La Gallura una Regione Diversa in Sardegna - Servizi On Line

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28.05.2013 Views

cole, altri compariranno successivamente. Alcuni avevano utilizzazioni secondarie, come la traggjóla pure usata per il trasporto di voluminose pietre poste poi a fondamenta di case e muri rustici. Altri erano alternativi come li pascitòggj o funi di palma che sostituivano gli ‘jungjtòggj o funi di pelle per aggiogare i buoi. Oppure con nomi diversi s’indicava lo stesso oggetto: così amenti e sisuia indicavano l’ansa di cuoio al centro del giogo dove inserire il timone, poi fissato al giogo da una zeppa detta capiggja. Una curiosità a conclusione di questo capitolo: per i calcoli aritmetici non esistevano di certo macchine, né i pastori conoscevano le tavole pitagoriche, così con i numeri fino a cinque eseguivano i calcoli sulle dita della mano, oltre si seguiva un metodo semplice e ingegnoso. Esempio: sia 7 da moltiplicare per 8; riguardo al primo numero, su una mano si tengano due dita tese ad indicare le due unità dopo il cinque, le altre tre dita restino piegate; riguardo al secondo numero si proceda allo stesso modo, sull’altra mano le tre dita tese stiano ad indicare le tre unità dopo il cinque, le restanti due siano abbassate; ora le dita tese sommate (2+3) rappresentano le decine del numero cercato; i numeri rappresentabili dalle dita piegate siano moltiplicati tra loro ad indicare le unità (3x2); infine le decine (5) siano sommate alle unità (6); chiaramente cinquantasei è il numero che si voleva conoscere. A4 – DA SAN GIOVANNI A SAN GIOVANNI. “…L’agricoltura era poco pregiata in altri tempi e, in paragone con la pastorizia [questa] stimavasi occupazione di uomini generosi, quella mestiere di codardi. Fu intorno al 1790 che cominciarono i pastori ad applicarsi ai lavori agrari ed ora molti, per lo lucro percepitone, vi studiano con diligenza. A poco a poco si venne in migliore opinione per la veduta maggiore agiatezza dei coloni... Il terreno della Gallura essendo in gran parte silicioso, però accade che non sia molto produttivo di cereali [ma] i pastori seminavano molto “grano corso” [che] non prendendo mai la durezza del grano sardo e dovendo essere preparato alla macinazione col calore del sole o del forno, sono pochi che ancora lo coltivano, [anche se] non di rado moltiplicava sino a cento…” 8 . Ecco compiutamente spiegate le origini e i caratteri dell’agricoltura in Gallura. Ma chi erano questi pastori gradatamente divenuti (rispetto alle altre genti di Sardegna) anche coltivatori di una certa floridezza? Col tempo, da un sistema feudale chiuso e oppressivo emerge un indirizzo giurisprudenziale favorevole ai privati che rivendicano, contro la tirannia dei privilegi feudali e le pretese di controllo dei consigli comunitativi, l’”immemoriale possesso” della terra. Tanto che si fecero valere in seguito titoli effettivi di proprietà, ma anche usurpazioni di terreni altrui e demaniali. Successivamente venne cercata una base giuridica che, nel riconoscimento della proprietà privata andasse oltre le situazioni di fatto, oltre la rivendicazione “dell’immemoriale possesso”, oltre la resistenza a mano armata e la si trovò nelle sentenze della Reale Udienza 8 G. CASALIS, op. cit. 13 che tendevano a dare consistenza al processo di formazione della proprietà privata. Si va delineando la situazione, nota come carattere sub-regionale, per cui, in Gallura, gli abitanti, dispersi nelle centinaia di stazzi, si sottraggono, se mai vi hanno appartenuto, alla mentalità comunitaria e costituiscono mondi a sé stanti dove emerge prepotente un forte individualismo, pur in vera e propria comunità d’eguali, con leggi non codificate ma vive nelle singole coscienze. Per questi dinamici coltivatori il nucleo sociale principale era rappresentato dalla famiglia rinchiusa in se stessa e all’origine delle tipiche forme economiche dello stazzo, che confluivano in quelle della maggiore unità territoriale della cussorgia. Rimanevano attriti fra i proprietari e i loro pastori, finché si continuava a praticare la cosiddetta “soccida di ferro”, ma agli inizi dell’Ottocento la maggior parte dei pastori, gestiva in proprio il fondo rustico e i contrasti si erano ridotti in rapporto ad una accettabile diffusione di benessere per tutti. 9 L’annata agraria aveva inizio e fine il giorno 24 giugno, Santu Gjuanni di làmpata - San Giovanni dei Fuochi (delle lampade). Quel giorno ha sempre avuto, nei secoli, un significato magico-religioso affatto speciale; tanto che in esso, per ogni cultura, si sono condensate attese e speranze, avvenimenti simbolici ed eventi propiziatori. Giorno festivo, d’incontro e di scambio. Nell’antichità classica, nottetempo la campagna s’illuminava di fuochi purificatori in onore del sole (donde il nome lampadas, gallurese lampata, poi entrato a denominare il mese di giugno). Si verificava, in quella data, un avvenimento astronomico insieme solenne e terribile perché segno dell’ordine eterno ed universale: “il solstizio d’estate”, segno della vittoria della luce sulle tenebre, gloria del sol invictus momento dalla carica simbolica esplosiva. Anche negli stazzi l’atmosfera diveniva coinvolgente, carica di attese e di presenze misteriose, favorevoli e benigne. Durante la vigilia si doveva osservare il digiuno e l’unico pasto di mezzanotte aveva come solo piatto una porzione di casgiu furriatu: pezzettini di formaggio fresco non salato, cotti nella panna con l’aggiunta di un po’ di semola. Così purificate, alla sera, dopo il tramonto, le fanciulle si recavano nei pressi di una chiesetta campestre e ognuna segnava, con un nastro, una pianta. Dagli insetti che al mattino successivo si sarebbero potuti osservare su quella pianta si indovinavano carattere e condizioni del futuro marito. Alcuni, prima del sorgere del sole, s’immergevano nell’acqua di una fonte, convinti che il bagno li preservasse dalle malattie per tutto l’anno; solo il bere l’acqua della fonte avrebbe, per lo stesso periodo, tenuto lontano il demonio e le sue tentazioni. Gli elementi naturali, per una notte, divenivano complici di avvenimenti magici. Per conservare la salute alle bestie era sufficiente preparare un infuso con l’erba ruta - alba di ruda - colta prima dell’alba e fargliela bere. Altri posavano nei pressi della casa una pietra piatta, se nottetempo vi trovavano riparo insetti detti vacchi di Déu, era alla porte un’annata prospera. Ma sul destino individuale pote- 9 Per i rapporti tra proprietario e pastore v. GONARIO PINNA, Il Pastore Sardo e la Giustizia, Cagliari 1971. G. DONEDDU, Una Regione Feudale nell’Età Moderna, Sassari 1977. G. MELE, Da Pastori a Signori, Cagliari, 1994.

