La maratona - Studio di Ingegneria e Informatica Ing. Roberto Croci

La maratona
Roberto Croci

La maratona
Roberto Croci

Prefazione
INDICE
Parte Prima – L’estate
Il volo
La lettura
L’idea stravagante
Il viaggio
I preparativi
La corsa
Il sogno
Il risveglio
La ricerca
Parte Seconda – L’inverno
Siamo spiriti?
Il complice
La scoperta
La gara di fondo
Il ritrovamento
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Prefazione
L’idea di questo racconto è nata alla fine del
2003 nel corso delle vacanze di Natale.
Inizialmente desideravo scrivere una
sceneggiatura per un film, ma non sapendo
come fare, pur avendo nella mia mente chiara
la trama e la rappresentazione delle scene
principali, sia quelle reali che quelle di
fantasia, sono passato alla scrittura di questa
storia sperando di catturare l’interesse e
l’attenzione del lettore.
Il racconto fa riferimento a luoghi esistenti e
fatti storici realmente accaduti e la narrazione
si intreccia con alcuni di questi luoghi ed
eventi. Solo i nomi dei personaggi, e le loro
avventure, sono frutto della mia fantasia e
pertanto ogni riferimento a persone realmente
vissute è puramente casuale.
La foto di copertina, fa parte di una serie di
cartoline proprietà di mia moglie, Donatella
Angelini, raccolte dal nonno nel periodo della
Grande Guerra.
Un video che narra il primo capitolo del
libro “Il volo” e che secondo il mio punto di
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vista è ben rappresentato nel filmato, è
presente su YOUTUBE agli indirizzi:
http://www.youtube.com/watch?v=PmhypgaXjlg
e
http://www.youtube.com/watch?v=BjPpCaG0f8c
Buona visione.
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Parte Prima
L’estate
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Il volo
Un soffio: forse è stato solo un debole soffio a far
scattare la scintilla che ha provocato la comparsa
del nostro universo, un’impercettibile increspatura
che dal nulla ha creato il tutto.
Queste distorsioni si verificano in
continuazione, alcune volte generando nuove
dimensioni a noi parallele, altre volte, più
semplicemente, aprendo delle piccole finestre nel
passato o nel futuro nelle quali poter vivere dei
momenti, che al loro trascorrere, ci lasciano
nell’inconscio un tenue ricordo, come di un sogno
che rapidamente si dissolve al risveglio.
Un capriccio, lo spazio e il tempo creano queste
increspature che a noi risultano invisibili e
raramente ne siamo coinvolti, ma quando ciò
accade, possono cambiare il corso della nostra vita.
A me è capitato e questa è la storia, questo è il
segreto che sto’ per svelarvi.
Sognare. Sognare e volare, volare in un cielo
limpido e terso tra nuvole sottili,
contemplando in lontananza imponenti catene
montuose, che man mano avvicinandosi
mutano di colore alla luce del tramonto,
diventando dapprima bianche, quindi gialle,
poi rosa e rosse ed infine grigie e nere.
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Ammirare il paesaggio e scorgere in
lontananza un gruppo di alpinisti che scalano
ripide pareti per soddisfare la loro grande
passione, affrontando asperità in apparenza
insuperabili; l’entusiasmo mi coinvolge al
punto che desidero partecipare alla scalata.
Un senso di benessere, pace e tranquillità mi
pervadono intensamente, godo nell’arrampicarmi
su queste pareti imponenti, ma ben
presto l’attenzione è distolta da qualcosa che
mi attrae e mi costringe a volgere lo sguardo
verso nord.
Lì un’enorme montagna a forma piramidale
si staglia all’orizzonte e avvicinandomi, prima
lentamente e poi sempre più rapidamente,
muta con violenza la gioia della visione
precedente dapprima in ansia, poi dopo, in
paura e dolore.
Il cielo ora è scuro e cupo, nuvole nere
minacciano un forte temporale, l’oscurità è
rischiarata dal bagliore dei fulmini e il rumore
assordante che provocano riecheggia tutto
attorno a me.
Con orrore vedo alla base di questo
imponente massiccio migliaia di soldati che
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combattono ammassati gli uni sugli altri come
fosse un esercito di piccolissime formiche.
Si rotolano nel fango avvinghiati in un
abbraccio mortale; le facce, seppur di giovani
ragazzi, sono scavate dalla fame e dagli stenti,
gli occhi sembrano fuori dalle orbite per la
fatica e la paura, le divise lacere e cenciose non
li riparano dalla pioggia e dal freddo.
La scena mi risulta sempre più nitida, riesco
a guardare più attentamente i combattenti e
con raccapriccio scorgo il mio volto teso,
impaurito, rassegnato. Urlo! Io o il soldato mio
sosia? Forse entrambi, ma non fa alcuna
differenza perché quel meraviglioso sogno si è
tramutato in un terribile incubo.
Questo è quanto mi accade nel cuore della
notte ormai da qualche tempo. Non so
esattamente da quando, ma il ricordo di un
passato a me ignoto tormenta il mio presente,
fino al risveglio, quando pian piano tutto
svanisce lasciandomi nel letto tremante e
impaurito con la fronte imperlata di sudore e
un urlo strozzato in gola.
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La lettura
Pur abitando in città sono un appassionato
di montagna e ho sempre passato molto del
mio tempo libero in letture riguardanti
passeggiate, arrampicate, itinerari turistici e
solitari ma anche memorie su quanto accaduto
nelle Dolomiti nel corso della Grande Guerra.
Un caro amico, appassionato come me di
storia e passeggiate, mi ha prestato un suo
piccolo libro di appunti sulle Tofane, libro che
sto leggendo con interesse anche in
prospettiva di ciò che intendo fare a breve.
La lettura è piacevole e scorrevole e, seppur
tardi, non riesco a distogliermi da ciò che sto
leggendo: “ ………….Cominciamo dalla
pronuncia: giuro non è una barzelletta, ma quanto
sto per raccontare è capitato realmente a mia figlia,
in prima media. Un giorno la sua professoressa ha
parlato delle Dolomiti e inevitabilmente delle
Tòfane. Prontamente la bambina, che praticamente
è nata e vissuta in quei luoghi, ha osato alzare la
mano e dire alla maestra: < Si dice “Tofàne”
professoressa! > Apriti cielo, per via di uno stupido
senso di onnipotenza nei confronti di una
ragazzina di 11 anni, la professoressa ha zittito la
poverina con una occhiataccia. Da quel giorno
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anche per me sono diventate le Tòfane e questa è
diventata un’ occasione per scherzarci su con mia
figlia ……”
Anche io sorridevo pensando che per
fortuna l’arroganza e la stupidità è di pochi,
mentre l’ignoranza inevitabilmente è di tutti
noi e può essere combattuta solo con lo studio
e la volontà di conoscere e imparare.
“…….. le Tofàne sono, insieme al Pomagagnon,
Cristallo e Sorapis, le montagne più famose di
Cortina che chiudono rispettivamente a Ovest ed a
Est la conca d’Ampezzo. Sono un massiccio
costituito da tre vette principali, tutte sopra i 3200
metri, e da cime minori, ma non per questo meno
note, come Col Rosà, Col Druscè, Pocol, Castelletto
e altre ancora. Le tre cime principali si chiamano
Tofana di Dentro, Tofana di Mezzo, Tofana di
Rozes. Il complesso massiccio ha una forma
cuneiforme per cui è chiuso sugli altri due lati dalla
Val Costeana che porta a Passo Falzarego e dalla
Val Travenanzes. Queste due valli si incontrano lì
dove si trova la Forcella Bois (spesso chiamata
anche Forcella de Bois o Forcella de Bos o
erroneamente Col de Bos che invece è una piccola
cima che si trova nelle immediate vicinanze).
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Costituiscono un micro-sistema ricco di forcelle,
guglie, grotte, cenge, ghiaioni, alcuni vertiginosi
come il Valon de ra Ola, bivacchi, rifugi e vette,
con strapiombi anche superiori ai mille metri,
raggiungibili sia per facili sentieri o per vie ferrate
spesso molto impegnative, sia per scalate dalle più
semplici al sesto grado superiore ed oltre. È una
palestra per gli appassionati che, allontanatisi dai
circuiti più frequentati, consente meravigliose
passeggiate a contatto con la natura ricca di flora e
fauna. Anche i nomi di alcuni luoghi sanno di
mistero e tragedia perché spesso riconducibili alle
vicende della grande guerra: Sasso Misterioso,
Sasso Cubico, Sasso Spaccato, le Tre Dita,
Nemesis, Fontananegra, Masarè, Punta
Giovannina, Punta Marietta, Castelletto.
Mia moglie quando sente che vado sulle Tofane
esclama, alzando gli occhi al cielo: < Ancora!! ma
quante volte ci sei stato!! >. Ha ragione sono ormai
più di cinquant’anni che frequento questa
montagna ma ogni angolo mi affascina, dal
percorso più banale al più impegnativo e ogni volta
c’è qualcosa di nuovo da scoprire o ricordare.
Potrei fare l’elenco delle diverse passeggiate
possibili sulle Tofane, ma esistono decine di libri
che spiegano in modo dettagliato i vari percorsi.
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Personalmente, anche per vantarmene un po’, sono
stato una quindicina di volte in cima alla Tofane di
Rozes, la prima volta nel 1966, l’ultima nell’agosto
del 2004, per ben due volte, sia seguendo la via
normale sia per la ferrata Lipella fino alle Tre Dita
e quindi nuovamente per la via normale. Spero,
questa estate, di tornare con un caro amico che, pur
frequentando questi luoghi come me da molti anni,
non è ancora mai arrivato in vetta.
Ricordo anche la Scala del Minighel (o
Menighel) perchè si tratta della prima “via ferrata”
dell'Ampezzano, realizzata nel 1907 per iniziativa
privata dal proprietario del Rifugio Von
Glanvellhütte presente in Val Travenanzes, poi
distrutto durante la Grande Guerra e mai più
ricostruito. Questa breve ferrata ha un dislivello di
soli centocinquanta metri ma è molto esposta ed è
costituita da circa 300 pioli di ferro infissi solo da
un lato nella roccia viva, liscia, nera, bagnata e
verticale tendente verso l’esterno, cioè lo
strapiombo, che consentono di salire rapidamente
