La Gallura una Regione Diversa in Sardegna - Servizi On Line

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28.05.2013 Views

del campo, avanzavano tenendo nella mano sinistra i mazzi di spighe tagliate. La quantità contenuta nel pugno era detta meza maniata o sposta che, legata con uno stelo dello stesso grano a un’altra meza maniata, formava la maniata. Dui o tre sposti facìani una maniata. Dodici maniati faciani un mannéddu cioè costituivano un “covone”, che veniva legato strettamente cu la prisoggja, con più steli di grano tagliati vicino alla radice e intrecciati insieme. Venticinque mannéddi facevano lu fascaggju, equivalente ad un carico di carro a buoi almatu, cioè con un prolungamento delle sponde tale da aumentare la capienza. L’operazione successiva era l’aglióla - dal latino “areola” - o trebbiatura sull’aia. L’aia talvolta coincideva con lu pastricciali, talaltra era opportunamente dislocata su un’altura ventosa. Poteva essere utilizzato come tale uno spiazzo granitico naturale - tèggja, purché sufficientemente ampio e pianeggiante. In assenza di superfici naturali si preparava lo spazio della trebbiatura artificialmente con grandi lastre levigate disposte così da formare un cerchio: lu rótu. Al suo centro un robusto palo conficcato, lu pioni. Il diametro di circa otto o dieci metri era orlato con un ribiddìnu, muretto alto circa venti o trenta centimetri che faceva da argine per evitare che le biade mietute o sédu, durante la trebbiatura traboccassero. Nel giorno della trebbiatura, aglióla, tutti i covoni o mannéddi venivano sciolti e disfatti col taglio di la prisòggja, dei legacci vegetali, e li maniati venivano sparse sulla superficie di lu rótu, anche perché asciugassero dalla umidità notturna. L’aglióla rappresentava il coronamento dell’annata agraria, perché finalmente era sotto gli occhi la quantità di cereali, frutto di un lungo e paziente lavoro e segno della raggiunta sicurezza alimentare. Le spighe del grano coi lunghi steli erano ora uniformemente sparse come una spessa coltre dorata sullo spazio rotondo. Diverse coppie di buoi aggiogati, guidati da adulti e da ragazzi, dopo che il sole si alzava all’orizzonte, camminavano tenendosi vicino al margine del cerchio e trascinando, sulla massa rasa di lu sedu, li pétri d’aglióla: grosse pietre lunghe e appiattite, legate ad un capo con una catena, la cui altra estremità era fissata al giogo, lu gjuali, e che battendo e tritando col loro peso la grande bica, provocavano il distacco degli steli dalle spighe e dei grani dalla “pula”. Quando lu sedu era sufficientemente tritato in superficie dallo sfregamento della pietra, si facevano riposare i buoi e l’aglióla vinia ‘ultata cu li triuzzi, cioè la massa cerealicola veniva rivoltata con i tridenti o forconi di legno. La parte franta veniva portata sotto, mentre in superficie si ridisponevano le spighe intatte da triturare. Questa operazione poteva essere ripetuta quattro o cinque volte finché lu sedu non era diventato un ammasso di paglia e grano finemente triturati o sminuzzati e infranti e finché i chicchi non risultavano staccati dalla pula; allora anche lu cuscuciatu, cioè la quantità di semi rimasti con la veste perché non perfettamente maturi, con operazioni aggiuntive era ridotto al minimo; possibilmente era eliminato. Per evitare le vertigini, i buoi, quando per l’abbondanza del raccolto dovevano camminare tutto il giorno, ogni tanto venivano fatti girare in senso inverso. Le gambe degli uomini e degli animali affondavano nel tritume di grano, paglia, pula