La Gallura una Regione Diversa in Sardegna - Servizi On Line

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28.05.2013 Views

delle attività domestiche quotidiane è scomparsa. Resistono quei termini ormai fuori contesto che rimangono nelle espressioni tipiche proverbiali, nelle parlate gergali che vogliono essere sapide, nella comunicazione degli anziani. La stessa toponomastica ha ceduto alle seduzioni dell’immaginario turistico. Il gallurese ha mantenuto margini espressivi e identificativi impoveriti e limitati ad un mondo di poche cose. Tuttavia le lingue esistono e continueranno ad esistere se hanno la forza e il potere di imporsi, se sono di una utilità irrinunciabile, se hanno e conservano la proprietà di esprimere non solamente l’attualità banalizzata nella realtà del villaggio, ma sono strumento duttile in grado di assumere nel proprio vocabolario i termini che designano cose e situazioni, fatti ed atti che la cosiddetta globalizzazione introduce continuamente a definire l’apparire continuo di novità (tecnologiche e non). Meglio ancora se, come l’inglese odierno (o come l’italiano del ‘600) le parlate locali sanno trovare dentro di sé sempre parole nuove per descrivere l’universo che si rinnova. Resta la lingua come espressione di sentimenti famigliari, come strumento poetico di necessità impoverito. Se non si ha la capacità di uscire dai modelli economici calati dall’esterno, se la piccola società gallurese non dimostra dinamismo e non crea condizioni per de-situarsi dal luogo in cui sta ferma, confidando nei secolari parassitismi, nella rendita precaria come ancora di salvezza, la difesa della lingua madre è un’impresa disperata. Purtroppo gli idiomi non possiedono una forza intrinseca che li impone ai parlanti, ma sono la vitalità e l’equilibrio di una società che fanno della lingua uno strumento duttile in grado di esprimere complessità, innovazione, spessore e ricchezza culturale. In tal caso la lingua non è più un semplice codice, un’etichetta che si applica alle cose, ma rende autorevole la stessa società che ne fa uso. La lingua gallurese richiama la tradizione gallurese, cioè il complesso delle consuetudini che conferiscono alle parole il senso che si dà alle cose, assegna un significato piuttosto che un altro, ribadisce quel nucleo di valori che difende da ogni possibile fraintendimento. La parola nella sua enunciazione deve far rivivere la propria storia. La storia è così storia di parole, e le parole sono un’apertura di senso che l’uomo costruisce e spesso dimentica. Ma la dimenticanza non cancella mai gli strati profondi della parola, che ogni tanto si annunciano facendo crollare quei sensi abituali che nascono e si consolidano quando usiamo le parole senza più viverle. Perché le parole come apertura di senso restano espressive pur se hanno perduto il completo riferimento alla realtà che le ha generate. Il loro manifestarsi conserva la capacità di far rivivere la propria storia anche quando la si è dimenticata. Sempre i modi comunicativi che fanno uso delle parole della tradizione rappresentano un appiglio che consente il recupero intero dei sensi della parola e riaccende la facoltà creativa e rielaborativa. Il recupero funzionale delle strutture materiali, così come ci proponiamo, il ri-creare le forme di produzione tradizionali, inserendole dinamicamente nei nuovi contesti e nei nuovi processi economici e produttivi, sono certamente azioni in grado da sole di far rivivere la lingua madre nel suo significato originario e profondo e, con essa antica e nuova, di dare nuovi impulsi alla società. Per