dalla Val Travenanzes al Masarè sotto il Rifugio
Giussani.
In inverno poi, sulle Tofane, si trovano alcune
tra le più belle piste da sci delle Dolomiti come il
mitico Canalone, la pista del “Bus de la Tofana” a
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Ra Valles, meravigliosa per la maestosità del
paesaggio, Forcella Rossa e ancora il severo Druscè
“A”, pista consentita ai soli sciatori veramente
esperti e da fare in condizioni di neve ottimale, la
rilassante Tofanina divertente sia per i grandi che
per i bambini e tante altre facili, medie e
soprattutto difficili come la Labirinti, la Vertigine
Bianca, la Strà, l’Olimpica.
Per concludere questa breve storia delle Tofane
posso affermare che percorrere tutti i sentieri e
ferrate, con relative varianti che si trovano in
questo luogo, richiede diverse settimane e tanta
fatica ripagata però da soddisfazioni indimenticabili
……..”.
Mi concessi un attimo di pausa riflettendo
su quanto letto, mi rendevo conto che molte
delle località indicate mi erano già note e che
comunque era estremamente piacevole
ritrovarsi in una bella lettura, ricordando
luoghi e fatti nei quali si erano trascorsi
momenti felici con i propri amici.
Proseguii non riuscendo a smettere di
leggere: “………… Pochi sanno in realtà che
Cortina fu “occupata” o “liberata” dall’esercito
italiano, dopo circa 350 anni di dominio Austriaco,
il 29 maggio 1915 con due plotoni, uno proveniente
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da Passo 3 Croci e l’altro da San Vito. Gli Alpini
trovarono solo vecchi e bambini perché tutti i
maschi in età di militare già dal 1914 erano stati
richiamati a combattere per il Kaiser soprattutto
nei Balcani. Nei giorni successivi si provvide a
consolidare le postazioni, in attesa delle ostilità che
in verità erano già iniziate, in prossimità delle Tre
Cime di Lavaredo dove una serie di cannonate
austriache partite dalla cima del Monte Paterno
distrusse prima una casetta italiana sotto Forcella
Lavaredo e in sua risposta una serie di colpi di
artiglieria italiana distrusse il Rifugio
Dreizinnenhütte, ora noto come Locatelli; era il 25
maggio 1915.
Tutto il fronte dolomitico in breve si infiammò,
dalla Marmolada fin oltre la Croda Rossa di Sesto,
passando per il Col di Lana, Lagazuoi, Tofane,
Cristallo, Monte Piana, le già citate Tre Cime di
Lavaredo, Cima Undici e molte altre ancora. La
Guerra tra queste montagne durò ben 29 mesi, dal
maggio 1915 all’ottobre 1917, quando la disfatta di
Caporetto costrinse l’esercito Italiano a ripiegare
sul Piave. Due inverni terribili tra i più rigidi e
nevosi del secolo, con temperature che arrivarono
anche a sfiorare i -40 °C, oltre cinque metri di neve
e slavine che procurarono migliaia di morti, tutti
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uomini che rifornivano gli avamposti di viveri e
munizioni.
Su tutto il fronte i due eserciti combatterono in
condizioni disperate e disumane. Gli italiani si
trovarono in posizione sfavorevole, dovendo
attaccare gli austriaci ben arroccati in posizione
dominante sugli avversari. Alcune postazioni ben
presto si rivelarono come delle vere e proprie spine
nel fianco per gli italiani, in particolare il Col di
Lana, il Lagazuoi ed il Castelletto, in quanto
impedivano il rifornimento degli avamposti
durante il giorno. Solo di notte, senza luna e nel
massimo silenzio, era possibile procedere per quelle
strade vitali alla salvaguardia delle prime linee. In
particolare il Castelletto, ultimo bastione roccioso
della Tofana di Rozes verso Ovest dominante su
Col di Bos e sulla statale per Falzarego da un lato e
sulla Val Travenanzes dall’altro, saldamente in
mano Austriaca, è stato teatro di furiosi ed eroici
attacchi, sempre respinti, provocando ingenti
perdite. Gli austriaci stessi avevano
soprannominato la cima “Schreckenstein” cioè
Rocca degli Orrori. Per conquistarlo, lo Stato
Maggiore Italiano decise di costruire una galleria
nella montagna, che partisse dalla Tofane di Rozes
e proseguisse nelle viscere del Castelletto, per oltre
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500 metri e quindi di farne saltare la sommità.
Dopo sei mesi di lavoro, piazzando ben 350 quintali
di gelatina (oltre un quinto di tutta la produzione
italiana annuale di esplosivo), l’11 luglio 1916 alle
ore 3.40 avvenne l’esplosione alla presenza del Re:
si udì un “suono metallico, incredibilmente
violento e, passati alcuni istanti silenziosi, l’intera
conca tuonò e ruggì con tale veemenza da spiazzare
gli stessi soldati italiani pronti all’assalto delle
postazioni nemiche.
La montagna scaricò sassi di tutte le dimensioni,
anche di centinaia di chili, per un giorno intero e la
galleria fu impercorribile a causa dei gas tossici
dell’esplosione che rendevano l’aria al suo interno
irrespirabile.
In breve tempo gli austriaci riuscirono a
riorganizzarsi e mantenere le postazioni della Val
Travenanzes, che mai furono conquistate dagli
italiani. L’unico beneficio fu la conquista del
Castelletto che permise il transito dei rifornimenti
sulla strada per Falzarego anche durante il giorno.
Per il periodo di preparazione allo scoppio, i
soldati austriaci in vetta sentirono le trivelle e le
piccole esplosioni di preparazione al botto finale
senza poter far nulla per difendersi giorno dopo
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giorno, notte dopo notte, con gli italiani sempre più
vicini ma comunque irraggiungibili.
Immagino quei ragazzi con il loro sgomento,
rassegnazione e terrore quando calò un silenzio
irreale, al termine delle perforazioni, in attesa dello
scoppio e della morte certa. Anche in quelle
condizioni di attesa terribile, l’ordine fu di
mantenere comunque le posizioni, pena la
condanna a morte per diserzione.
Ma tutte le Tofane sono legate a violente vicende
di guerra, con la conquista delle tre cime principali
da parte italiana, sanguinosi combattimenti alla
Forcella Fontananegra, Masarè, Tre Dita, Nemesis,
Punta Giovannina e Punta Marietta. Sono solo
alcuni riferimenti a fatti avvenuti in quel periodo.
Anche in questi luoghi per la prima volta nella
storia umana si fece ricorso ai gas velenosi da parte
di entrambi gli eserciti.
Furono costruite teleferiche per i rifornimenti in
quota, mulattiere, sentieri, cenge ardite, scale in
legno o ferro per decine e decine di metri, passaggi
aerei con uso di travi in acciaio conficcate nella
roccia viva con pavimentazione in legno, sentieri
ferrati, gallerie, ponti sospesi, baraccamenti,
ricoveri aerei o scavati nella roccia, linee telefoniche
e telegrafiche, segherie, forni, luoghi di cottura per
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la calce, serbatoi d’acqua, ricoveri per gli animali e
relativi fienili, magazzini per viveri ed armi. Ora
conquistate da un esercito ora da un altro,
trovarono la morte migliaia di soldati poco più che
ventenni, sia essi contadini, irredentisti, laureati,
impiegati o volontari. La morte non fece distinzione
neanche nelle gerarchie militari uccidendo soldati
semplici, caporali, tenenti, capitani, maggiori e
generali, tra cui il Generale Cantore a
Fontananegra. Una strage insensata che trovò gli
eserciti alla fine della guerra praticamente nelle
stesse posizioni iniziali.
Dal male estremo può nascere qualcosa di bello e
positivo, così come la fenice risorge dalle sue ceneri.
Se nel 1915 i soldati descrivevano la zona come
“un deserto di pietra” e “ un paesaggio
stramaledetto”, oggi queste montagne sono ricche
di itinerari turistici e ciò lo si deve in gran parte al
fatto che furono costruite, in condizioni proibitive,
delle opere che anche dopo 90 anni sono ancora ben
visibili ed utilizzabili. Certamente molto è stato
risistemato negli ultimi decenni, ma i sentieri, le
ferrate e anche alcune ascensioni riprendono i
tracciati così valorosamente costruiti e difesi da
entrambi gli eserciti. In nessun’ altra parte del
mondo è possibile trovare così tante escursioni
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come sulle Dolomiti, lì dove si sono intrecciati i
fronti dei belligeranti.
Le Tofane oggi sono il cuore del Parco Naturale
delle Dolomiti d’Ampezzo, insieme al Cristallo e
alla Croda Rossa e costituiscono un oasi eccezionale
per la flora e la fauna.
Per chi non è mai stato al Castelletto, poiché
parte della galleria (circa 300 metri) è ancora
percorribile con grande soddisfazione perché
presenta alcune finestre che si affacciano a
strapiombo sulla valle sottostante, consiglio due
itinerari per arrivare all’imboccatura della galleria
ed eventualmente percorrerla, con una attrezzatura
da ferrata e soprattutto con una buona luce sul
casco o torcia a mano.
Il primo percorso molto facile è quello di seguire
la strada costruita dagli Alpini e che porta a
Forcella Bois partendo dal Magistrato delle Acque o
dal Cason de Rozes. Da qui, un sentiero poco più
impegnativo risale verso l’imboccatura della
galleria, che si raggiunge in poco meno di due ore.
Il secondo percorso, più impegnativo ma
decisamente più spettacolare, in verità un po’
esposto in alcuni punti, parte dal Rifugio Dibona e
seguendo l’alta via sotto la Tofana di Rozes, in
circa 2 ore, porta all’imboccatura della galleria. Il
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panorama che si gode è indimenticabile e rimarrà
sempre nel mio cuore.
Questo percorso, fatto nei mesi autunnali,
quando ancora non è presente la neve, permette di
effettuare una passeggiata in solitaria tra camosci e
caprioli per nulla intimoriti dalla presenza umana.
Spesso, nei momenti difficili della mia vita, mi
piace fuggire dal presente e tuffarmi in questi
ricordi fantastici.
Per finire riporto la canzone degli alpini
“Bombardano Cortina”, non a tutti nota, che se
