
non potevano comprendere
cosa volesse dire dritto:
nel suo aspetto questa idea
non c’era dove prenderla.
Quello minaccia, sbuffa,
arriva a castigarli,
ma fu sempre imutile:
mettendosi a osservarlo
vedono cosce e gambe
storte, sbilenche e strambe.
Alza un po’ l’ingegno
il più grandicello e dice:
Papà, il primo posto
spetta a chi ci ha fatto;
andate avanti voi
che dopo veniamo noi.
Insolenti, scostumati,
grida il padre, oh bella!
A tanto v’arrischiate?
Si discute del mio esempio?
Io posso fare e disfare,
non devo dare conto.
Se voi avete ancora l’ardire,
birbanti, di replicare…
seguitò lui a dire,
seguitarono quelli a fare…
Storto il padre e storti
i figli fino alla morte.
III
Le lumache
Portandosi la casa sulla schiena,
Due lumache all’ombra di una ferula
Con la bocca sempre piena di schiuma
S’andavano trascinando terra terra.
Disse una: Quant’è meschina questa mia vita!
Più ci penso e più mi sento impazzire!
Una frasca inutile e incapace

guarda come va in aria linda e agghindata!
L’altro, tirando fuori un corno dalla tasca,
si provvede del suo cannocchiale manesco,
osserva e poi dice: Non ti addolorare;
questo è un gioco della sorte buffona;
questa frasca vola in alto per il fatto
che è vuota e ha vento fresco.
IV
L’aquila e il riiddu (il regolo)
Ci fu un tempo (secondo una certa cronaca
ritrovata nell’archivio di Parnaso)
che gli uccelli conducevano una vita armoniosa
in buona compagnia, tra gioco e spasso:
avevano sante leggi e governati
erano da magistrati eccellenti.
Un giorno dovevano eleggersi un regnante,
per questo si radunarono sopra un monte;
ognuno metteva avanti i propri pregi:
su tutti l’aquila e l’avvoltoio
pensavano di ottenere di sicuro il voto.
Ma i saggi li esclusero sostenendo:
la forza e la robustezza sono pregi grandi
nello stato selvaggio, ma dovendo
vivere in società, le qualità
più grandi sono l’ingegno e la prudenza
e per questo meritano la preferenza.
Ché se questa si concede ai forti
ci mettiamo in evidente pericolo
di tristi abusi e che la sede primaria
diventi il centro della tirannide;
pertanto, il talento sia la prova
per essere eletto e colui che lo possiede.
Decisa la questione in questi termini,
si applicarono a pensare un esperimento
per scoprire in chi vale più l’ingegno
e in chi fa spicco prudenza e talento;
ma le aquile, adoperando forza e inganno,
li spinsero a concentrarsi sul volo.
Pertanto, stabilirono che chi più
volasse in alto diventasse monarca assoluto.
Caminciarono la prova, però ci fu
un uccello leggerissimo e minuto
che di nascosto sulla testa prese
posto dell’aquila più forte.

Quest’aquila se ne sale alle stelle
e, non scorgendo uccelli al suo fianco,
ritorna piena di gloria e dice: Olà,
sono Re perché ho volato più in alto;
ma, accorgendosi gli altri di quello
che aveva in testa, gridano: Re iddu.
L’aquila esclama dicendo: Vi smentisco,
lo sforzo di volare l’ho fatto io.
Riprendono quelli: Però il talento
ha dato scacco-matto ai tuoi sforzi:
impara quanto importa avere ingegno
e molto più per governare un regno.
Aggiungo qui una nota: non si vede
questo termine reiddu in nessuna lingua,
ma si conserva solo nella nostra;
voglio, perciò, che tutti la considerino
la più antica lingua originale
sin da quando parlavano gli animali.
V
Il topo e il riccio
C’era freddo e un topo intirizzito,
mentre sta imbucato nella tana,
sente alla porta lamentare un riccio
che in tono umile gli chiede ospitalità.
Io, dice, non voglio letto né capezzale,
mi accontento di un angolo o di un lato,
o mi metto ai piedi in punta in punta,
basta che sia riparato dal vento.
Il topo era di buon cuore e spesso tocca
ai cuori buoni inghiottire dispiaceri,
sono molti gli ingrati che scova la chioccia!
Il riccio entra e tanto si infila
che per le spine il topo bestemmia
e disperato scappa dalla tana
e in più lo rimprovera
l’usurpatore e ancora va gridando:
chi si sente pungere esca fuori.
VI
Continua lo stesso soggetto
Ma il riccio pagò il pegno
perché il cielo tiene la bilancia

e compensa buone e cattive azioni
con estrema precisione e attenzione.
Un tale che aveva là vicino la dispensa
Si era accorto di qualche mancanza
Di lardo e cacio, messo sull’allerta,
Vide il topo fuggire in lontananza.
L’aveva inseguito, ma non potè
raggiungerlo, perché aveva preso la tana
da dove di notte lo aveva spostato il riccio;
ma, non appena l’alba sale all’oriente,
va con pietre e calcina e con quattro colpi
(credendo di dare la morte al topo)
ottura, mura e appiana
il buco che gli era nocivo
e fu il riccio seppellito vivo.
Cernendo ora il setaccio:
paga il debito di ingraditudine
l’ingrato e chi fa bene bene aspetta.
VII
Il cane e la scimmia
Un gentiluomo possedeva una scimmia e un cane
che teneva alla catena in un terrazzo.
Un giorno la scimmia si accorse che il pane
del compagno era rimasto a terra.
Gli dice: A te non manca mai la fame,
perché non mangi? Dimmi, cos’hai?
E quello risponde: Non mi credo ammalato,
ma un cruccio nel cuore.
È da molto che non vedo il padrone.
Chi sa?… Quella però lo interrompe:
Poh! Non c’è altro? E dimmi: Senza di te
Forse il padrone non mangerebbe?
Risponde: Non lo so, ma mi risulta
che una volta io mi smarrii e lui mi cercò.
Riprende l’altra: Un’altra volta appositamente
venne con il legno e ti bastonò
e tu, da autentico vigliacco,
gli leccasti le mani e i piedi.
Questo – afferma il cane – significa
aver gratitudine e un cuore
capace di mantenerla a costo di morire.
Ma l’altra dice: Tu ti disperi tanto
per lui e lui (se tu mi ascolti)
non si dà né pensiero né preoccupazione di te.

Grida il cane: Tu menti per la gola,
tu, che sei tutta pazza e incostante,
cerchi compagni per non restare sola.
Il padrone ha stima di me, ma anche se
non mi stimasse, io sempre corretto
sarò con lui per quel bene che mi ha fatto.
Alla mia specie volle dare un cuore
grato e riconoscente la Natura,
perché doveva servire da esempio
all’uomo stesso e a ogni creatura
perché approfittasse della nostra alleanza
e imparasse la gratitudine e la costanza.
VIII
Il gatto, il forestiere e l’abate
In un refettorio di frati entrò
un forestiere (o forse era un monaco)
e con il Guardinao, oppure Abate,
osservava i banchi, le spalliere
e la capienza del luogo
com’è abitudine di chi viaggia.
Si accorse che con grande sussiego passeggiava
un grosso gatto pezzato
dal pelo lucente che dai baffi
sembrava un soldato svizzero o tedesco.
Lo guarda e dice: Per Bacco, un gatto
Così grosso e così ben fatto non c’è neppure in Siria!
Il reverendo gli risponde: Eppure,
lei non considera che i pregi esteriori,
ovvero fisici, che io non curo per niente,
ma i i pregi morali, ovvero quelli interiori,
sono questi a farlo raro e singolare.
E glielo farò vedere e toccare.
Detto così, ordina a un frate:
Mettigli davanti un piatto di pesci.
Costui obbedisce e porta un piatto enorme
pieno di boghe e triglie, e nell’istante
in cui lo posa dice al gatto: Guarda qua.
E quello se ne sta immobile.
Arrivarono altri due gatti (o perché attratti
dall’odore dei pesci, o appositamente
ci furono portati dal viaggiatore)
ed entrambi si avvicinano al piatto,
ma il gatto robusto in un baleno
c’è sopra, li fa indietreggiare e li tiene a freno.
Il forestiere ammira con stupore

il contegno e la possanza del gatto.
Allorché, dovendo entrare, un cuoco
apre una porta e in frotta si rovescia
un esercito di gatti e tutti insieme
si slanciano avvendandosi sul piatto.
Il grosso gatto cercò di porre un argine
battendoli, ma, mentre combatte
Con quattro o tre, vede che altri lo aggirano.
A questo punto si marrisce e non sta più alle regole:
torna indietro, afferra la triglia più grossa
e scappa mentre si scatena il piglia piglia.
Conclude il Reverendo: Il mio gatto
ha giudizio o no? Con la forza e il coraggio
tentò… Poi pensò a se stesso. E ha fatto bene.
L’uomo più saggio avrebbe potuto far meglio?
Il viaggiatore prima scuote la testa, poi dice: Padre mio,
vi spiegate bene, vi ho compreso, addio!
IX
La rondine e la grande farfalla
Una rondine, fermatasi vicino
a una grande farfalla posata sopra un fiore,
osservandola ammirava, sulle ali e sul dorso,
i suoi colori vari e argentati,
ma soprattutto le invidiava
le quattro ali che spiegava all’aria
e così diceva tra sé: È vero che io
giro per il mondo con un solo paio d’ali,
ma quanto, ohimè! Mi stanco e mi affatico
e mi smarrisco tra le vastità dei mari!
Senza fastidi e disagi con quattro ali
più velocemente farei i miei viaggi.
Intanto, osserva la farfalla che nel volare
quattro ali appena la sostengono nell’aria,
si solleva poco e spesso si posa!
Si rallegra allora con se stessa: Ora capisco,
dice, che tra le cose più luccicanti
molte sono inutili e senza senso.
Non tutto ciò che sembra vantaggioso
è poi tale quando lo si valuti nella sua sostanza.
Attrae da lontano
ma poi vi si scopre una bellezza inutile;
ciò che sembra per noi vantaggioso
spesse volte è causa di fastidio o di disagio.
X

Il caprone e il tacchino
Mentre un caprone pascolava
all’ombra di un carrubo,
gli fa capolino, e con grande spocchia,
un tacchino e uno stridulo
sternuto gli scarica.
Sorpreso per l’imprevisto,
il caprone arretra;
l’altro a quella bravata,
vedendolo cedere,
crede che quello abbia
soggezione di lui
e gli si para davanti
con tutta la sua livrea,
superbo e minaccioso,
allunga e abbassa la cresta,
stende il collo e sbruffa,
sfidandolo alla lite.
Il caprone rinculando
si procura un buon vantaggio
guadagnando un gran terreno
così carica e dà una botta
che lo stende a terra
e conclude il combattimento.
Non provocate troppo
chi soffre e sta quieto;
troverete qualche ostacolo
che vi scombinerà i piani:
ricordate lo scontro
tra il tacchino e il caprone.
XI
L’ortolano e l’asino
Settecento metri di terra, metà a orto
metà a giardino, aveva un pover’uomo
e li zappava nella speranza
del guadagno che gli promettevano,
ma, non appena i frutti maturarono,
i ladri glieli rubarono di nascosto;
tuttavia, alberi, frutti non maturi
e ortaggi restarono intatti.
E così ripone sui futuri profitti
le sue speranze e si rincuora.
Ma per sua sventura accadde una notte
che l’asino spezzò la sua fune

e fuggì in mezzo all’orto e al giardino,
facendo strage di ogni cosa,
masticando la frutta anche non matura,
fracassando rami con gemme e innesti:
e in definitiva provocò ingenti sconquassi.
Il padrone, risvegliandosi al mattino,
più guarda e più impallidisce;
comprende il danno, la sua rovina:
I ladri – dice – provocano dispiaceri,
ma un asino libero e sciolto,
dove può far danno, è un vero terremoto.
XII
Il leone, l’asino e altri animali
Un leone vide un asino
che pascolava tra la gramigna,
lo squadrò, ma non lo ritenne
una preda degna di lui.
Tuttavia, gli si avvicina
per procurarsi un nascondiglio,
dal momento che faceva la posta
ad un orso di gran valore.
L’asino trema e si rannicchia
vedendolo avvicinare.
Il leone gli parla all’orecchio
e gli dice: non aver paura,
resta fermo davanti a me
e io ti proteggerò da ogni offesa.
L’asino si discosta
ed è mezzo morto di spavento;
pure, fa quanto gli è stato detto
perché non se la può più filare.
Così, come due amici, stanno
tutti e due vicini e allacciati.
Già da lontano il leone
scorge l’orso che fa capolino
e con un salto si lancia
e corre a dargli la caccia.
Gli altri aimali che fin dal momento
in cui il Re tra quelle contrade
era apparso, per paura
si erano tutti rintanati,
e avendo con attenzione
osservato attraverso gli spiragli
la stretta amicizia
che aveva accordato all’asino

cominciano a guardarlo
come un grande personaggio,
a onorarlo, a ossequiarlo
e a fargli anche omaggio
al punto tale che quell’animale
per tanti incensamenti
si è scordato quanto vale
e non si riconosce più.
S’ingannarono, e lui e quelli
che attribuirono al leone
quei meschini punti di vista
che sono diffusi tra il volgo.
Chi fa politica le sue intenzioni
le tiene chiuse a doppia mandata
e, per non farle trapelare,
annuncia oro e gioca coppe.
XIII
I cani e la statua
Seguendo il padrone, due cani
s’intrufolarono nel tempio di Apolllo;
qui vedono un gran numero di persone
inginocchiate davanti all’altare
dove era collocata una statua colossale
che raffigurava un dio in grandezza naturale.
Una cane dice all’altro: O Fortunato
marmo, che è venerato e adorato!
Risponde il compagno: Se non percepisce nulla
non può gustarlo né compiacersene;
se è munito di ragione, con essa comprende
quanto gli costi arrivare a quel posto.
Tu non sai quanti colpi di scure
di pali e mazze barbaramente
fu costretto a soportare all’inizio
per essere rimosso dalla sua miniera
e poi quanti altri colpi di scalpello
per somigliare a un dio sorridente e bello?
I posti più elevati, i gradi più alti
non si raggiungono tanto facilmente
costano serie e lunghe pene
che non si potrebbero mai sopportare
se la sfrenata ambizione in parte
non rendesse sorda ogni sensibilità.
XIV
Il gatto e il fabbro

