La Gallura una Regione Diversa in Sardegna - Servizi On Line

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28.05.2013 Views

essiccare prima della macinazione. Il grano duro o tricu ruiu doveva talvolta essere macinato più volte e questo poteva incidere negativamente sulla qualità della farina ottenuta. Pur se lu tricu ruiu aveva una resa maggiore, ad essere universalmente coltivato in Gallura era lu tricu cossu, a causa della sua qualità ritenuta più adatta a preparare vari tipi di pasta, pane, dolci. Spesso lu tricu ruiu doveva essere mescolato a lu tricu còssu per essere reso più ùmbulu, tenero. Macinato invece separatamente dava una farina più scura. Parte del raccolto era destinato alla successiva seminagione. I cereali venivano mondati da qualsiasi impurità, poi irrorati con una soluzione acquosa di solfato di rame - insulfattati - e sottoposti a una vigorosa mescitura così che ogni chicco venisse “medicato” e non fosse soggetto, nel momento dell’uscita dalla veste, a calbunassi o a piddà lu calbòni. Lu calbòni era una sorta di muffa causata dall’umidità; tanto è vero che dovendosi mettere a coltura terreni paludosi, col picco e con la pala si facìani li prési, si scavavano i canali di scolo per convogliare l’umidità nel più vicino corso d’acqua. Gli espedienti per rendere accogliente il terreno erano numerosi, tanti quante erano le condizioni e le circostanze che di volta in volta si presentavano. Le soluzioni erano di certo affidate alle tecniche agricole apprese per tradizione, ma anche alla ingegnosità e all’intelligenza del contadino. Il “debbio” per esempio non sempre era un semplice decespugliamento per far posto alla semina, ma anche un sistema di concimazione del terreno. Infatti di solito venivano bruciate le frasche tagliate come pure quelle non tagliate - in pédi - perché la cenere servisse da concime - lu nalboni. Talvolta l’insieme dei rami bruciati e rinsecchiti - usciatu - veniva frantumato e sparso sul terreno poi lavorato con l’aratro. Con tutti questi accorgimenti, mediamente, su appezzamenti coltivati dopo circa cinque anni di riposo, si ottenevano una resa superiore alla media di frumento per ogni quintale seminato. La resa per ettaro variava molto a seconda della qualità del suolo e degli accorgimenti messi in atto per migliorarla. Potevano ricavarsi quindici, ma anche eccezionalmente venticinque quintali. Come si vede siamo molto lontani dai livelli produttivi delle grandi pianure cerealicole europee e americane. Il guaio è che per lunghi periodi le rese non furono calcolate in quintali per ettaro, ma come multiplo della quantità seminata indipendentemente dalla superficie coltivata. La media si manteneva sulle dodici volte la quantità seminata, perciò con una densità media di tre starelli seminati per ettaro il ricavato si aggirava sugli otto quintali. A meno che non si mettessero di traverso le cattive annate, che in certi periodi erano la norma. A conti fatti al proprietario spesso restava solo il beneficio del terreno ripulito dalla “macchia” e per alcuni anni poteva destinarlo al pascolo del bestiame. A lu ‘jualgju, tenuto conto delle giornate lavorative impiegate nel corso dell’anno, restava un compenso miserabile, spesso appena sufficiente a sfamare la propria famiglia. Pur tuttavia, nei tempi migliori, le quantità ottenute consentivano, attraverso le eccedenze un interscambio con i prodotti agricoli e manifatturieri delle regioni limitrofe, in particolare Logudoro e Anglona. Fiorenti erano le relazioni commerciali con la Corsica, almeno fino a che non furono bruscamente interrotte, nel 1887, dalla guerra doganale “delle tariffe” con la Francia. 19 L’interruzione delle relazioni e il conseguente aumentato controllo di frontiera inibì anche il contrabbando rendendo estranee fra loro e indifferenti due regioni, Corsica e Gallura, dalle comuni origini etniche e linguistiche. Tanto che la consapevolezza della comune discendenza si affievolì fino a scomparire e a dimenticare persino i legami di parentela, pur strettissimi fra gli abitanti dei paesi costieri delle due realtà regionali. Ma ritorniamo al nostro grano. A6 - Buono come il pane. Da quando il grano era conservato illi cascioni veniva usato secondo le esigenze domestiche che le donne di famiglia stabilivano. Tutto il lavoro successivo alla conservazione e custodia era affidato alle stesse donne. La riserva di cereali veniva impiegata per la preparazione del pane per la famiglia. La panificazione era il punto di arrivo di tutto il lavoro fin qui descritto. Il pane era nella casa gallurese il cibo fondamentale, il cibo regale che si accompagnava a tutti gli altri. Aureo, fragrante sui teli di lino nelle “corbule” con la sua bellezza bianca e dorata, appena fuori dal forno, contrastava per la dovizia del suo aspetto con la povertà degli oggetti circostanti. Ma procediamo con ordine: in primo luogo il grano si passava in un crivello rotondo e dal fondo metallico - lu culìri -, talvolta fatto di giunchi intrecciati. Con un movimento semirotatorio e nervoso impresso dalle mani che di botto ne fermavano la corsa, lu culìri consentiva di procedere a una prima mondatura e di scartare tutte le impurità, cuscuciatu incluso, che addensate al centro dell’utensile e raccolte con una giumella si davano in pasto alle galline. Un po’ per volta, poi i chicchi venivano sparpagliati sul tavolo e separati dalle piccole impurità, compreso lu gjóddu, il loglio. Così rimondato - pulgatu - veniva lavato con l’immersione in un catino, di modo che i chicchi inutilizzabili salivano in superficie per essere raccolti e buttati; mentre quelli buoni erano messi ad asciugare al sole per poi essere macinati. Bisognava anche fare attenzione che il grano calbunatu - i cui chicchi erano simili a carboncini - non si mescolasse all’altro. Ogni donna presente nella casa aveva un suo ruolo particolare in tutto questo fervore. Tra un’operazione e l’altra, le più anziane filavano lana e lino, le loro nuore o figlie tessevano, dopo aver accudito a tutte le faccende domestiche: lavare e vestire i bambini, confezionare il formaggio, preparare e cuocere lu còccu - la focaccia -, cucinare, attingere acqua alla fontana, lavare i panni illu riu - nel fiume, provvedere al cibo per gli animali domestici. Per tutti questi impegni non ricevevano alcun aiuto dagli uomini che preferivano, durante il tempo libero, dedicarsi alla caccia o ad altri passatempi, ritenendo poco dignitoso aiutare le mogli nei lavori donneschi. I ragazzi dall’età di sei o sette anni, talvolta anche le bambine, dovevano badare alle capre. La macinatura avveniva di solito nel mulino domestico, succedaneo dell’antica “mola asinaria”, dove le rustiche macine azionate da lu bestiu cu lu facchili - l’asino bendato - rendevano talora necessario ripetere più volte l’operazione per lo stesso grano. Per le grandi quantità si ricorreva a lu mulinag-