letta con un po’ di attenzione, richiama la maggior
parte dei luoghi di combattimento nelle vicinanze
di Cortina e che spesso mi capita di cantare assieme
agli amici della montagna nelle serate trascorse
nelle belle baite ampezzane.
1. Bombardano Cortina! - oilà
Dicon che gettan fiori! - oilà
Nemici traditori
è giunta l'ora, subito fora,
subito fora dovete andar.
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2. E proseguendo poi! - oilà
Per Valle Costeana! - oilà
Giunti sulla Tofana
su quella vetta, la baionetta,
la baionetta, scintillerà.
3. Non mancherà poi tanto! - oilà
Che anche il Lagazuoi! - oilà
Conquisteremo noi
quando l'artiglieria, Sasso di Stria,
Sasso di Strià, battuto avrà.
4. Son prese le Tre Dita! - oilà
Il Masarè è già nostro! - oilà
L'aquila ha perso il rostro
è già s'invola spennata e sola,
spennata e sola là sul Caval.
5. Fatta è la galleria! - oilà
È pronta la gran mina! - oilà
E una bella mattina
anche Gigetto col Castelletto,
col Castelletto per aria andò.
6. Giunti sul Canalone! - oilà
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Schierati i suoi soldati! - oilà
Tiri ben aggiustati,
la pasta asciutta vi fece tutta,
vi fece tutta lasciare lì.
7. Per Valle Travenanzes! - oilà
E Strada Dolomiti! - oilà
V'inseguiremo arditi:
e voi scappate finché arrivate,
finché arrivate dal vostro Re.
8. Giunti da Cecco Peppo – Hoilà!
Stringetegli le mani – Hoilà!
Ditegli che gli alpini
Vi fan la guerra su questa terra
su questa terra vi voglion più!
…………………”
Alla fine rilassato e sereno mi addormentai,
pensando a quanto mi aspettava il giorno
dopo e alle fatiche delle giornate successive.
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L’idea stravagante
All’età di cinquanta anni decisi di prendere
parte ad una maratona sulle Dolomiti, non
tanto per vincere, cosa che mi sarebbe risultata
fisicamente impossibile, quanto più per un
desiderio interiore, per provare ancora una
volta quelle sensazioni meravigliose, comuni
solo a chi ama davvero la montagna,
soprattutto nei suoi aspetti più puri e selvaggi.
Venendo in questi luoghi dall’età di cinque
anni sia d’estate che d’inverno, mi sentivo a
tutti gli effetti un montanaro, un alpinista
amante delle bellezze naturali, che godeva
guardando i panorami maestosi delle valli
silenziose e delle vette incontaminate, che non
amava le compagnie chiassose e il caos
metropolitano.
Ormai da tre mesi ogni mattina avevo preso
l’abitudine di alzarmi molto presto, andare a
correre quotidianamente all’ombra dei platani
del parco vicino casa per svolgere un
allenamento impegnativo in vista della prima
maratona che si sarebbe svolta lungo un
percorso, a me ben noto, il giro della Tofana di
Rozes, nelle vicinanze di Cortina, meta
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turistica assai suggestiva, nel cuore delle
Dolomiti.
Mia moglie Lucilla si lamentava per il
disturbo che le provocava il rumore inevitabile
che facevo per alzarmi e vestirmi. Dopo oltre
venti anni di matrimonio il nostro rapporto si
era decisamente rovinato, ci sopportavamo ma
certo non ci amavamo più come una volta.
Solo la presenza di nostro figlio aveva evitato
una separazione altrimenti inevitabile. Lei
amante del mare, mai stata in montagna fino a
venti anni, ora vi era costretta a passare estati
e inverni.
Certo all’inizio mi seguiva in tutte le
passeggiate, anche le più spericolate, mentre
ora rimaneva tranquilla a casa nell’attesa del
mio ritorno.
Ricordo la prima volta che venne a trovarmi
in una splendida giornata di inizio agosto.
Arrivata con il treno alle 9 di mattina subito la
portai a comprarsi un buon paio di pedule e
dopo neanche un ora era già appesa su un
impegnativo costone roccioso sul
Pomagagnon. Arrivò in vetta un po’ affaticata
ma per niente impaurita dalla gita che le
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avevo fatto fare, anzi trovò più difficile la
discesa sul ghiaione che ci riportò alla base
della montagna. Effettivamente scendere per
un ghiaione è un po’ come sciare e lei, che non
aveva mai messo gli sci in vita sua, si trovò in
non poca difficoltà, ma con grande ilarità da
parte di entrambi trascorremmo una giornata
indimenticabile che spesso ricordiamo e
raccontiamo agli amici.
Spesso, quando ancora non eravamo
sposati, passavamo per un piccolo borgo, poco
distante dal centro rumoroso e caotico, dove
poi avremmo comprato un piccolo
appartamento, e restavamo incantati per la
bellezza e tranquillità del luogo.
Ci eravamo ripromessi che se mai avessimo
potuto acquistarne uno, senz’altro avremmo
scelto quel luogo.
Il caso volle che quando un giorno
chiedemmo ad una agenzia di mostrarci
qualche occasione, il primo appartamento che
andammo a vedere fosse proprio quello che
avevamo sognato per tanti anni. Destino,
fatalità, casualità, forse solo un colpo di
sfacciata fortuna.
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Finalmente anche Lucilla iniziò ad amare la
montagna, a venire volentieri in quella casa
dove trovava giovamento nella tranquillità e
nella pace del luogo.
Quando le parlai del mio progetto all’inizio
non fu d’accordo, ma poi quando vide che mi
allenavo con assiduità mi assecondò sia pure
tra dubbi e preoccupazioni, ed anzi mi aiutò
ad organizzare al meglio gli allenamenti
facendomi seguire una dieta adeguata che mi
diede forza e resistenza fisica.
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Il viaggio
La mia destinazione era Cortina, la Perla
delle Dolomiti, nota località turistica famosa
anche per i giochi Olimpici del 1956.
Cortina è un grosso paese costituito da
qualche migliaio di case divise in Sestieri, cioè
l’equivalente dei nostri quartieri, solo che
alcuni di essi sono un gruppo di poche case
abitate da contadini, altri invece gruppi di
decine e decine di ville. Il paese è distribuito
per tutta la valle, per cui questi agglomerati
possono distare dal centro poche centinaia di
metri ma anche qualche chilometro. Alcuni di
questi Sestieri sono più belli di altri, Cadin,
Chiave, Cianderies, Pecol solo per citarne
alcuni perchè isolati e lontani dai clamori del
centro, ma comunque molti preferiscono stare
lì dove, nei periodi festivi, vip, star e pseudo
star, politici e politicanti fanno a gara nel farsi
notare per la via pedonale che attraversa il
centro secondo il ben noto rito dello
“struscio”.
Partii pochi giorni prima della
competizione, per concedermi la possibilità di
trovare la giusta concentrazione e serenità, in
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vista del notevole sforzo fisico che avrei
dovuto affrontare di lì a poco.
La casa dove risiedevo si trovava isolata,
lontana dal centro mondano del paese, e
insieme ad altre quattro case di contadini
formava un piccolissimo villaggio immerso
nel verde con grandi prati e una imponente
vista sulle Tofane. Quando arrivavo a
destinazione, dopo diverse ore di macchina, la
prima sensazione che percepivo, era quel
familiare aroma di legna bruciata che usciva
dai camini, a me tanto caro sin da bambino
quando mi recavo d’estate con i miei genitori a
casa dei nonni che abitavano in una graziosa
casetta al centro del Sestiere di Cadin.
Purtroppo non avevamo più quel bellissimo
appartamento con vista sul campanile della
chiesa dominante la valle e, tutte le volte che
passavo davanti a quella casa, una grande
nostalgia mi prendeva nel ricordo di quanta
infanzia felice avessi trascorso nell’affetto e
calore della mia famiglia.
Non potevo fare a meno di respirare
quest’aria profumata e fresca quasi fino a
farmi scoppiare i polmoni. Poi quando entravo
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in casa con Lucilla assaporavamo l’aria
presente della piccola abitazione che era calda
e profumata grazie al cirmolo che ricopriva le
pareti, legno simile all’abete ma con un suo
profumo caratteristico che si esaltava nei
periodi in cui la casa rimaneva chiusa. La
delicatezza di quell’aroma era in forte
contrasto con il profumo di resina bruciata che
si respirava all’esterno.
Il silenzio, anzi il rumore del silenzio, era
un’altra di quelle sensazioni gradevoli che
colpiva i nostri sensi. Svegliarsi di notte in una
quiete assoluta, ascoltare ed assaporare il
silenzio che ben presto riportava ad un sonno
disteso, profondo, tranquillo. Al mattino
alzarsi ben riposati con giornate spesso
radiose e con il sole che illuminava la boiserie
della piccola stanza, esaltandone le colorazioni
dal crema chiaro al marrone intenso.
Il tempo sembrava buono, anche se per la
settimana successiva, quella della gara, le
previsioni sarebbero state tutt’altro che
clementi. Avanzava da qualche giorno infatti
una grossa perturbazione proveniente dal
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nord della Francia, che avrebbe investito tutta
la zona dolomitica.
I giorni scorrevano rapidamente e al loro
susseguirsi tutto il mio essere stava ritrovando
la forma e le energie necessarie per affrontare
il percorso.
Decisi di effettuare alcune passeggiate per
verificare e migliorare la mia forma fisica. Una
di queste fu la salita al Taè, percorso poco noto
alla maggioranza degli escursionisti, una delle
vette che accompagna sul lato nord-est la Val
di Fanes. È una montagna che presentava due
facce: la prima, una salita verticale che partiva
dalla valle ed era caratterizzata da passaggi
vertiginosi; l’altra, più facile ma faticosa
perchè anch’essa risaliva per oltre mille metri.
Inizialmente il sentiero era lo stesso che
portava a Col Becchei, ma arrivati al primo
anfiteatro sassoso, anziché proseguire sulla
destra verso il secondo anfiteatro si piegava
dalla parte opposta per una traccia al limite
superiore del ghiaione, sotto le rocce, fino ad
arrivare a una piccola forcella erbosa che
dominava la Val di Fanes.
36