Un fabbro aveva un gatto monello
che di notte diventava delinquente
e molto più a dicembre che a gennaio;
poi di giorno dormiva tranquillamente,
e dove credete che dormisse?
Nella fragorosissima bottega.
Quando poi cessava il fracasso,
perché si andava a mangiare,
si risvegliava e camminava piano piano.
Mentre si avvicina, il padrone lo rimprovera:
Bestia, riesci a dormire fra strepiti e soffi
e ti risvegli al rumorino delle labbra?
Gli uomini si possono abituare a tutto
e lo stesso vale per gli animali; ma l’istinto
non si fa sconfiggere dai singoli comportamenti
perché è posto a guardia della vita:
È per questo che un rumorino di labbra e piatti
basta a risvegliare uomini e gatti.
XV
La volpe e l’asino
Una volpe fuggiva tutta spaventata
guardandosi davanti e dietro
cercando una grotta per nascondersi.
Chi ti insegue? Le chiede un asino.
Nessuno. Hai commesso un delitto, un’offesa?
Non ho alcun rimorso nella coscienza.
Allora perché scappi, di chi hai paura?
Ti rispondo: Mi è stato detto che è uscito
ordine immediato della Corte
di catturare un toro cornuto;
non so di quale delitto sia accusato;
per farla breve, si crede colpevole di un attentato.
E tu cos’hai in comune con toro e vacca?
Beato tu, asino, che non capisci niente!
In questi imbrogli a lanciarti un’accusa
credi che ci stia molto un delinquente
o un invidioso o un nemico nascosto?
Basta che sostenga che ti è amico
o che affermi d’aver trovato
qualche traccia del tuo passaggio
in quei luoghi che lui frequenta
ovvero ottenute con altri mezzi illeciti.
Il giudice, o che sia pieno di zelo o ambizioso,
ti fa suo suddito dentro un buio carcere:

e cominci a soffrire ristrettezze,
a essere interrogato, esaminato;
nessuno ha il coraggio di parlare in tuo favore,
vogliono che tu racconti di quello.
Anche se tu fossi un tabernacolo d’innocenza,
è un gran miracolo se ne esci vivo.
Così concluse e se la batté. L’asino intanto
(benché fosse proprio asino) disse tra sé:
La paura viene da una coscienza offesa,
credo proprio che di vecchi peccati ne avesse.
Io che a questo mondo né caccio né minaccio
cammino sicuro per la mia strada.
XVI
Le formiche
Una formica mise le ali
e subito s’innalzò
sui cespugli di ortica
e delle erbe più importanti.
Le altre, che zampettavano per terra,
stupirono di quel volo
e ammirandola esclamarono:
Oh, che sorte! Oh, fortunata!
E da bravi adulatori
che là dove vedono posarsi
la fortuna, là le attenzioni
vanno tutte a mettere in opera,
così queste, anche di lontano,
con omaggi e rispetti,
affrettavano il passo
per ottenerne qualche incarico.
Ma rimasero ingannate
perché la sorte aveva stabilito
che le ali di quella e i suoi voli
fossero i preludi della morte.
Quando cade si sfracella
chi sta in cima alla scala;
ivantaggi della fortuna
son carezze date con la pala.
XVII
Esopo e l’uccello lingua-lunga
Esopo vede steso a terra
un uccello, ma comprende
che ci sta messo ad arte;

una lingua lunga sporge
dal becco, che la lascia
all’arbitrio di chi passa.
E infatti tutta piena
era già di formiche;
ognuna lecca, ma poi paga
tutto intero il suo debito
perché la lingua ritraendosi
finisce con inghiottirle tutte.
Esopo ride e dice: Ora io
né differenza né divario
alcuno vedo affatto
tra questo uccello e l’usuraio:
prima dà il prestito e poi
con le usure e gli interessi
tutto raggomitola e inghiotte.
XVIII
Le cappellacce
Si era trebbiato il frumento di un’aia
con i buoi aggiogati a varie pariglie,
ma la spagliatura non andò bene perché il vento
soffiò contrario e poi vennero le piogge
per cui la paglia rimase tutta in alto,
perché più leggera, e il frumento sotto.
Due o tre cappellacce di primo volo
vi andarono sopra a beccare
e ci rimasero deluse e irritate
maledicendo tutte quelle contrade.
Dicevano: Luoghi fatti per le stalle,
non siete degni d’essere abitati
che dai soli asini e cavalli.
Ma gli altri uccelli, più furbi e abituati,
scavano il fondo dell’aia
e trovano frumento grosso e biondo.
Quando in uno Stato ci sono fazioni
e partiti e disaccordo politico
gli uomini prudenti, saggi e buoni
stanno sotto, messi al coperto,
e lasciano alle paglie più leggere
di godersi gli onori e i privilegi.
XIX
Gli asini ed Esopo
Con i colli incrociati due asini

si grattavano l’un l’altro. Non vi legge
il volgo nulla più che asinità.
Esopo li guarda ed esclama: Oh menti leggere!
Questa è una gran lezione; approfittatene:
il reciproco bisogno regge
tutte le società e le equilibra,
l’uno grattando l’altro dove ha prurito.
XX
La cappellaccia e la cutrettola
Mi si consenta questo breve apologo,
un apologo che dedico a Don Ninnari.
Una cappellaccia osservava passeggiare
una cutrettola pulita ed elegante
che sembrava posarsi a terra appena appena,
semplice, galante e di collo leggero.
Disse tra sé: Vorrei chiedergli
cosa cerca così peperina.
Con questa eleganza, dimmi, che ci guadagni?
Si avvicina e vede che inghiottiva mosche.
XXI
L’usignolo e l’asino
Tra mirti coronati di alloro
un canoro usignolo appollaiato
gorgheggiava fino a perdifiato.
Cuori teneri e anime delicate
seguivano attente da una vicina macchia;
per il diletto avevano dimenticato
i guai da cui erano molestati,
quando all’improvviso insieme con la paglia un asino
lancia un raglio e subito scappa.
Quelli allora esclamano: Peste a questo mentecatto!
Grida un villano: Quest’armonia non stona,
io solo apprezzo l’asino che raglia
perché mi serve da basto e da sella.
La Musa è buona e bella
(dice il volgo preoccupato di guadagnarsi il pane)
ma suoni e canti sono fatti di vento.
Né canto, né strumento
né tutto Pindo basta a soddisfare
il tavernaio che vuole denari.
XXII
Il tarlo e il toro

Non lo nego, sei l’essenza
dell’onore e della costanza
e hai anche dato lo sfratto
a personaggi importanti;
e confesso che questo tale
che ti mostra affezione
non è un prevaricatore
né può preoccupare.
Ma ho in mente… Orsù raccontiamola,
una certa storia straordinaria
di un insetto detto tarlo
di natura noiosa.
Dunque, c’era in questi dintorni
un gran toro grasso e grosso
che avendo prurito alle corna
dava addosso a un vecchio tronco.
Sotto questi urti sporge un poco
la sua testa un vermicello
e poi grida: Olà, chi c’è qui?
Chi mi danneggia il tronco?
Non si degna di rispondere
il pascià degli armenti
e pensando di stordirlo
dà forte di contro al tronco.
Il vermicello se ne ride
e poi esclama: Ci scommetto
che la forza in cui tu fidi
qui si perde senza risultato.
Io son convinto di provarti
in modo evidente e certo
che può di più la calma e il saper fare
che la forza e la possanza,
sia perché il toro era già stanco
per gli sforzi che aveva fatto
sia perché era già venuta meno
la sua boria e la sua bizzarria,
fa una pausa e dice: Orsù
io ti accordo una tregua:
per primo dimmi chi sei tu?
Dove ha origine la tua baldanza?
Io sono un essere – risponde –
Di misure non proporzionate,
il mio corpo non corrisponde
alla grandezza delle azioni:
questo tronco, che nello scontro
azzannò le tue corna

me lo rosicchio come un tozzetto
io posso farlo e tu non puoi.
Vattene, sei pazzo, dice e va via
il gran toro; ma l’insetto
non si allontana dal tronco
né abbandona il suo progetto
al punto che, trascorso
più di un lustro, oh meraviglia!
il gran tronco, svuotato,
fatto polvere e segatura, rovinò!
Che ne dici tu, cuoricino,
con il bel tuo talento?
È stato solo un vermicello
a produrre questo portento!
XXIII
Il cagnolino e la cagna
Un cagnolino scopre una trottola
scorrere e girare intorno da sola;
per inesperienza la crede un animale
che come lui ha voglia di giocare,
perciò si avvicina timoroso,
ma viene respinto con una spallata.
Gli si ferì il muso a tal punto
che rinculando corse in un angolo.
Credendo che suo figlio stia male
la madre esce e mostra i denti
e, vedendolo tremante e stordito,
gli chiede: Chi è stato? Che ti hanno fatto?
Lui risponde: C'era un animaletto
che da solo girava e correva;
mi avvicino per annusarlo e appena sfioro
mi dà una spinta e mi fa male...
Guarda, guarda che torna di nuovo!
Disse e spaventato si gettò indietro.
La madre sorride e poi esclama: Oh, babbo!
Questo è un pezzo di legno. La sua forza,
il suo movimento viene dalla mano
del ragazzo che lo lancia e gli dà forza;
tutto il suo potere e tutto quello
spirito che dimostra non gli appartiene.
Sai, più o meno è così: il padrone
per spasso e per diletto accoglie in casa
(come tu sai) Ruffinio e Corbellone:
sembra agli sciocchi di vedere in questi
con la grazia del padrone in fronte

un superbo Gradasso e un Rodomonte.
Ma se togliete ad essi la grazia
non avranno più 'fumi' né valore
diventeranno trottole 'scacate'
scoprendo ognuno la propria essenza,
perché, tolta a loro l'indole maligna,
in sostanza non sono che tronchi e legni.
XXIV
Il riccio, la tartaruga e il cane
All'ombra di un pistacchio alla tartaruga
disse il riccio: Oh pazza! Fa scirocco
e tu cammini con visiera e corpetto
e per di più vi porti sopra il cappotto.
Risponde quella: Tu scopri i peccati degli altri!
E perché armato di frecce e spada
cammini in tempo di pace, faccia d'asino,
come se dovessi affrontare un assedio?
Nel mentre che altre ingiurie sono pronte a uscir fuori
interrompe la discussione un cane bracco
che li investe e li sbatte come bocce
e poi dice: Ognuno stia al proprio posto.
Sa di più in casa propria un pazzo o un idiota
che in casa d'altri un saggio e un vegliardo.
XXV
L'asino-uomo e l'uomo-asino
Un brav'uomo possedeva un asimo molto stupido.
La sorte, che è bizzarra e stravagante,
muta l'asino in uomo e il padrone
lo tramuta in asino; ma com'era prima
rimase in essi la mente, perché non basta
la sorte a cambiare l'indole.
Considerate che pene e affanni
debba patire un uomo che ragiona
sottomesso a un grande e grosso asino
diventato uomo per capriccio della sorte!
Eppure, si affatica con coraggio eroico
e la necessità lo fa stoico.
Accadde che, dovendo intraprendere
un lungo viaggio l'asino-padrone,
cominciò a caricare l'asino-servo
di mucchi di bagagli e di robe
senza pensare che non poteva
reggere al gran peso e alla fatica.

Il poveretto così caricato con enorme sforzo
tira avanti e si affatica per un miglio;
all'altro miglio il passo è più lento
e suda e stenta a mettere avanti i piedi;
ogni pietruzza gli è d'ostacolo
mentre l'altro gli dà mazzate a tutta forza.
Infine, nei pressi di un burrone
inciampa, cade e su di una roccia
si spacca la testa e si fa male a un'anca.
Per la rabbia il padrone bestemmia,
ma il suo bestemmiare non ridà
vita all'asino, né può portare il bagaglio.
Il solo rimedio che gli rimane
è accollarsi il carico di quello
e, in parte sulla schiena e in parte sulla testa,
andare a caricarlo su di sé,
cosa che gli riesce più pesante
quanto meno era abituato a portar pesi.
Stenta, suda, si affanna, spinge forte,
cade, si solleva, si sconquassa ed ecco
come l'animale, a scorno della sorte,
torna così com'era ed è due volte asino
e come tale, con il carico addosso,
finisce col precipitare in un fosso.
La sorte è un vento che solleva gli asini
e fa compiere loro dei voli soprendenti
ma poi da se stessi cadono di nuovo.
Se cadessero loro soltanto sarebbe nulla,
ma il più delle volte sono perniciosi
agli uomini onorati e virtuosi.
XXVI
La rondine e la patella
Stanca dei viaggi, sopra uno scoglio
chiuse le ali e si posò una rondilella;
poco più giù c'era una patella
che le offrì il suo guscio come tetto.
Ti ringrazio, le disse, non lo voglio;
ma tu stai sempre qua? Oh, poverina!
Io giro mari, paesi, castelli,
vedo tutto e dopo me ne vado.
Dimmi – le domandò l'altra – i luoghi che hai visto
sono di acqua e terra? Sì. Ci sono animali? Oh, quanti!
Gli uomini hanno due piedi? Come questi.
Ci sono pericoli per la nostra vita?
E chi lo può dire? Basta: non andare avanti:

tutto il mondo è come la nostra casa.
XXVII
La formica e la cappellaccia
È vero più che non si dica: i progetti
del povero mai, mai giungono a buon fine:
suda, lavora, fa conti e riepiloghi,
per due soldi finisce con il volto tra le spine,
risparmia, si lambicca, dimagrisce,
viene il diavolo e glieli piglia.
Una formica con grande fatica,
andando su e giù per campagne e pianure,
aveva messo da parte un po’ di frumento
che aveva conservato in oscuri sotterranei,
sperando, con questa piccola riserva,
di reggere l’inclemenza dell’inverno.
Giunge intanto l’autunno e una tempesta
gli inonda tutte le provviste
che sebbene rimangano conservate così come sono
si ammuffiscono e si corrompono;
intanto, aspetta che inchiarisca l'aurora
e la tira fuori per asciugarla.
Aveva appena uscito da sotto
l'ultimo chicco, che cala affamata
una cappellaccia e glieli mangia tutti
dicendo: qui la tavola è apparecchiata,
per davvero la Natura ha avuto giudizio:
ha creato la formica al mio servizio.
Dall'altra parte, amareggiata, afflitta
considerate quanto resti l'altra!
Io, dice, ho lavorato, e quella maledetta
s’è mangiato tutto, che le faccia veleno!
Oh, cielo! Tu che sai quanto mi costa,
perché mi rendi quest’ingiusto compenso?
Intanto che l’afflitta sfogava il suo dolore
contro il Cielo, vide nel cielo un nibbio
che andava inseguendo la cappellaccia,
e già la stringe tra i crudeli artigli.
La formica osserva il tutto e poi dice:
Ben le stia, ma intanto io sono infelice.
La sua morte crudele e il suo male,
sebbene appaia come una vendetta,
non mi consola e per nulla vale
a compensare neanche in parte la mia perdita;
ho sofferto pene, è sfumato il risparmio

e intanto mi perseguita la fame.
Ma è male assai maggiore, se non sbaglio,
essere inseguito dal nibbio
giacché, se il lavoro è pena,
si può definire salmoriglio
che, a parte fornire il cibo,
gli dà sapore e ce lo fa gustare.
XXVIII
I cani
Due cani parlano così:
Tu incatenato! E per quale delitto?
Non è un castigo, sono carezze umane;
con me il padrone ci guadagna:
mi ha visto cacciare per le pianure,
mi apprezza e teme che gli venga detto:
Lo rubarono o si è perso; perciò un pane
e ossa mi dà e mi tiene quì legato...
Intanto, in premio delle tue capacità,
il tuo buon padrone riconoscente
ti ha privato della libertà?
Se i meriti e le capacità in questo modo
sono premiati dagli uomini sulla terra
è una gran fortuna non averne niente.
XXIX
L’usignuolo e il gufo
Un usignolo disse a un gufo:
Di’, quest’amara scocciatura è canto o pianto?
Rispose quello: ‘Pischello’ ignorante,
che canti all’aria messo in punta di spillo,
se non conosci il contrapunto sei dunque citrullo!
Sai dividere il tempo battuta per battuta?
L’altro lo interrompe: Sarai un buon pedante,
ma non per questo sei un bravo cantante.
XXX
Il merlo e il pettirosso
Un merlo vide con le ali cadute
alcuni pettirossi e domandò loro:
Che vi è accaduto che siete deperiti?
Tu, perché zoppo? E tu, perché spennato?
Risposero: Ci siamo divertiti
con una civetta e finimmo in una trappola.