fino ai polpacci e le ginocchia; col passare del tempo si muovevano sempre 17 più faticosamente, sfilandosi con sforzo, perciò si stabilivano i cambi con maggior frequenza. Era come una ininterrotta necessaria marcia sulla neve che doveva consentire il raggiungimento della meta entro il tramonto. Un ragazzo con un grumo di paglia stava alle terga di ogni animale: non era possibile che lo sterco, in caso di bisogno delle pazienti bestie, cadesse sul grano, perciò veniva abilmente raccolto al momento opportuno sullo strato di paglia e poi gettato. Col passare delle ore la fatica prendeva tutti, ma poter osservare il risultato della gran quantità di lavoro svolto infondeva nuove energie. Man mano che si procedeva, si ammonticchiava la paglia da un lato con i forconi, cu li triuzzi, da un altro canto si ammucchiavano chicchi e pula. A lavoro ultimato, se soffiava il vento, si passava alle successive operazioni, altrimenti si attendevano le più favorevoli condizioni atmosferiche il giorno dopo. Era raro, dato l’imperversare dei venti, che si dovesse aspettare più giorni. Una tradizione gentile racconta che Dio ha prodotto il vento per consentire ai contadini a vintulà, cioè per consentire la trebbiatura. Donne e uomini raccoglievano, dentro ampie corbule robuste, grande quantità di chicchi e pula, lanciandola con energia verso l’alto. Una cascata di grani aurei entro una nube polverosa, saliva rapidamente e ridiscendeva luminosa e monda dentro asfodeli e palme intrecciate, mentre la pula torbida volava lontano portata dal vento. In qualche luogo venivano usate le pale adatte alla bisogna, pali pal vintulà. Il grano paliatu pal vintulallu cadeva sempre sul mucchio sottostante, mentre la pula veniva turbinosamente portata via. Se lu rótu era a ridosso, perché arrivasse il vento sufficiente pal vintulà l’agliòla, per ventilare il raccolto, potevano passare anche diversi giorni. In questo caso il contadino doveva vigilare continuamente, sia perché nessuno attentasse alla integrità del prodotto della sua fatica, uomo o animale brado che fosse, sia perché alla prima bava di vento doveva essere pronto all’opera. Finalmente il grano ottenuto, dopo gran faticare, veniva portato festosamente a casa, non senza che ognuno, secondo il ruolo svolto nelle diverse fasi dell’annata agraria, avesse la sua parte, e lì veniva conservato illi cascioni, o grandi madie di legno di ginepro dalla capienza di sette-otto quintali. Questi cassoni, mastodontici rispetto agli altri arredi domestici, avevano un’apertura dall’alto chiusa da un pesante coperchio, e uno sportellino alla base che si apriva verso l’alto scorrendo entro un binario per consentire l’uscita della quantità voluta di grano. Quando il mobilio rustico era ancor più rudimentale, il grano era conservato illa lùscia, o grosso cilindro di canne o giunchi intrecciati. Era segno di un buon auspicio augurare una luscia ricolma, così come di persona robusta si diceva è grassu com’è la lùscia. Fattu l’incugnu, conservato il grano e messolo a riparo da insetti nocivi e dai guasti dell’umidità, tutte le operazioni successive erano affidate alle donne. Ancora nei primi decenni di questo secolo, era possibile assistere alla trebbiatura con cavalle invece che con i buoi: l’aglióla a èbbi. Una fila di cavalle, legate frontalmente con una fune, a sua volta attaccata a una catena fissata da un anello che girava liberamente attorno a un palo, lu piòni, piantato al centro dell’aia, lu rótu, trottava calpestando il grano e gli altri cereali. Si rendeva in tal

