La Gallura una Regione Diversa in Sardegna - Servizi On Line

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28.05.2013 Views

dell’uomo le operazioni di aratura, semina o messa a dimora delle piantine. La maggior parte delle volte pochi filari con solchi, o in prossimità della casa o di una polla di acqua sorgiva, sono preparati col solo ausilio di una zappetta. L’orto ha una maggiore importanza quando è recintato, avendo al suo interno alberi da frutta e lo spazio diviso per le colture nelle diverse stagioni. Anche nell’Angius-Casalis viene annotato: “…Sono pochi che attendono alla coltivazione degli orti, le patate, essendo la terra molto adatta... sono coltivate con qualche studio…” 6 . Calorie, proteine e soprattutto vitamine, sono assicurate nella primavera da fave, piselli, melanzane, zucchine (fàa, visidulci, milinzani, zucchini); nell’estate da fagiolini, cetrioli, pomodori (fasgioli, cucumbari e tumati) che, debitamente curati, giungono fino all’autunno inoltrato. Non mancano negli stessi periodi le carote (aricaglia) e, come rinfrescanti, angurie e meloni (sindri e miloni), con aggiunta di lattughe e finocchi (lattuca e finocchj). Abbondanti nell’orto invernale aglio e cipolla, cavoli e cavolfiori (aciu e ciudda, fódda e caulafióri). Lungo i margini o la linea del muro di recinzione una volta erano comuni i “fichidindia”, che oggi non caratterizzano più il paesaggio. Presenti sono fichi, meli, peri, cotogni, mandorli e ciliegi (criasgia); meno diffusi susini, prugni, nespoli, albicocchi e peschi (preschi). Più rari castagni e noci. Nei pressi dell’orto, i “pastori” più avveduti non fanno mancare il boschetto di olivi, in genere assai prosperi nei luoghi dove non sono offesi dal vento, al contrario miseri se esposti o situati dove le bestie pasturano. Di olivastri è grande abbondanza dappertutto e, se non criminalmente arsi dal fuoco, la loro età e le loro dimensioni sono venerabili. Già quasi due secoli or sono avvertiva il Casalis: “…I pastori non sfrondano solo i lecci, ma pure gli olivastri e recidono i rami a grande abbreviamento dell’opera. Il loro ferro e il dente delle capre non ne permettono lo sviluppo. Da che avvenne che, in molte selve, ora sorgono solo i tronchi con pochi rami meschini…” . È quasi un’estensione dell’orto la diffusa macchia mediterranea, dai frutti della quale si ottengono prodotti utili all’alimentazione di uomini e animali. Oltre ai frutti degli olivastri, concessi a capre (le foglie) e porci, dalle bacche mature del “lentisco” si estrae un olio essenziale a diversi bisogni della casa; in qualche periodo si giunse persino a farne esportazione con qualche lucro per i confezionatori. Le foglie e i frutti del mirto (multa) sono usati come aromatizzanti o se ne confezionano liquori. Come dal corbezzolo (lioni) si producono marmellate o la più nota sabba lioni - sapa di corbezzolo. Raro l’uso di piante spontanee a scopi officinali capumiddu, palmuccia, sambucu, come raro il loro uso in cucina in aggiunta a quanto coltivato dalle donne ill’avreddu (campicello od orticello). Eccezioni per il ramolaccio, il finocchio selvatico, le cicorie e le bietole selvatiche. La vite in Gallura vive felicemente, ma solo in poche regioni porta a maturazione compiutamente i grappoli. La preparazione dei vini prevedeva tali accorgimenti da renderli poco apprezzabili al palato. Agli inizi del secolo scorso il mosto si mescolava col cotto, che si aggiungeva in diverse misure: ora per metà, ora per un terzo o un quarto, secondo il grado di acerbità dell’uva. I vini così confezionati non inacidivano, ma restavano pesanti per lo stomaco. 