gju - al mugnaio -, che aveva costruito il suo mulino dalle grandi ruote e pale lungo i corsi d’acqua o su un promontorio ventoso. Finalmente la farina dentro grandi sacchi veniva riportata a casa, segno che l’assillo del bisogno del cibo era stato allontanato per un anno. La massaia, sistemati all’interno di grandi corbe di asfodelo e giunchi - li culbulòni - siazzatòggja e siazzu, incominciava a siazzà, a passare al setaccio la preziosa farina. La siazzatòggja era un basso cavalletto formato da due listelli paralleli di legno appoggiati, in modo da sporgere ai lati, su due tacchi, di circa dieci centimetri, le cui estremità terminavano a piede perché intagliate con una incisione a “V” rovesciata. Sopra la siazzatóggja veniva scosso ritmicamente il setaccio, che, ad ogni brusco colpo, faceva cadere nelle corbule parte della farina contenutavi. Già prima di essere portato al mulino abbiamo visto che il grano passava in un crivello - lu tricu si facìa in culiri - per separarlo da insetti parassiti e larve - da la mamma di lu tricu e lu gjulguddòni. La setacciatrice svolgeva il suo lavoro accovacciata per terra. Usando un setaccio con un vaglio a maglie abbastanza larghe - a cèlu più lalgu -, separava dal resto la crusca - lu brinnu -, destinata come cibo a galline e maiali da ingrasso (mannali illa crina). Un secondo setaccio, dalla rete più stretta, consentiva di mettere da parte il cruschello - lu brinnéddu - che, impastato - a quagliu - e cotto nel forno forniva una bella focaccia da dare in pasto ai cani. Con un terzo setaccio dalla retìna sottile si toglieva la semola - simbula -, con cui si preparava una appetibile calda focaccia a pasta molle - a quagliu a pasta ammuddicata. La focaccia rappresentava una vera leccornia quando, appena sfornata o cotta sulla pietra rovente del focolare - illa zidda -, spaccata e ricolma di panna naturale - piciu -, oppure di burro cotto - óciu casgiu -, veniva golosamente mangiata. Semola cotta a fuoco lento nella panna dava la famosa mazza frissa, piatto speciale condito con abbondante miele di favo. Ciò che restava dopo queste tre separazioni era il polline o fior di farina - lu póddini -, usato per la confezione del pane, dei dolci e di li còsi di pasta: cioè gnocchi e maccheroni, tagliatelle, fettuccine (chjusoni, taddarini e fiuritti). Li chjusoni ben mescolati con l’ociu casgiu fino a formare un’unica pasta erano detti chjusoni impilchjati, cioè nascosti. Giustamente famoso il piatto nuziale per eccellenza, la suppa cuata (zuppa nascosta), così detta perché anticamente si cuoceva in un paiolo, messo sul fuoco e ricoperto di braci poste sopra il coperchio. L’ingrediente principale era il pane, tagliato a fette, messo in strati, bagnati con il brodo di carni diverse, condito con ingredienti vari, il primo dei quali era il formaggio fresco, con foglioline di prezzemolo, conserva di pomodoro, spezie e aromi particolari. Oggi più facilmente si mette in teglia e poi al forno. Compito della donna era altifizià, cioè elaborare con pazienza e competenza il latte con i suoi derivati e i vari impasti di frumenti, come pure preparare e trasformare attraverso la cottura gli alimenti di cui disponeva. Oltre l’ociu casgiu e la mazza frissa, molto gradevole al palato era lu casgiu furriatu (il formaggio rivoltato) –pezzettini di formaggio freschissimo, non salato, cotto nella panna (lu piciu) con l’aggiunta di un po’ di semola. Formaggi e ricotta erano pasti