Disse quello: Ohimè! Con smorfie e giochettini
queste malnate civette rovinano gli uccelli.
XXXI
La scimmia e la volpe
Vi scrivo e vi presento tale e quale
il dialogo com’era trascritto
dentro l’originale tarlato
tradotto dal Vecchio. È molto breve
perché traduzione letterale;
di mio non ci ho messo proprio nulla;
lo ripropongo così com’era.
Vi dico prima che per prima parla la scimmia.
Comare, come state? Ih! Molto male!
Riguardatevi! E come? Questa malattia
è di un tipo che non si può curare.
E perché? Perché è mal d’età.
Davvero! Poc’anzi me ne accorsi
ché avevo tutti i fianchi spelati.
E questo è niente; ci sono altri guai.
Quali sono? Sono molle per metà.
Poverina! Piango questa vostra mollezza!
Per questo buon servizio voglio all’orecchio
darti un ricordo. Accostati subito.
Ah, tu mordi! Ahi-ahi! Metti giudizio:
volpi e lupi non cambiano natura,
perderanno il pelo ma non il vizio.
XXXII
L’orso e il ragno
Sazio di miele fino al naso,
un orso riposava nella tana.
Un ragno, appeso alle sue molli reti,
gli si para davanti e dice: La Sovrana
Altezza Vostra come può sopportare tranquillamente
i molestissimi e invadenti insetti?
È vero che è un gran disonore il suo
mettersi a tu per tu con loro,
ma può affidarne a me l’incarico.
Li attacco e lego forte tutti quanti sono.
Fermo e piantato davanti alla porta
sarò una sentinella che vigila.
L’orso accetta l’offerta, ed ecco un velo
vede disteso davanti l’ingresso.

Ma poi comprende che non è tutto zelo,
giacché ogni mosca che rimane intrappolata
è preda del ragno che se la succia
e le asciuga la testa e le vene.
Ma anche questo avrebbe sopportato,
ma quando poi vide che vespe e api
entrano liberamente, come fosse spalancato
dice: Questa rete sa d'ingiustizia:
tiene a freno i piccoli ma non funziona
per i grossi che provocano maggior male.
Concludo: O tutti o nessuno. Disonore
io reputo e cosa vile il dominare
i deboli e gli inermi. Tu cerchi
solo il tuo vantaggio e vuoi lasciare
a me la nomea di vile e di tiranno?
Profondati e vattene per la tua sventura.
XXXIII
La lepre e il camaleonte
La lepre disse al camaleonte:
tu mi sembri un insieme di portenti.
Ogni volta che ti osservo tu ti presenti
di aspetto e di colore differente;
e, a parte questo, capisco ancora
che tu ti nutri d'aria e di vento.
Rispose: Per punizione da Giove fui
tramutato dall'originario aspetto umano
perché per ambizione queste prove
facevo quand'ero cortigiano.
Riprende l'altro: Cerca il tuo simile,
dunque, nelle anticamere e nelle sale.
XXXIV
I vermuzzi
L’interesse personale dipinge a noi gli oggetti
ora buoni ora pessimi, a seconda
da dove ognuno si mette a osservarli.
L’esperienza abbonda di questi fatti:
tra i tanti il Vecchio vi consegna
due vermetti su di un filo di gramigna.
L'uno domanda: Collega, che si dice?
Risponde l'altro: Guai! Ci sono cattive notizie!
È già libero il campo dei nemici
per fare crudeli esperimenti su di noi;

arrivano i feroci agnelli a divorare
queste erbe; e noi che vi abitiamo?
Riprende quello: E i banefattori
lupi, benigni lupi, ci abbandonarono?
Sono stati il terrore degli agnelli,
vegliando sempre per la nostra salvezza:
per merito loro ancora intatta si è conservata
la nostra vita che è affidata a quest'erba.
Ahimè! Esclama l'altro, ahimè! I cani
e i pastori armati e in gran numero
li assalirono fin dentro le tane
e ne fecero orribile scanna.
I barbari ne fanno tripudio,
noi piangiamo in loro il nostro danno.
XXXV
La volpe e il lupo
Una volpe, montata sulla finestra
di un casolare vecchio e inabitato,
scrutava giù verso macchie di ginestra;
un lupo, vedendosi osservato,
le domanda: Ti devo qualcosa? Lei sorride
dicendo: Ho calcolato quanto pesi.
Tu non sei tanto leggera, lui rispose,
ma pure se tra noi ci fosse alleanza
tenteremmo le imprese più azzardate.
Stabiliamo un trattato; pensa, spiega,
detta le leggi tu che io tutte quante
giuro osservarle come sagge e sante.
Molto bene, disse lei, in coscienza
so quanto può averne un lupo,
onore ne può avere solo in prestito;
insomma, se Giove per te non è che un pupo,
se in te non c'è posto né per fede né per probità
su che si posa e si fonda questo trattato?
Sul reciproco vantaggio, riprende
il lupo. Ma la volpe: Qua ti voglio.
L'amor porprio non dorme, veglia sempre
e se gli torna utile un imbroglio,
calpestando ogni trattato, pospone
l'utile comune al privato.
Dunque, riprende l'altro, già si capisce
che con il tuo modo di pensare
solo la guerra è quella che decide...
E quella: Che altro si può sperare da te?

Dov'è radicata la malizia
non puo mai properare l'amicizia.
XXXVI
L'ingratitudine ossia la vecchia e il porco
Una vecchia, che tirata
s'era l'acqua da un pozzo,
ne versò il secchio
in un catino e poi si lavò.
Un porco, arso di sete
vedendo l'acqua, corre
e senza cerimonie o inviti
arriva e se la pappa.
Non pensa di fargli del male
la pia vecchierella
e ha piacere che quell'animale
si sazi e se la goda.
Bevendo quanto può,
il porco non tralascia
di agire da par suo:
il catino le fracassa.
Davanti a questo sfracello la vecchia
si strappa i capelli e si contorce,
dicendo mesta e afflitta:
Fate bene ai porci!
XXXVII
Animali notturni e Giove
Lupi, volpi e altre bestie da rapina,
uniti ai gufi e ai barbagianni,
presentavano istanza a Giove ogni mattina
contro Febo perché spande sulla terra
tanta luce per la quale sono costretti
a rimanersene rintanati in grotte e tane;
e che d'estate ruba loro le ore migliori
di scorrazzare per i campi e cercare
le avventure da cavalieri erranti:
concludevano infine che chi fare
volle la luce poteva farne a meno,
bastando il sereno della notte.
Dapprima Giove usò la flemma, infine,
stanco di tante bestiali richieste,
dice loro: Vergognatevi, insolenti,

che siete molto al di sotto degli altri animali;
perché a voi la luce non garba
ne volete privare l'universo?
Senza luce, come si vedrebbero
le mie opere magnifiche e perfette?
Chi darebbe vita ai viventi? O siete pazzi
o furbi, ché alla chiara luce temete
esporre i vostri comportamenti malvagi.
Se mi fosse permesso,
direi che se la luce è una sostanza
che rischiara i corpi, la scienza
rischiara le anime e ottenebra l'ignoranza.
Chi si regola e si comporta da saggio
passa indenne tra l'una e l'altra luce.
XXXVIII
La sorti ossia i semini e i venti
Due cespi di cicerbia:
l'una si ritrova nata
sopra una finestrella,
e l'altra sulle cime
di una torre alta e sublime.
Queste due con il favore
di tutti gli elementi
crescono e fanno fiori;
questi fiori infine
producono i semini
pieni di filamenti.
Ormai secchi e maturi,
questi semini vanno,
trasportati dai venti,
vagando nell'aria
facendo loro da vela
i filamenti e i peli.
Perciò accade spesso
che quella nata in basso
s'innalza e lo stesso vento
poi la lascia sulla cima
della gran torre e cresce,
prospera lì e fiorisce.
Al contrario, l'altra nata
com'era tra tanta altezza,
dopo aver nuotato nell'aria,
cade nella spazzatura
in luoghi vili e bassi

dove germoglia e nasce.
Può quella andar superba
e disprezzare questa?
Forse si deve a lei
d'essere ben provvista
di un luogo alto, eminente?
Fu il lavoro dei venti!
XXXIX
I caproni
Mentre in uno steccato numerosi caproni
si scornavano tra di loro,
ne fu acchiappato uno da un macellaio
che gli infilò un ferro nella gola
e davanti a tutti l'ammazzò,
lo gonfiò, lo battè per bene e lo scorticò.
Gli altri si erano mossi per vendicare
il loro compagno morto e in quel momento di certo
erano in condizione di poterlo fare,
ma l'accordo non durò molto
perché teste di caproni e teste numerose:
pentola d'una comunità non bolle mai.
Da molti veniva detto che l'ucciso
era superbo e pieno d'arroganza:
cosa scombina la sua macanza?
Un minor consumo d'erba e la sua parte
fa crescere la nostra perché si divide tra noi.
Davanti a questa consolazione si erano calmati,
quando il macellaio entrò di nuovo
ed ecco, cade un altro caprone ucciso.
I superstiti tornano a pensare,
fremono, ma poi trovano anche in questo
i suoi difetti: che era falso e malvagio.
Si accorgono poi che la processione
seguita a lungo, né cessa la strage;
vanno entrando in costernazione
e in timore per la propria pelle;
perciò tengono consiglio espressamente
per trovare un valido espediente.
Ma, mentre ci si consulta e si dibatte
da una parte e dall'altra ogni progetto
e si riflette sul pro e il contro
mezzo gregge è già spacciato e tagliato
perché, scannando a dritta e a manca,
il macellaio tempo non ne ha perso.

Gli ultimi, ah troppo tardi!, appresero, a spese loro,
che doveva farsi un ponte tra gli odii privati,
avendo il nemico accanto!
E che nei pericoli grandi, le pronte
e più ardite risoluzioni
sono gli unici mezzi buoni a salvarci.
XL
Il lupo romito e il cane
Un vecchio lupo che non poteva più
scorrere le campagne e uccidere,
fattosi un romitorio, vi si chiuse;
si adatta gli zoccoli ai calcagni,
una corda per cintura e sulla schiena e la testa
una mezza pelle d'asino per copertura.
Con i piedi incrociati davanti
gli occhi bassi, steso sulla porta
a chi passa di là la carità
domanda in tono umile e poi lo esorta
a fuggire ogni vizio e ogni vana gloria
e sopra tutto la carne mondana.
Tra le tante bestie che ci sono al mondo
ne trova alcune stupide a tal punto
che credono questo lupo di buon cuore,
semplice e senz'ombra di male;
questi, a chi più poteva, facevano a gara
per dargli carne e pane e caci e uova.
Lo vede un cane e dice: Eh, via, si sa
che tra i lupi la devozione
è un vecchio stratagemma e più non entra
né trova spazio nelle teste buone.
Sei venuto in brutti tempi; in quest'età
non si crede più ai lupi in maschera.
Almeno, riprese l'astuto lupo,
mi devi essere grato perché vivo
da saggio, né faccio più l'avventuriero,
né sono più pericoloso per le pecore.
L'interruppe il cane: Ma questo bene
che tu vanti, certo non viene da te:
viene dalle tue forze ormai mancanti
per cui non puoi più fare maggior danno
che ottenere per pura elemosina
ciò che arraffavi rubando:
insomma, qualunque personaggio fai,
lupo sei nato e lupo morirai.