vano addensarsi nubi minacciose: chi, nell’aurora, avesse visto la propria ombra doppia o senza la testa, avrebbe trovato morte entro l’anno. La natura era poi interrogata in mille modi dalle “fanciulle in fiore” perché desse risposte sui futuri amori e sulla solidità delle relazioni sentimentali. La natura sempre, arcanamente, rispondeva. Gli incontri plurifamiliari erano occasione di festa comunitaria; di giochi amorosi e corteggiamenti; impegni e promesse solenni; balli e gare di poesia estemporanea; scambio di opinioni e transazioni d’affari. Ci si interessava di tutto ciò che può rendere piacevole la vita. Si traevano auspici per l’annata. Abbondante rugiada al mattino significava buon raccolto nella bassa Gallura, illi nostri marini; se soffiava il ponente sarebbe stata buona annata nell’alta Gallura, ill’alturi o illi iddi di supra. Il clima di fervore ed eccitazione non era dato solo dalla ricerca dei segni sulla felicità futura, la fortuna, la salute; ma in quella elettrizzante atmosfera venivano confermati, o disdetti e ripetuti con altri, i “patti agrari”. Si faceva la conta del bestiame e si procedeva alla spartizione secondo quanto precedentemente convenuto. Il “proprietario” dello stazzo, confermava la fiducia al suo “pastore”, oppure contraeva nuovi patti con un nuovo pastore ed il vecchio metteva a disposizione di un altro proprietario la sua capacità di lavoro e la sua esperienza. Al momento della cessione dello stazzo, il proprietario - lu patronu o pastóri maggjóri, affidava al mezzadro - lu pastóri minóri -: la casa, gli attrezzi da lavoro, le sementi pa lu ‘jùu - per la coltivazione dei cereali - e una coppia di buoi domati per il lavoro nei campi, dei quali ultimi doveva pure garantire il vitto. Se uno dei buoi moriva e si sospettava una negligenza del pastore, si approntava un giudizio rusticano - si faciani una rasgioni -, con la scelta di una terna giudicante - li rasgiunanti - da parte dei saggi della contrada - la cussòggja. Se si fosse accertata una qualche responsabilità, con sentenza inappellabile, il pastore avrebbe dovuto rifondere, con la sua attività lavorativa, il danno procurato, poiché sementi, oggetti e animali restando di proprietà del padrone (lu fundu), comportavano per il contadino l’obbligo di mantenerli integri e in efficienza. Il frutto (lu criscimentu), le nascite del bestiame minuto consegnato, andava invece diviso a metà - a mez’apparu. Quando il proprietario, nel giorno di San Giovanni, voleva esprimere stima e apprezzamento al pastore - li inìa signalàtu un manzu - gli faceva dono di un manzo. A carico del proprietario erano pure i costi delle recinzioni, di eventuali canalizzazioni e altre opere d’irrigazione. Se dal gregge delle capre ne moriva o mancava una, secondo alcune versioni, padrone e pastore dovevano aggiungervi un capretto, così da ricostituire e incrementare il capitale iniziale. La laboriosità dei contadini galluresi era proverbiale, tanto che di solito i contratti (la calta) non venivano neppure rinnovati, ma continuavano tacitamente, di solito o quattro o cinque anni, finché durava l’accordo raggiunto una prima volta tra le parti. Quando uno dei due non otteneva dall’altro quanto si attendeva, rescindeva unilateralmente il contratto per andare alla ricerca di nuovi accordi con terzi. Lo stesso proprietario poteva allontanare un pastore senza alcun preavviso e sostituirlo con un altro di suo gradimento. C’erano proprietari generosi o avari - boni o mali -, ma ci si poteva imbattere anche in pastori laboriosi o infingardi - 14 trabaddadóri