modo più sonora e movimentata tutta la scena. L’ebba più vicina a lu piòni era detta ebba di lu inizzu (dell’inizio?), quella più esterna ebba di fóra o ebba di còrru. Chi seguiva le cavalle governandole era definito col termine: vasoni. Le posizioni degli animali venivano spesso cambiate per evitare loro vertigini; quella più vicina al palo passava all’esterno e viceversa, assumendo i ruoli di ebba di fóra o corru e di ebba di inizzu. Le cavalle trotterellavano dentro l’aia finché lu sedu, o biade mietute, pestato dagli zoccoli, non era ben tritato e divenuto paglia e spighe ben sgranate. Allora si metteva da una parte la paglia, dall’altra il grano con la pula. Dal cumulo, pazientemente con la pala se ne lanciava per aria una piccola quantità: i chicchi ricadevano nel mucchio, la pula veniva bruscamente allontanata dal vento. Così finché non rimaneva che il solo grano. Come si vede le differenze erano piccole e il risultato finale era lo stesso. Talvolta gli accordi per l’annata agraria non venivano stipulati tra “proprietari” e “pastori mezzadri” (es. nel caso in cui il proprietario conduceva direttamente il fondo agricolo o stazzo), ma tra patronu e gjualgju. Quest’ultimo era solo un prestatore d’opera esperto in colture cerealicole che, per accordi verbali, osservati poi scrupolosamente, svolgeva tutti i lavori, nelle diverse fasi, che avrebbero assicurato un abbondante raccolto. Lu patronu detto anche gjualgju maggjóri metteva a disposizione il terreno da seminare; forniva la coppia bovina per l’aratura con relativa pruènda (“profenda” o razione di biada per l’alimentazione degli animali durante il periodo del lavoro); metteva a disposizione tutta l’attrezzatura necessaria pa lu trabaddu (per il lavoro): albati o vomeri, zappe, zappette, falci; assicurava pure eventuali riparazioni degli attrezzi; consegnava le sementi e, a suo tempo carro e buoi pa assidà, cioè per trasportare li mannéddi (i covoni), da la tarraggja (dal campo), a lu rótu (all’aia); come pure per il trasporto della quantità spettante di grano trebbiato da lu rótu a casa di lu gjualgju. Se lu gjualgju durante i lavori agricoli - li faccendi - aveva bisogno di sostegno economico ed alimentare per sé e la propria famiglia - aìa bisògnu di l’aggjùtu; lu patrònu aveva l’obbligo di procurargli almeno il vitto - lu ‘ittu pa lu tèmpu di la lauréra e di la misséra - per tutto il periodo necessario dall’aratura alla mietitura. Quanto anticipato veniva poi reso senza interessi la dì di l’aglióla - il giorno della trebbiatura. Lu gjualgju, detto anche gjualgju minóri si obbligava a fornire tutta la manodopera: dibbià - tagliare e bruciare gli arbusti infestanti i campi -; laurà - arare; schivià - livellare il terreno dopo la semina per ricoprire i chicchi; zappittà - scalzare con la zappetta il terreno per allentarlo attorno alle tenere piantine e per diserbare; missà - mietere; assidà - unire i covoni e trasportarli col carro all’aia; portare a casa del padrone la sua quota di grano trebbiato; triulà e vintulà - trebbiare; pagare metà delle spese per il vitto e il compenso al personale chiamato per la trebbiatura; restituire il debito contratto pa lu ‘ittu senza interessi. Anche in questo caso la semina del terreno era consentita per due annate agrarie consecutive dunque, se lu gjualgju seminava durante una sola annata, lu patrònu aveva l’obbligo di pagargli metà del lavoro fatto pa lu débbiu - per il debbio. A conclusione delle due annate dette la tènda di lu ‘jùu - il periodo intero di in ciclo