fare ciò occorre volontà, ma soprattutto co- 45 noscenza, sapienza, mezzi. Problematicissima anche la descrizione del carattere dei galluresi. Dove per carattere intendiamo gli elementi strutturali della persona che reagiscono in modo predeterminato, con un comportamento che ha maggiore fissità, che è stato cioè definito costitutivamente dalla tradizione, dall’educazione e, sostanzialmente, dalle vicende storiche. Distinguiamo qui tra carattere e temperamento, assegnando a quest’ultimo il pregio di maggiore elasticità ed adattabilità, ossia maggiore libertà nelle risposte. Per poter dare una descrizione attendibile del contenuto “carattere dei galluresi”, occorrerebbe analizzare compiutamente la struttura della società gallurese e la funzione che singoli individui o classi vi svolgono. Sarebbe come dire verificare non solo i ruoli interpretati, ma anche la percezione di sé che hanno gli attori che impersonano il ruolo. Cioè il giudizio di merito che noi galluresi esprimiamo su noi stessi. Abbiamo detto in più occasioni che in genere siamo affetti da “dicotomia”, e analizziamo tutto in modo doppio, divaricato, distinguendo tra “noi” e “gli altri”. O per essere precisi tra “noi e li continentali” tra “noi e l’angeni” e, via via peggiorando tra “noi e li saldi, li maurreddi, li muntagnini. Abbiamo esempi anche recenti di letteratura, di stile lombrosiano o niceforiano, che tenta di accreditare un carattere perennemente positivo a noi galluresi di fronte e contro le evidenti tare di coloro che ci circondano. Silla Lissia nei primi anni del XX secolo ha scritto un libro sulla Gallura che ancora oggi è di una grande attualità e desta particolare interesse. In questo libro vi sono pagine illuminanti sulla società del tempo e sui caratteri dei galluresi. Veda il lettore quanti giudizi potrebbero essere di attualità anche oggi e quali invece sono datati senza rimedio. Per il nostro autore, antesignano del socialismo riformista, … “i galluresi sono di intelligenza vivace, ma poco socievoli, sospettosi, indolenti e poco perseveranti, perché facili a scoraggiarsi. Hanno un’etica sociale e un sentimento di solidarietà circoscritti alla famiglia. Vivono il familismo con un malinteso senso dell’onore, spesso causa del sentimento della vendetta. L’isolamento poi ne rafforza il carattere individualista e anti sociale. Inoltre questa tendenza alla chiusura è conseguenza e causa del basso livello di istruzione e di cultura. Il gallurese è conservatore per inerzia psicologica e per debolezza della volontà, più che per convinzione politica. Odia, è invidioso e sospettoso per mancanza di senso della solidarietà. Privo d’iniziativa tutto chiede e tutto gli è dovuto. Facile all’odio come all’amore.Ad iniziare dal sentimento della vendetta radicata è perseverante fino al delitto. Apatico, non si pone problemi di natura sociale e perciò tanto meno si sente impegnato a risolverne… Si considera che il sentimento della vendetta, covato e manifestato in azioni clamorose, abbia una doppia origine. In primo luogo come strumento di reazione e difesa nei confronti della pressione di una società profondamente ingiusta e classista in modo ferocemente gerarchico, sfruttatrice, senza remore morali e religiose, delle fasce economicamente più deboli. In secondo luogo, quasi fosse una conseguenza delle condizioni socio-economiche, l’alto sentimento della casa, della famiglia, dell’onore. Fino al punto che la tensione alla vendetta d’onore, in tempi di prepotenze e iniquità, diventa l’unico presidio dell’integrità personale e familiare. C’è da aggiungere che

