Blog (pdf) - Maurizio Ferrarotti

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nego, le frontiere mi rendono irrequieto. Questa in modo particolare: sbirri newyorchesi e vug insieme, non so se mi spiego. “Io sono di Cusano Milanino. Lavoro in un laboratorio di ottica italiano, nell’Upper East Side.” “Ah sì? Interessante. Quindi devi esserti abituata a questa manfrina.” Un gesto descrittivo accompagna il finale della mia affermazione. Lei sorride. “Beh, mai troppo. Per di più, c’é sempre l’eventualità che qualche ufficiale zelante ti venga a far le pulci. Anche se vivo e lavoro qui da quattro anni ormai.” Bello sentirsi dire certe cose. “Che vuoi dire esattamente?” Io, per me, é la quarta volta in due anni che mi reco negli Stati Uniti col programma Esta: ossia, niente visto, ma tempo massimo di permanenza 90 giorni, non un giorno di più altrimenti ti vietano l’ingresso per dieci anni, e biglietto A/R in tasca. La bionda slavata mi racconta: “Quando sono sbarcata qua a New York per la prima volta con un Work Visa temporaneo, mi hanno portata all’Ufficio Immigrazione e tenuta là per due ore a schiumare come una scema. Dopodiché, quand’é venuto il mio turno, mi hanno mitragliato di domande nemmeno fossi una delinquente. Alla fine di quella sgroppata ho candidamente suggerito loro di chiamare l’occhialeria - il collega col mio nome scritto su un foglio poteva essersi stancato di attendermi giù nell’atrio arrivi. Mi hanno guardato malissimo ma subito dopo hanno mollato la presa.” “Che storia. Comunque prima o poi anch’io avrò bisogno di un visto.” L’occhialaia mi restituisce un blando assenso. Fine della conversazione, é arrivato il suo turno. Traggo un profondo respiro, sorrido: I’m about to step into America again! L’ufficiale é un ragazzo alto e robusto dai lineamenti polinesiani, un bel fiulastrun, come usava dire mio padre in piemontese. Per contro, non mi sembra granché sveglio; lo vedrei benissimo a Uomini e donne. Dopo avermi scansionato le impronte, prende a scorrere avanti e indietro il mio passaporto con aria perplessa, come fosse un libretto scritto in una lingua sconosciuta ritrovato nella tomba di un faraone. E tutt’a un tratto: “Per favore, potrebbe venire un attimo con me, signore?” dice, al tempo sgusciando da dietro la postazione col mio passaporto e le scartoffie in mano. Come come? “Scusi, c’é qualche problema?” “No, nessun problema.” Ti si stanno accorciando le gambe, Costantino. “Mi segua.” Ok, seguiamolo. “Entri là dentro e si accomodi in fondo alla sala.” Là dentro sta per Ufficio Immigrazione. Ma porca puttana sifilitica. Nessun problema, signor Goldenberg: é solo una camera a gas. Entri dentro, chiuda gli occhi e respiri a fondo. Vado a sedermi dove Costantino m’indica col dito teso. Il salone, luce bianca calor bianco e aria condizionata a 1.90 gradi Kelvin, é gremito d’un campionario d’umanità: cinesi, ivoriani, libanesi, rumeni, albanesi, messicani, argentini, inuit. In meno di un minuto realizzo che sono l’unico italiano. Incastonata in una nicchia davanti all’ingresso v’é una scrivania oblunga decisamente elevata rispetto al pavimento: dietro a essa, una trimurti di vug in uniforme, gli scrutinatori. Oh madre mia. L’occhialaia mi ha gettato il malocchio. Come accennato, non ho un grande rapporto con le frontiere: conflittivo, direi. Prima dei trattati di Schengen, ma anche dopo spesso e volentieri, ero una delle vittime preferite 18