XLI
Il banchetto dei topi
Un topo di alto rango, perché nato
in un campanile, essendo un giorno
sceso a terra, vide in un fossato
tanti altri topi attorno a un immondezzaio.
Li compiange dicendo: Oh, miserabili!
Poi si rivolge loro in modo affabile:
Ci penserete a ripulirvi! E quando?
Perché abitare in luoghi spochi e bassi
respirando sempre l'aria più inquinata?
Innalzatevi. E ognuno si specchi
in me che abito dove batte ogni vento
al sicuro da trappole e da gatti.
E, per far vedere che è vero
quanto dico, v'invito per domani
a cenare con me nella mia tana,
se avrete il coraggio di salire
quella torre o guglia che si vede a mezz'aria!
I topi accettano e, contento
ognuno, se ne va e aspetta con ansia
l'ora stabilita dell'appuntamento
per partecipare a questo solenne invito.
Molti però, di umore più spocchioso
non ci vogliono andare a mani vuote:
ma chi porta creste di formaggio,
chi tozzi di pane duro, chi castagne e noci,
chi fichi secchi per il companatico
e chi mollichelle dolci di torte.
Così, all'ora stabilita, tutti
si fecero trovare al banchetto.
Il baronetto del campanile
li riceve con molte cerimonie;
li fa entrare attraverso un solaio
al di sopra di un cornicione dove contenti
vedono disposti come su un terrazzo
pane, lardo, prosciutto, sedani e formaggio.
I convitati ammirano stupefatti
il luogo, la veduta, l'alta dislocazione,
comiciano a passeggiarvi e sospirano.
Infine, si pensa al banchetto:
si affilano i musi e ci danno dentro
per consumare in allegria quella roba.
Mentre si trovano nel bel mezzo del divertimento,

il sagrestano fa suonare le campane;
i topi, non abituati a quel frastuono,
non capiscono se sono fulmini o tuoni;
sembra loro che il mondo si sprofondi
e lo spavento li stordisce e li confonde.
Il Barone ha voglia di gridare:
Non spaventatevi che è cosa da nulla!
Si sgola invano, non li può fermare,
il solo che si sente è il rimbombo;
quelli atterriti corrono a tentoni
precipitando dal cornicione.
Il topo del luogo si dispiace
per non aver previsto questa frittata:
Ma io non ho colpa, dice e si tranquillizza;
mangia e si gode la scampanata.
Il traduttore si è fermato qua,
ma io aggiungo questa morale:
l'esperienza ci fa sapienti e le armi
ci somministra per reggere con costanza
contro i colpi dei falsi allarmi
e ci insegna a distinguerli all'istante
dai veri pericoli; e, infatti,
è utile all'uomo, ai cani, ai topi e ai gatti.
XLII
La moglie del corvo e la gru
Stava triste e sconsolata
la moglie di un corvo: passa e domanda
una gru: Dimmi, cos'hai? Sei malata?
Rispose: Molto, ma di malincomia.
Mentre aspettavo qua il ritorno
di mio marito, una volpaccia maligna,
fingendosi già morta, distesa
stava in mezzo alla via a pancia all'aria.
Quello se ne accorge, si abbassa, l'afferra,
lottano in aria, ma la volpe uccide
il corvo e tutti e due cadono a terra.
Disse la gru: Questo mondo è un gran teatro!
C'è chi piange e chi ride! Ma non ride
a lungo la moglie del ladro.
XLIII
Il topo e la tartaruga

Una tartaruga dormiva sotto un cespuglio,
un topo la tocca, la sente dura,
la crede pietra o radice di tamerice;
allora pensò di farne la prova,
ma mentre gli affonda sopra i denti
la sente rimescolarsi e mettersi in moto.
Si sposta, l'osserva tutta intera
e si accorge che ha testa, occhi e bocca.
Dice tra sé: Nell'aspetto è un animale!
Ma trasporta la casa dove si addormenta!
Forse ha molto da perdere e delle serrature
non si fida; al giorno d'oggi s'aprono coi fuscelli.
Domanda: Perché ti prendi questa pena
di portare la casa dovunque vai?
Quella risponde: Per stare serena
dove mi piace, e non avere mai
al mio finaco un cattivo vicino,
che è preludio di pessimo mattino.
XLIV
Gli scarafaggi
C'era, sparsa per terra, della stoppa
perché là avevano cardato i fusi di lana
Uno scarafaggio ne accumula e carica
sulla sua schiena una gran quantità,
pensando di diventare maestoso e grande
con addosso quel vistoso ingombro.
Mentre cammina si sente tirare
i piedi da dietro... si gira e guarda,
ma voltandosi si sente impacciare di più
e avverte un non so che che lo rallenta!
Vede che tra le gambe c'è un garbuglio;
si dà coraggio e dice: Me ne libero.
Tenta di slegare un piede e, mentre spinge
l'altro in aiuto al primo, quello sospinto
s'imbroglia e si impiglia in altri fili.
Torna a voltarsi e sempre più si trova legato...
infine, si confonde e chiama in aiuto
uno che aveva molto sentito e visto.
Costui, senza smuoversi, dice: Hai voglia,
amico, di gridare quanto puoi:
chi si è creato degli imbrogli se li sciolga.
Gli imbrogli (gira e volta quanto vuoi)
sempre sono imbrogli. Guai per chi imbroglia
e per chi si intromette per scioglierli.

XLV
La patella e il granchio
Nel mentre che una patella
dormiva tranquilla
e forse sognava,
un granchio la sorvegliava,
importuno e ostinato,
vicino al suo muro
e in questa postura
stette più giorni e notti.
Accadde che, trovando lei il coraggio
di aprire uno spiraglio
per vedere se intorno
si fosse fatto giorno,
quello, che sempre nei pressi
di là restava instancabile,
attento approfitta
dell'istante opportuno
bastandogli questo spiraglio
per mettere in opera la tenaglia.
Entrando la punta
fa leva e smonta tutto
il coperchio che le fa da tetto;
ed ecco che l'insetto,
che per timore e spavento
s'era tanto controllato
non appena per un minuto
si è trascurato, è perduto
e viene divorato!
Guai, guai a colui che è insidiato!
XLVI
I corvi e il tordo
Due corvi si scrollarono
dei loro affari su una roccia
e poi qui intonarono
una solenne chiacchierata.
Spartitesi le lodi
e i complimenti prima,
parlarono poi di moda,
di fidanzati e di matrimoni.
Sparlarono i vicini,

le suocere, gli amici
e alla fine si confidarono
i loro intrighi galanti.
Si dissero dove erano
situati i nidi,
quante cornacchine avevano
già mezzo impennate:
ne compiangevano molte
schiacciate quand'erano uova e morte;
insomma, ciarlavano
e sempre a voce alta.
Un tordo, che passando
le ascoltò, disse: Oh sciocche,
che andate gridando!
Abbiate paura anche di queste rocce;
né chiacchiere, né lamenti;
ci vuole silenzio:
le macchie hanno orecchie,
le pietre hanno parole.
E come se profetato
avesse il tordo, un gufo
avevano risvegliato
che teneva lì il suo nido.
Costui, avendo appreso
i luoghi indicati
dove avevano messo
le cove e le nidiate,
giunta ormai la notte,
vola via di là e fugge;
raggiunge i luoghi e in quattro colpi
si sbafa nidi e corvicelli.
XLVII
Il pastore e la serpe impastoia-vacche
Spesso, per riparare a qualche male
o per dare a un delitto la sua pena,
se ne affida l'esecuzione a certi tali
ai quali il fiato puzza più che ai colpevoli.
Eccone un esempio tratto con cura
dalle tarlate traduzioni.
Un pastore possedeva vacche viziose e truffaldine
che spesso andavano per viottoli tortuosi
producendo danni ai seminati e agli orti
producendo noie, perdite e liti.
Mentre quello gridava loro: Avò-irri-arri

gli si avvicina una serpe e parla in questo modo:
Per servirti, a costo della mia morte,
mi offro di impastoiarle per i garretti.
Il pastore accetta il favore
perché della serpaccia traditrice
non vede l'inganno remoto.
Ferma le vacche, è vero, ma in poche ore
succhia loro latte e sangue a gran velocità
e lascia pelle e ossa pulite e nette.
XLVIII
Le scimmie
Le scimmie da lontano avevano visto
fabbricare dagli uomini un gran tempio;
e mentre ribollivano loro le mani
per fare quello che vedevano fare,
all'improvviso venne loro il capriccio
di fabbricarne uno uguale a quello.
Pertanto, tutti quanti si impegnarono
a trasportare i materiali
di legna, pietre e argilla: risparmarono
soltanto (in virtù delle loro unghie) le scale:
mettono mano all'opera e, per sventura,
ogni scimmia è ingegnere e capo-mastro.
Ognuno fa da capo e da architetto
e costruisce a suo modo, iniziando
uno dal soffitto e dal tetto,
un altro viene innalzando la cupola;
c'è chi inizia dal campanile,
c'è pure chi comincia dall'altare.
Tutti questi pezzi rimangono isolati
senza le basi e senza fondamenta;
pertanto, alle prime ventate
precipitano a terra e ogni scontenta
scimmia costruttrice, che rimane sotto,
sconta la pena della sua bestialità.
Le opere che più si ammirano (ne convengo)
sono da imitarsi; però, controllate
prima se ne avete le forze, l'ingegno,
le situazioni, i mezzi adatti:
perché agire senza piani, né progetti
significa imitare le scimmie.
XLIX
Il cinghiale e il cane corso

S'eran stanate delle fiere in bosco
e un cinghiale e un cane corso, mortalmente
feriti entrambi in una valle,
urlavano di rabbia e di dolore;
uno aveva due palle nel petto,
l'altro zannate nel ventre e nelle spalle.
Il cinghiale, avendo sentito il lamento
del cane, gli dice: Io piango e soffro,
ma tu non ridi e per niente sei contento;
ora in quest'ora estrema dimmi almeno
perché sei nemico della mia razza? Quale
vantaggio vi dà il nostro male?
Risponde: A parte l'stinto che ci spinge,
noi siamo nati e viviamo servendo
con l'obbligo di esporre la vita
al capriccio o a un cenno del padrone;
siamo soldati addetti al servizio
dell'ambizioso conquistatore.
L
Cane maltese e cane di mandria
Una pastorella sedeva sotto un pioppo
e le pascolava accanto un agnellino
mentre lei teneva per il ciuffo
un cagnolino maltese che era scappato
per istinto vagabondo
a una dama che viaggiava.
A una certa distanza un forte e grosso
cane di valore della sua mandria
a ridosso stava in guardia;
ma al piccolo (che era ardito e presuntuoso
perché protetto) gli montò la rabbia
e minacciò di far guerra all'altro.
Lo stringe forte e intima
al grosso di andarsene: Su, sparisci,
gli dice, pane perso, mala razza...
Intanto, ecco, compare un lupo
e si lancia verso l'agnello. All'istante
la pastorella cade svenuta.
Il cagnolino fugge e fugge ancora,
ma il coraggioso cane di mandria
blocca il lupo e viene in aiuto dell'agnello
e, dopo un sanguinoso combattimento,
il lupo ebbe la peggio e fuggì

mentre il cane tornò coperto di sangue.
Venuto a sapere dell'accaduto, il pastore
disse alla figlia: Hai visto che pericolo?
Se il cane di mandra non ti stava accanto
quel cosino ridicolo ti poteva salvare?
Quando non puoi unire l'utile al diletto
non posporre l'utile al piacere.
LI
L'asino e l'ape
Vizio fastidioso e cattivo
è quello degli asini:
cacciare il muso dappertutto,
ostinarsi in bizzarrie.
Ciò si può vedere
in una luce più chiara
da quanto viene a raccontare
il Vecchio traduttore.
Sospesa ai due capi
da travi, una tettoia
molti alveari d'api
copriva lungo un muro.
Un asino, che tolto
s'era il capestro,
si era avvicinato a loro
col sussiego di un ministro.
Verso gli alveari
sporge all'infuori il muso,
ma le api sentinelle
attente e vigili,
appena appena
lo vedono avvicinare
gli sussurrano all'orecchio:
Qui tu non hai che fare,
non è posto per te,
gira, vattene sull'erba
perché di lei ti può saziare,
è lei che ti fa vivere.
Ma predicarono a un orto
di cavoli e di torsoli.
L'asino è davvero storto,
ignorante grasso.
L’ostinato risponde: Per forza
che voglio star qua: pretende
rispetto la mia superiorità fisica:

da voi non accetto ordini.
Questo atteggiamento fu in poco tempo
riportato al loro interno,
ed ecco tanta fiamma,
tanta rabbia esplode in loro
che ogni ape è già un Achille,
armata di lancia e di freccia;
escono a mille a mille
con irruenza gagliarda;
una squadra attacca gli occhi,
e un nugolo si divide
tra le orecchie e le fessure
d’ogni più segreta parte;
tre squadre intere
numerose quanto la sabbia,
puntano alle piaghe
che quello ha sulla schiena.
Le gambe non sono esenti
dall’attacco tremendo,
ma quattro reggimenti
le vanno a saccheggiare.
Per aumentare le smanie
più squadre e battaglioni
si avventano contro il naso
con frecce e con spuntoni.
Gonfia come un otre al vento
l’asino in un istante,
sferra calci, si lamenta,
si scuote inutilmente.
Comprende, seppur tardi,
quanto pericoloso
sia l’essere testardo,
l’essere presuntuoso.
LII
Il corvo bianco e il corvo nero
Dalla Lapponia piombò
su queste spiagge stanco,
sbattuto dalle tempeste,
un raro corvo bianco.
Si posò, cominciò a calmare
l’affanno e il fiato;
poi cerca di ritrovare
i corvi della sua specie.
Ne scopre uno stormo nero

e dall’aspetto e dal linguaggio
capisce che questa specie
è al suo livello.
Vola e li raggiunge sul terrazzo
di un antico torrione:
dice loro che desidera
essere compagno e amico.
Se non si accordano i colori
dell’ali e della schiena tra di noi,
né la tonaca fa il monaco,
né chierica fa prete.
All’inizio i corvi,
sconcertati da quella novità,
lo guardano ammirati
in alto e ai lati;
ma non trovandogli parte nera
dicono: Costui tra di noi
con questo biancore attira
gli occhi e di più ci mette in ombra.
Di conseguenza, lo canzonano
Dicendo: Non è cosa onorevole,
non è decente né conveniente
questo colore per i corvi.
Mai accada che una nostra femmina ci scodelli
una simile meraviglia,
per noi sarebbe un grande scandalo
un corvo che somiglia a te.
Il merito, che è in altri,
e non si riflette in noi,
o viene considerato un demerito,
o rimane soffocato.
LIII
La formica
In una pianura c’era una rupe
e questa aveva in cima
una pietra e poi un’altra
sopra questa prima.
Una formica che cercava
qualche raggio di sole
s’arrampica sopra la pietra
che stava più in alto.
Mentre prende il sole
vede vicino alla testa
sibilare e piovere intorno

una tempesta di pietre.
Si trattava di alcuni giovani
ch’erano andati alla ricerca
di pietre poste in alto
da servir loro da bersaglio.
Vedendo passargli accanto
questi regali, l’insetto
si precipita a terra
come se avesse le ali.
Appena arrivato, il fucile
prova un cacciatore
e punta a quella pietra
che si trova sopra le altre.
La povera formica,
a quella strana botta, trema,
vede cadere la pietra,
subito si rintana
e dice, intrufolandosi
all’interno di quei luoghi chiusi:
Posti eminenti!… Cacchio!
Che sono pericolosi!
LIV
La mosca
Una mosca si reputava cosa grande
perché sopra il re e la regina
passeggiava e assaggiava le portate
preparate in cucina dai cuochi;
e pensava anche di poter vivere insieme
con il superbo toro e il leone.
Con la testa piena di questi vani fumi
non considera più la sua fragilità
e si arroga tutto a proprio merito
che non abbia limiti nel suo andare.
Non sa che quando lei si posa, la persona
che ce l’ha addosso non si accorge di lei.
Intanto, se i re e le regine
sono appena calcolati da questa mosca,
figuriamoci gli insetti più meschini
di quale occhio possono essere guardati!
No, non usare tanta superbia, abbassa le ali;
su tutti spaventati di questi tali.
Tardi e senza profitto apprenderai
questa verità che ora ti ho detto,
quando t’imbatterai nelle tenaglie

di una tarantolina, che scoprire
tu mai potevi tra le tue immaginifiche
idee, tutte sublimi e grandiose.
LV
La zanzara e l’uomo
Un uomo s’era appena appisolato
che sentì una puntura sul viso
che era penetrata fino al vivo;
il bruciore lo fa agitare all’impazzata,
apre gli occhi, scrutando attentamente
tutto intorno e non scopre niente.
Si nasconde quatto quatto e trattiene
il respiro in petto e poi affila le orecchie
per sentire se c’è via vai
o scarpinata di chi se la batte;
ma non sente che un noioso ronzio
e un qualcosa che stizzoso lo rasenta.
Insolentissimo atomo, gli dice,
dimmi: Sei tu che pungi e che fai male?
Sei tu? Fammi sapere almeno che ti ho fatto
per cui mi hai inferto tali punture?
Perché così piccolo, tanto nocivo
e tanto noiosissimo e molesto?
Giusto, gli rispose quello, poiché niente
io conto sulla terra ho pensato
questo fastidioso e molesto espediente:
avresti mai immaginato
questa mia specie animale invisibile
senza provarne dolore e molestia?
LVI
Lo struzzo, l’aquila e altri animali
L’amor proprio nasce in noi e con noi muore
ed è un istinto che abbiamo in comune
con tutti gli animali che hanno sentimento.
Il libro che traduce il Vecchio
ce lo dimostra in un dialogo
nel quale uno struzzo parla con un’aquila.
Lo struzzo aveva visto da lontano
arrivare, e da un’altezza smisurata,
l’aquila che poi lentamente
calando s’era posata accanto a lui.