Da qui impiegai qualche decina di minuti ad
arrivare in vetta per rocce, ciuffi d’erba e
bellissime stelle alpine, complessivamente
oltre due ore dalla partenza.
In vetta, facevano da cornice a questo
paesaggio incontaminato i ruderi di una
baracca di vedetta austriaca risalente alla
Prima Guerra Mondiale, una croce in legno
sconnessa e il libro delle firme.
Pensai alla posizione strategica e
all’importanza che doveva avere questo
avamposto in quanto consentiva agli Austriaci
di avere una visione completa su Cortina e
quindi di poter registrare ogni più piccolo
movimento dell’esercito italiano.
Anche il panorama era incredibilmente bello
con una vista a 360 gradi che andava dalle
Conturines al Vallon Bianco, alle Tofane viste
da una prospettiva insolita, dall’Antelao al
Sorapis, alle 3 Cime di Lavaredo che da questa
distanza sembravano piccoli sassi, a Forcella
Lerosa, alla Croda Rossa e tutto l’arco alpino
delle montagne Austriache sin oltre il
Grossglockner e i monti Tauri.
37

In apparenza poteva sembrare una
montagna uguale a tante altre al di fuori dei
grandi circuiti turistici senza rifugi né
segnalazioni lungo il sentiero, se non per
qualche “ometto” in pietra, ma la
soddisfazione dell’escursione era decisamente
superiore alle fatiche incontrate.
Ah! gli “ometti”, così rassicuranti per gli
escursionisti, si presentavano come un cumulo
di sassi sovrapposti a forma di piccolo cono,
generosamente collocati dagli stessi alpinisti e
indispensabili per indicare la via più sicura da
percorrere, lì dove ogni piccola deviazione
avrebbe potuto portare a strapiombi
insuperabili, spesso mortali, indispensabili
anche nelle giornate nebbiose dove la visibilità
si riduceva a pochi metri.
Ricordai come un ometto mi salvò da una
brutta avventura: scendendo da Forcella
Verde per un bellissimo ghiaione verso
Ospitale improvvisamente sulla mia destra
circa a metà discesa, vidi con la coda
dell’occhio un ometto al limite delle rocce.
Nulla faceva presagire che si dovesse andare
da quella parte. Davanti a me il ghiaione
38

proseguiva bellissimo e in apparenza senza
troppe difficoltà, ma memore dell’importanza
dei segnali, e comunque avendo consultato
una guida che segnalava il pericolo, mi diressi
verso l’ometto e lì potei notare la presenza di
un sentiero che scendeva al limite tra il
ghiaione e le rocce. Prosegui per quella strada
e fu la mia salvezza. Arrivato al Rifugio
Ospitale incontrai un anziano signore che con
il binocolo guardava verso il ghiaione da cui in
precedenza ero sceso. Incuriosito gli chiesi
cosa stesse facendo e lui mi rispose che stava
guardando se qualche incauto escursionista
stesse scendendo per il ghiaione fino in fondo
o avesse preso la deviazione a metà dello
stesso. Mi disse infatti
Lo salutai felice per lo scampato pericolo
pensando che tanti anni di montagna mi
avevano insegnato a non trascurare mai le
39

indicazioni, anche le più insignificanti, e
comunque a consultare sempre una guida
prima di avventurarmi in una nuova
passeggiata.
La discesa dal Taè fu tranquilla e solitaria
infatti l’unico incontro della giornata fu quello
con un alpinista che con grande baldanza,
dopo avermi raggiunto in cima alla forcella
che domina l’anfiteatro, dove stavo facendo un
breve spuntino, mi chiese quanto mancava per
Col Becchei. Alla mia risposta, che aveva
sbagliato strada e che sarebbe dovuto
ridiscendere per un lungo tratto fin quasi alla
base dell’anfiteatro, lo vidi sbiancare e
mestamente incamminarsi per il sentiero in
discesa. Io, malignamente, sogghignai delle
sue disavventure.
I giorni scorrevano in fretta e così giunse il
giorno della presentazione della gara e la
consegna dei numeri di gara.
Si prevedeva la partecipazione di numerosi
atleti, ma soprattutto di molti appassionati
provenienti dall’Italia e dalle zone più
disparate dell’Europa, in particolare dall’
Austria, data la caratteristica dell’evento, cioè
40

la commemorazione dei 90 anni dello scoppio
della mina del Castelletto. Tutti comunque
eravamo accomunati da un unico interesse, la
passione per la montagna!
41

I preparativi
Arrivai puntuale e, nell’attesa che venissero
illustrati tutti i particolari dell’evento, iniziai a
parlare con altri concorrenti scambiandoci
opinioni sulle diverse strategie di gara. Alcuni
erano decisi a partire senza zaino per essere
più leggeri con solo una leggera giacca a vento
legata alla vita, altri intendevano considerare
l’avvenimento come una vera e propria
scampagnata portandosi grappa, vino e cibi
vari, altri più realisticamente propendevano
per uno zaino leggero con un minimo di
ricambi, tavolette energetiche e qualcosa di
pesante in caso di freddo intenso. Sentii anche
un gruppetto di atleti discutere sul tempo
complessivo di gara convinti che si potesse
arrivare al traguardo in meno di 4 ore.
Purtroppo, essendo quasi in duemila,
l’incontro avvenne all’aperto anziché nel
salone conferenze dove avremmo potuto
usufruire delle comode poltrone imbottite.
Il direttore, fatta una breve presentazione,
iniziò a descrivere i particolari dell’itinerario
che noi tutti avremmo seguito.
43

La gara parte dal parcheggio che si trova
appena sotto il Cason de Rozes, risale per la
strada militare che porta a Forcella Bois con
circa 400 metri di dislivello quindi scende per
la Val Travenanzes fino al Cason de
Travenanzes e da qui obbligatoriamente per la
via normale, è vietato fare la scala del
Menighel causa pericolo di intasamento tra i
concorrenti che comunque sarebbero costretti
a salire uno alla volta, passando per il Masarè
si arriva alla Forcella Fontananegra dove è
situato il rifugio Giussani a quota 2561. Da qui,
sfiorando le Tre Dita, si sale in vetta alla
Tofana di Rozes a quota 3225 per la via
normale con una salita di altri 650 metri. La
discesa si effettua sempre per la via normale,
ma seguendo un percorso parallelo alla salita
fino al Giussani per evitare il traffico tra chi
sale e chi scende, quindi al Rifugio Dibona e
da qui all’arrivo. In totale il dislivello è di oltre
1600 metri e il percorso di circa 15 chilometri.
La partenza è prevista alle 8 per gli atleti e le
8.30 per il resto dei partecipanti. La gara
prevede un percorso abbreviato per chi non si
sente di arrivare in vetta e quindi arrivati al
45

Giussani è possibile procedere direttamente
all’arrivo, comunque per chi arriva al Giussani
dopo le 15.00 è impedito di proseguire per la
vetta. Ogni concorrente dovrà essere
autonomo per quanto riguarda vestiario cibo e
bevande. Si ricorda che lungo il percorso sono
presenti alcune sorgenti come indicato sulla
piantina del tracciato e che comunque nei
rifugi è possibile mangiare e bere a proprie
spese.
Ogni concorrente ha una serie di tagliandi
che deve consegnare ai vari punti di controllo
che sono al Cason de Travenanzes, al
Giussani, in vetta alla Tofana, al Dibona,
all’arrivo e un segnalatore ottico ed acustico
da utilizzare in caso di pericolo. Questo
strumento è indispensabile in quanto lungo
gran parte del percorso non sono utilizzabili i
cellulari per mancanza di segnale. Purtroppo
le condizioni meteo non sono favorevoli per il
giorno della gara e danno 80% di possibilità di
pioggia e neve sopra i 2800 metri già dalle
prime ore del pomeriggio. Si raccomanda a
tutti di portare un abbigliamento pesante con
46

guanti, passamontagna, giacche a vento e un
adeguato numero di ricambi.>>
In montagna, anziché calcolare quanti
chilometri si fanno in un ora, si calcola quanti
metri di dislivello si compiono. Io avevo
calcolato di percorre in media 350 metri l’ora
le prime due - tre ore per diminuire poi a 250-
300 nel tratto finale considerando anche che in
prossimità dei 3000 metri era più difficile
camminare per la carenza di ossigeno; in
discesa valutai di percorrere circa 500-600
metri l’ora. Conti alla mano speravo di
arrivare al Rifugio Giussani per le 12.00-12.30,
considerando qualche sosta necessaria lungo il
tragitto, di arrivare in vetta per le 15.00-15.30 e
all’arrivo per le 17,30-18.00. Una passeggiatina
di circa 10 ore contro le 3.00-4.00 ore degli
atleti più forti.
Al termine della presentazione ci fu
consegnato tutto il necessario per la gara e a
me toccò il numero 1375. Mentre il personale
addetto alla gara ed i concorrenti erano intenti
alla consegna e verifica dei materiali,
iniziarono le celebrazioni affidate alle bande di
Cortina e di Lienz che, alternandosi, ci
47

deliziarono con musiche tipiche delle loro
tradizioni. Ben presto nell’aria si iniziò a
sentire un piacevole profumo di salsiccia,
pollo, carne alla brace e patate fritte, infatti il
comitato organizzatore aveva preparato un
pranzo all’aperto dedicato ai partecipanti e
agli ospiti che numerosi erano accorsi per
l’occasione.
Le cucine da campo furono prese d’assalto
da quella moltitudine di persone e i poveri
addetti dovettero faticare non poco per
soddisfare oltre 3000 persone. Tra musiche e
balli, la birra, il vino e la grappa scorrevano a
fiumi, io volutamente mi accontentai di una
braciola di maiale con polenta pensando a ciò
che mi avrebbe atteso il giorno dopo.
Non avrei potuto assolutamente
immaginare cosa il tempo malignamente mi
stava preparando: un’accoglienza che non
avrei più dimenticato.
48

La corsa
Il mattino successivo il tempo si presentò
anche peggio delle previsioni annunciate.
L’idea di partire sotto un cielo plumbeo carico
di pioggia mi fece presagire una gara tutt’altro
che facile.
La partenza era stabilita comunque per le
8.00 del mattino per il gruppo di atleti e
camminatori più allenati, mentre la restante
compagnia, di cui anche io facevo parte, era
pronta per le 8.30. In tutto circa 300
partecipanti si schierarono nel primo gruppo,
l’aria era carica di tensione e ognuno cercava
di trovare la giusta concentrazione ripassando
mentalmente il percorso da compiere e le
difficoltà da affrontare. Nonostante la
presenza di così tante persone un silenzio
surreale scese sul campo di gara nell’attesa
della partenza. Solo nel momento del via un
urlo di incitamento risuonò per il bosco e noi
della retrovia, con un po’ di invidia, vedemmo
i primi concorrenti partire velocemente.
Sembrava che volassero, che non si
accorgessero di correre in salita e subito un
primo gruppetto di 30 concorrenti si staccò dal
49

esto del gruppo. Ben preso il plotone
scomparve alla nostra vista, ma il tempo volò
ed ecco che arrivò il segnale che ci consentì di
partire. Nuove urla di incitamento
riecheggiarono per la valle mentre cercavo di
trovare uno spazio per procedere, spintonato
ora a destra ora a sinistra dalla moltitudine dei
partecipanti.
Il percorso si dimostrò difficile già dai
primissimi minuti di competizione e già dopo
una mezz’ora di salita si era creata una dura
selezione tra i vari concorrenti, causata
principalmente dalle condizioni atmosferiche
rigide, per cui il freddo e la pioggia pungente
si dimostrarono i principali antagonisti.
Il terreno si era fatto assai scivoloso, mentre
con molta cautela ci si inerpicava
faticosamente, cercando di mantenere
l’equilibrio e la calma.
Insieme a un gruppetto, costituito da altri
cinque partecipanti, procedevo con
entusiasmo, conscio delle fatiche che ancora
mi attendevano.
Finalmente, dopo un’ora e un quarto arrivai
abbastanza affaticato a Forcella Bois, un passo
50

erboso con vista imponente sulla Val
Travenanzes e il Castelletto. Da qui, dopo una
breve sosta per bere un sorso d’acqua e un
doveroso ricordo ai caduti, di slancio iniziai la
discesa giù per la valle fino al Cason de
Travenanzes in poco più di mezz’ora; la
baracca in legno ormai semi-abbandonata era
immersa in un prato verde con erba e fiori alti
più di un metro e un piccolo torrente che
scorreva nelle vicinanze. Qui dopo una
seconda breve sosta, bagnato dalla pioggia e
dal sudore, feci un rapido cambio di maglia,
mi concessi un frutto e un buon sorso d’acqua
e quindi ripresi il cammino verso il Giussani.
Questo era un tratto molto faticoso che
iniziava con un sentiero ripido prima a zig zag
in uno stretto canalino con presenza di travi in
legno per preservare il percorso, poi attaccato
alle rocce con un discreto strapiombo sulla
destra sino ad arrivare ad un primo anfiteatro
poco erboso dove una ricca sorgente dissetava
molti concorrenti. In questo punto vi sono
ancora numerose tracce di baraccamenti
austriaci che dominano verso l’alto il Masarè e
le Tofane e verso il basso la Val Travenanzes.
51