l’attaccamento alla casa propria e stabile non alimenta nel gallurese lo spirito razziatore della pastorizia nomade. In una famosa indagine dell’antropologo positivista Niceforo, che era un seguage convinto della teoria della corrispondenza tra alcuni caratteri somatici e i comportamenti criminali, aveva affermato che i sardi possedevano i tratti tipici della “razza delinquente”. Pertanto il popolo sardo è incapace di progredire perché prigioniero delle sue impotenze morali e dei suoi truci delitti. È una razza degenerata a causa dell’arresto del proprio sviluppo, attardato in una fase anteriore dell’evoluzione civile, a causa di un “quid” indefinito, di “una qualità cristallizzabile della razza”, priva di quella elasticità che fa evolvere la coscienza sociale…” Ma, continua Silla Lissia, “…la psiche è il prodotto di un’evoluzione naturale attraverso il tempo (storia) e lo spazio (natura). Questa azione va attenuandosi in relazione alle risposte che l’uomo dà alla pressione dell’ambiente, e in relazione alle sue fondamentali esigenze. Non tutti seguono ugualmente l’azione delle condizioni materiali di vita subendole, c’è chi ha l’intelligenza per trovare le vie del miglioramento. Si consideri però che dalla maturazione della coscienza individuale ad una forma diffusa di civiltà l’evoluzione può essere molto lenta. La trasformazione delle abitudini e delle idee deve avere il tempo e trovare le condizioni per maturare. L’idea di trasformare la coscienza del popolo coll’improvviso mutamento dell’ordinamento economico, attuato con provvedimenti calati dall’alto, è spesso un’illusione. Soprattutto quando si pensa di poter cambiare la costituzione giuridica della proprietà e del diritto con forme estranee alla condizione del momento. La Gallura di frequente è stata trasportata da una condizione ad un’altra senza preparazione adeguata e per opera di poteri esterni…Lo stesso movimento antifeudale angioyano non trovava riscontro in mutate forme di produzione e in nuovi bisogni giuridici e morali. Fu un movimento riflesso, un fuoco fatuo. Tanto è vero che l’abolizione del pascolo comune, la privatizzazione delle vidazzoni (comunella), la ripartizione delle terre comunali e degli ademprivi, hanno lasciato immutati i sistemi di coltura. Quando poi incominciarono le pratiche per la liquidazione dei feudi, poiché si veniva a ledere un preciso interesse personale, le reazioni furono immediate e decise e le comunità galluresi protestarono vivacemente rifiutandosi di risarcire il feudatario, perché al momento già tutte le terre della contrada erano possesso e dominio dei privati, i quali ne godevano da sempre il libero uso, con facoltà di disporne per testamento. Esibirono titoli e documenti a dimostrazione che il feudatario non aveva mai avuto nella sua disponibilità neanche un palmo di terreno, e perciò non poteva rivendicare diritti o percepire prestazioni. Già in precedenza i pastori avevano contestato al feudatario il diritto di sbarbagio (la cessione di una pecora ogni quaranta ed una capra ogni dieci). Le comunità con il loro rifiuto perseguivano un doppio scopo: sottrarsi all’onere dl riscatto e giustificare le usurpazioni compiute o da compiere a danno del patrimonio comunale. I pastori poi intentarono liti rivendicative al governo quando questo succedette nel diritto al feudatario…” Quali titoli vantavano i pastori nel rivendicare il possesso degli stazzi? Diciamo che il meccanismo è quello descritto nella