pressoché quo- 20 tidiani, in caso di penuria qualcuno si adattava anche a bere più che a mangiare il siero (la ‘jotta). La ricotta (brocciu) condita con un po’ di prezzemolo, succo di limone e un cucchiaino di zucchero, forniva il ripieno per li pulilgioni, i ravioli e li casgiatini, le formaggelle. A quasi tutte le pietanze si aggiungeva il miele, reso disponibile per l’abbondante numero di sciami (pucioni) di api selvatiche, che ne facevano deposito (staddhi) in piccole nicchie tra le rocce (cunchéddhi) o nelle cavità degli alberi (tovi). Quando la padrona di casa non aveva molto tempo a disposizione, al posto del pane preparava lu cocc’aggjimu, una focaccia non fermentata. Veniva confezionata quotidianamente e poi messa sul focolare rovente e ricoperta di cenere calda e lì lasciata finché non si mangiava. Lu coccu létu, o focaccia lievitata, cotta nella stessa maniera, era preparata meno spesso perché la lievitazione richiedeva tempo. La gattighéddha invece era una focaccia di pasta molle, messa a cuocere sul focolare senza essere ricoperta di cenere. Infine la cócciula mala, focaccia d’impasto molle fatto con aggiunta di latte o panna e spesso di un tuorlo d’uovo. Cotta sul piano rovente del focolare assumeva un colore giallastro a causa dell’uovo. Perciò di qualcuno che aveva un aspetto poco salutare si diceva “Mi pari chi è a cara di cócciula mala” (Ha un colorito del viso che mi preoccupa). Certamente la qualità del pane dipendeva da molti fattori: innanzitutto, prima ancora della mietitura, era importante che il campo fosse accuratamente liberato dalle erbe infestanti, se lasciato per il terzo anno nello stesso fondo il grano avrebbe dovuto competere faticosamente con queste - lu ‘jóddu facìa la farina niédda e mali a lu bistiamu e a li passòni -, il loglio anneriva la farina che restava indigesta per uomini e animali; erano poi importanti il tipo del grano, l’abilità del mugnaio, il grado di setacciatura. Anche il forno veniva in qualche misura aromatizzato: scopato accuratamente con rami di erica - scópa -, era alimentato con legna di chèssa e di mucchju. Non esistevano in Gallura “gerarchie” di pane, dove l’abbondanza o meno e il suo biancore indicavano il censo e segnavano un confine sociale tra le famiglie che ne facevano uso; dappertutto era confezionato nel modo descritto ed era di buona qualità: bianco, lievitato con la matrìca che si conservava di volta in volta, magnificato dai viaggiatori continentali. Pane quotidiano, condiviso nelle famiglie da tutti: padroni e servi. Lo stesso consumato sul lavoro, al desco, nelle grandi occasioni. Pane elemento essenziale dell’alimentazione del pastore-contadino, tanto che sotto la dominazione spagnola il lavoro viene chiamato los panes. Pane certezza di sopravvivenza e sinonimo di dolcezza di vita. Pane, quasi simbolo di benedizione: quando si raccoglieva da terra veniva baciato o chi l’aveva fatto cadere faceva il segno di Croce nell’atto di raccoglierlo. La Gallura non conosce le diete squilibrate delle pianure, aveva ed ha abbondanza di latticini, la cacciagione garantiva proteine e grassi; nessuno era soggetto all’umiliazione del consumo obbligato di pani di ghiande con argilla, o di pani d’orzo muffiti e mollicci; non esisteva il “pane selvaggio” e la ricerca ossessiva di integrazioni o sostituzioni con leguminose ed erbe variamente commestibili. Tanto che neanche negli anni di carestia, che spesso si presentavano con regola-