6 G. CASALIS, op. cit 9 Anche le uve della vigna marittima, migliori di tutte, per antica abitudine venivano poi mischiate con le altre. L’arte della vinificazione è andata con gli anni progredendo, tanto che i vini delle regioni collinari di Luras e Tempio, andavano, e lo sono tuttora, giustamente famosi per colore, fragranza e gusto. Le attuali cantine sociali raccolgono la tradizione e la varietà introdotta dai nostri pastori, rendendole più vicine alle richieste di mercato con l’avvalersi della scienza enologica di esperti anche di altre regioni. Ma a noi interessano le vigne come parte integrante e costitutiva dello stazzo. La vigna, con i filari ordinati e verdi delle viti, posta davanti o nei pressi della bianca casetta, porta una nota di allegria, tanto più che anche il colore del terreno, tendente al rossastro aggiunge un elemento vivace di contrasto. Infatti sono preferiti i suoli argillosi, possibilmente in leggero pendio - in custéra - e con bella esposizione soleggiata - suliànu. Più raramente si dispone la vigna dove la terra è nera. Da evitare senza indugio il terreno umido o paludoso. Prima di mettere a dimora le viti, si tracciano dei solchi profondi circa ottanta centimetri e larghi cinquanta - la présa -, distanziati tra essi di circa un metro e mezzo; poi si zappa lo spazio tra due solchi - la piazza -, fino a scassarlo completamente e, con la migliore terra smossa, si riempiono gli stessi solchi, formando i filari lungo tutto il terreno destinato a vigna, rigorosamente recintato col classico muro a secco. I buchi per sistemare nella loro dimora definitiva i vitigni, vengono praticati con un’asta di ferro detta lu piantadóri, dalla parte superiore a manubrio o forcella e quella inferiore a vite o torciglione. Diserbata scrupolosamente la piazza, si piantano anche le angurie in lu pàstini e, quando è trascorso un anno, s’innestano le viti americane. I viticci di “vite americana”, a breve distanza l’uno dall’altro, sono insostituibili perché inattaccabili dalle malattie più diffuse della vite. Secondo le caratteristiche del suolo, possono essere di due tipi. Se il terreno è sabbioso o “magro”, si coltiva il tipo di vite rupestris, dai nodi nel tronco molto ravvicinati; per i terreni più fertili o “grassi” è adatto il tipo riparia, dai nodi distanziati. Dopo uno o due anni il viticcio attecchisce, viene allora innestato con le viti delle varie qualità d’uva desiderate per la produzione. Nel momento in cui spuntano i germogli - li puddòni -, si recidono quelli superflui, così da non sfruttare troppo la pianta. Nel periodo in cui la piantina è ancora tenera e dalle foglie rade, viene irrorata, per mezzo di un mantice a soffietto, con polvere di zolfo, ma anche con solfato di rame diluito, fino a quando i “grappoletti” non mostravano il fiore. Allora il medicamento viene sospeso (no si midicinaa). Lo zolfo, o il solfato di rame, era sparso a più riprese per evitare che umidità notturne e nebbie causassero la “ruggine”, rovinando frutto e pianta. Tutto allora va nel migliore dei modi fino a giungere in settembre alla vendemmia - bibènna che di solito è buona se la vigna è stata curata con regolarità e se il clima non si è interposto con i suoi capricci. Le vendemmie sono cerimonie comunitarie cui partecipa la cussorgia, sono occasione di incontro fra giovani e di confronto fra diverse generazioni. L’uva trasportata con recipienti di sughero, la “jona e la ‘junédda”, dalle dimensioni diverse secondo l’energia del portatore, vie-