parte storica ed era sostenuto dalle 46 leggi prammaticali per cui ogni pastore aveva diritto a fabbricarsi la casa e a recintare un pezzo di terra per i bisogni agricoli e domestici della famiglia. Quest’ultima opportunità, la concessione cioè della cosiddetta orzalina o arvo, diede luogo alla nascita di numerosi stazzi; per cui in Gallura, come già abbiamo ampiamente descritto, la pastorizia diviene fissa e la regione cambia radicalmente aspetto per la nuova riorganizzazione fondiaria. Col tempo i pastori si impossessarono anche delle terre destinate al pascolo o vincolate per la presenza al loro interno di boschi, fonti, strade e, come conseguenza contestarono il tributo al feudatario che, a sua volta, intentando molteplici liti spesso otteneva ragione. Le stesse comunità dei villaggi rivendicavano il diritto di ademprivio e vidazzone. Ma alla fine i pastori la spuntarono, poiché le concessioni per l’uso esclusivo di un fondo agricolo erano facilmente date purché il pastore s’impegnasse a migliorare l’allevamento del bestiame e razionalizzare pastorizia e agricoltura (assindicamento). Al momento della costituzione del catasto, nel 1853, il novanta per cento della Gallura era già zona pastorale privatizzata e solo il dieci per cento era nelle mani del demanio comunale ed Ecclesiastico. Tale situazione, in relazione alla popolazione totale, ha generato un alto numero di proprietari fondiari. All’alba del XIX secolo la maggior parte di costoro possedeva una proprietà dalle dimensioni insufficienti a garantire sicurezza economica. Ad ogni buon conto tutti hanno “l’anima proprietaria”, cioè un’anima profondamente conservatrice, avida e, in fondo, parassitaria, perché tendono ad occultare i contrasti, le ingiustizie sociali e i casi di sfruttamento. Tutti sono orgogliosi di dirsi proprietari e innalzano barriere tra loro e coloro che per motivi di lavoro ne dipendono. Per aggiunta pensano che la società umana sia sempre stata così. Hanno dimenticato che essi stessi, fino a non molti decenni addietro (da oggi fino a centocinquanta anni fa) vivevano e lavoravano su terre comuni, quando non dipendevano da un cavaliere tempiese in condizioni di pura subalternità. Hanno dimenticato che oggi dispone di un fondo agricolo perché, negli anni addietro, ogni agricoltore povero aveva diritto di avere la sua parte di terra per coltivare nella vidazzone; aveva diritto di pascolare le bestie nelle terre comuni e godeva degli ademprivi. Hanno dimenticato che questo era lo stato dei loro maggjóri, che hanno dovuto subire e lottare per ritagliarsi uno spazio di autonomia e libertà in un fazzoletto di terra dove poter migliorare la condizione economica. I piccoli, medi e grandi proprietari non si specchiano più nel contadino non proprietario che procura loro i mezzi per la vita e che, rassegnato, come loro ieri, ringrazia il padrone per avergli dato l’opportunità di lavorare. Da più parti si è osservato che si è voluta agevolare la formazione della proprietà privata senza tentare di trasporre verso un cooperativismo, peraltro già esistente in modo embrionale, l’ordinamento agrario isolano con le sue esperienze comunitarie che davano indicazioni in tale direzione. La pesante macchinosa regolamentazione, nota come “Legge sulle Chiudende”, di fatto favorì coloro che “abusivamente avevano occupato terre comunali, abbeveratoi pubblici, persino tratti di strade regie che si erano affrettati a chiudere al solo scopo di consolidare