o prizzósi - Le contrattazioni erano verbali e gli impegni venivano fissati sempre sulla parola. Si concludevano dopo aver esaminato fittamente tutti i punti dell’accordo, che si chiudeva durante una ricognizione congiunta nello stazzo da “affidare”. Come si è visto solo “il frutto” (inclusa la produzione lattiera) del bestiame minuto: pecore, capre, maiali, era diviso a metà - in garrigu a sangu e latti -; il bestiame vaccino con i vitelli nati, restava di esclusiva proprietà del padrone - lu sangu di lu bistiamu ‘accinu era tuttu di lu patronu. “…Sino alla fine del secolo scorso gli accordi tra padrone e pastore prevedevano la divisione dei frutti - a mez’apparu - anche del bestiame vaccino; via via la divisione si è andata squilibrando a favore del proprietario, finché è rimasto da dividere solo il latte…”. Per il latte, le vacche potevano esser munte solo nel periodo intercorrente tra il primo aprile e San Giovanni. Dei quattro capezzoli di ogni mucca due venivano munti mentre gli altri due erano riservati alla suzione da parte dei vitelli. Per chiarire quanto avveniva faremo un esempio: quando una mucca produceva otto litri di latte al giorno, due per capezzolo, al pastore ne restava solo uno; infatti quattro litri venivano succhiati dai vitelli nelle ore notturne, cioè a beneficio del padrone, dei rimanenti quattro prodotti nelle ore diurne, due venivano lasciati ai vitelli e gli ultimi due, munti dal pastore, venivano equamente divisi col proprietario - li besti la matina si chirriàni e la sera si mungjiani. In occasione di San Giovanni, la famiglia del pastore che era numerosa e consumava più latte di quanto le era dovuto, doveva pagare, come segno di omaggio, li presènti al proprietario, cun séi pési di buttoni, cioè con dodici pezze di formaggio spiattato. Per converso l’unica cura del pastore nei confronti del bestiame vaccino era quella di appruindallu - rifocillarlo o dargli la pruènda, la provvista -, in caso di necessità, ricorrendo al taglio di tenere frasche - Né aveva meriti o responsabilità in caso di nascite numerose o morti accidentali. Come abbiamo visto, c’è stata un’evoluzione nei rapporti di soccida, pur se quasi sempre squilibrati a favore della proprietà. I rapporti tra i contraenti si presentano con molte varietà di soluzioni nel tempo. Si deve poi distinguere tra la compartecipazione all’allevamento animale, che sino alla fine del secolo XIX ha rappresentato quasi l’unica destinazione produttiva dello stazzo, e l’attività agricola praticata sui terreni migliori che prevedeva accordi separati e distinti. Giuseppe Mele 10 distingue quattro tipi di soccida, tra queste le più praticate fin dal XVII secolo erano dette la prima “di cappuccio” (a capucho) o in garrigu; la seconda “di capo vivo” o da la tant’una. Nel primo caso il proprietario o comunargio mayor (pupiddu) consegna a quello menor o pastore il bestiame per un certo periodo (entrego del ganado). Allo scioglimento della società si rende il capitale iniziale (caudal) o fundu. Il pastore ne garantisce la restituzione impegnando i suoi beni. I capi in soprannumero (criscimentu) sono divisi a metà. A metà viene diviso tutto il resto: il ricavato dei capi venduti o macellati, il formaggio, il burro, il latte, la ricotta, le pelli, la lana. Durante il periodo del contratto il pastore è tenuto “a donare” al proprietario ogni anno quattro regali: un vitello nel giorno di Tutti i Santi, un capretto a Natale, un maiale a Carnevale e un agnello a Pasqua. Nel 10 Giuseppe Mele, Da Pastori a Signori, EDES, Cagliari, 1994