Da dove vieni? Domandò. Da Calcutta,
riponde, e da altri paesi a tutti sconosciuti.
Bel piacere! Riprende lo struzzo,
avere un paio d’ali così robuste
da sollevarsi in alto per tante miglia!
Traversare un mondo!… Queste son cose da gustare!
Ad essere un’aquila ci avrei un gran piacere
senza però dimenticarmi chi sono io.
La stessa cosa risposero insieme
una tartaruga, un cammello e un elefante
che erano presenti a questo dialogo;
e ci scommetto che, se lì davanti
ti trovavi anche tu, o mio lettore,
avresti risposto insieme a loro la stessa cosa.
LVII
L’uomo, il tronco e il pastore
Un uomo molto buono
spesso andava a sfogare
tutti gli amari guai
davanti a un immobile tronco.
Lo vede un pastorello
che passa per caso
e dice: O poverino!
La tua mente è andata!
A un tronco privo d'orecchie,
tanto duro che fa azzannare le asce,
queste lacrime e lamenti
perché tu spargi e lanci?
Alzati. Che ci guadagni?
Che favore ti può fare?
Racconta i tuoi guai
a chi ti può aiutare.
Lo so, gli rispose,
perdo tutto il mio tempo
ma i ricchi e i facoltosi
sono meno sordi e duri?
Almeno una piccola cosa
c'è che mi consola:
mi sfogo e non mi taglia
la parola questo tronco.
LVIII
Il cervo, il cane e il toro

Un gran cervo alzava al cielo
due ramificate e lunghe corna
di cui tanto andava fiero
da usarle per comandare in quei dintorni
perché nessuno ancora aveva,
tra gli animali di quel luogo,
fatto la prova del valore
o molto o poco di quelle corna.
Ma un levriere, pelle e ossa,
non facendo caso a quell'armatura,
lo aggredisce e, alla prima mossa,
quello fugge e salta mura
e scappando dice: Amici,
nessuno viene ad aiutarmi?
Corna perse, dice un toro,
il coraggio vale più delle armi?
LIX
La cornacchia e il pappagallo
Una cornacchia aveva visto,
pasciuto e accarezzato,
un pappagallo in nobile
alloggio collocato.
Imitava i passeri,
se li sentiva cantare,
imitava gli uomini,
se li ascoltava parlare.
Un giorno incontrandolo
da sola a solo, si avvicina
e dice: Fammi un favore,
io sono venuta appositamente.
Dimmi, qual è in realtà
il vero tuo linguaggio?
Ché tu ne fai srotolare tanti
che io stordisco e mi smarrisco.
Rispose: In confidenza,
queste mie esibizioni sono finte;
un linguaggio vero e proprio
in me non lo trovi.
Io ho capito che gli uomini
vogliono essere adulati;
ripeto ciò che dicono
e sono contenti e gabbati.
Di loro le carezze

e i favori guadagno
e loro si rafforzano
di più nei loro errori.
LX
Il calabrone e l'ape
Il calabrone all'ape
disse: Io scorgo bene
in voi capacità e attività,
ma schiavi di un governo.
Agli esseri dotati di sentimento
in terra non si può dare
cosa di maggior valore e nobile
più della libertà.
Le leggi di ogni tipo
sono ceppi, sono catene;
o mura che vi rinchiudono
dentro piccoli confini.
Nell'abbondanza nuotano
pochi che sono al governo;
tutti gli altri soffrono
fatiche, astinenze e digiuni.
L'abitudine vi rende sopportabile
il giogo che vi sovrasta,
ma io, nato e allevato libero
non sopporto leggi da nessuno;
non ho chi mi comanda
i gesti e le azioni
e vivo divertendomi
senza sottostare a nessuno.
Ma quanto durano
questi privilegi che tu vanti?
Sfumano, rispose l'ape,
nel corso di un'estate.
Non appena terminano
sulla terra fiori e frutti
all'estrema miseria
già vi siete ridotti.
Cercate dei ripari
contro le gelate;
ma nulla ci conservaste
e niente ci trovate.
Vantatevi allora d'essere liberi!
Non dura la bonaccia;
perciò vita precaria

ha la vostra razza.
Per ciò che riguarda il discredito
che hai gettato sul vivere sociale,
penso che in esso si trovi
l'autentica libertà.
La tua è anarchia, è un vivere
da ladro e da selvaggio,
in preda ai disordini
e al libertinaggio.
Al contrario, negli esseri più nobili,
capaci di cultura,
il vivere sociale è cosa meritoria
che fa onore alle grandi specie.
Chi rispetta di più le leggi
costui è il più libero;
la legge è partorita da noi,
quindi ubbidiamo a noi.
Né poiché la troviamo già fatta
esce da queste coordinate;
gli antenati, che la fecero,
ci contenevano in germe.
E, se i nostri vizi
mal la sopportano,
è un piccolo sacrificio
in rapporto al vantaggio.
Se in ciascuno di noi
la forza è poco o nulla,
la legge e la concordia
la rendono imponente.
Con tanti onori e vantaggi,
che si vedono dati a pochi,
l'esser molto solleciti
riceve appena un compenso.
Si riverisce l'individuo
che siede da re,
sta a guardia della legge
e ne è rappresentante.
Costui al bene e all'ordine
veglia, provvede e accudisce;
premia il merito autentico
e viene in aiuto ai miseri.
Di menti sagge quest'è
la vera libertà,
qualunque altra è delirio
di menti prive di cardini.
Se del bene pubblico
l'idea si perde in noi,

o casa di diavolo
o anarchia chiamala.
LXI
I via vai
ovvero le mosche e la tarantola
Da dentro una stanza due mosche
alla finestra vedono
passare una tarantola
da sinistra a destra.
Giunta che fu in un attimo,
la vedono tornare
e in senso contrario
fare il suo viaggio.
Quand'è giunta all'angolo
torna e di là ripassa.
Dice una mosca all'altra:
mi sta venendo un vuoto alla stomaco;
m'insospettiscono molto
questi via vai, amica.
L'altra più temeraria
le dice: Lascia fare;
ha il fegato ostruito
e vuole passeggiare.
No, dice l'altra, trappole
e inganni me ne aspetto;
chi vuole restare ci resti
per me me la svigno.
Dice e svanisce.
Ma l'altra, sciocca e ostinata,
rimane dondolandosi,
perdendo tempo apposta.
Ma poi, volendo uscire,
si scopre circondata,
ed ecco la tarantola
gli è già saltata addosso.
Parlo con voi, donne:
Fuggite queste canaglie
che tentano di catturarvi
con i loro via vai.
LXII
La nottola e i topi

Una nottola stava
tutto il giorno chiusa
dentro tane dove abitavano
dei topi alla rinfusa.
E questi la sopportavano
nella loro società:
la credevano un topo
secco per malattia.
Lei, però, al coricarsi
del sole, se la svigna
e aprendosi tutte le ali
si affida all'aria
e, in essa tuffandosi
intrecciando tutti i luoghi,
trascorre la notte a vedere
i furti e i contrabbandi.
E quando s'imbatte per caso
in barbagianni o civette,
li adula lodando
i loro bei piumaggi.
Vomita le cose viste,
né vengono risparmiati
i topi insieme con i quali lei
trascorre le giornate.
A questi, che afferrano
i topi per la collottola,
a questa notizia, cala
miele nella gola.
Lisciano e accarezzano
la malvagia nottola,
se la portano con loro
utilizzandola come spia.
E subito alle tane
arrivano, guidati passo passo,
si appostano e afferrano
di sorpresa i topi.
Persone di aspetto doppio
(da noi definite 'facciuole')
allontanatele, fuggitele,
sfrattatele, figliuoli.
LXIII
I lupi
Nei tempi in cui gli animali parlavano,
due lupi, rintanati in una grotta,

facevano tra loro questi discorsi:
In verità noi veniamo diffamati;
c'è chi ne vuole il sangue e chi la pelle;
insomma, siamo due teste messe al bando.
È vero che facciamo strage di agnelli,
che dobbiamo morire d'inedia?
Se non mangiamo per noi il mondo svanisce.
Ci diranno: mangiate orzo e spinaci;
questo non è il nostro pasto, che ci colpiamo?
L'ha stabilito la natura, vi dispiace?
Dispiacetevi con lei, noi che c'entriamo?
Se qui c'è colpa, è sua: la nostra pelle
rischiamo facendo i ladri.
Se ci potesse alimentare l'orzo
o avessimo l'opportunità di andare
al refettorio al suono della campana
in questo caso, sì, si potrebbe sostenere,
nel vederci ammazzare un animale,
oh, che mostri, che fanno inorridire!
Questo caso non in noi ma tale e quale
preciso si verifica nell'uomo,
nell'uomo che si vanta razionale.
La natura e il destino prodighi
gli diedero abbondanti mezzi per sopravvivere:
erbe, frutta, semi e olio e vino;
eppure, questi non possono soddisfare
la sua intemperanza: lo scellerato
non fa altro che uccidere e squartare.
Dopo che ha munto a una vacca
il latte per tanto tempo la scanna;
questa è la ricompensa di quest'ingrato!
Il bue, che si affanna al suo servizio
e lo aiuta tanto, poi per ricompensa
viene condannato dall'uomo al macello.
Né questo crudele e barbaro si accontenta
della semplice morte, ma soddisfatto
non resta se prima non gli fa bozza o piaga
come sono quei bei complimenti
che lo privano d'essere attivo o passivo
per cui rimane indifferente alla sua specie
o quell'altro di esporlo ancora vivo
ad essere dilaniato dai cani,
cosa che gli sembra un gioioso spettacolo;
e se lo gode dall'alto di una staccionata
e si rallegra dei pietosi
gridi di quell'animale tormentato.
Né gli uccelli dell'aria vengono esclusi

dalla sua golosità esagerata; nemmeno
quelli che abitano i campi ondosi;
insomma, quanto di vivente la terra,
l'aria e l'acqua producono sono pasto
dell'uomo o almeno sono sue vittime.
E per non abbassare la sua grandezza
con la nomea di barbaro, stabilisce
che si tratta di macchine, e non hanno traccia d'anima.
Ma il punto non sta qui, sta, si crede,
che non possiedono sensibilità, ma in questo caso
non dà fede alla sua stessa sensibilità
ed è insensato o una tabula rasa
lui per primo quando non considera
che gli animali hanno occhi, bocca e naso
e che questi sono organi perfetti
della sensibilità e per personale esperienza
deve provare in sé i medesimi effetti
e se pone qualche piccola attenzione
alle convulsioni e ai lamenti
d'un animale che subisce violenza
dev'essere profondamente convinto
che la sensibilità non è una sua dote privata
ma che è comune a tutti i viventi.
Pertanto, non bastano i remoti
pretesti per ammazzarne qualcuno,
ma ragioni pressanti e a tutti note.
Il solo caso accettabile per noi
è che non avendo altri mezzi di sopravvivenza
senza stragi moriamo di fame.
Conservare il proprio essere individuale
è la prima legge; né abbiamo altro mezzo
per poter mantenerci in vita.
L'uomo, che sempre adula e sparge incenso
solo a se stesso, visto che non basta
il pretesto e che gli altri non hanno senso,
ne ha escogitato uno nuovo: osserva e conta
i denti degli animali, se sono fatti
a paletta, oppure a chiodo con la punta:
stabilisce che quelli con i denti larghi e piatti
sono destinati a mangiare erbe e frutti
mentre quelli appuntiti sono adatti alla carne;
infine, conclude che tutte le specie
immaginabili di denti li possiede lui
e per questo si inghiotte l'impossibile.
Anche facendogli buono questo suo ghiribizzo
per cui si crede in diritto di mangiare
a crepapancia di questo e di quello,

non può mai giustificare l’abuso
della carne, giacché tra tanti denti
può contare solo quattro molari;
quattro si possono considerare poco o nulla
fra trenta, o trentadue, che ne ha in bocca,
o piatti o di forma diversa.
Con quale diritto, dunque, scanna e inghiotte
quanti animali ci sono? Questa conseguenza
di certo non s’inferisce dalla sua origine.
E se mai può pretendere una certa quantità
di carne, in forza dei denti a punta,
la quantità è esigua e non stragrande.
Ché il quattro nel trentadue giusto ci sta
come uno a otto, perché nel trentadue
otto volte il quattro ci si conta;
perciò, al massimo, la carne non entra
tra i suoi cibi che per un’ottava parte;
perché, dunque, ne mangia più di noi?
Perché arriva a mangiarsi i quarti
della sua propria specie? Piano, piano.
Riprende l’altro, non smoviamo queste carte:
l’uomo è due volte lupo e qui ti lascio.
LXIV
La topolina e i topolini
Denro una fessura di un pagliaio
che si trovava in fondo a una stalla, aveva la tana
una topolina con i figli ancora piccoli.
Un gionro, il più grandicello sale,
s’affaccia nella stalla e in un attimo
torna lanciando un acuto e strano grido:
Mamma, mamma, cosa ho visto, che spavento!
Ihi, che tremo… aiuto! E mentre così s’esprime
la povera mascella non ha riposo.
Ho visto… riprende con lena affannosa,
ho visto… aiuto, figliuoli… tremo ancora!…
Ho visto una bestia, grossa, spaventosa,
con una bocca che a tutti quanti siamo
pare poterci inghiottire sani sani;
e sbuffa forte e fa un terrore tremendo
e zampa con superbia come se dovesse
fare grandi sconquassi; e alla sua voce
sembra crollare tutta la casa.
Non c’è altro? Rispose dolce dolce
la mamma; vai a quietarti, stupidotto,