ne ammassata in una grande vasca laccu (occupante la maggior superficie della casédda di la ’igna, quasi un capanno dove sono custoditi i pochi strumenti e recipienti utili alla cura della vigna e allo svolgersi della vendemmia) - Alcuni esperti volenterosi pestano i grappoli ammassati a piedi nudi, facendone sgorgare il succo. A volte l’operazione è compiuta entro appositi recipienti di legno detti calcicatoggj o “calpestatoi”. Naturalmente i chicchi non sono mai completamente spremuti e ciò che di essi, col raspo, resta in fondo al tino è detto lu tinaggju. Successivamente raccolto, è spremuto con la suppressa o passato nel macinatoggju (macinatoio). “…Le vendemmie erano anche una serie continuata di divertimenti. Specie pei giovani e le fanciulle. Accorrevano liberamente giovani, i quali aiutavano intessendo ghirlande d’amore. La sera si cantava, si suonava, si ballava. A vendemmia finita i grappoli rimasti venivano colti dai poveri, cui si dava via libera…” 7 . Questo avveniva quando le famiglie non assolvevano solo ad una funzione privata. Le botti, precedentemente preparate, accolgono il vino ed sono lasciate senza tappo fino alla fermentazione - finz’a chi lu ‘inu buddìa. Due o tre giorni dopo, un tappo di sughero si appoggia leggermente sull’imboccatura e viene pressato gradualmente man mano che il tempo passa e diminuisce la fermentazione. Verso novembre-dicembre è tempo di travasare il vino. La cupa o botte deva restare rigorosamente sigillata, così il vino - punìa la ‘esta - “mette la veste”, cioè forma in superficie un leggero strato semioleoso che ne impedisce l’acetizzazione - no acitinàa. I Galluresi sono noti degustatori di vini, ma moderati bevitori. Anzi la sobrietà entra a far parte del corredo delle virtù manifeste e ostentate dal pastore gallurese. Solo in occasioni di particolare eccitazione, quando è persino doveroso essere briosi, è consentito eccedere con moderazione pa’ alligrà lu baddu o la festa. L’ubriachezza è ritenuta disonorevole, così degradante che tutt’al più si addice a li muntagnini - i barbaricini - o genericamente a li saldi, - gli altri abitanti della Sardegna. Disdicevole, in tutte le occasioni, è l’eccesso nel bere per una donna. Il rispetto per la stessa e il decoro non possono consentirlo mai. Perciò il vino è il giusto ornamento del pasto, la nota di allegria di una festa, la fragrante bevanda a suggello di un amichevole incontro. Mai occasione di eccessi scomposti, di risse, di alterazioni inconsulte. Certo i costumi cambiano, per cui non è possibile dire se oggi esistano ancora queste doti di equilibrio e questo orgoglioso senso della misura e del valore personale. A3 – GLI STRUMENTI DI LAVORO. Due considerazioni si impongono inizialmente: gli arnesi rurali erano semplici, di fattura arcaica, pochi e di piccole dimensioni; in secondo luogo quanto più il pastore-contadino è distante da qualsiasi villaggio, tanto più deve essere autosufficiente e saper costruire da sé tutti gli oggetti utili al lavoro. Nella stalla i più abili talvolta destinano spazi ad una piccola forgia a carbone alimentata con un manovella, mentre prima non erano infrequenti i mantici, 7 F. DE ROSA, op. cit. 10 con accanto l’incudine fissata su un ceppo; poco distante può esserci un rudimentale banco da falegname, con gli attrezzi idonei a formare sia un manico di falce, sia le diverse parti di un aratro o di un carro. All’aperto, poco distante, è piantata “la capra”, una struttura lignea a gabbia per immobilizzare gli animali da ferrare. A qualcuno non manca neppure il “deschetto” da calzolaio con tomaie, suole, trincetto e lesina. Certo per i manufatti più complicati ci si rivolge nei grossi villaggi agli artigiani competenti detti per l’appunto mastri o “maestri”, c’è pertanto lu mastru d’ascia o falegname, specializzato come mastru carraiu o esperto nel costruire carri, c’è lu mulinaggju o “mugnaio” col suo mulino e lu frailaggju o fabbro ferraio col suo fraìli o bottega. I viaggiatori italiani e stranieri restavano stupiti per gli arcaismi persistenti che rendevano i Sardi in genere fermi nell’uso delle tecniche usuali ai tempi di Virgilio e Varrone. Non è mai stato usato, se non ai nostri giorni, l’aratro a ruote. Quello della Gallura, interamente di legno resistente, aveva un dente anteriormente prolungato, spesso ricoperto da un rinforzo puntuto di ferro, detto albata, dal latino albus - bianco, perché reso argenteo dall’attrito col suolo. Era sormontato da due “orecchie” massicce - caméddi - che rivoltavano la terra ai due lati del solco. La corta “stiva” - steva - era fissata quasi verticalmente sul corpo principale e la guida - manali - aveva forma di croce. Il contadino, poiché l’aratro era leggero, esercitava il maggior peso possibile col corpo, mentre si faceva trascinare dalla coppia bovina aggiogata al “timone”. Una banale considerazione a questo punto è opportuna: il lavoro del contadino gallurese è solitario. Sono rari nel corso dell’anno i momenti in cui la comunità della cussorgia è chiamata a prestare aiuto, perché più braccia sono necessarie nello stesso tempo. Tali occasioni hanno assunto, e poi perduto, l’antico valore cerimoniale e rituale e il forte spessore sociale e culturale. L’aratro, a causa delle sue caratteristiche funzionali e del terreno siliceo, non va quasi mai oltre i dieci-venti centimetri in profondità. Se fossero meno il seme non rivivrebbe, se fossero di più troverebbe un ambiente arido; inoltre la zolla rovesciata dalla profondità sabbiosa vanificherebbe la moderata umidità superficiale. Il contadino è solo dunque con l’aratro, solo con la sua “zappa”, con la quale esegue tutti i lavori minuti. Ad opinione di alcuni questa “solitudine” ha sbozzato il carattere fortemente individualistico del gallurese, con la sua incapacità di pensare ed operare in cooperazione con altri. Pochi strumenti accompagnano il suo lavoro. La vanga è quasi sconosciuta. Oltre la primitiva faticosa zappa, con la sua sottospecie - la zappitta - per il diserbamento dei cereali e per l’orto, limitati sono gli attrezzi di lavorazione con cui si smuove, si prepara, si manipola in superficie la terra: lu picconi e lu marrapiccu, picconi usati per il “debbio” e la preparazione del terreno. Un lato del picconi termina con una grossa punta di circa trenta centimetri, l’altro con una sorta di accetta per il taglio. Mentre lu marrapiccu ha due asce: una con la lama perpendicolare al manico, l’altra parallela. Data la pervasività difficilmente controllabile della “macchia”, gli “attrezzi da taglio” sono, in relazione ai precedenti, di più comples-