agrario cerealicolo -; lu gjualgju, nel giorno stesso in cui portava a termine 18 l’aratura dava notizia a lu patrònu se intendeva licenziarsi o meno; anche lu patrònu manifestava la sua volontà di riconcedergli il terreno o meno. Un’usanza simpatica imponeva al proprietario di donare a lu gjualgju, una volta comunicato che l’aratura era finita, anche se questi aveva preannunciato la cessazione del rapporto di lavoro, un po’ di farina pa li chjusoni - per gli gnocchi, un pezzo di formaggio e uno di lardo. Il regalo aveva un significato augurale, tanto che era detto crésci la oglia, cioè “abbiate frutti abbondanti!” Alla lettera “Che la pentola sia colma!” Nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro, chi subentrava a lu gjualgju e riceveva il terreno pulito e arato, pronto per la semina, era detto gjualglinu. Il nuovo contratto prevedeva obblighi reciproci come nel precedente, ma al momento del raccolto, a lu patronu spettavano i tre quarti del prodotto, a lu gjuaglinu il rimanente quarto. Un caso più raro si verificava quando un gjualgju chiedeva a un proprietario un appezzamento di terreno da pulire e seminare ottenendolo senza ricevere da lui nient’altro. Al momento del raccolto a lu patrònu andavano tanti quintali di grano quanti ne erano stati seminati, tutto il resto del prodotto era del lavoratore che, se dunque seminava un quintale di grano, un quintale ne consegnava al proprietario. Questo tipo di rapporto era definito come la pustùra a lu chi v’èntra. Poteva accadere che il proprietario non avesse disponibilità di buoi da lavoro da dare a lu gjualgju pal punì lu ‘jùu - da consegnare al prestatore d’opera per la semina e il raccolto -, allora si rivolgeva ad un altro proprietario dal quale prendeva un giogo di buoi in affitto - a accòldu o in arrendu -, pagando per ogni semina due quintali di grano e dichiarando di assumersi la responsabilità per tutto ciò che potesse accadere agli animali. Se per ipotesi uno dei buoi moriva, doveva essere pagato e la sua pelle portata al proprietario: se questi l’accettava mostrava di riconoscere all’origine della morte l’accidentalità, se la rifiutava mostrava di ritenere causa della morte l’incuria degli affidatari; allora si facìa una rasgioni – una rusticana giuria arbitrale era chiamata a esprimere un giudizio sull’accaduto. Quando i buoi presi in affitto erano giovenchi di due o tre anni, dunque non in grado di esprimere la quantità di lavoro dei buoi adulti, la loro fatica era pagata con un solo quintale di grano ogni anno, e tale contratto era detto accòldu o arrèndu pa li nuéddhi; se poi i giovenchi per sovramercato erano indomiti - li nuéddhi érani rudi -, venivano concessi a dumà e a trattà, cioè chi riusciva a domarli li poteva poi usare gratuitamente per tutto l’anno. Si è già detto che fondamentalmente i tipi di grano sono rimasti per decenni solo due: lu tricu cossu - grano corso - perché portato dalla Corsica e tricu ruiu o saldu o grano rosso. Il primo era un grano tenero dai chicchi piccoli e rotondeggianti con la spiga senza punte. Il secondo dai chicchi di forma sferoide schiacciata e allungata, aveva la spiga terminante con punte aghiformi, si diceva che avesse la spiga currósa e la sua farina era ottima per confezionare chjusoni e fiuritti - gnocchi e tagliatelle -. Lu tricu cossu era un grano tenero, il preferito, la cui coltura era più diffusa perché i suoi chicchi venivano macinati più agevolmente nel mulino. Solo in alcuni casi, perché troppo tenero, veniva esposto al sole ad