qui sono più le voci che le noci:
questo è un animale buono, un po’ montato;
si chiama cavallo e quando zampa
è un focoso impulso ludico;
all’apparenza sembra mangiarsi anche l’aria
ma il suo cuore è come la carta bianca;
non graffia, non divora e neanche abbranca;
insomma, con questi animali senza timore
abbiateci a che fare sicuri e non dubitatene:
gli altri non valgono un pelo della loro anca.
Così diceva la madre e stupiti
stavano a sentire tutti i figli
con la bocca spalancata e le orecchie tese.
Poi riprende il primo: Meraviglie,
mamma, ci racconti, ma ti voglio dire
cosa ho visto in mezzo a certe striglie.
Un animaletto che faceva piacere
solo a guardarlo: era di pelo grigio
e si vedeva cammnare adagio adagio;
le persone gli dicevano: micio, micio,
e lui, con modestia e occhi bassi,
s’avvicinava adagio adagio e modesto modesto,
e sembrava che si mettesse la testa
quasi sotto i piedi delle persone
e che neanche toccasse coi piedi il terreno.
Aveva una voce melensa, languida;
si torceva il collo e si gettava
faccia a terra ad ogni istante.
Basta!…, gridò la madre, che tremava,
mi si accappona la pelle e freddo freddo
avverto un sudore che mi lava tutta!
Ah! Figlio, figlio, tu sei bambinello!
Giudichi dall’esterno! Oh, se sapessi!…
Salvaci, o Cielo, dai suoi tentacoli!
E se avverso destino a noi prescrisse…
(ah! Solo a pensarlo mi confondo!)
fa che prima la terra ci inghiotta!
Di tutti gli animali che ci sono
questo è il più terribile; non crede,
né lo può credere chi non conosce il mondo!
A questi colluzzi sorti non dare fiducia;
guardati da queste apparenze mansuete;
l’occhio è abbassato, però non ti perde di vista.
Costoro sono sanguinari, indocili,
crudeli, avari, papponi, spietati,
traditori, ladroni e indiscreti.
Passano i giorni e le notti

in un angolo, covando qualche preda,
con gli occhi chiusi e le mani legate
al punto che chi passa li calpesta
perché si riducono a polvere e immondizia;
ma, fatto il colpo, la loro testa si erge.
Escono le unghie e tutta la fierezza
E, mettendosi in cima alle tegole,
passano dal fango a quell’altezza;
e in loro prevale tanta crudeltà
che non si accontenta di una morte violenta,
ma ci fa provare tutti i mali.
Prima ci rompe le ossa e poi allenta la morsa,
ci trascina, ci spinge; e la morte arriva
tanto più crudele quanto più lenta.
Cielo, rendimi piuttosto priva d’occhi
che vedere un simile spettacolo
su qualche mio figlio mentre io son viva!
Ahimè! Quale accortezza resiste mai
alle insidie loro, quando anche dormendo
tramano nuovi inganni e nuovi acquisti?
Né quello loro è sonno, perché avvertendo
appena un passettino, aprono gli occhi
e adagio adagio si sollevano.
Se sono osservati fanno i santarelli,
ma quando non gli si bada, della casa
annusano gli angoli e le fessure;
e sempre intenti a tesser le loro fila
s’informano di tutto e dall’ingresso
fino ai terrazzi esplorano attentamente.
Gli è gradita la carne di ogni specie:
la mangiano di nascosto e con foga,
però gustano di più quella cruda;
infatti la guardano come fulminati
se la vedono in alto e, presto o tardi,
ci arrivano con astruzie e scaltrezze.
Molto spesso, ci sono cani che riguardi
hanno per la carne e reggono costanti
alle tentazioni più formidabili.
E le stanno instancabili davanti
senza neppure toccarla; anzi da fedeli
la salvano dagli artigli di tanti;
ma i gatti, d’ingegno sempre vile,
vedendola anche dipinta sopra un muro
per il desiderio si sciolgono come candele.
Nemici ai viventi, odiano anche
la prorpia specie e anche sgraffignando
fanno l’amore. Questo è cuore duro!

In conclusione, è una razza nata a far danno;
ma il peggio cos’è? Che nell’aspetto
non ci si sa leggere l’inganno.
Guardatevi, vi dico, chiaro e schietto,
da questi cheti cheti come il pane:
credete a chi vi parla per affetto!
E nessuno esca mai dalle sue tane
se prima non scioglie questa preghiera e dice:
Giove, scnsaci a tutti, anche ai cani,
dalle orribili trame di questi mici.
LXV
Il cane e la scimmia
Un gentiluomo possedeva
una vigna e si lamentava
di non vederne frutto;
la tasca era agli sgoccioli
e lo lasciava digiuno
come un importuno curatolo.
Il Vecchio era presente,
sfogliò il libro
e in maniera opportuna
ritrovò un simile
caso che è appunto questo
che già tradotto io racconto.
Un cane aveva adocchiato
su un albero altissimo
una vite carica
attorcigliata alle cime;
si saziava guardandola,
ma non poteva salirvi.
Vedendo che perduto
era il tempo inutilmente,
pensò di cercare aiuto
da un tale che, magro e scarno,
s’arrampicasse con agilità
e gliela vendemmiasse.
Vede una volpe nella tana
uscita per metà;
le dice: Vieni, sali
su quell’albero che è là,
guarda com’è piena
d’uva la cima.
La volpe, che di salire
là sopra non se la sente,

gli dice: Lascia perdere,
amico, non vale niente,
ci perdo la fatica,
è acerba, non fa per me.
Il cane però va in giro
cercando di qua e di là:
si fissa poi su una scimmia
saltellante che incontra:
pensa che questo sarebbe
per lui un buon acquisto.
Le si accosta affabilmente
dicendo: Tu stai in ozio;
ti ho cercato apposta
per proporti un affare.
Se tu vuoi stare con me,
c’è da bere e da mangiare.
Il tuo incarico sarà
di arrampicarti su di un olmo
dal quale una quantità stragrande d’uva
pende dalla sua cima;
tu raccogli e lanci a me,
io poi ne do a te.
Accetta quest’invito
la scimmia e insieme
si avviano verso il luogo
già conosciuto e sicuro;
arrivano e con un salto
il primo è in alto sulla cima.
La vite era così provvista
di tante frondi e frutti
che scomparve alla vista dell’altro.
La scimmia intanto gioca lascivamente
circondata dall’abbondanza
mangiando a crepapelle.
Di quando in quando qualche
grappolo fradicio o verde
lo lancia o lo lascia cadere;
il cane grida: Oh spiriti!
Che porcheria getta!
E aspetta con pazienza.
Dopo che rimpinzato
si fu il furbo, scende
e dice: Sono giunto
perfino tra le cime,
ma fradici e rovinati
ho trovato tutti i grappoli.
Questi che ti ho gettato

ne sono la dimostrazione e, sta attento,
i migliori li ho scartati…
Mi sono sfilato le reni!
È un giorno che a cottimo
lavoro, ohimè, digiuno!
Il cane, addolorato e in procinto
quasi di bestemmiare:
È vero, dice, il patto
di darti da mangiare,
ma io stavo certo per fermo
che avrei mangiato anch’io!
In ogni modo sia andato l’imbroglio,
io appartengo a una razza onorata
e voglio tener fede
alla mia parola data:
Vai a sprofondarti! Ti consegno
questa rimanenza e me la svigno.
LXVI
Il castoro e altri animali
Un castoro ascolta elogi
celebrare di una volpe;
chi ne lodava i talenti,
chi le sue eccezionali maniere.
Dice a quelli: Tra tanti pregi
che mi avete decantato,
perché non sento preporre
la buona fede e la probità?
Sono proprio queste le prime
e senz’esse non valgono nulla
le altre qualità, anzi più male
fanno a tutte le rimanenti.
A questo punto si accorse che s’erano azzittite;
lui torna al suo discorso:
Per me il talento vale zero,
se non è buono il cuore.
LXVII
Gli insetti marittimi delle spugne
Tra tante e tante spugne che ci sono in mare
popolate da migliaia di insetti
dove hanno le case e i solai,
fiumi, ponti, cortili, piazze e strade,

per vederne una e starci un poco
lo spirito di Esopo ci si infila.
E in virtù della sua innata potenza,
vede non visto, e gira e, senza scala,
scende e sale ogni loggia; infine,
penetra in una sorta di sala
dov’erano radunati in assemblea
i più saggi e più importanti insetti.
Si ferma ed ecco sente recitare
da uno di essi un discorso nel quale si dimostra
che l’universo consiste in un mare
nel quale la spugna, o suo mondo, si trova
(da queste parti spugna si chiama il mondo
non avevdo altra idea di cose grandi).
Aggiungeva inoltre che falsamente
i suoi antenati avevano creduto
che esistesse un solo mondo
mentre lui da una lente visto
ne aveva, con suoi nuovi strumenti di precisione,
molti altri molto lontano fatti allo stesso modo.
Sebbene non si veda bene, poi soggiunge,
se questi tali siano abitati,
a tal punto non arriva il mo strumento;
ma se acconsentite ad ascoltarmi
mi adopererò, signori, a provarlo,
ma poi non ho il coraggio di mostravelo.
Per creare questo mondo dal nulla
ci volle una potenza alta, infinita
e a un Essere Infinito, Onnipotente
tanto vale creare un mondo e dargli vita
quanto crearne cento milioni:
a questo punto vi lascio e buon giorno signori.
Lo spirito di Esopo tra sé disse:
L’uono in rapporto all’Universo è
piccolissimo insetto, come questi,
chiuso e sprofondato in un ristretto orizzonte;
l’atmosfera è il mare, e il mondo è
la spugna che vaga al fondo di questo oceano.
LXVIII
Topi, rane e merlo
Tra topi e rane c’è sempre stato
un vecchio mare, un odio radicato,
sin da quando il figlio di Rodi-pane
fu annegato da Gonfia-guance:

da cui ebbe origine una guerra sanguinosa
che al suono d’una tromba riusuonò famosa.
Terminò infine che Giove tuonando
i granchi armati di forti corazze
marciando in aiuto delle rane
spelarono i baffi ai topi,
tagliarono gambe e code con le tenaglie;
in una parola, li travolsero.
Da allora fino a noi non c’è mai stata
tra queste due specie nessuna azione
che fosse degna di nota,
ma, o per istinto o per prevenzione,
di cui i testi ci rimangono guasti,
non s’incontrano mai senza scontrarsi.
Dunque, un giorno alla riva di un pantano
avvicinandosi, un topo si accorse
che veniva da lontano una rana
che, senza dire buon giorno né addio,
arma il braccio con una cima di giunco
e poi dice: Entra, se hai coraggio!
L’altro risponde: Esci e vieni a terra,
sono qua, proveremo chi vale di più
non ho paura, vieni, due volte cagna…
E quella: Solennissima cosa inutile,
se ti vanti di valore e coraggio
perché hai paura ad avvicinarti a me?
E tu, riprende l’altro, perché hai timore
a venire qua a terra, gran codarda?
Ma nel mentre che ognuno esprime con le ingiurie
molto di più che non farebbe con spada e mazza,
si sente là vicino cantare un gallo
e altri rispondere più lontano.
Un merlo, che aveva ascoltato il diverbio,
grida: Basta, zittitevi un istante,
ascoltatevi questi galli e tanto basti:
ognuno in casa propria vale per cento
e lo rassomiglio a quest’uccello crestato:
ogni gallo canta nel proprio pollaio.
LXIX
I caproni, l’ape e la farfalla
Numerosi caproni a forza di cornate
fracassarono una grande arnia di api
e il miele e i favi sparsi di qua e di là
si dispersero tra broccoli, sedani e rape.

Vedendo farne sperpero,
le apine piangevano la loro sventura.
Una farfalla disse: Non è nulla;
fabbrichiamoli di nuovo, l’opera mia
metterò pure io, state contente.
Risposero quelle: Va per la tua strada;
qualunque bestia è buona a distruggere,
ma non è poi di tutti costruire ordinatamente.
LXX
I porci
Un romitorio, quasi del tutto chiuso
da macchie e spini, da rocche e da fossati,
si erano costruito molti porci
dentro un bosco che produceva gran quantità di ghiande.
L’istituzione si crede sia stata di Epicuro:
lo conferma Orazio, io non ci giuro.
Ogni anno si elegge il più grosso e grasso
e viene nominato padre guardiano:
gli altri vengono eletti a mano a mano;
rimane semplice fratello il più magro e basso,
e su alcune questioni ancora aperte
ogni mese fanno deliberazioni.
Vien fuori a disputare un grande sputasentenze,
il molto reverendo Mole-affilate;
vien fuori poi il Priore ad impugnare
il reverendo fra Comodità;
il primo sputa e poi con voce canora e piena
intavola l’argomento in questo modo:
Tra di noi è precetto il bere e il mangiare,
precetto è inoltre, non lo nego, anche l’ozio;
l’uno non deve ripugnare all’altro:
dunque, mangiare è ozio in negozio.
Riprende l’altro: Padre, questo è errore:
mangiando si fa movimento, ergo è lavoro.
La nostra saggia regola è fondata
sul precetto della poltroneria;
atqui facendo una lunga masticazione
con questo movimento la bocca si affatica,
ergo occorre mangiare solo per alimentarsi
e poi stare senza far nulla.
Disse l'altro: Rigiro l'argomentazione:
se il masticare è per voi lavoro
perché la bocca fa quel movimento
ergo è lavoro anche il parlare,

ergo voi, tanto zelante dell'ozio,
argomentando siete già colpevole.
A questo punto un applauso comune di 'nguì 'nguì
interruppe il corso della disputa
che come tutte le altre così
terminò senza una conclusione... Ma sputa
un porcellone, che aveva la lunga veste
coperta di creta e fango, viene in mezzo e dice:
Oh reverendi, insomma finiranno
queste questioni di lana caprina?
Perché nelle vostre bocche non riecheggia:
moltiplicate la razza porcina?
Saltarono su allora tre vecchi maiali
dicendo: Chiudi questa boccaccia, animale!
Se cercate in me della moralità
vi dico che la favola è istruttiva
e che contiene una gran verità
di cui noi abbiamo esperienza diretta:
più d'uno adatta la religione
alla sua passione dominante.
Dice un avaro: Sono abbastanza sobrio
per avere (da qui a mille anni) nell'altra vita
un posto sicuro tra i beati;
potrei preparare un pranzo squisito,
ma poi in coscienza non mi ci troverei bene;
al Cielo piace molto l'astinenza.
Il prodigo fida nel fatto che non si è
legato né ai beni, né al denaro,
si è liberato dagli impedimenti terreni
né col testamento lascia aperte liti;
così confortato si dà da fare quanto può
a far sì che il suo non sia suo.
Sto in chiesa, dice il poltrone,
e raccomando a Dio casa e figli.
L'anima non sporca, dice il goloso,
ciò che entra in bocca anzi è godimento,
ma quanto dalla bocca viene tramandato
dice il Vangelo, appanna le nostre anime.
Aggiunge il lascivo: È un grande precetto,
nato con l'uomo, il moltiplicare;
mi rimetto ai codici antichi.
Infine, ho sentito perorare
anche un imbroglione, che per difendersi sostiene:
Aiutati, dice Dio, che io ti aiuto!
LXXI