l’attaccamento alla casa propria e stabile non alimenta nel gallurese lo spirito razziatore<br />

della pastorizia nomade. In <strong>una</strong> famosa <strong>in</strong>dag<strong>in</strong>e dell’antropologo positivista<br />

Niceforo, che era un seguage conv<strong>in</strong>to della teoria della corrispondenza tra<br />

alcuni caratteri somatici e i comportamenti crim<strong>in</strong>ali, aveva affermato che i sardi<br />

possedevano i tratti tipici della “razza del<strong>in</strong>quente”. Pertanto il popolo sardo è <strong>in</strong>capace<br />

di progredire perché prigioniero delle sue impotenze morali e dei suoi truci<br />

delitti. È <strong>una</strong> razza degenerata a causa dell’arresto del proprio sviluppo, attardato<br />

<strong>in</strong> <strong>una</strong> fase anteriore dell’evoluzione civile, a causa di un “quid” <strong>in</strong>def<strong>in</strong>ito, di<br />

“<strong>una</strong> qualità cristallizzabile della razza”, priva di quella elasticità che fa evolvere la<br />

coscienza sociale…”<br />

Ma, cont<strong>in</strong>ua Silla Lissia, “…la psiche è il prodotto di un’evoluzione naturale<br />

attraverso il tempo (storia) e lo spazio (natura). Questa azione va attenuandosi <strong>in</strong><br />

relazione alle risposte che l’uomo dà alla pressione dell’ambiente, e <strong>in</strong> relazione<br />

alle sue fondamentali esigenze. Non tutti seguono ugualmente l’azione delle condizioni<br />

materiali di vita subendole, c’è chi ha l’<strong>in</strong>telligenza per trovare le vie del<br />

miglioramento. Si consideri però che dalla maturazione della coscienza <strong>in</strong>dividuale<br />

ad <strong>una</strong> forma diffusa di civiltà l’evoluzione può essere molto lenta. <strong>La</strong> trasformazione<br />

delle abitud<strong>in</strong>i e delle idee deve avere il tempo e trovare le condizioni<br />

per maturare. L’idea di trasformare la coscienza del popolo coll’improvviso mutamento<br />

dell’ord<strong>in</strong>amento economico, attuato con provvedimenti calati dall’alto, è<br />

spesso un’illusione. Soprattutto quando si pensa di poter cambiare la costituzione<br />

giuridica della proprietà e del diritto con forme estranee alla condizione del momento.<br />

<strong>La</strong> <strong>Gallura</strong> di frequente è stata trasportata da <strong>una</strong> condizione ad un’altra<br />

senza preparazione adeguata e per opera di poteri esterni…Lo stesso movimento<br />

antifeudale angioyano non trovava riscontro <strong>in</strong> mutate forme di produzione e <strong>in</strong><br />

nuovi bisogni giuridici e morali. Fu un movimento riflesso, un fuoco fatuo. Tanto è<br />

vero che l’abolizione del pascolo comune, la privatizzazione delle vidazzoni (comunella),<br />

la ripartizione delle terre com<strong>una</strong>li e degli ademprivi, hanno lasciato<br />

immutati i sistemi di coltura. Quando poi <strong>in</strong>com<strong>in</strong>ciarono le pratiche per la liquidazione<br />

dei feudi, poiché si veniva a ledere un preciso <strong>in</strong>teresse personale, le reazioni<br />

furono immediate e decise e le comunità galluresi protestarono vivacemente<br />

rifiutandosi di risarcire il feudatario, perché al momento già tutte le terre della contrada<br />

erano possesso e dom<strong>in</strong>io dei privati, i quali ne godevano da sempre il libero<br />

uso, con facoltà di disporne per testamento. Esibirono titoli e documenti a dimostrazione<br />

che il feudatario non aveva mai avuto nella sua disponibilità neanche<br />

un palmo di terreno, e perciò non poteva rivendicare diritti o percepire prestazioni.<br />

Già <strong>in</strong> precedenza i pastori avevano contestato al feudatario il diritto di sbarbagio<br />

(la cessione di <strong>una</strong> pecora ogni quaranta ed <strong>una</strong> capra ogni dieci). Le comunità<br />

con il loro rifiuto perseguivano un doppio scopo: sottrarsi all’onere dl riscatto e<br />

giustificare le usurpazioni compiute o da compiere a danno del patrimonio com<strong>una</strong>le.<br />

I pastori poi <strong>in</strong>tentarono liti rivendicative al governo quando questo succedette<br />

nel diritto al feudatario…”<br />

Quali titoli vantavano i pastori nel rivendicare il possesso degli stazzi? Diciamo<br />

che il meccanismo è quello descritto nella parte storica ed era sostenuto dalle<br />

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leggi prammaticali per cui ogni pastore aveva diritto a fabbricarsi la casa e a rec<strong>in</strong>tare<br />

un pezzo di terra per i bisogni agricoli e domestici della famiglia.<br />

Quest’ultima opportunità, la concessione cioè della cosiddetta orzal<strong>in</strong>a o arvo,<br />

diede luogo alla nascita di numerosi stazzi; per cui <strong>in</strong> <strong>Gallura</strong>, come già abbiamo<br />

ampiamente descritto, la pastorizia diviene fissa e la regione cambia radicalmente<br />

aspetto per la nuova riorganizzazione fondiaria. Col tempo i pastori si<br />

impossessarono anche delle terre dest<strong>in</strong>ate al pascolo o v<strong>in</strong>colate per la presenza<br />

al loro <strong>in</strong>terno di boschi, fonti, strade e, come conseguenza contestarono il tributo<br />

al feudatario che, a sua volta, <strong>in</strong>tentando molteplici liti spesso otteneva ragione.<br />