modo più sonora e movimentata tutta la scena. L’ebba più vic<strong>in</strong>a a lu piòni era<br />

detta ebba di lu <strong>in</strong>izzu (dell’<strong>in</strong>izio?), quella più esterna ebba di fóra o ebba di còrru.<br />

Chi seguiva le cavalle governandole era def<strong>in</strong>ito col term<strong>in</strong>e: vasoni. Le posizioni<br />

degli animali venivano spesso cambiate per evitare loro vertig<strong>in</strong>i; quella più<br />

vic<strong>in</strong>a al palo passava all’esterno e viceversa, assumendo i ruoli di ebba di fóra o<br />

corru e di ebba di <strong>in</strong>izzu. Le cavalle trotterellavano dentro l’aia f<strong>in</strong>ché lu sedu, o<br />

biade mietute, pestato dagli zoccoli, non era ben tritato e divenuto paglia e spighe<br />

ben sgranate. Allora si metteva da <strong>una</strong> parte la paglia, dall’altra il grano con la pula.<br />

Dal cumulo, pazientemente con la pala se ne lanciava per aria <strong>una</strong> piccola<br />

quantità: i chicchi ricadevano nel mucchio, la pula veniva bruscamente allontanata<br />

dal vento. Così f<strong>in</strong>ché non rimaneva che il solo grano. Come si vede le differenze<br />

erano piccole e il risultato f<strong>in</strong>ale era lo stesso.<br />

Talvolta gli accordi per l’annata agraria non venivano stipulati tra “proprietari”<br />

e “pastori mezzadri” (es. nel caso <strong>in</strong> cui il proprietario conduceva direttamente<br />

il fondo agricolo o stazzo), ma tra patronu e gjualgju. Quest’ultimo era solo un<br />

prestatore d’opera esperto <strong>in</strong> colture cerealicole che, per accordi verbali, osservati<br />

poi scrupolosamente, svolgeva tutti i lavori, nelle diverse fasi, che avrebbero<br />

assicurato un abbondante raccolto. Lu patronu detto anche gjualgju maggjóri<br />

metteva a disposizione il terreno da sem<strong>in</strong>are; forniva la coppia bov<strong>in</strong>a per<br />

l’aratura con relativa pruènda (“profenda” o razione di biada per l’alimentazione<br />

degli animali durante il periodo del lavoro); metteva a disposizione tutta<br />

l’attrezzatura necessaria pa lu trabaddu (per il lavoro): albati o vomeri, zappe,<br />

zappette, falci; assicurava pure eventuali riparazioni degli attrezzi; consegnava le<br />

sementi e, a suo tempo carro e buoi pa assidà, cioè per trasportare li mannéddi (i<br />

covoni), da la tarraggja (dal campo), a lu rótu (all’aia); come pure per il trasporto<br />

della quantità spettante di grano trebbiato da lu rótu a casa di lu gjualgju. Se lu<br />

gjualgju durante i lavori agricoli - li faccendi - aveva bisogno di sostegno economico<br />

ed alimentare per sé e la propria famiglia - aìa bisògnu di l’aggjùtu; lu patrònu<br />

aveva l’obbligo di procurargli almeno il vitto - lu ‘ittu pa lu tèmpu di la lauréra e<br />

di la misséra - per tutto il periodo necessario dall’aratura alla mietitura. Quanto<br />

anticipato veniva poi reso senza <strong>in</strong>teressi la dì di l’aglióla - il giorno della trebbiatura.<br />

Lu gjualgju, detto anche gjualgju m<strong>in</strong>óri si obbligava a fornire tutta la manodopera:<br />

dibbià - tagliare e bruciare gli arbusti <strong>in</strong>festanti i campi -; laurà - arare;<br />

schivià - livellare il terreno dopo la sem<strong>in</strong>a per ricoprire i chicchi; zappittà - scalzare<br />

con la zappetta il terreno per allentarlo attorno alle tenere piant<strong>in</strong>e e per diserbare;<br />

missà - mietere; assidà - unire i covoni e trasportarli col carro all’aia; portare<br />

a casa del padrone la sua quota di grano trebbiato; triulà e v<strong>in</strong>tulà - trebbiare; pagare<br />

metà delle spese per il vitto e il compenso al personale chiamato per la<br />

trebbiatura; restituire il debito contratto pa lu ‘ittu senza <strong>in</strong>teressi.<br />

Anche <strong>in</strong> questo caso la sem<strong>in</strong>a del terreno era consentita per due annate<br />

agrarie consecutive dunque, se lu gjualgju sem<strong>in</strong>ava durante <strong>una</strong> sola annata, lu<br />

patrònu aveva l’obbligo di pagargli metà del lavoro fatto pa lu débbiu - per il debbio.<br />

A conclusione delle due annate dette la tènda di lu ‘jùu - il periodo <strong>in</strong>tero di <strong>in</strong><br />

ciclo agrario cerealicolo -; lu gjualgju, nel giorno stesso <strong>in</strong> cui portava a term<strong>in</strong>e<br />

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l’aratura dava notizia a lu patrònu se <strong>in</strong>tendeva licenziarsi o meno; anche lu patrònu<br />

manifestava la sua volontà di riconcedergli il terreno o meno. Un’usanza<br />

simpatica imponeva al proprietario di donare a lu gjualgju, <strong>una</strong> volta comunicato<br />

che l’aratura era f<strong>in</strong>ita, anche se questi aveva preannunciato la cessazione del<br />

rapporto di lavoro, un po’ di far<strong>in</strong>a pa li chjusoni - per gli gnocchi, un pezzo di<br />