essiccare prima della mac<strong>in</strong>azione. Il grano duro o tricu ruiu doveva talvolta essere<br />

mac<strong>in</strong>ato più volte e questo poteva <strong>in</strong>cidere negativamente sulla qualità della<br />

far<strong>in</strong>a ottenuta. Pur se lu tricu ruiu aveva <strong>una</strong> resa maggiore, ad essere universalmente<br />

coltivato <strong>in</strong> <strong>Gallura</strong> era lu tricu cossu, a causa della sua qualità ritenuta<br />

più adatta a preparare vari tipi di pasta, pane, dolci. Spesso lu tricu ruiu doveva<br />

essere mescolato a lu tricu còssu per essere reso più ùmbulu, tenero. Mac<strong>in</strong>ato<br />

<strong>in</strong>vece separatamente dava <strong>una</strong> far<strong>in</strong>a più scura.<br />

Parte del raccolto era dest<strong>in</strong>ato alla successiva sem<strong>in</strong>agione. I cereali venivano<br />

mondati da qualsiasi impurità, poi irrorati con <strong>una</strong> soluzione acquosa di solfato<br />

di rame - <strong>in</strong>sulfattati - e sottoposti a <strong>una</strong> vigorosa mescitura così che ogni<br />

chicco venisse “medicato” e non fosse soggetto, nel momento dell’uscita dalla<br />

veste, a calb<strong>una</strong>ssi o a piddà lu calbòni. Lu calbòni era <strong>una</strong> sorta di muffa causata<br />

dall’umidità; tanto è vero che dovendosi mettere a coltura terreni paludosi, col<br />

picco e con la pala si facìani li prési, si scavavano i canali di scolo per convogliare<br />

l’umidità nel più vic<strong>in</strong>o corso d’acqua. Gli espedienti per rendere accogliente il terreno<br />

erano numerosi, tanti quante erano le condizioni e le circostanze che di volta<br />