Il gatto e il gallo
Un gatto, stupito delle numerose
prove di omaggio e ossequio che un pollaio
offriva al suo gallo dominante,
gli si avvicina e dice: Caro amico,
parlami della tua saggia politica,
perché io mi ritrovo in un momento difficile.
La maggior parte dei gatti non mi si avvicina;
mi chiamano a gennaio... mi avvicino e indietreggiano;
tra loro non legano, si graffiano,
si rubano a vicenda e si mandano minacce;
insomma, non c'è né un capo, né unione
e si vive tra guerre e liti.
Poi, al contrario, vedo questo tuo pollaio
regolato secondo un perfetto ordine
e tu che passeggi con grande pompa
come un Imperatore d'Oriente;
appena gridi, tutti ti obbediscono
ed eseguono gli ordini in ginocchio.
Il gallo serio gli dà questa risposta:
Tu vedi soltanto i vantaggi
della mia condizione e non sai quanto mi costa
in pensieri, attenzioni e disagi!
Questa fede dei miei, questo attaccamento
è una ricompensa e non segno di apprezzamento.
Sono io che quando occorre combattere
con qualche animale nocivo al pollaio
espongo il petto e combatto contro di essi;
io vigilo per custodirli, io indico
l'ora del risveglio ed io svelo
le vicende dell'aria e del cielo.
Io li avverto a stare in guardia
o a rintanarsi dentro i pagliai,
se scopro un nibbio in aria o in terra segni
o di qualcuno che viene ad assalirci;
il peso è mio, sono lo strumento efficiente
della salute pubblica e della pace.
Io, se trovo per terra un cecino
o un chicco di frumento, mi privo
di farne uso per il mio stomaco
e chiamo a tutti felice e giulivo,
lo mostro loro, lo cedo con grazia
e vederli sazi mi sazia.
Io scelgo per loro i luoghi più opportuni
per farsi le cove e le covate;
di guardia ci sto da campione

per non essere disturbati nell'aver figli;
poi, fatto l'uovo, io sparo il mio canto
per darne notizia a tutto il pollaio.
Sono io che mantengo l'armonia
tra tutti quanti e se qualche gallina,
o fa l'ostinata o si azzuffa,
io corro e con disciplina severa
le insegno il dovere sociale.
Caro amico, questo è il segreto
per essere acclamato e per regnare;
te lo confido perché sei discreto
e da bravo alleato puoi salvare
questo pollaio da donnole e da volpi
che sono per noi flagello aspro e amaro.
LXXII
La corsa degli asini
Un gran numero di vespe e di mosconi
confondevano la testa agli asini e agli stalloni
per poi farne la festa.
Costoro, troppo pieni di superbia
per la propria condizione d'asini,
punte da quelle bestie
intonarono: Libertà!
E con salti da montone
e con calci senza fine
i canestri e i basti
si sfilarono dalle groppe.
Rompono i freni e le cavezze;
chi li può fermare?
Gli animali già pensano
che il mondo è tutto loro.
Scorrazzando sciolti e liberi
la città ne è desolata;
chi può dire, ohimè, il danno
che produsse quasta grande fuga?
A migliaia corrono tutti,
l'uno investe e spinge l'altro;
se non si protegge, il padrone
se lo mettono sotto.
Andando a devastare ogni cosa,
sempre con le vespe addosso,
poi si vanno a precipitare
tutti quanti dentro un fossato.
Teste e gambe fracassate

giacciono tra terra e fango
e le vespe appese là
se ne tirano il sangue.
Appena riceve questa notizia
il padrone, che è pietoso,
per soccorrere i vivi
salta e vola subito.
Ne cacciò le vespe feroci
che si erano attaccate loro
e a quei poveri asini
li soccorre e li compatisce.
Eppure (chi lo crederbbe!)
anche in fondo al precipizio
ce n'è più d'uno che scalcia
per non perdere il vizio.
Il padrone, a questi malvagi,
a queste bestie traditrici,
fa tagliare i congegni
dai quali sorge il vigore.
Poi con forti tratti di cavezza
frena gli altri e se ne va:
Dagli asini e dagli stalloni
si deve stare sempre lontani.
LXXIII
L'asino rosso e gli animali
Un giorno apparve un asino rosso
perché si era strofinato nella creta
il collo, le orecchie, la testa e il muso
e, in breve, era tutto, tra sauro e baio,
cambiato il suo aspetto.
Nel vederlo gli animali si allarmarono,
credendolo un nuovo e grande mostro,
e tutti spaventati si rintanarono.
Quello, davanti alla loro paura, gonfio e tronfio,
si crede cosa grande ed esaltandosi
solleva la testa e si riempie di baldanza.
Passeggia per quelle campagne con gran sussiego
come se ne fosse assoluto padrone
non incontrando alcuno che gli dia molestia;
ma poi, per dar sfogo ai polmoni,
apre la bocca, lancia un raglio, ed ecco
che si fa conoscere come asino.
Quelli che prima timidi e paurosi
si erano rintanati nelle grotte,

seccati e scocciati dall'equivoco,
lo trattano in maniera strana e brutta.
Dunque, giustamente il saggio disse:
Parlami prima così che io ti conosca .
Quanti, che noi vediamo pieni di boria,
carichi di insegne e di rari ornamenti
o quanti adorni di toga e lunga giubba
fanno tremare le persone al solo vederli
che, parlando, non ragli d'asino
ma ceste di letame tirano fuori.
LXXIV
I topi e il vecchio gatto
Un topo s'era ammalato. I parenti,
gli amici e i vicini si riunirono
per scegliergli il medico più bravo,
ma poi non si accordarono nella scelta.
Questo, dicevano, è fiacco e non parla affatto;
quello è un bugiardo millantatore;
questo non è riconosciuto e non dà ricette,
quello spara d'azzardo e ammazza tanti.
Mentre sono in imbarazzo e indecisi
viene uno e dice: Ho letto in un certo avviso
che è venuto da luoghi sconosciuti
un topo molto esperto di medicina
che s'è divorato i libri sapienti
di Ipppocrate e Galeno per intero;
riunisce gli autori antichi e i moderni
e dalla bocca gli escono perle.
Ma, per il suo nobile ed elevato rango
e perché inoltre è molto facoltoso,
non si abbassa ad andare da tutte le parti
visitando malati in alto e in basso.
Ma chi ha bisogno di lui ne domandi
dove vede l'avviso. Questa è la consuetudine
dei grandi paesi: Persia, Egitto,
Francia, Germania. E qua terminò lo scritto.
A questa notizia tutti allegri si recano
nella locanda dove stava lo scritto
portando con loro il malato
nell'ora in cui ogni uomo riposa,
e, infilandosi sotto la porta,
entrano... Qui per l'appunto li aspettava
con pazienza e flemma il vecchio gatto
che era l'autore dello stratagemma.

Quando vede sicura la presa
dice: A guarirvi da ogni malattia
la mia ricetta risponde subito,
anzi voglio che la proviate tutti...
disse e poi, sfoderando le sue armi,
si lancia con un salto, scarica zampate
e in aprirsi e un chiudersi di bocca
come pillola si inghiotte il malato.
LXXV
Dire e Fare
Un tempo Dire e Fare erano amici
anzi fratelli, uniti a filo doppio.
Poi il primo mise cattedra per insegnare
l'arte che tesse reti con le parole.
In Atene e in Roma ebbe per discepoli
l'uomini più insigni ed eruditi
e oggi è diventato nume tutelare
delle corti, dei pulpiti e delle liti.
Quando vide che aveva denti, corna e unghie:
La forza, disse, è l'unica che regna
e ripugna regnare con altri.
Il nome di mio fratello si trattenga
sulla punta di questa lingua che conquista ogni cuore;
lui, però, non venga dove mi trovo io.
LXXVI
Le volpi
Avendo avuto sentore di galline,
una volpe con la figlia, quiete quiete,
attraversando prati, orti e giardini,
per viottoli sconosciuti e remoti,
si rintanarono tra frasche ed erbacce
aspettando la notte per cacciare.
Giunta la notte, impaziente
di aspettare, la figlia esce e scorre
col naso, occhi e orecchie tutte intente
e s'incammina verso una torre:
ma, attraversando un campo di cocomeri,
scorge una testa e subito si nasconde.
Si rigira, torna dalla madre e racconta ogni cosa.
La madre dice: Aspettiamo un po';
la prudenza non fa male. Per una stradina

dopo un po' si avviano verso quel luogo.
Eccola là, grida la figlia, guarda
la testa che è distesa sopra l'erba!
La madre osserva e controlla da ogni parte;
capisce che non si muove e non dice nulla,
si carica di coraggio e riprende fiato,
poi dice: Non ti spaventare, ricorda
e ascolta bene queste mie parole:
Testa che non parla si chiama cocomero.
LXXVII
Il lupo e l'agnello
(Traduzione della prima favola di Fedro)
Un lupo e un agnello, arsi dalla sete,
erano capitati, tutti e due
allo stesso tempo, a un medesimo fiumicello:
il lupo stava sopra e molto più
in basso l'agnello, appostato lontano
dove il fiume scendeva verso il basso.
Il ladro, che adocchiatolo in un batti baleno
si sentì titillare la gola,
mise in campo il pretesto per una lite
per poter giungere a una zuffa
e disse in tono brusco e seccato:
Birbante, perché mi hai sporcato l'acqua?
L'altro rispose tremando: Vostra signoria
mi scusi ma come mai posso fare?
È la sua acqua che arriva qui da me,
il fiume scende non va a salire!
Messo nel sacco con queste osservazioni, quel furfante
subito mette avanti un altro pretesto
dicendo: Ora ricordo davvero
che tu, son circa sei mesi fa,
non hai parlato molto bene di me.
Risponde quel poveretto: E come vere
possono essere queste colpe quando nato
allora non ero e neppure seminato?
Ah, fu tuo padre di certo, riprese
il lupo che di me ne disse male;
e detto fatto corse e lo sbranò.
Quanti uomini ci sono uguali a questo lupo
a cui non mancano né scuse né mezzi
per opprimere i deboli e gli innocenti!

LXXVIII
Topi e gatti
Spesso, per rimediare a qualche male
o per dare la pena appropriata a un delitto,
se ne affida l’esecuzione a certuni
ai quali puzza il fiato più dei colpevoli.
Se ne può vedere un naturale esempio
in un diverbio sceneggiato
tra gatti e topi e in una favolina
che giunge a proposito in questa discussione.
I topi producono danni e questo è vero.
Dunque, ci mettiamo i gatti? È danno maggiore;
se il topo scava un buco nel formaggio
il gatto se lo inghiotte tutto intero.
Il topo è ladro, ma in fondo non è cattivo;
quando è scoperto scappa e non fa danni;
il gatto è treditore e selvaggio
e, messo alle strette, assale davvero.
Il topo ci pensa da sé ai tozzi;
il gatto, a parte che ruba dappertutto,
è il primo che si mette a tavola.
Potrebbe rimediare a questi grandi handicap
se, mediante pegni e pena la testa,
si obbligasse a risarcire interessi e danni.
LXXIX
Il regno delle volpi
Una volpe era temuta e rispettata
da tutta la sua specie a tal punto
che Esopo ne rimase sorpreso.
Qual merito, disse, lo fa degno
di tanti ossequi? Rispose un tale a fianco:
Nel regno e dominio volpigno
somma malizia, frode, astuzie e inganni
sono i gradini per alti e grandi posti.
LXXX
La scimmia e il cane
Spesso ai Grandi fanno impressione
più i pregi visibili che quelli autentici;
più l’arditezza e l’ostentazione

che le virtù e i meriti veri;
lo dimostra questa storia che racconto
così come l’ho trovata in un vecchio archivio.
Una scimmia aveva imparato a imitare
alcuni lavori e cose contadine;
in seguito, si trovò a corte e si mise a imitare
le più sperticate cortigianerie
e con queste imitazioni questo bestione
attrasse gli occhi del suo padrone
che giunse a pensare che fosse staccata
dalla specie delle scimmie selvatiche
e la trattava quasi a carezze
e riponeva in lei fiducia e rispetto.
Vero è che le mise accanto un cane bracco,
forte e capace, ma la sua fiducia
era sopra ogni limite, mentre questa vigliacca
non faceva che abusarne allegramente.
Il cane voleva saltarle addosso,
ma per degno rispetto non si muoveva.
Un giorno il cane s’era addormentato
sulla soglia della porta;
la scimmia, pazza e forse fuor di sé,
e che sopporta il cane solo per la cattività,
scippa un tappo della botte migliore
e lo ficca a quello per supposta
e con tanta abilità che non avvertì
il cane quel corpo estraneo che entrò
o per poca pratica non afferrò
questo nuovo tipo di vendetta o sballo,
né aveva pensiero del suo posteriore
sapendo che era porta che senza uscita.
Intanto, entra il padrone e trova
la botte senza né vino né tappo;
cerca l’autore di questa bella operazione,
ma la scimmia gli sussurra di nascosto:
Volete, ma in segreto, delle vere prove?
Osservate il posteriore del cane.
Questo animale soffre molto di stipsi,
nonostante mangi e mangi bene
e si lecchi i piatti a goccia a goccia,
succhia l’untume di chi va e chi viene;
trovandosi lo stomaco indisposto
si è messo il tappo a mo’ di supposta.
Io me ne sono accorta tardi e non potevo
contrastarla; l’avversario è grosso;
ma già venivo a incontrarvi
per essere liberato da questo imbroglio;