Un panorama bellissimo reso tenebroso
dalle nuvole, dal vento e dalla pioggia
battente.
Purtroppo a questo punto eravamo a meno
della metà della salita che portava al rifugio e
procedendo tra i grossi sassi del Masarè, che
spesso nascondevano la visuale verso l’alto,
speravo sempre che dietro la curva si vedesse
il rifugio che infine apparve dopo oltre due ore
di salita.
Ero veramente stanco e mi riposai quasi
mezz’ora all’asciutto bevendo due the caldi e
mangiando avidamente una Sacher con panna
che mi avrebbe dato quel tanto di energia da
farmi desiderare di proseguire per la vetta,
nonostante il tempo continuasse a peggiorare,
con forti raffiche di vento e la neve ben visibile
avviluppare le cime delle montagne
circostanti.
Rimasi affascinato dal discorso di un
concorrente che vicino a me discuteva con
alcuni compagni se proseguire verso la vetta
oppure scendere a valle.

iempirà di torrenti verticali che scaricheranno
tonnellate e tonnellate d’ acqua ad una
velocità incredibile. Questi canali verticali che
solcano tutte le pareti della Tofana, sono
cascate normalmente in secca, ma in pochi
minuti diventeranno dei veri e propri killer.
Alla base della parete poi queste cascate si
trasformeranno in torrenti impetuosi che,
scendendo lungo i ghiaioni, attraverseranno il
sentiero che dobbiamo percorrere e ci
impediranno di proseguire>>.
risposi io interrompendo il
racconto .
I presenti furono d’accordo con me che
almeno quel pericolo non sussisteva e
continuai la discussione con loro per diversi
minuti.
Nel gruppetto ben preso si formarono due
schieramenti; chi desiderava proseguire, tra
cui io, e chi più prudentemente fermarsi.
La salita, dopo un primo lungo tratto in
diagonale ed in leggera pendenza, era ancora
53

più dura, impegnativa ma non pericolosa per
ripidi ghiaioni verticali lungo gradoni di
roccia friabile tipici della dolomite, fino alla
cresta nord-ovest da cui si raggiungeva
l’anticima e quindi, con un ultimo sforzo di
oltre mezz’ora, la cima stessa.
Avendo già fatto quella salita, sapevo che
l’ultimo tratto era un susseguirsi di piccoli
passi con brevi soste, la bocca aperta alla
ricerca di ossigeno, la vista un po’ annebbiata
per lo sforzo, il passo incerto sull’ultimo
pendio ghiaioso e franoso allo stesso tempo.
Testardo e contro ogni logica partii dal
Giussani verso le Tre Dita accompagnato da
due violenti tuoni ma, pensai, sono già
fradicio di sudore e d’acqua e se inizia a
nevicare forse mi asciugherò anche un po’.
Il vento mi sferzava la faccia con raffiche di
inaudita violenza, considerando la fine di
giugno, e comunque con un gran fiatone
proseguii a testa bassa in compagnia di
un’altra decina di partecipanti che si
trovavano nella mia stessa condizione.
In prossimità delle Tre Dita piegammo a
sinistra per un ghiaioncino non
54

particolarmente ripido, ma fastidioso perché
in leggera frana, e ciò ci costrinse a camminare
facendo un passo avanti e mezzo indietro per
un bel tratto.
Proseguii con il tempo sempre più
inclemente, oramai ero solo, pioveva molto
forte e grandinava anzi oramai era un
nevischio misto ad acqua, poi salendo ancora
qualche decina di metri una nevicata
decisamente forte, quasi una tormenta con il
vento che spazzava via ogni cosa e la nebbia
che salendo dal basso nascondeva tutto il
paesaggio circostante.
Ero in un mondo tutto bianco, non esisteva
più cielo e terra, facevo fatica a trovare gli
ometti in pietra che indicavano il percorso,
andavo avanti qualche metro, ma poi tornavo
indietro trovandomi in difficoltà.
Continuai così alla cieca per una buona
mezz’ora alla ricerca di un ometto che non
trovavo, mi ero perso nonostante conoscessi a
memoria la montagna, provavo a chiamare,
ma la voce si perdeva in un sussurro attutita
dalla neve e dal vento, iniziavo ad aver paura
e questo era quanto di peggio potesse capitare
55

ad un alpinista. Ero intirizzito, nonostante la
giacca a vento il cappello e guanti, il mio
abbigliamento era pur sempre estivo e oramai
la temperatura percepita, anche a causa del
vento, era di diversi gradi sottozero.
Decisi di scendere, pur non riconoscendo il
luogo in cui mi trovo. Sapevo che la
montagna, lasciata la via normale, era piena di
strapiombi ma speravo che il canalino nel
quale mi trovavo comunque mi riportasse
verso il rifugio.
Improvvisamente mi bloccai, restai
immobile ben incollato agli spuntoni di un
grosso masso.
Avevo le orecchie tese, cercavo di captare il
rumore sordo che sembrava avvicinarsi
sempre di più al punto in cui mi trovavo.
Rimasi paralizzato nell’istante in cui capii
cosa stava succedendo sopra la mia testa: una
frana!
Cercai di ripararmi, per quanto possibile,
sotto quel grosso masso a cui ero attaccato con
tutte le mie forze, quand’ecco piovere come
tanti rasoi, a poca distanza da me, prima una,
poi due tre e ancora tante altre rocce
56

frantumate alcune delle quali, inevitabilmente,
mi colpirono. Svenni.
Quando mi risvegliai mi ritrovai, privo di
forze e intontito, su un cumulo di sassi, alla
base della ripida scarpata da cui
probabilmente ero scivolato.
Con gran fatica riuscii a prendere il
segnalatore acustico e lanciare l’allarme, poi
provai ad alzarmi ma un rivolo di sangue mi
annebbiò la vista e un dolore lancinante mi
fece ricadere pesantemente.
Ero stato colpito alla fronte e in altre parti
del corpo da quei sassi che mi erano piovuti
addosso poco prima.
Stanco, infreddolito e impaurito, con un
dolore sordo che aumentava sempre più,
inutilmente tentai di resistere, di rialzarmi,
alla fine svenni per la seconda volta.
57

Il sogno
Non so’ esattamente da quanto tempo mi
trovassi lì svenuto, ma quando mi guardai
attorno stranito e intontito, circondato da una
fitta nebbia che emanava un acre odore di
polvere da sparo, sobbalzai al rumore di un
boato cupo, violento e sordo, ripetuto più e
più volte che fece tremare il terreno sotto di
me, non mi rendevo conto di ritrovarmi nella
terra di nessuno che separava le trincee
italiane da quelle austriache.
Di fianco a me vidi una sagoma e udii una
voce concitata che mi diceva: mi diceva un
ragazzone grosso e robusto vestito con una
divisa verdastra lacera e sporca.
Con un dolore lancinante alla testa cercai di
reagire, e quando tentai di articolare le prime
parole mi salì in gola il sapore di sangue
rappreso. Dopo aver tossito violentemente,
cercai di tirarmi su a sedere, ma una fitta alla
spalla mi bloccò ancora una volta
inchiodandomi a terra.
59

Non riuscendo a muovere nemmeno un
muscolo mi sentii sollevare di peso.
Il ragazzo continuava a parlare, ma
non riuscivo a capire nulla di quanto stesse
dicendo.
Sentii non lontano da noi, oltre un’altura, un
fragore spaventoso provocato da una violenta
deflagrazione, vidi il divampare delle fiamme
al seguito e una gragnola di schegge e sassi
sfiorarci e colpirci senza procurarci ulteriori
danni.
Riuscimmo a spostarci lentamente fino alla
nostra trincea cercando un varco tra il filo
spinato, in parte aiutato dal mio salvatore a
cui mi ero aggrappato con il braccio meno
dolorante, in parte trascinandomi facendo leva
60

sulla gamba sinistra che fortunatamente non
era stata lesionata dalle schegge.
Lì per lì non capii dove mi trovavo, chi fosse
il mio soccorritore, né tantomeno chi fosse
questo Tenente Pauletti che andava
nominando, ma tanto era il dolore e lo
stordimento che ben presto tutti i miei sensi
vennero meno e svenni nuovamente.
Probabilmente dopo pochi minuti ripresi
conoscenza anche se non riuscii subito a
riaprire gli occhi che sentivo in fiamme.
Quello che percepivo confusamente erano
strazianti lamenti di dolore, boati assordanti e
il cigolio delle ruote di un carro, che
sobbalzavano pesantemente sul fondo bagnato
dell’acciottolato, ci portava lontano dal fronte.
Poi di nuovo il buio.
Quando riaprii gli occhi mi ritrovai sdraiato
all’asciutto su una branda da ospedale, con la
testa, la caviglia destra e la spalla sinistra
medicate e fasciate con cura.
Intorno a me la stanza si presentava buia e
tetra, con bassi soffitti scrostati e un pungente
odore di disinfettante.
61

Cercai di ricordare quel che mi era successo,
ripensando agli ultimi episodi avvenuti prima
che perdessi conoscenza.
Gli unici particolari nella mia mente confusa
erano il dolore, la pioggia mista a neve sul viso
sferzato dal vento, il filo spinato, la frana, la
nebbia, la trincea, i boati e nulla più. Tutto era
sfocato, inconsistente e labile come un sogno
nel quale più ricordi si sovrapponevano.
All’improvviso una mano si posò sulla mia
fronte, ma sembrava più una carezza che altro.
Mi svegliai dal torpore e vidi al mio
capezzale una giovane donna vestita con un
camice bianco sotto il quale si intravedeva un
bel vestito azzurro, un cappellino bianco da
infermiera.
mi disse con una voce dolce e
calma.