Le stesse comunità dei villaggi rivendicavano il diritto di ademprivio e vidazzone.<br />

Ma alla f<strong>in</strong>e i pastori la spuntarono, poiché le concessioni per l’uso esclusivo<br />

di un fondo agricolo erano facilmente date purché il pastore s’impegnasse a<br />

migliorare l’allevamento del bestiame e razionalizzare pastorizia e agricoltura<br />

(ass<strong>in</strong>dicamento). Al momento della costituzione del catasto, nel 1853, il novanta<br />

per cento della <strong>Gallura</strong> era già zona pastorale privatizzata e solo il dieci per cento<br />

era nelle mani del demanio com<strong>una</strong>le ed Ecclesiastico. Tale situazione, <strong>in</strong> relazione<br />

alla popolazione totale, ha generato un alto numero di proprietari fondiari.<br />

All’alba del XIX secolo la maggior parte di costoro possedeva <strong>una</strong> proprietà dalle<br />

dimensioni <strong>in</strong>sufficienti a garantire sicurezza economica.<br />

Ad ogni buon conto tutti hanno “l’anima proprietaria”, cioè un’anima profondamente<br />

conservatrice, avida e, <strong>in</strong> fondo, parassitaria, perché tendono ad occultare<br />

i contrasti, le <strong>in</strong>giustizie sociali e i casi di sfruttamento. Tutti sono orgogliosi di<br />

dirsi proprietari e <strong>in</strong>nalzano barriere tra loro e coloro che per motivi di lavoro ne<br />

dipendono. Per aggiunta pensano che la società umana sia sempre stata così.<br />

Hanno dimenticato che essi stessi, f<strong>in</strong>o a non molti decenni addietro (da oggi f<strong>in</strong>o<br />

a centoc<strong>in</strong>quanta anni fa) vivevano e lavoravano su terre comuni, quando non dipendevano<br />

da un cavaliere tempiese <strong>in</strong> condizioni di pura subalternità. Hanno<br />

dimenticato che oggi dispone di un fondo agricolo perché, negli anni addietro,<br />

ogni agricoltore povero aveva diritto di avere la sua parte di terra per coltivare<br />

nella vidazzone; aveva diritto di pascolare le bestie nelle terre comuni e godeva<br />

degli ademprivi. Hanno dimenticato che questo era lo stato dei loro maggjóri, che<br />

hanno dovuto subire e lottare per ritagliarsi uno spazio di autonomia e libertà <strong>in</strong><br />

un fazzoletto di terra dove poter migliorare la condizione economica. I piccoli,<br />

medi e grandi proprietari non si specchiano più nel contad<strong>in</strong>o non proprietario che<br />

procura loro i mezzi per la vita e che, rassegnato, come loro ieri, r<strong>in</strong>grazia il padrone<br />

per avergli dato l’opportunità di lavorare.<br />

Da più parti si è osservato che si è voluta agevolare la formazione della<br />

proprietà privata senza tentare di trasporre verso un cooperativismo, peraltro già<br />

esistente <strong>in</strong> modo embrionale, l’ord<strong>in</strong>amento agrario isolano con le sue esperienze<br />

comunitarie che davano <strong>in</strong>dicazioni <strong>in</strong> tale direzione. <strong>La</strong> pesante macch<strong>in</strong>osa<br />

regolamentazione, nota come “Legge sulle Chiudende”, di fatto favorì coloro che<br />

“abusivamente avevano occupato terre com<strong>una</strong>li, abbeveratoi pubblici, pers<strong>in</strong>o<br />

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