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detto crésci la oglia, cioè “abbiate frutti abbondanti!” Alla lettera “Che la pentola<br />

sia colma!”<br />

Nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro, chi subentrava a lu gjualgju e<br />

riceveva il terreno pulito e arato, pronto per la sem<strong>in</strong>a, era detto gjualgl<strong>in</strong>u. Il nuovo<br />

contratto prevedeva obblighi reciproci come nel precedente, ma al momento<br />

del raccolto, a lu patronu spettavano i tre quarti del prodotto, a lu gjuagl<strong>in</strong>u il rimanente<br />

quarto. Un caso più raro si verificava quando un gjualgju chiedeva a un<br />

proprietario un appezzamento di terreno da pulire e sem<strong>in</strong>are ottenendolo senza<br />

ricevere da lui nient’altro. Al momento del raccolto a lu patrònu andavano tanti<br />

qu<strong>in</strong>tali di grano quanti ne erano stati sem<strong>in</strong>ati, tutto il resto del prodotto era del<br />

lavoratore che, se dunque sem<strong>in</strong>ava un qu<strong>in</strong>tale di grano, un qu<strong>in</strong>tale ne consegnava<br />

al proprietario. Questo tipo di rapporto era def<strong>in</strong>ito come la pustùra a lu chi<br />

v’èntra.<br />

Poteva accadere che il proprietario non avesse disponibilità di buoi da lavoro<br />

da dare a lu gjualgju pal punì lu ‘jùu - da consegnare al prestatore d’opera per<br />

la sem<strong>in</strong>a e il raccolto -, allora si rivolgeva ad un altro proprietario dal quale prendeva<br />

un giogo di buoi <strong>in</strong> affitto - a accòldu o <strong>in</strong> arrendu -, pagando per ogni sem<strong>in</strong>a<br />

due qu<strong>in</strong>tali di grano e dichiarando di assumersi la responsabilità per tutto ciò<br />

che potesse accadere agli animali. Se per ipotesi uno dei buoi moriva, doveva<br />

essere pagato e la sua pelle portata al proprietario: se questi l’accettava mostrava<br />

di riconoscere all’orig<strong>in</strong>e della morte l’accidentalità, se la rifiutava mostrava di<br />

ritenere causa della morte l’<strong>in</strong>curia degli affidatari; allora si facìa <strong>una</strong> rasgioni –<br />

<strong>una</strong> rusticana giuria arbitrale era chiamata a esprimere un giudizio sull’accaduto.<br />

Quando i buoi presi <strong>in</strong> affitto erano giovenchi di due o tre anni, dunque non<br />

<strong>in</strong> grado di esprimere la quantità di lavoro dei buoi adulti, la loro fatica era pagata<br />

con un solo qu<strong>in</strong>tale di grano ogni anno, e tale contratto era detto accòldu o arrèndu<br />

pa li nuéddhi; se poi i giovenchi per sovramercato erano <strong>in</strong>domiti - li nuéddhi<br />

érani rudi -, venivano concessi a dumà e a trattà, cioè chi riusciva a domarli li<br />

poteva poi usare gratuitamente per tutto l’anno.<br />

Si è già detto che fondamentalmente i tipi di grano sono rimasti per decenni<br />

solo due: lu tricu cossu - grano corso - perché portato dalla Corsica e tricu ruiu o<br />

saldu o grano rosso. Il primo era un grano tenero dai chicchi piccoli e rotondeggianti<br />

con la spiga senza punte. Il secondo dai chicchi di forma sferoide schiacciata<br />

e allungata, aveva la spiga term<strong>in</strong>ante con punte aghiformi, si diceva che<br />

avesse la spiga currósa e la sua far<strong>in</strong>a era ottima per confezionare chjusoni e fiuritti<br />

- gnocchi e tagliatelle -. Lu tricu cossu era un grano tenero, il preferito, la cui<br />

coltura era più diffusa perché i suoi chicchi venivano mac<strong>in</strong>ati più agevolmente<br />

nel mul<strong>in</strong>o. Solo <strong>in</strong> alcuni casi, perché troppo tenero, veniva esposto al sole ad

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