<strong>in</strong> volta si presentavano. Le soluzioni erano di certo affidate alle tecniche agricole<br />

apprese per tradizione, ma anche alla <strong>in</strong>gegnosità e all’<strong>in</strong>telligenza del contad<strong>in</strong>o.<br />

Il “debbio” per esempio non sempre era un semplice decespugliamento per<br />

far posto alla sem<strong>in</strong>a, ma anche un sistema di concimazione del terreno. Infatti di<br />

solito venivano bruciate le frasche tagliate come pure quelle non tagliate - <strong>in</strong> pédi<br />

- perché la cenere servisse da concime - lu nalboni. Talvolta l’<strong>in</strong>sieme dei rami<br />

bruciati e r<strong>in</strong>secchiti - usciatu - veniva frantumato e sparso sul terreno poi lavorato<br />

con l’aratro. Con tutti questi accorgimenti, mediamente, su appezzamenti coltivati<br />

dopo circa c<strong>in</strong>que anni di riposo, si ottenevano <strong>una</strong> resa superiore alla media<br />

di frumento per ogni qu<strong>in</strong>tale sem<strong>in</strong>ato.<br />

<strong>La</strong> resa per ettaro variava molto a seconda della qualità del suolo e degli<br />

accorgimenti messi <strong>in</strong> atto per migliorarla. Potevano ricavarsi qu<strong>in</strong>dici, ma anche<br />

eccezionalmente ventic<strong>in</strong>que qu<strong>in</strong>tali. Come si vede siamo molto lontani dai livelli<br />

produttivi delle grandi pianure cerealicole europee e americane. Il guaio è che per<br />

lunghi periodi le rese non furono calcolate <strong>in</strong> qu<strong>in</strong>tali per ettaro, ma come multiplo<br />

della quantità sem<strong>in</strong>ata <strong>in</strong>dipendentemente dalla superficie coltivata. <strong>La</strong> media si<br />

manteneva sulle dodici volte la quantità sem<strong>in</strong>ata, perciò con <strong>una</strong> densità media<br />

di tre starelli sem<strong>in</strong>ati per ettaro il ricavato si aggirava sugli otto qu<strong>in</strong>tali. A meno<br />

che non si mettessero di traverso le cattive annate, che <strong>in</strong> certi periodi erano la<br />

norma. A conti fatti al proprietario spesso restava solo il beneficio del terreno ripulito<br />

dalla “macchia” e per alcuni anni poteva dest<strong>in</strong>arlo al pascolo del bestiame. A<br />

lu ‘jualgju, tenuto conto delle giornate lavorative impiegate nel corso dell’anno,<br />

restava un compenso miserabile, spesso appena sufficiente a sfamare la propria<br />

famiglia. Pur tuttavia, nei tempi migliori, le quantità ottenute consentivano, attraverso<br />

le eccedenze un <strong>in</strong>terscambio con i prodotti agricoli e manifatturieri delle<br />

regioni limitrofe, <strong>in</strong> particolare Logudoro e Anglona. Fiorenti erano le relazioni<br />

commerciali con la Corsica, almeno f<strong>in</strong>o a che non furono bruscamente <strong>in</strong>terrotte,<br />

nel 1887, dalla guerra doganale “delle tariffe” con la Francia.<br />

19<br />

L’<strong>in</strong>terruzione delle relazioni e il conseguente aumentato controllo di frontiera<br />

<strong>in</strong>ibì anche il contrabbando rendendo estranee fra loro e <strong>in</strong>differenti due regioni,<br />