vano addensarsi nubi m<strong>in</strong>acciose: chi, nell’aurora, avesse visto la propria ombra<br />

doppia o senza la testa, avrebbe trovato morte entro l’anno. <strong>La</strong> natura era poi <strong>in</strong>terrogata<br />

<strong>in</strong> mille modi dalle “fanciulle <strong>in</strong> fiore” perché desse risposte sui futuri<br />

amori e sulla solidità delle relazioni sentimentali. <strong>La</strong> natura sempre, arcanamente,<br />

rispondeva.<br />

Gli <strong>in</strong>contri plurifamiliari erano occasione di festa comunitaria; di giochi amorosi<br />

e corteggiamenti; impegni e promesse solenni; balli e gare di poesia estemporanea;<br />

scambio di op<strong>in</strong>ioni e transazioni d’affari. Ci si <strong>in</strong>teressava di tutto<br />

ciò che può rendere piacevole la vita. Si traevano auspici per l’annata. Abbondante<br />

rugiada al matt<strong>in</strong>o significava buon raccolto nella bassa <strong>Gallura</strong>, illi nostri mar<strong>in</strong>i;<br />

se soffiava il ponente sarebbe stata buona annata nell’alta <strong>Gallura</strong>, ill’alturi o<br />

illi iddi di supra. Il clima di fervore ed eccitazione non era dato solo dalla ricerca<br />

dei segni sulla felicità futura, la fort<strong>una</strong>, la salute; ma <strong>in</strong> quella elettrizzante atmosfera<br />

venivano confermati, o disdetti e ripetuti con altri, i “patti agrari”. Si faceva la<br />

conta del bestiame e si procedeva alla spartizione secondo quanto precedentemente<br />

convenuto. Il “proprietario” dello stazzo, confermava la fiducia al suo “pastore”,<br />

oppure contraeva nuovi patti con un nuovo pastore ed il vecchio metteva a<br />

disposizione di un altro proprietario la sua capacità di lavoro e la sua esperienza.<br />

