AA.VV. - Al Cinema Con Il Mostro (Ita Libro)

A un segno dell’ufficiale, il sergente avrebbe fatto un passo a lato e l’asse si sarebbe
ribaltata lasciando il condannato sospeso nel vuoto fra le due traversine. Una
soluzione veramente semplice ed efficace. Il volto del condannato non era stato
coperto né i suoi occhi bendati: per un breve istante egli considerò la sua precaria
posizione, poi lasciò correre lo sguardo verso le acque vorticose del fiume che gli
scorreva sotto i piedi. Un pezzo di legno sballottato dalle acque attirò la sua
attenzione ed egli ne segui la corsa lungo la corrente. Come sembrava procedere
adagio! Quanto pareva tranquillo il corso del fiume!
Chiuse gli occhi per riservare i suoi ultimi pensieri alla moglie e ai figli. L’acqua,
screziata d’oro da un sole appena levatosi, la nebbia che ancora indugiava sulle
sponde in lontananza lungo il corso del fiume, il fortino, i soldati, il legno alla deriva,
tutto ciò lo aveva distratto. E anche ora s’intrometteva un nuovo fattore di disturbo.
Insinuatasi nei pensieri dei suoi cari c’era ora la presenza di un rumore che non
riusciva a ignorare e neppure a comprendere, un suono secco, ben distinto, metallico
come il martellare di un fabbro su un’incudine. Le stesse sonorità. L’uomo si chiese
cosa potesse mai essere, se provenisse da un’incommensurabile distanza o da li
vicino: e sembrava che quel rumore avesse entrambe le origini. Era scandito con
regolarità, ma quei colpi erano lenti come i rintocchi di una campana a morto. Egli
aspettava ogni colpo con impazienza e anche, senza potersene spiegare la ragione,
con apprensione. Gli intervalli di silenzio andavano facendosi sempre più lunghi;
quei ritardi lo facevano impazzire. Man mano che si dilatava la frequenza di quei
suoni, sempre più cresceva la loro chiarezza e intensità. Ferivano il suo orecchio
come lame di coltello: egli temette di mettersi a gridare.. Ciò che udiva non era altro
che il ticchettare del suo orologio.
Riaprì gli occhi e di nuovo guardò l’acqua sotto di lui. “Se potessi liberarmi le
mani” pensò “forse riuscirei a liberarmi anche dal cappio e a gettarmi nel fiume.
Restando sott’acqua potrei evitare i proiettili e poi, nuotando vigorosamente,
guadagnare la riva, raggiungere il bosco e correre verso casa. La mia casa che, grazie
a Dio, è ancora al di fuori delle loro linee; mia moglie e i miei figli si trovano ben
oltre le più avanzate posizioni dell’invasore.”
Mentre questi pensieri, qui riportati sotto forma di parole, si incendiavano
improvvisi come lampi nel cervello del condannato senza costruzione logica alcuna,
il capitano impartì l’ordine con un solo cenno del capo al sergente. E il sergente
compì il suo passo di lato.
Peyton Farquhar era un piantatore di agiate condizioni economiche, appartenente a
una vecchia e illustre famiglia dell’Alabama. Proprietario di schiavi, come altri della
sua stessa condizione sociale, si occupava di politica e, naturalmente, era un convinto
secessionista e fervente sostenitore della causa degli stati del Sud. Inderogabili
necessità, che sarebbe inutile riferire in questa sede, gli avevano impedito di
arruolarsi nel valoroso esercito le cui disastrose campagne si sarebbero concluse con
la caduta di Corinth. Insofferente per questa forzata esclusione che giudicava
disonorevole, fremeva dal desiderio di poter dar sfogo alle sue energie, di impegnarsi
nella più generosa vita del soldato, di avere l’opportunità per potersi distinguere.
Quell’occasione che egli sentiva si sarebbe presentata anche per lui, come del resto a