Corsica e <strong>Gallura</strong>, dalle comuni orig<strong>in</strong>i etniche e l<strong>in</strong>guistiche. Tanto che la consapevolezza<br />

della comune discendenza si affievolì f<strong>in</strong>o a scomparire e a dimenticare<br />

pers<strong>in</strong>o i legami di parentela, pur strettissimi fra gli abitanti dei paesi costieri<br />

delle due realtà regionali.<br />

Ma ritorniamo al nostro grano.<br />

A6 - Buono come il pane.<br />

Da quando il grano era conservato illi cascioni veniva usato secondo le esigenze<br />

domestiche che le donne di famiglia stabilivano. Tutto il lavoro successivo<br />

alla conservazione e custodia era affidato alle stesse donne. <strong>La</strong> riserva di cereali<br />

veniva impiegata per la preparazione del pane per la famiglia. <strong>La</strong> panificazione<br />

era il punto di arrivo di tutto il lavoro f<strong>in</strong> qui descritto. Il pane era nella casa gallurese<br />

il cibo fondamentale, il cibo regale che si accompagnava a tutti gli altri. Aureo,<br />

fragrante sui teli di l<strong>in</strong>o nelle “corbule” con la sua bellezza bianca e dorata,<br />

appena fuori dal forno, contrastava per la dovizia del suo aspetto con la povertà<br />

degli oggetti circostanti.<br />

Ma procediamo con ord<strong>in</strong>e: <strong>in</strong> primo luogo il grano si passava <strong>in</strong> un crivello<br />

rotondo e dal fondo metallico - lu culìri -, talvolta fatto di giunchi <strong>in</strong>trecciati. Con<br />

un movimento semirotatorio e nervoso impresso dalle mani che di botto ne fermavano<br />

la corsa, lu culìri consentiva di procedere a <strong>una</strong> prima mondatura e di<br />

scartare tutte le impurità, cuscuciatu <strong>in</strong>cluso, che addensate al centro dell’utensile<br />

e raccolte con <strong>una</strong> giumella si davano <strong>in</strong> pasto alle gall<strong>in</strong>e. Un po’ per volta, poi i<br />

chicchi venivano sparpagliati sul tavolo e separati dalle piccole impurità, compreso<br />

lu gjóddu, il loglio. Così rimondato - pulgatu - veniva lavato con l’immersione <strong>in</strong><br />

un cat<strong>in</strong>o, di modo che i chicchi <strong>in</strong>utilizzabili salivano <strong>in</strong> superficie per essere raccolti<br />

e buttati; mentre quelli buoni erano messi ad asciugare al sole per poi essere<br />

mac<strong>in</strong>ati. Bisognava anche fare attenzione che il grano calb<strong>una</strong>tu - i cui chicchi<br />

erano simili a carbonc<strong>in</strong>i - non si mescolasse all’altro.<br />

Ogni donna presente nella casa aveva un suo ruolo particolare <strong>in</strong> tutto questo<br />

fervore. Tra un’operazione e l’altra, le più anziane filavano lana e l<strong>in</strong>o, le loro<br />

nuore o figlie tessevano, dopo aver accudito a tutte le faccende domestiche: lavare<br />

e vestire i bamb<strong>in</strong>i, confezionare il formaggio, preparare e cuocere lu còccu - la<br />

focaccia -, cuc<strong>in</strong>are, att<strong>in</strong>gere acqua alla fontana, lavare i panni illu riu - nel fiume,<br />

provvedere al cibo per gli animali domestici. Per tutti questi impegni non ricevevano<br />

alcun aiuto dagli uom<strong>in</strong>i che preferivano, durante il tempo libero, dedicarsi<br />

alla caccia o ad altri passatempi, ritenendo poco dignitoso aiutare le mogli nei lavori<br />

donneschi. I ragazzi dall’età di sei o sette anni, talvolta anche le bamb<strong>in</strong>e,<br />

dovevano badare alle capre.<br />

<strong>La</strong> mac<strong>in</strong>atura avveniva di solito nel mul<strong>in</strong>o domestico, succedaneo<br />

dell’antica “mola as<strong>in</strong>aria”, dove le rustiche mac<strong>in</strong>e azionate da lu bestiu cu lu<br />

facchili - l’as<strong>in</strong>o bendato - rendevano talora necessario ripetere più volte<br />

l’operazione per lo stesso grano. Per le grandi quantità si ricorreva a lu mul<strong>in</strong>ag-

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