Al momento della cessione dello stazzo, il proprietario - lu patronu o pastóri<br />

maggjóri, affidava al mezzadro - lu pastóri m<strong>in</strong>óri -: la casa, gli attrezzi da lavoro,<br />

le sementi pa lu ‘jùu - per la coltivazione dei cereali - e <strong>una</strong> coppia di buoi domati<br />

per il lavoro nei campi, dei quali ultimi doveva pure garantire il vitto. Se uno dei<br />

buoi moriva e si sospettava <strong>una</strong> negligenza del pastore, si approntava un giudizio<br />

rusticano - si faciani <strong>una</strong> rasgioni -, con la scelta di <strong>una</strong> terna giudicante - li rasgi<strong>una</strong>nti<br />

- da parte dei saggi della contrada - la cussòggja. Se si fosse accertata<br />

<strong>una</strong> qualche responsabilità, con sentenza <strong>in</strong>appellabile, il pastore avrebbe dovuto<br />

rifondere, con la sua attività lavorativa, il danno procurato, poiché sementi, oggetti<br />

e animali restando di proprietà del padrone (lu fundu), comportavano per il contad<strong>in</strong>o<br />

l’obbligo di mantenerli <strong>in</strong>tegri e <strong>in</strong> efficienza. Il frutto (lu criscimentu), le nascite<br />

del bestiame m<strong>in</strong>uto consegnato, andava <strong>in</strong>vece diviso a metà - a mez’apparu.<br />

Quando il proprietario, nel giorno di San Giovanni, voleva esprimere stima e apprezzamento<br />

al pastore - li <strong>in</strong>ìa signalàtu un manzu - gli faceva dono di un manzo.<br />

A carico del proprietario erano pure i costi delle rec<strong>in</strong>zioni, di eventuali canalizzazioni<br />

e altre opere d’irrigazione. Se dal gregge delle capre ne moriva o mancava<br />

<strong>una</strong>, secondo alcune versioni, padrone e pastore dovevano aggiungervi un<br />

capretto, così da ricostituire e <strong>in</strong>crementare il capitale <strong>in</strong>iziale.<br />

<strong>La</strong> laboriosità dei contad<strong>in</strong>i galluresi era proverbiale, tanto che di solito i<br />

contratti (la calta) non venivano neppure r<strong>in</strong>novati, ma cont<strong>in</strong>uavano tacitamente,<br />

di solito o quattro o c<strong>in</strong>que anni, f<strong>in</strong>ché durava l’accordo raggiunto <strong>una</strong> prima volta<br />

tra le parti. Quando uno dei due non otteneva dall’altro quanto si attendeva, resc<strong>in</strong>deva<br />

unilateralmente il contratto per andare alla ricerca di nuovi accordi con<br />

terzi. Lo stesso proprietario poteva allontanare un pastore senza alcun preavviso<br />

e sostituirlo con un altro di suo gradimento. C’erano proprietari generosi o avari -<br />

boni o mali -, ma ci si poteva imbattere anche <strong>in</strong> pastori laboriosi o <strong>in</strong>f<strong>in</strong>gardi -<br />

14<br />

trabaddadóri o prizzósi - Le contrattazioni erano verbali e gli impegni venivano<br />

fissati sempre sulla parola. Si concludevano dopo aver esam<strong>in</strong>ato fittamente tutti i<br />

punti dell’accordo, che si chiudeva durante <strong>una</strong> ricognizione congiunta nello stazzo<br />

da “affidare”. Come si è visto solo “il frutto” (<strong>in</strong>clusa la produzione lattiera) del<br />

bestiame m<strong>in</strong>uto: pecore, capre, maiali, era diviso a metà - <strong>in</strong> garrigu a sangu e<br />

latti -; il bestiame vacc<strong>in</strong>o con i vitelli nati, restava di esclusiva proprietà del padrone<br />