delle guardie di frontiera francesi al confine con la piel del toro settentrionale. All’epoca, parlo della prima metà degli anni Novanta, ero in pieno trip Euskadi e la maggior parte delle volte vi andavo in macchina da solo. È ovvio che ciò insospettisse la Gendarmerie. Ma io non ho mai contrabbandato droga né armi né niente, ci mancherebbe. Nondimeno, le rotture di marroni che non ho dovuto subire a Hendaye o su di lì! Primo dell’anno 1991. Con due ore di pseudo-sonno e un eccesso di libagioni ancora da smaltire, monto in macchina, metto su Back in The U.S.A. degli MC5 e parto da Donostia alla volta dell’Italia. Ho ancora in bocca il gusto delle ali di pollo croccanti che deliziose ragazze dai nomi impossibili - Nekane, Edurne, Aitziber, Izaskun - servivano in vassoi di peltro ai clienti dell’ultima discoteca che ci siamo fatti, intorno alle sette del mattino. Il resto della mia banda tornerà a Torino tra due giorni: io, personalmente, devo timbrare il cartellino domani alle 6. Ora sono le 13.00. Partirono in quattro con due macchine ma ne tornò soltanto uno. Highwaylander. The shakin’ street, it’s got that beat. I doganieri spagnoli neanche mi cagano. Varco la frontiera. I doganieri francesi con ampi gesti mi segnalano di parcheggiare. Sbuffo. Che il diavolo li porti! Smonto e, giocando d’anticipo, consegno loro i documenti d’identità e della vettura senza proferire favella. Due sbirri e un pastore tedesco capitanati da una donna allampanata con la stessa faccia di Nicole Kidman in The Hours. “Parlez-vous Français?” mi domanda costei, sguardo spento, visibilmente assonnata. “No” rispondo. "Parlo un po’ di spagnolo. Usted me entiende? ” “Oui, usted lo habla bastante bien.” Detto ciò, gli sbirri e il cane mi rivoltano l’auto come un calzino. Aprono i miei bagagli e li fanno annusare alla bestia, esaminano i miei nastri uno a uno controluce, ficcano i loro nasi adunchi sotto i sedili, smontano le casse e le bocchette dell’aria, svitano i tappi delle vaschette dei fluidi e il filtro dell’aria. Virginia Woolf assiste al rituale con aria truce, si dev’essere persuasa di aver bloccato un pericoloso spacciatore internazionale. Intanto il tempo scorre e il mio proponimento s’allontana spostandosi verso il rosso. Non ce la farò mai ad arrivare al rusco in orario. Fortuna che non fa tanto freddo: ieri mattina si poteva girare in T-shirt e giubbotto. La perquisizione dura tre quarti d’ora. Finalmente un gendarme mi ridà i documenti con un lieve cenno d’assenso “très bien monsieur”, mentre Virginia Kaiser s’allontana senza spiccicar parola, visibilmente contrariata. Ciapa lì, befana dei Pirenei. (Mi gioco 1000$ che era un vug. Ma allora non potevo vederli...) Ha ha ha. Risata che poco più in là, quando mi fermo alla stazione di Bidart per far benzina e bere un caffè, muta in un’orrida bestemmia allorché m’accorgo che quei procioni mi hanno sciancato la bocchetta sul lato passeggero. Non s’incastra più. Ma porcaccia la... (Per la posterità, arrivai a Torino alle 5.10 del mattino, esausto e in preda a un attacco di diarrea. Se andai a lavorare? Non ve lo dirò. Speculate pure, che mi piace.) Guardo l’orologio per la centesima volta: 6.10 p.m. Ho ancora cinquanta minuti prima che cominci l’imbarco del volo per Tampa. Due ore segregato in questa ghiacciaia, senza poter usare il cellulare - gli sbirri s’infuriano se lo fai - né alzarsi. I vug hanno interrogato e scarcerato tutti coloro i quali erano prima di me; ciò nondimeno, come ne mollano uno ne portano dentro un altro corrispondente al loro concetto di racial profiling: vale a dire, 19

nego, le frontiere mi rendono irrequieto. Questa in modo particolare: sbirri newyorchesi e<br />

vug insieme, non so se mi spiego.<br />

“Io sono di Cusano Milanino. Lavoro in un laboratorio di ottica italiano, nell’Upper East<br />