ne ammassata <strong>in</strong> <strong>una</strong> grande vasca laccu (occupante la maggior superficie della<br />

casédda di la ’igna, quasi un capanno dove sono custoditi i pochi strumenti e recipienti<br />

utili alla cura della vigna e allo svolgersi della vendemmia) - Alcuni esperti<br />

volenterosi pestano i grappoli ammassati a piedi nudi, facendone sgorgare il succo.<br />

A volte l’operazione è compiuta entro appositi recipienti di legno detti calcicatoggj<br />

o “calpestatoi”. Naturalmente i chicchi non sono mai completamente spremuti<br />

e ciò che di essi, col raspo, resta <strong>in</strong> fondo al t<strong>in</strong>o è detto lu t<strong>in</strong>aggju. Successivamente<br />

raccolto, è spremuto con la suppressa o passato nel mac<strong>in</strong>atoggju<br />

(mac<strong>in</strong>atoio). “…Le vendemmie erano anche <strong>una</strong> serie cont<strong>in</strong>uata di divertimenti.<br />

Specie pei giovani e le fanciulle. Accorrevano liberamente giovani, i quali aiutavano<br />

<strong>in</strong>tessendo ghirlande d’amore. <strong>La</strong> sera si cantava, si suonava, si ballava. A<br />

vendemmia f<strong>in</strong>ita i grappoli rimasti venivano colti dai poveri, cui si dava via libera…”<br />