senza problemi. Ancora poche settimane e
sarà come nuovo>> mi rassicurò sorridendo.
Quella vista mi lasciò senza fiato. La
ragazza era veramente graziosa, pur avendo il
giovane viso segnato dalla stanchezza e dalla
fatica, i lineamenti erano minuti e due grandi
occhi azzurri espressivi e pieni di vitalità
risplendevano come un faro nella notte, i
capelli, nascosti dal cappellino, erano di un bel
colore rosso ramato, la carnagione, bianca
come la neve, era impreziosita da numerose
lentiggini che le riempivano mani e viso. La
sua voce era dolce e suadente.
le chiesi apprensivo.
, disse
preoccupata del fatto che non mi ricordassi del
perché mi trovassi lì.
Notando la mia crescente apprensione cercò
di minimizzare, per evitare che mi agitassi e
63

mi salisse di nuovo la febbre, e rispose:
Non ricordandomi di nulla gli domandai:
Con un velo di dispiacere mi rispose:
Quale disgrazia mi era capitata per
ritrovarmi indietro nel tempo di oltre 90 anni?
Ero sicuro di essere un tranquillo
escursionista, oppure, mentre ero svenuto,
avevo fatto un sogno che ora credevo essere la
mia realtà?
Come una esplosione la pressione
sanguigna mi salì alle stelle. Svenni e di nuovo
fu buio.
La febbre, tornata altissima per diversi
giorni a causa di un inizio di infezione alla
spalla, mi procurò orribili incubi nei quali
alternavo ricordi di guerra a piacevoli
escursioni, ma con il trascorrere del tempo e il
64

miglioramento delle mie condizioni generali
tutto fu dimenticato proprio come in un
sogno.
Pian piano iniziò a tornarmi la memoria,
ricordai l’ordine di appostarci in prima linea
nell’attesa dello scoppio della mina del
Castelletto per conquistare finalmente le
postazioni nemiche, ma lo scoppio, troppo
violento, scagliò in aria migliaia di tonnellate
di roccia, come l’esplosione di un vulcano, non
risparmiando neanche noi italiani che
l’avevamo costruita.
Decine e decine di morti e feriti assieme a
me colpiti non dal fuoco nemico ma dalle
micidiali schegge di roccia impazzite che
piovevano e piovevano senza sosta per ore e
ore.
Castillo, il giovane che mi aveva trovato in
fin di vita, ogni tanto veniva a trovarmi in
ospedale, per tenermi compagnia e farmi
ricordare gli ultimi episodi vissuti in trincea, e
pian piano ricominciai a ricordare sempre più
episodi come in un mosaico che si andava
ricomponendo.
65

Era poco più che un ragazzo, ma i suoi occhi
verde smeraldo, dello stesso colore dei laghi
alpini illuminati dal sole, già riflettevano le
sofferenze di più battaglie, di chi aveva visto
la morte in faccia e aveva perso amici e fratelli
sotto il fuoco delle armi.
Era sotto i miei comandi ormai da qualche
mese e, da come mi parlava, pareva anche che
si fosse affezionato a me, come se io fossi un
suo fratello maggiore. Poi le visite finirono del
tutto, seppi che era stato trasferito presso un
altro reggimento, ancora in prima linea e poi,
durante un ennesimo inutile assalto, disperso
nella terra di nessuno.
Con il passare del tempo e delle cure,
riacquistai l’uso parziale delle gambe, sebbene
con l’ausilio di un bastone, e rimasi sotto lo
sguardo vigile e premuroso di quella dolce
infermiera che sempre mi accompagnava con
pazienza.
Una mattina, quando mi alzai dal letto per
rimettere in moto le gambe, appoggiandomi al
bastone, accompagnato da Lucia,
passeggiammo lungo le corsie della clinica.
66

I corridoi erano pieni di feriti, e la loro vista
era straziante. Molti aveva perso braccia o
gambe, altri, forse i più fortunati erano
immobilizzati a letto in coma profondo, altri
ancora erano completamente ustionati e
bendati dalla testa ai piedi.
La vista più straziante era però per quei
poveri ragazzi che erano stati sfigurati in
modo orribile sul volto; senza naso, occhi,
denti, mento, mascelle fratturate e deformate,
volti distrutti dal fuoco e dalle schegge.
Riconobbi alcuni di loro perché
appartenevano al mio reggimento e
guardando quei volti esangui, praticamente
stroncati da un tragico destino, ricordando
come fossero prima della sciagura, ancora
indebolito dalle ferite mi sentii mancare le
forze e mi accasciai a terra, subito soccorso da
Lucia, che fino ad allora era rimasta in
disparte, abituata come era a vedere quelle
scene dolorose.
Mi guardò preoccupata e mi accompagnò
fino alla mia branda. Dopo avermi aiutato a
sdraiarmi a letto, con un velo di tristezza
disse:

adattarmi a tutto questo, al dolore e alla
sofferenza di questi ragazzi. Non credo mi ci
abituerò mai, ma almeno ora riesco a rendermi
utile, ad alleviare quantomeno le loro
sofferenze e a portare un po’ di conforto. Si
sentono solo urla, lamenti e le cannonate in
lontananza, mattina e sera. Stiamo tutti
vivendo un dramma>> disse, con le lacrime
agli occhi, e mi sfiorò dolcemente una mano.
Lucia, nelle successive settimane che
trascorsi in convalescenza, iniziò a far parte
della mia vita, si occupava delle medicazioni,
seguiva passo per passo tutti i miei progressi
confortandomi con la sua presenza e con il suo
buon carattere, e benché dovesse occuparsi
anche di altri pazienti, ben più gravi di me,
rimase sempre il mio angelo custode.
Alcune notti avevo ancora dei terribili
incubi, mi ritrovavo sdraiato su un cumulo di
sassi, tutto dolorante, dalla testa ai piedi. Dove
mi trovavo? Tutto intorno a me sembrava
diverso. Non ero in ospedale e non c’era Lucia
a prendersi cura di me. Mi alzavo, cercando di
capire cosa fosse successo, ma le gambe erano
come immobilizzate ed intorpidite, come se
68

non ci fossero! Alzavo lo sguardo in cerca di
aiuto e, nel silenzio di quel paesaggio in cui
ero immerso, vedevo di fronte a me un uomo
in divisa bianca puntarmi un fucile alla fronte
e premere il grilletto. Credevo di sentire il
rumore dello sparo ma in realtà era il rombo
dell’artiglieria austriaca che martellava le
nostre postazioni e, svegliandomi di
soprassalto, mi ritrovavo seduto nella mia
branda in un bagno di sudore e urlare di
terrore.
Tutto congestionato dall’incubo e forse
anche dalla febbre, guardavo dai vetri della
finestra l’orrido spettacolo pirotecnico che si
scorgeva dal crinale nord dell’altura, poi un
enorme boato. Anche i vetri vibravano, dai
nostri letti rimanevamo ad ascoltare in silenzio
come fosse l’ululare di un branco di lupi
inferociti. Mi tornava in mente la disperazione
dei soldati schierati in trincea, al freddo,
immersi nel fango, nei loro escrementi,
divorati da ogni tipo di parassita e dalla fame.
Pensavo a tutte quelle famiglie spezzate che
avevano perso i loro cari nelle battaglie. Ero
69

stato davvero fortunato ad essermi salvato, a
venir recuperato prontamente e curato.
La mia permanenza in ospedale, dopo
appena un mese e mezzo di degenza, stava
ormai per terminare.
Avevo ripreso quasi perfettamente l’uso
delle gambe e della spalla, mentre della ferita
alla testa ormai ne restava solo una profonda
cicatrice.
La guerra intanto continuava a falciare vite
umane, le notizie giunte dalla mia guarnigione
non erano per nulla incoraggianti, sentivo che
oramai si stava avvicinando il momento di
lasciare l’ospedale e quindi anche Lucia.
Pochi giorni dopo, infatti, ricevetti dal
comando una missiva in cui mi veniva
comunicato che mi sarei dovuto presentare
alla mia vecchia postazione sotto Col di Bois la
settimana successiva.
Ero distrutto dalla disperazione di dover
tornare in quel luogo infernale, di dover
abbandonare Lucia, l’unica persona a cui mi
sentivo profondamente legato, che mi aveva
dato un po’ di quel calore umano che tanto mi
era mancato dall’inizio della guerra.
70

A stento riuscivo a trattenere le lacrime e
quella mattina, mentre Lucia accudiva i suoi
pazienti, mi avvicinai a lei.
Quando mi vide sorrise come al solito con
tutta la dolcezza che la contraddistingueva e
alla vista di quel suo viso sentii il contrarsi di
un nodo allo stomaco.
e mi guardò triste
come se già conoscesse la risposta.
le risposi con tranquillità, per smorzare
quell’ombra di tristezza che le velava gli occhi.
Il suo viso impallidì e timidamente,
guardandomi negli occhi, si avvicinò a me
tanto da sentire il suo alito profumato, mi
prese la mano conducendomi con risolutezza
verso una delle stanze dove il personale
medico si recava durante il riposo.
71

mi disse con un
filo di voce supplichevole non appena giunti
in quella misera stanza, dove due brande e un
mobile malmesso erano gli unici arredi
presenti.
.
Lei era di fronte a me, con il viso chino. Non
aveva il coraggio di alzare lo sguardo.
disse
questa volta con voce decisa, quasi rabbiosa,
.
Alzò lo sguardo, mi fissò per alcuni secondi
con il viso contratto e gli occhi azzurri
spalancati quasi a sfidarmi, poi lentamente i
72

suoi lineamenti si addolcirono e mi baciò con
impeto.
Rimasi stupito sia per il calore di quel suo
slancio improvviso, da me del tutto
inaspettato, ma fortemente sperato, sia per la
reazione violenta che questo provocò in me.
Una vampata improvvisa salì dal profondo del
mio essere, arrossii e sentii la faccia bruciare
come fosse stata toccata dal fuoco, mentre un
forte desiderio di possederla mi pervase.
La attirai a me stringendola con forza,
iniziai a baciare il suo viso, i suoi occhi, le sue
labbra mentre con una mano le sciolsi i capelli
nascosti dal cappellino. Rimasi estasiato alla
vista di quella moltitudine di capelli rossi che,
contrastando con la carnagione bianca e
lentigginosa del viso pallido e aggraziato,
creavano in me una visione paradisiaca.
Iniziai a slacciarle il camice bianco e poi la
maglietta azzurra fino ad insinuare la mia
mano sul suo seno che sentii morbido e caldo.
Ormai non mi controllavo più, né lei
desiderava lo facessi, abbassai la testa sul suo
petto e, spostandole il reggiseno, la baciai
73

ipetutamente mentre gridolini di piacere e
profondi sospiri le uscivano dalla bocca.
Prima che potessi proseguire lei mi baciò
con passione, poi si distese sulla misera
branda continuando con impeto sempre
maggiore.
Iniziai a spogliarla accarezzando e baciando
con amore ogni sua parte, anche le più intime.
Una montagna di riccioli rossi erano di
contorno alla sua natura che non appena
accarezzai procurarono in lei fremiti di
desiderio e di passione.
Mi distesi su di lei e ciò che accadde per me
fu una esperienza di una dolcezza e bellezza
che mai avevo provato nella vita.
Esausti rimanemmo in quel misero locale,
che per noi era diventato il posto più bello del
mondo, abbracciati fortemente l’uno all’altro,
rivolgendoci continue domande sulle nostre
vite prima della guerra, su chi ci aspettasse a
casa e sul nostro futuro.
In gioventù mi era capitato di andare alcune
volte con gli amici in uno dei casini della città,
per divertirmi con le prostitute, ma non avevo
mai provato il vero amore.
74