Side.”<br />

“Ah sì? Interessante. Quindi devi esserti abituata a questa manfrina.” Un gesto descrittivo<br />

accompagna il finale della mia affermazione.<br />

Lei sorride. “Beh, mai troppo. Per di più, c’é sempre l’eventualità che qualche ufficiale<br />

zelante ti venga a far le pulci. Anche se vivo e lavoro qui da quattro anni ormai.”<br />

Bello sentirsi dire certe cose. “Che vuoi dire esattamente?” Io, per me, é la quarta volta in<br />

due anni che mi reco negli Stati Uniti col programma Esta: ossia, niente visto, ma tempo<br />

massimo di permanenza 90 giorni, non un giorno di più altrimenti ti vietano l’ingresso<br />

per dieci anni, e biglietto A/R in tasca.<br />

La bionda slavata mi racconta: “Quando sono sbarcata qua a New York per la prima volta<br />

con un Work Visa temporaneo, mi hanno portata all’Ufficio Immigrazione e tenuta là per<br />

due ore a schiumare come una scema. Dopodiché, quand’é venuto il mio turno, mi hanno<br />

mitragliato di domande nemmeno fossi una delinquente. Alla fine di quella sgroppata ho<br />

candidamente suggerito loro di chiamare l’occhialeria - il collega col mio nome scritto su<br />

un foglio poteva essersi stancato di attendermi giù nell’atrio arrivi. Mi hanno guardato<br />

malissimo ma subito dopo hanno mollato la presa.”<br />

“Che storia. Comunque prima o poi anch’io avrò bisogno di un visto.”<br />

L’occhialaia mi restituisce un blando assenso. Fine della conversazione, é arrivato il suo<br />

turno. Traggo un profondo respiro, sorrido: I’m about to step into America again!<br />

L’ufficiale é un ragazzo alto e robusto dai lineamenti polinesiani, un bel fiulastrun, come<br />

usava dire mio padre in piemontese. Per contro, non mi sembra granché sveglio; lo vedrei<br />

benissimo a Uomini e donne. Dopo avermi scansionato le impronte, prende a scorrere<br />

avanti e indietro il mio passaporto con aria perplessa, come fosse un libretto scritto in una<br />

lingua sconosciuta ritrovato nella tomba di un faraone.<br />

E tutt’a un tratto: “Per favore, potrebbe venire un attimo con me, signore?” dice, al tempo<br />

sgusciando da dietro la postazione col mio passaporto e le scartoffie in mano.<br />

Come come? “Scusi, c’é qualche problema?”<br />

“No, nessun problema.” Ti si stanno accorciando le gambe, Costantino. “Mi segua.” Ok,<br />

seguiamolo.<br />

“Entri là dentro e si accomodi in fondo alla sala.”<br />

Là dentro sta per Ufficio Immigrazione. Ma porca puttana sifilitica.<br />

Nessun problema, signor Goldenberg: é solo una camera a gas. Entri dentro, chiuda gli<br />

occhi e respiri a fondo. Vado a sedermi dove Costantino m’indica col dito teso.<br />

Il salone, luce bianca calor bianco e aria condizionata a 1.90 gradi Kelvin, é gremito d’un<br />

campionario d’umanità: cinesi, ivoriani, libanesi, rumeni, albanesi, messicani, argentini,<br />

inuit. In meno di un minuto realizzo che sono l’unico italiano. Incastonata in una nicchia<br />

davanti all’ingresso v’é una scrivania oblunga decisamente elevata rispetto al pavimento:<br />

dietro a essa, una trimurti di vug in uniforme, gli scrutinatori. Oh madre mia. L’occhialaia<br />

mi ha gettato il malocchio.<br />

Come accennato, non ho un grande rapporto con le frontiere: conflittivo, direi. Prima dei<br />

trattati di Schengen, ma anche dopo spesso e volentieri, ero una delle vittime preferite<br />

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