- lu sangu di lu bistiamu ‘acc<strong>in</strong>u era tuttu di lu patronu.<br />

“…S<strong>in</strong>o alla f<strong>in</strong>e del secolo scorso gli accordi tra padrone e pastore prevedevano<br />

la divisione dei frutti - a mez’apparu - anche del bestiame vacc<strong>in</strong>o; via via<br />

la divisione si è andata squilibrando a favore del proprietario, f<strong>in</strong>ché è rimasto da<br />

dividere solo il latte…”. Per il latte, le vacche potevano esser munte solo nel periodo<br />

<strong>in</strong>tercorrente tra il primo aprile e San Giovanni. Dei quattro capezzoli di ogni<br />

mucca due venivano munti mentre gli altri due erano riservati alla suzione da parte<br />

dei vitelli. Per chiarire quanto avveniva faremo un esempio: quando <strong>una</strong> mucca<br />

produceva otto litri di latte al giorno, due per capezzolo, al pastore ne restava solo<br />

uno; <strong>in</strong>fatti quattro litri venivano succhiati dai vitelli nelle ore notturne, cioè a<br />

beneficio del padrone, dei rimanenti quattro prodotti nelle ore diurne, due venivano<br />

lasciati ai vitelli e gli ultimi due, munti dal pastore, venivano equamente divisi<br />

col proprietario - li besti la mat<strong>in</strong>a si chirriàni e la sera si mungjiani. In occasione<br />

di San Giovanni, la famiglia del pastore che era numerosa e consumava più latte<br />

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Per converso l’unica cura del pastore nei confronti del bestiame vacc<strong>in</strong>o era quella<br />

di appru<strong>in</strong>dallu - rifocillarlo o dargli la pruènda, la provvista -, <strong>in</strong> caso di necessità,<br />

ricorrendo al taglio di tenere frasche - Né aveva meriti o responsabilità <strong>in</strong> caso<br />

di nascite numerose o morti accidentali. Come abbiamo visto, c’è stata<br />

un’evoluzione nei rapporti di soccida, pur se quasi sempre squilibrati a favore della<br />

proprietà. I rapporti tra i contraenti si presentano con molte varietà di soluzioni<br />

nel tempo. Si deve poi dist<strong>in</strong>guere tra la compartecipazione all’allevamento animale,<br />

che s<strong>in</strong>o alla f<strong>in</strong>e del secolo XIX ha rappresentato quasi l’unica dest<strong>in</strong>azione<br />

produttiva dello stazzo, e l’attività agricola praticata sui terreni migliori che prevedeva<br />

accordi separati e dist<strong>in</strong>ti.<br />

Giuseppe Mele 10 dist<strong>in</strong>gue quattro tipi di soccida, tra queste le più praticate<br />

f<strong>in</strong> dal XVII secolo erano dette la prima “di cappuccio” (a capucho) o <strong>in</strong> garrigu; la<br />

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periodo (entrego del ganado). Allo scioglimento della società si rende il capitale<br />

<strong>in</strong>iziale (caudal) o fundu. Il pastore ne garantisce la restituzione impegnando i<br />

suoi beni. I capi <strong>in</strong> soprannumero (criscimentu) sono divisi a metà. A metà viene<br />

diviso tutto il resto: il ricavato dei capi venduti o macellati, il formaggio, il burro, il<br />

latte, la ricotta, le pelli, la lana. Durante il periodo del contratto il pastore è tenuto<br />

“a donare” al proprietario ogni anno quattro regali: un vitello nel giorno di Tutti i<br />

Santi, un capretto a Natale, un maiale a Carnevale e un agnello a Pasqua. Nel<br />

10 Giuseppe Mele, Da Pastori a Signori, EDES, Cagliari, 1994

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