Così scoprii che il sesso fatto per amore era
un’altra cosa, ti coinvolgeva in tutto il tuo
essere e saperlo condiviso con un'altra persona
ne esaltava il piacere e la bellezza.
Non solo i corpi si univano, ma era come se
le anime si fondessero in un tutt’uno; pensai
“se esiste il paradiso, deve assomigliare molto
al piacere provato in un atto d’amore”.
Quella giornata la natura volle che fosse una
serata magica, la Luna spuntata da dietro
l’Antelao illuminava la valle a giorno.
Anche le poche nuvole, che sembravano dei
piccoli batuffoli di cotone bianco, brillavano
come se avessero un proprio chiarore, la luce
riflessa era talmente forte che era quasi
impossibile fissare la Luna che proiettava
lunghe ombre su ogni oggetto, le cime e le
creste delle montagne erano visibili a 360
gradi.
Era uno spettacolo unico e bellissimo che
contrastava fortemente con le tragedie
incombenti e che per poche ore fece distogliere
i belligeranti dalle loro folli battaglie.
Le artiglierie e i combattimenti furono
sospesi, come se un tacito armistizio fosse
75

stato concordato tra le parti, e fece finalmente
immergere la valle in un silenzio profondo
interrotto solo da un leggero alito di vento che
si insinuava tra gli alberi.
Passeggiando con Lucia ai margini del
bosco gli dissi dolcemente
mi disse lei quasi piangendo, come sapesse
inconsciamente che non ci saremmo mai più
rivisti.
le dissi
sussurrando e accarezzandole il volto.
Passammo ancora quei pochi giorni tra gioia
e dolore, ma il tempo inesorabilmente bussò
alle nostre porte e arrivò il giorno della
partenza.
76

Gli accordi con Lucia erano stati chiari: ci
eravamo detti “Evitiamo di incontrarci la
mattina della partenza, sarebbe troppo
doloroso.”
La mattina presto, uscito per l’ultima volta
dall’ospedale, mi incamminai verso la
stazione; con tristezza mi voltai e la vidi dietro
i vetri di una finestra, con il viso pallido
tremendamente triste.
Le feci un cenno con la mano e mi voltai,
con un groppo in gola e con la voglia quasi
irrefrenabile di tornare indietro per correrle
incontro e stringerla a me ancora una volta. Il
dovere ebbe il sopravvento e così arrivai alla
piccola stazione.
Il trenino per Cortina giunse puntuale e in
30 minuti mi ritrovai nel centro del paese dove
un carro trainato da due cavalli mi portò alla
base della montagna e quindi in un ora di
marcia direttamente alle trincee dove mi
aspettava il mio reggimento.
L’accoglienza dei commilitoni fu cordiale e
allegra sia pure nel rispetto delle gerarchie e
delle oggettive difficoltà nelle quali eravamo
costretti a vivere.
77

Le trincee erano luride fogne a cielo aperto
dove fango ed escrementi si mescolavano in
un tanfo insopportabile, la pioggia rendeva
ogni cosa viscida e penetrava anche nei pochi
ricoveri parzialmente protetti, le divise
inadeguate ad una guerra di trincea in alta
montagna erano stracci fradici che non era
possibile asciugare se non nelle poche giornate
di sole, i viveri scarsi e scadenti rendevano le
condizioni di vita ancora più tristi e
opprimenti.
Non c’era comunque da preoccuparsi
troppo per quelle orribili condizioni di vita,
l’unica cosa che veramente contava era quella
di sopravvivere e sperare in una rapida
conclusione del conflitto.
L’ordine giunse quasi subito ed era
estremamente perentorio: dovevamo lanciare
una massiccia offensiva per conquistare a tutti
i costi le postazioni dietro il Castelletto, in
modo da procurarci un buon appostamento
per poter sfondare da lì le linee nemiche che si
trovavano più in basso nella Val Travenanzes.
Partecipai insieme agli altri ufficiali
all’incontro con il Comandante che ci illustrò
78

in dettaglio gli obiettivi principali della
missione e le strategie dell’ attacco.
L’operazione iniziava in piena notte con un
gruppo di guastatori che sarebbero avanzati
per tranciare nell’oscurità il filo spinato messo
a protezione delle trincee nemiche insieme ad
un fuoco di artiglieria per distogliere il nemico
dall’operazione dei guastatori.
Quindi doveva seguire un violento
bombardamento di diverse ore che dalle
Cinque Torri avrebbe investito tutto il fronte
nemico, infine l’assalto delle truppe che dalle
diverse postazioni trincerate avrebbero
attaccato il nemico prima del sorgere dell’alba.
Il mio compito era quello di guidare uno di
questi battaglioni.
Ai miei ordini avevo giovani sui 20 anni, che
per età avrebbero potuto benissimo essere
miei fratelli minori, ragazzi a cui la vita
sarebbe stata quasi certamente stroncata, di lì a
poco.
Eppure sembravano tranquilli, se ne
stavano da soli a scrivere lettere ai loro cari,
oppure a scherzare amichevolmente per
79

stemperare il clima teso che si era venuto a
creare.
Il giorno prima dell’assalto, quando mi
trovai da solo sulla branda, presi carta e penna
e decisi di scrivere a Lucia un ultima lettera
prima dei combattimenti, rinnovandole tutto il
mio amore e il desiderio di sposarla appena
finita la guerra.
Era ancora buio, quando ci preparammo
all’assalto, per sfruttare il fattore sorpresa, una
buona mezz’ora prima dell’alba, infreddoliti,
impauriti ma decisi a conquistare le trincee
nemiche.
Dovemmo avvicinarci strisciando
silenziosamente verso le prime linee per
cogliere il nemico di sorpresa, piano, nel
silenzio più assoluto, nel timore di essere
scoperti prima del dovuto.
L’aria era densa e brumosa e a malapena
potevamo distinguere il paesaggio che ci
circondava.
Una volta raggruppati e posizionati ci
decidemmo a scendere lungo il crinale, stando
attenti a non scivolare sui sassi bagnati.
80

Strisciammo indisturbati per oltre cento
metri e nessuno si accorse del nostro
passaggio.
Purtroppo una sentinella austriaca,
appostata dietro un grosso sasso dove non
poteva essere scorta, avvertì la nostra presenza
e, dopo aver dato l’allarme generale, si scatenò
contro di noi l’intera artiglieria crucca.
Iniziammo a correre rapidamente tra il filo
spinato e i corpi mutilati di altri soldati,
cercando di schivare la pioggia di schegge e
pallottole che ci sfioravano da ogni parte.
Nonostante stesse iniziare ad albeggiare era
impossibile vedere le pallottole, solo un
leggero sibilo e lo schianto sui sassi ci
avvertiva del pericolo che ci circondava, ma
non c’era tempo di pensare, bisognava
procedere e uccidere quei bastardi!
Una increspatura, una piccolissima
increspatura come un onda del mare; una
pallottola mi centrò in piena fronte.
Caddi fulminato, era finita, mamma, papà, i
commilitoni, Lucia! Tutto finito, tutto perso
per sempre, non potevo più amare, sognare,
gridare, pensare.
81

Perché morire a 25 anni in un posto a me
sconosciuto? È sì! Era meglio comunque vivere
in quell’inferno, nella speranza di un futuro
migliore con Lucia, che tornare a essere
polvere.
82

Il risveglio
Intorno a me c’era solo foschia, pioggia e
vento. Niente più cannoni né mitragliatrici.
Mi guardai attorno, ma anche la vista
pareva essersi annebbiata.
Di fronte a me, all’improvviso, si
materializzò un’ombra.
Cercai di spostarmi ma le gambe non mi
reggevano e avevo un forte dolore alla testa, la
figura si avvicinò con prudenza, “forse è Lucia
che vuole aiutare a rialzarmi”pensai.
Mi sentivo scuotere, ma dentro di me non
avevo la forza di reagire a quella
sollecitazione, impaurito da quell’accento
straniero, pensai “forse sono suo prigioniero e
ora probabilmente vuole uccidermi”.
Non potevo reagire sebbene i miei sensi, per
quanto intorpiditi, percepissero l’ambiente
esterno.
mi
chiese concitata la voce che sentivo, mentre mi
copriva con una pesante giacca a vento.
.
83

Mi sentivo la testa pulsare in modo ritmico,
come se mi avessero dato una pesante
bastonata sulla tempia.
Tanto era il dolore, che riuscivo appena a
scorgere la possente figura del mio
soccorritore.
Non capivo dove mi trovassi esattamente,
sentivo freddo ed ero intontito.
Ora, un paesaggio brullo e sassoso aveva
preso il posto dei cannoni e della pioggia di
pallottole dell’artiglieria austriaca.
Dove mi trovavo allora? Possibile che fosse
stato solo un sogno? Solo un’illusione, per
quanto realistica essa fosse!
.
Con un filo di voce, sforzandomi di non
perdere i sensi, gli dissi: >
implorai!
84

Lui rimase un po’ interdetto e mi rispose
quasi ridendo, per tranquillizzarmi: .
Era stato solo un sogno! Spalancai gli occhi
con le poche forze che mi restavano e mi
guardai attorno per accertarmi delle parole
dell’uomo che effettivamente non indossava
alcuna divisa militare ma una comoda giacca a
vento e pantaloni tecnici da montagna.
Un altro concorrente nel frattempo
soggiunto e mi disse
85