io non posso fidarmi più di lui;
buttatelo fuori e dategli un tozzo per pietà.
Al padrone parve ragionevole
e nello stesso tempo equo il consiglio,
tanto più che fu pronunziato con amorevole
tono di voce e con sguardo pietoso;
quanto la scimmia gli propose e raccontò,
approvando, lodò e accettò.
Così il saggio e fedele cane,
a parte lo scoperto scherzetto
che a stento gli lasciò intero l’ano,
venne sfrattato e a partire da quel momento
la dispenza rimase in mano di un pazzo.
Tanto può in questo mondo l’apparenza!
LXXXI
L’alleanza dei cani
Tra il Congo, il Capo di Buona Speranza
e in tutta l’Etiopia ci sono cani
selvaggi e molto feroci che alleanza
hanno tra loro da antichi spartani,
formando eserciti e battaglioni
capaci d’affrontare tigri, orsi e leoni.
Di giorno vanno a caccia in squadroni,
catturando prede di ogni tipo,
poi ritornano alle tane molto carichi
di animali catturati o uccisi in combattimento
e con un preciso rendiconto economico
se li dividono e fanno le loro razioni.
Ora accadde (per quanto il Vecchio
trovò nel mio vecchio e tarlato libro)
che ci fu uno squadrone di questi cani
tra i quali questa gran sequenza si smagliò
per l’abuso di aver posposto
il vantaggio pubblico al privato.
Perché, tornando ognuno con la preda,
se ne nascondeva dieci e venti parti
e per di più si spacciava per digiuno
per chiedere quell’altra che si divide;
per questo il bottino non poteva bastare
a soddisfare tutta la gran massa.
A questo disordine tentarono di rimediare
obbligando tutti a esatte dichiarazioni.
Ma non presero, per essere scoperto
il ladrocinio, le misure adatte

perché tutte queste leggi e queste misure
le avevano imposte proprio i ribelli.
C’era in più che i dazi da pagare
erano ripartiti tanto tra quelli
ai quali veniva a mancare il necessario,
quanto a chi soverchiava mille volte:
l’uno pagava a spese della pancia,
l’altro meno di un nulla avanzato.
Questa situazione che produsse? Che i rispettosi,
i deboli, i vecchi e i malati
rimanevano a stomaco vuoto
e venivano loro a mancare le forze;
parte moriva per i digiuni,
parte non era più buona alla guerra.
Gli uni per fame, gli altri per l’eccesso
del mangiare pieni e pesanti
non potevano correre dietro
alle imprese più forti e rischiose;
insomma, erano rimasti pochi,
i più pigri e i debilitati.
Il risultato fu che a un primo attacco
furono, invece di battere, battuti:
i lupi e gli orsi ne fecero festa.
Possa questo esempio rendere accorte
tutte le società di quegli animali
che si sono vantati d’essere razionali.
LXXXII
La vacca e il maiale
Mi sembri un maiale dall’aspetto,
ma so che la tua specie è grassa e grossa;
tu sei magro! Soffri di tubercolosi?
Ti stupisci che io sia pelle e ossa;
sappi che per nutrirmi non mi spetta
che solo l’erba e questa con grande stento.
Me la vado buscando tra scarpate,
qua un filo, un altro là, sempre stentando.
I tempi non sono più com’erano prima
come sentivo raccontare da mio nonno,
quando i porci avevano a cataste
ghiande e mangiare a ufo in un catino.
E che due mesi prima della scanna
li alimentavano con le fave
che così sapevano più di miele e manna.
Con questi buoni preludi i nostri avi

morendo hanno pagato il tributo
all'uomo che li aveva ben nutriti.
Quello, le ghiande e le fave che ci dava,
per magia meccanica e chimica,
li ritrovava in carni e in lardi
e macellando un maiale arricchiva;
invece in noi ci trovano ossa da leccare
e per sfamare i soli cani.
Se cento maiali da un quintale a quei tempi
sfamavano un popolo, dei magri
non basta un migliaio per togliere la fame
anche se fossero golosi d'ossa.
Ecco lo spreco della nostra razza
che sta per scomparire per colpa di questa gente folle!
Dice la vacca: Nella stessa situazione
e in eguali circostanze noi ci ritroviamo;
pascoliamo tutte in una terra già falciata
piena dei duri avanzi delle restuccie;
e gravide e infeconde o magre al macello
ci portano tutte quante a catasta.
Tralascio quanto sento raccontare
sulle abitudini dei paesi saggi;
che gli animali che debbono macellare
li nutrono prima con erbe abbondanti;
danno loro anche semi di cotone
e tagliano per loro rape in quantità.
Ma anche qui gli antichi usavano
far pascolare tra feudi e riserve
e nutrivano bene e ingrassavano
il bue e la vacca con le erbe migliori;
ma i Don Ninnari, uomini di quest'anno,
non lo fanno perché l'hanno fatto altri.
Non riesco a spiegare questo caso,
mode forestiere che riguardano il lusso
arrivando qua vengono adottate
mentre la moda e l'usanza che hanno influenza
sull'utile e sul vantaggio dello Stato
si lodano e si mettono di lato.
LXXXIII
La tigre in una gabbia di ferro
Rinchiusa in una gabbia di ferro,
una tigre fremeva. Il suo custode
le disse: Schiatta qua, scellerata,
tu che treschi e godi tra sangue e stragi

osi dire che per sostentare la vita
non trovi altri mezzi e altri modi?
Ma perché, saziandoti a dovere,
la tua ferocia aumenta e a varia e a nuova
strage ti porta sempre a incrudelire?
Questa è di certo, anzi certissimo, una dimostrazione
di autentico cuore perfido e scellerato
che gode nel far male e se ne compiace.
E ci scommetto che in questa gabbia
di ferro, nella quale ti trovi, stai pensando
di squartare e sbranare tutti gli uomini.
Non lo fai perché ti fanno ostacolo
le sbarre ben forti: non ti lamentare,
dunque, se stai penando qua dentro.
Gli rispose la tigre: Rinfacciare
non ti voglio le stragi e le crudeltà
che l'uomo è solito fare alle altre specie,
né quelle che fa alla propria specie,
ma ti parlo soltanto di quelle
che tiene nascoste nella volontà
perché non può manifestarle apertamente;
come me, stanno chiuse tra inferriate,
cioè tra leggi che ha presenti.
Ciò si vede chiaramente dalle notti
che lui impiega per leggere o vedere
i fatti atroci degli scellerati
che sono fatti soggetti di piacere
nei teatri, nei quali gli antichi morti
risorgono perché si vedano morire,
per vederne i palpiti e le noie,
ascoltarne le invocazioni e i lamenti
e gli intrighi delle scelleratezze.
Altri vanno pescando queste questioni
tra i fatti più atroci e sanguinosi
della storia più antica o contemporanea,
come avvoltoi che delle più fetenti
carogne vanno in cerca per sfamare
le loro brame crudeli e schifose...
LXXXIV
Il codice marino
In Sicilia è famoso l'antico
nome di Cola-pesce, anfibio nato
sotto Federico secondo;
in sostanza, uomo ben proporzionato,

pesce per la singolare capacità
di stare con i pesci sul fondo del mare.
Scorrazzando per i grandi mari profondi
faceva lunghi viaggi e ne riportava
le meraviglie viste sotto le onde
e molte le aggiungeva di sua mano.
Tra le tante, mi è capitata questa
scritta e rivista di sua propria mano.
In fondo al mar Baltico, alle spalle
di una montagna sprofondata in mare,
coperta da un boschetto di coralli,
vidi radunata una gran turba
d'insetti forensi molestissimi
che conduceva un processo in questo modo:
S'è trovato sbranato un grosso tonno
e per quest'accusa sono stati processati
alcune sardelle ritrovate al fondo
sopra un osso con i musi unti.
Il Fisco, che è uno strumento che vi perseguita,
aprì loro una rubrica per tonnicidio.
E tanto quelle sardelle che leccarono,
quanto quelle che avevano unto in bocca,
tanto quelle che l'odorarono appena,
tutte furono messe in un fascio
sostenendo: Qua non c'è osso né spina,
furono colte in flagrante, è piena prova.
La nostra legge parla chiaro e tondo:
il pesce grosso mangia il piccolo;
qua i piccoli hanno mangiato il grosso,
hanno infranto l'ordine della legge,
di una legge che per noi è fondamentale;
dunque, sono colpevoli di pena capitale.
Esclama l'avvocato dei poveri:
Per questi infelici la linea di difesa è chiara:
lo scheletro delle ossa è smisurato,
il tonno era almeno di tre quintali,
tutte queste sarde sommate insieme,
se le pesate, non sono nove once;
se pesano più di nove once
(comprese tutte quante le interiora
con le squame, le lische, la pelle e i grassi)
impiccatele e levatele davanti;
ma se non posssono superare nove once,
dove si son potute infilare questo tonno?
Riprendeva il Fisco: Le misure
e i pesi non sono strumenti legali,
servono soltanto per i venditori;

qua si tratta di causa capitale,
né una rubrica di chi vende e spende
potrà smontare una legge solenne;
e, ammesso che le sarde non fossero
colpevoli di tonnicidio, è fatto stabilito
che dove mangia il grosso non s'azzardi
nemmeno a leccare il piccolo...
D'accodo, dice l'altro, questa è colpa;
ma in questo caso si tratta di osso e non di polpa.
Si dibattè di qua e di là citando testi
in gerghi oscuri oltremarini
e si citarono codici e digesti,
commentari da cernie e da pescecani;
riportarono fatti e tanto scarrozzaroono
che la questione centrale la sorpassarono.
I granchi sedevano da giudici,
il presidente era un granchio-paguro;
tutti con due bocche, una per mangiare
l'altra per raddrizzare bugie, torcere ragioni,
e con otto piedi a gancio, a dritta e a manca
entravano di piatto e di fianco.
Non hanno accesso a queste divinità
nessun altro che i supremi sacerdoti
cioè i magistrati difensori e gli avvocati;
un poco più discosti, i curiali
coronano di fiori le vittime
mentre vanno loro togliendo l'umore.
Tutto il resto è popolo profano
né mette piede in questo santuario
o, se ci entra, in un luogo appartato
si mette di lato e guarda la sede suprema
che dispone della vita e di tanti
averi e facoltà di tutti quanti.
Dopo un lungo tratto di sessione,
da una parte e dall'altra gli avvocati,
e il Fisco, da sempre abituato alle stragi,
ne voleva appesi e ne voleva squartati,
i giudici gridarono: Tutti fuori!
E si rinchiusero da soli nelle grotte.
Dunque, questi, unendo alla prudenza
il rispetto e la propria esperienza,
consultano i codici, ma senza
dare un'occhiata al senso comune,
non volendo svilirsi nel pensare
come pensano tutti quelli del volgo.
In più dicevano: Se si apre la via
ad ascoltare un poco la ragione,

tutta quanta la Curia è rovinata,
né c'è più posto per il foro legale
e qualunque idiota o stravagante
entrerà nel nostro santuario.
Se noi cerchiamo chi in effetti
ha divorato il tonno ci attiriamo
l'odio dei pescecani oggi potenti:
basta che diamo un qualche esempio tramite loro:
o leccarono o odorarono è sempre un fatto;
ad ogni modo, sia bocca che naso sono sensi.
Con queste sante e giuste riflessioni
ponendosi il testo davanti agli occhi
con delle spine di locuste scrissero
la sentenza, rinchiusi in fessure,
chiusa con un ita quod come appendice
che in gran parte la trasforma e contraddice.
Si assolvano le sarde dalla morte
ita quod non possano vivere.
A questo scopo, le squame e ogni tipo
di grasso e grassumi e pelle divorare
se li debba il Fisco; e in spiagge inospitali
siano confinati i rimasugli.
Questa sentenza, rispetto al fatale
codice, sembrò ammantata d'onestà,
però alcuni dissero che male
sarebbe stata divisa l'equità
che, invece di distinguere, confonde
quelli cho odorano e quelli che leccano.
Intanto, dopo un anno di frizioni,
di carceri, afflizioni e palpitazioni,
va' a trovare più le sarde! Del gruppo
non rimase che solo lisca e pelle;
l'altra metà svaporò per la strada
divorata dagli insetti fiscali.
A rigor di codice, questi insetti
non potevano divorare le sarde,
ma il rito, in virtù di sue ricette,
fa fare e disfare tutto impunemente;
pertanto, chi oggi professa questo rito
si pone al di sopra della legge stessa.
Cola propose questa difficoltà:
se quì è la forza che prevale
perché inventare queste formalità:
giudici, foro e codici legali?
Questa fu proposta da Cola a una triglia
ed ecco qual è stata la risposta:
I granchi, abituati a perdere giornate

nell'ozio, insidiando le patelle,
né avendo forza, lena e abilità
di inseguire boge e naselli,
idearono un sistema di questo tipo
e poi l'insinuarono tra i più forti
dimistrandone l'utilità e il guadagno
che quanto hanno di fatto con la forza
conveniva che l'avessero di diritto
autenticato in codici e contratti;
e i nipoti, poco o nulla capaci,
godano dei vantaggi degli avi.
Quelli, che i loro figli e i nipoti
si vedono garantiti dal diritto,
sono venuti a dare autorità
ai granchi dalle bocche sgangherate
e con voto unanime ci si propone
di affidarne a loro l'esecuzione.
I granchi, alterando questo codice,
mostrarono con evidenza il vantaggio
dei potenti e il minor danno
possibile per gli altri. E tanto saggio
sembrò a vedersi dalla buccia in fuori
che fu adottato e si osserva tutt'ora.
LXXXV
Il grillo e la lucertola
Un grillo stava fermo
in un'aperta pianura.
Gli si avvicina una lucertola
e lui più abbassato
si mette. Quella crede
per paura di lei.
Perciò, pigliando coraggio,
non lascia di stuzzicarlo.
Ma quello, mentre si abbassa,
sbalestrando le gambe
la respinge con un calcio,
salta e la rivolta sotto.
Non fidatevi troppo
di stuzzicare quelli
umili e mansueti;
qualche brutto scherzo
ne riceverete. State attenti,
pensate alla lucertola.

LXXXVI
L'asino, il padrone e i ladri
Salta, che stanno venendo i ladri, disse
Chirone al suo asino carico.
Risponde l'asino: Forse i ladri
mi imporranno un basto più grande?
Oh, no: i ladri lo stesso carico
ti metteranno. Ebbene, padrone mio,
saltate voi, a me non importa un fico
chi dei due mi allacci il basto all'ombelico.
LXXXVII
Il bue e il moscerino
Mentre un bue lavorava, un moscerino
gli si andò a posare su di un corno;
poi la sera pretese d'essere ascritto
tra i lavoratori della giornata
e domandò la paga. Il borgese
se ne rise di questa pretesa.
Ma non ridono tra di noi certi baroni,
anzi pagano bene e profumato,
i tanti mosconi parassiti
che si fanno vedere affaccendati
e rubano tutto intero il guadagno
di quelli che faticano davvero.
LXXXVIII
L'Etiope e la neve
Un Etiope, nero come la pece,
pretendeva di farsi bianco strofinando
sul viso della neve. Un saggio dice:
È tempo perso, smetti d'affannarti,
la tua faccia potrà annerire la neve,
ma questa non già imbianchire la tua faccia.
LXXXIX
La mosca e il leone
Una mosca si posò sopra un leone
e vedeva che tutti quanti gli animali

scorgendolo stavano rintanati
né avevano coraggio di comparirgli davanti.
Dunque, disse, io non appartengo alla comunità
giacché si degna di sopportarmi... L'ignorante
non capiva che per quella testa altera
tra gli esseri creati lei non c'era.