7 . Questo avveniva quando le famiglie non assolvevano solo ad <strong>una</strong> funzione<br />

privata.<br />

Le botti, precedentemente preparate, accolgono il v<strong>in</strong>o ed sono lasciate<br />

senza tappo f<strong>in</strong>o alla fermentazione - f<strong>in</strong>z’a chi lu ‘<strong>in</strong>u buddìa. Due o tre giorni dopo,<br />

un tappo di sughero si appoggia leggermente sull’imboccatura e viene pressato<br />

gradualmente man mano che il tempo passa e dim<strong>in</strong>uisce la fermentazione.<br />

Verso novembre-dicembre è tempo di travasare il v<strong>in</strong>o. <strong>La</strong> cupa o botte deva restare<br />

rigorosamente sigillata, così il v<strong>in</strong>o - punìa la ‘esta - “mette la veste”, cioè<br />

forma <strong>in</strong> superficie un leggero strato semioleoso che ne impedisce l’acetizzazione<br />

- no acit<strong>in</strong>àa.<br />

I Galluresi sono noti degustatori di v<strong>in</strong>i, ma moderati bevitori. Anzi la sobrietà<br />

entra a far parte del corredo delle virtù manifeste e ostentate dal pastore gallurese.<br />

Solo <strong>in</strong> occasioni di particolare eccitazione, quando è pers<strong>in</strong>o doveroso essere<br />

briosi, è consentito eccedere con moderazione pa’ alligrà lu baddu o la festa.<br />

L’ubriachezza è ritenuta disonorevole, così degradante che tutt’al più si addice a<br />

li muntagn<strong>in</strong>i - i barbaric<strong>in</strong>i - o genericamente a li saldi, - gli altri abitanti della <strong>Sardegna</strong>.<br />

Disdicevole, <strong>in</strong> tutte le occasioni, è l’eccesso nel bere per <strong>una</strong> donna. Il rispetto<br />

per la stessa e il decoro non possono consentirlo mai. Perciò il v<strong>in</strong>o è il<br />

giusto ornamento del pasto, la nota di allegria di <strong>una</strong> festa, la fragrante bevanda a<br />

suggello di un amichevole <strong>in</strong>contro. Mai occasione di eccessi scomposti, di risse,<br />

di alterazioni <strong>in</strong>consulte. Certo i costumi cambiano, per cui non è possibile dire se<br />

oggi esistano ancora queste doti di equilibrio e questo orgoglioso senso della misura<br />

e del valore personale.<br />

A3 – GLI STRUMENTI DI LAVORO.<br />

Due considerazioni si impongono <strong>in</strong>izialmente: gli arnesi rurali erano semplici,<br />

di fattura arcaica, pochi e di piccole dimensioni; <strong>in</strong> secondo luogo quanto più<br />

il pastore-contad<strong>in</strong>o è distante da qualsiasi villaggio, tanto più deve essere autosufficiente<br />

e saper costruire da sé tutti gli oggetti utili al lavoro.<br />

Nella stalla i più abili talvolta dest<strong>in</strong>ano spazi ad <strong>una</strong> piccola forgia a carbone<br />

alimentata con un manovella, mentre prima non erano <strong>in</strong>frequenti i mantici,<br />

7 F. DE ROSA, op. cit.<br />

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con accanto l’<strong>in</strong>cud<strong>in</strong>e fissata su un ceppo; poco distante può esserci un rudimentale<br />

banco da falegname, con gli attrezzi idonei a formare sia un manico di<br />

falce, sia le diverse parti di un aratro o di un carro.<br />

All’aperto, poco distante, è piantata “la capra”, <strong>una</strong> struttura lignea a gabbia<br />

per immobilizzare gli animali da ferrare. A qualcuno non manca neppure il “deschetto”<br />

da calzolaio con tomaie, suole, tr<strong>in</strong>cetto e les<strong>in</strong>a. Certo per i manufatti<br />

più complicati ci si rivolge nei grossi villaggi agli artigiani competenti detti per<br />

l’appunto mastri o “maestri”, c’è pertanto lu mastru d’ascia o falegname, specializzato<br />

come mastru carraiu o esperto nel costruire carri, c’è lu mul<strong>in</strong>aggju o “mugnaio”<br />

col suo mul<strong>in</strong>o e lu frailaggju o fabbro ferraio col suo fraìli o bottega.<br />

I viaggiatori italiani e stranieri restavano stupiti per gli arcaismi persistenti<br />

che rendevano i Sardi <strong>in</strong> genere fermi nell’uso delle tecniche usuali ai tempi di<br />

Virgilio e Varrone.<br />

Non è mai stato usato, se non ai nostri giorni, l’aratro a ruote. Quello della<br />

<strong>Gallura</strong>, <strong>in</strong>teramente di legno resistente, aveva un dente anteriormente prolungato,<br />

spesso ricoperto da un r<strong>in</strong>forzo puntuto di ferro, detto albata, dal lat<strong>in</strong>o albus -<br />

bianco, perché reso argenteo dall’attrito col suolo. Era sormontato da due “orecchie”<br />

massicce - caméddi - che rivoltavano la terra ai due lati del solco. <strong>La</strong> corta<br />

“stiva” - steva - era fissata quasi verticalmente sul corpo pr<strong>in</strong>cipale e la guida -<br />

manali - aveva forma di croce. Il contad<strong>in</strong>o, poiché l’aratro era leggero, esercitava<br />

il maggior peso possibile col corpo, mentre si faceva trasc<strong>in</strong>are dalla coppia bov<strong>in</strong>a<br />

aggiogata al “timone”.<br />

Una banale considerazione a questo punto è opport<strong>una</strong>: il lavoro del contad<strong>in</strong>o<br />

gallurese è solitario. Sono rari nel corso dell’anno i momenti <strong>in</strong> cui la comunità<br />

della cussorgia è chiamata a prestare aiuto, perché più braccia sono necessarie<br />

nello stesso tempo. Tali occasioni hanno assunto, e poi perduto, l’antico valore<br />

cerimoniale e rituale e il forte spessore sociale e culturale. L’aratro, a causa<br />

delle sue caratteristiche funzionali e del terreno siliceo, non va quasi mai oltre i<br />

dieci-venti centimetri <strong>in</strong> profondità. Se fossero meno il seme non rivivrebbe, se<br />

fossero di più troverebbe un ambiente arido; <strong>in</strong>oltre la zolla rovesciata dalla profondità<br />

sabbiosa vanificherebbe la moderata umidità superficiale. Il contad<strong>in</strong>o è<br />

solo dunque con l’aratro, solo con la sua “zappa”, con la quale esegue tutti i lavori<br />

m<strong>in</strong>uti. Ad op<strong>in</strong>ione di alcuni questa “solitud<strong>in</strong>e” ha sbozzato il carattere fortemente<br />

<strong>in</strong>dividualistico del gallurese, con la sua <strong>in</strong>capacità di pensare ed operare <strong>in</strong><br />

cooperazione con altri.<br />

Pochi strumenti accompagnano il suo lavoro. <strong>La</strong> vanga è quasi sconosciuta.<br />

Oltre la primitiva faticosa zappa, con la sua sottospecie - la zappitta - per il diserbamento<br />

dei cereali e per l’orto, limitati sono gli attrezzi di lavorazione con cui si<br />

smuove, si prepara, si manipola <strong>in</strong> superficie la terra: lu picconi e lu marrapiccu,<br />

picconi usati per il “debbio” e la preparazione del terreno. Un lato del picconi term<strong>in</strong>a<br />

con <strong>una</strong> grossa punta di circa trenta centimetri, l’altro con <strong>una</strong> sorta di accetta<br />

per il taglio. Mentre lu marrapiccu ha due asce: <strong>una</strong> con la lama perpendicolare<br />

al manico, l’altra parallela. Data la pervasività difficilmente controllabile della<br />

“macchia”, gli “attrezzi da taglio” sono, <strong>in</strong> relazione ai precedenti, di più comples-

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