Subito un'altra persona ci raggiunse, tutta
trafelata. .
Come era possibile? Il colpo che avevo
preso alla testa era stato più forte di quanto
avessi pensato?
Mi sentii venir meno e svenni. In un limbo
tra torpore e incoscienza vagamente percepii
l’arrivo dell’elicottero, le pale che fendevano
vorticosamente l’aria, le frasi concitate dei
miei soccorritori, il trasporto in ospedale.
Quando ripresi i sensi mi ritrovai sdraiato
su un comodo letto, con un bendaggio alla
testa ed una spalla immobilizzata. Guardando
bene, vidi attorno a me una stanza linda, ben
illuminata e calda diversa da quella che
ricordavo.
Ero ritornato indietro dalla mia Lucia,
ancora una volta?
Improvvisamente sentii una carezza sulla
mano.
urlai, mettendomi a sedere di
scatto sul letto.
86

mi disse con voce preoccupata.
disse la donna al mio capezzale, rimettendomi
le coperte in ordine e accomodandomi il
cuscino sotto il capo.
si alzò sorridendomi ed andò a
chiamare l’infermiera di turno per
controllarmi la febbre e darmi qualche
antidolorifico.
La dolcezza di quel sorriso aveva un non so
che di familiare, mi rimandò con il pensiero al
bel viso di Lucia e ai nostri brevi ma intensi
momento d’amore.
Quando mi ripresi, la donna che vidi al mio
fianco non era lei ma Lucilla, la moglie che
amai in un tempo lontano da questo.
Dopo quarantotto ore uscii dal delirio,
ripresi conoscenza e quando mi svegliai
87

completamente, voltandomi riconobbi mia
moglie.
Ci guardammo con tenerezza e il nodo che
avevo allo stomaco finalmente si sciolse
lasciandomi andare in un pianto liberatorio.
Ringraziai il cielo per essere ancora vivo e
per avere al mio fianco Lucilla.
A metà luglio lasciai l’Ospedale Codivilla e
con il passare dei giorni, rimettendomi in
salute, quei ricordi diventarono sempre più
sbiaditi, lontani ma pur sempre vivi nel mio
cuore.
Presi coscienza che probabilmente era stato
solo un sogno, molto intenso, ma pur sempre
un sogno, per cui decisi di non parlarne più né
con Lucilla né tanto meno con gli amici.
L’esperienza vissuta mi aveva riavvicinato a
lei, come se ci fossimo incontrati per la prima
volta da pochi giorni, ed ora provavo per lei
gli stessi sentimenti ed emozioni che avevo
quando ci eravamo conosciuti.
Anche lei era cambiata e sembrava
accettarmi più volentieri, consapevole che la
morte mi aveva sfiorato e poteva perdermi per
sempre.
88

ipetevo spesso a
Lucilla, mi rispondeva
affettuosamente,
Trascorsi tutto il mese di agosto in
convalescenza a Cortina in compagnia di
amici che incuriositi mi chiedevano particolari
su quanto mi era accaduto.
Volutamente non raccontai nulla del mio
sogno avventuroso, del Tenente Pauletti e di
Lucia, e quando qualche amico insisteva
troppo, cambiavo discorso iniziando a parlare
di passeggiate che in effetti iniziai a rifare,
questa volta sincerandomi sempre delle
condizioni del tempo!
Ricordo con grande soddisfazione quando il
mio amico Paolo mi propose di andare in cima
al Paterno.
Era oramai fine agosto e mi ero
completamente ristabilito, per cui con
entusiasmo accettai la sua proposta.
Avevamo programmato la partenza presto,
ma non troppo.
Alle otto e mezza mi passò a prendere. Era
una splendida giornata, fresca, vista l’ora, con
89

un cielo azzurro limpidissimo. Partimmo per il
rifugio Auronzo sotto le Tre Cime di
Lavaredo.
Arrivati, una gran folla di turisti percorreva
il classico sentiero che dall’Auronzo porta al
Locatelli, una popolazione variegata spesso
con abbigliamenti inadeguati al luogo; chi con
scarpe da ginnastica, chi con scarpe cittadine,
altri con semplici magliette e felpa senza
giacca a vento, altri con chiodi e corde pronti a
salire le pareti delle Tre Cime.
Il primo tratto fino alla forcella Lavaredo era
una processione di famiglie con carrozzine,
bambini festanti, persone che chiaramente era
la prima volta si trovavano in montagna, ma il
panorama che ci apparve improvviso alla
nostra sinistra era imponente e maestoso con
la vista delle pareti nord delle Tre Cime.
Con il binocolo erano visibili decine di
alpinisti che scalavano queste imponenti pareti
verticali e veramente l’impressione era quella
di vedere dei piccolissimi ragni appesi alla
roccia.
90

Proseguendo per un largo sentiero
arrivammo in poche decine di minuti al
Locatelli.
Da qui iniziava la nostra gita, lì dove
terminava per il 90% dei turisti. Dopo le foto
d’obbligo con lo sfondo sulle pareti nord delle
Tre Cime, ci dirigemmo verso la galleria del
Paterno.
La galleria era stata scavata nel corso della
prima guerra mondiale dagli alpini per cercare
di conquistare le cime circostanti in possesso
degli Austriaci.
In confronto la galleria del Castelletto era
poca cosa, questa saliva ripida nella roccia
viva con molte finestre sia a destra che a
sinistra. Affacciati alle finestre si godeva di un
panorama mozzafiato da un lato sulle Tre
Cime, dall’altro su Pian di Cengia, le Crode
Fiscaline e Cima Una.
Al termine della galleria iniziava il primo
tratto di ferrata che saliva ripido sotto una
cresta e a strapiombo sul sentiero che portava
per la via normale alla forcella di Pian di
Cengia.
91

Paolo saliva senza cordino né casco, non
attaccandosi mai alla corda fissa; aveva una
dote naturale che lo faceva sentire tranquillo e
sicuro mentre io, pur provando grande piacere
e soddisfazione, rimanevo sempre attaccato
col cordino alla corda fissa memore anche di
ciò che mi era capitato solo due mesi prima.
Dopo una salita abbastanza lunga ed
esaltante arrivammo alla forcella del
Camoscio, spartiacque tra la valle con il
rifugio Locatelli e la valle che volge verso
Auronzo.
Da qui partivano tre sentieri: uno per la
ferrata a sinistra verso Pian di Cengia, un’altro
a destra verso la cima del Paterno, il terzo era
un sentiero in discesa verso Forcella
Passaporto e quindi Forcella Lavaredo.
Volevamo fare entrambe le ferrate, ma
sapevamo che il tempo non era sufficiente
perciò proseguimmo per la vetta.
Solo l’attacco di questa ferrata presentava
qualche piccolo problema, almeno per me, poi
ancora un breve tratto ferrato e quindi per
sentiero segnato da ometti fino alla vetta.
92

Purtroppo il tempo si era leggermente
rannuvolato per cui non era possibile godere
del panorama che ci si presentava intorno a
noi.
Da un lato ancora le Tre Cime di Lavaredo,
da un altro la Torre di Toblin, quindi la Val
Fiscalina e ancora il sentiero degli Alpini con
cima Undici, Dodici e Passo della Sentinella,
verso Cortina il Cristallo, Sorapis e
Marmarole.
Scattammo alcune foto accanto alla croce
posta in sommità, in memoria della mitica
guida austriaca Innerkofler uccisa dagli alpini
nel corso della Grande Guerra, e godemmo
per la passeggiata fatta e il piacere della
scalata.
Avevamo impiegato circa tre ore e mezzo
per arrivare in vetta e ora ci attendeva una
discesa piuttosto lunga e faticosa soprattutto
per il dolore che entrambi avevamo alle
ginocchia, dolore particolarmente fastidioso in
discesa.
Tornammo alla Forcella del Camoscio e
quindi prendemmo il sentiero che portava alla
Forcella Passaporto.
93

Il sentiero scendeva ripido per una gola
all’inizio stretta in parte rocciosa ed in parte
ghiaiosa, ma poi via via sempre più ampia.
Tagliando il ghiaione a destra si procedeva
in orizzontale per una cengia in alcuni punti
non troppo larga e piuttosto esposta scavata
nella roccia viva dagli Alpini e da qui alla
Forcella Passaporto da dove si riguadagnava il
versante fatto nella mattinata, ma molto più in
alto e su roccia esposta e con vista ancora
bellissima sulle Tre Cime.
Dalla Forcella Passaporto in poche decine di
minuti arrivammo al rifugio Lavaredo per un
meritato thè caldo, in tutto poco meno di sei
ore di cammino effettivo, stanchi, ma
soddisfatti di una giornata indimenticabile.
Oramai era giunto il tempo di tornare in
città, di riprendere il ritmo del lavoro
quotidiano, di districarsi nella caotica vita
cittadina, ma la sorpresa più incredibile della
mia vita doveva ancora capitarmi, oramai era
questione di poche settimane e il velo che mi
oscurava la vista si sarebbe definitivamente
spezzato.
94

La ricerca
A metà Settembre il lavoro ricominciò a
pieno ritmo, avevo ripreso le attività che
svolgevo cercando di ritagliare più
frequentemente possibile del tempo libero da
dedicare alla mia vita privata e a mia moglie,
ma quel sogno continuava a tormentarmi.
Un senso di imbarazzo, dubbio, insicurezza
mi aveva impedito di raccontarle l’intero
sogno ma una sera, quando ci trovammo in
camera da soli, le dissi tutto quello che avevo
sognato quel giorno in Tofana.
Dopo avermi ascoltato attentamente mi
guardò incredula negli occhi e mi chiese:
Decidemmo di metterci al computer per
effettuare, tramite internet, una ricerca
accurata, spulciando scrupolosamente le
informazioni relative alla Prima Guerra
Mondiale, in particolare nella località delle
Cinque Torri e delle Tofane, e scartoffie
dell’Archivio di Stato riguardanti un certo
95

Tenente Pauletti a capo di un reggimento in
servizio nel 1916, in quella stessa zona.
I risultati furono incoraggianti. Risultò
effettivamente in servizio un certo Tenente
Alberto Pauletti, ma non venivano specificate
né le generalità, né la data di morte; a piè di
pagina veniva citato solo che rimase disperso
durante una campagna combattuta contro gli
austriaci, vicino alla Val Travenanzes, nei
pressi del Castelletto.
Continuammo la ricerca di altre
informazioni sulla mia “vecchia” identità e
alla fine fummo premiati perché scoprimmo
che Pauletti non era sposato, fu ferito
gravemente durante una campagna e rimase
in degenza presso l’Ospedale di San Vito.
Le tracce si fermavano lì, ma il mosaico era
quasi completo.
Dunque quello che avevo vissuto, non era
un sogno, non era il risultato del delirio post-
trauma che i dottori andavano blaterando, ma
era la realtà!
Anche se stanchi e assonnati decidemmo di
andare alla ricerca di qualche documentazione
che accertasse la passata esistenza di Lucia.
96

Provammo a cercare di un’infermiera
volontaria presso l’Ospedale di San Vito, nel
1916.
Effettivamente trovammo qualcosa di una
certa Lucia Brambi, di origini lombarde che
rimase in servizio da volontaria presso il
fronte dolomitico.
Leggendo quelle poche righe notai che
Lucilla aveva lo sguardo fisso e assente.
Sembrava che la questione la riguardasse
più del dovuto.
Era impallidita terribilmente e non riusciva
a proferire parola.
le domandai realmente perplesso da
quella sua reazione.
La guardai di nuovo in viso e notai che gli
occhi erano pieni di lacrime.
Con un filo di voce mi rispose, sempre con
lo sguardo perso nel vuoto .
97

Caddi dalle nuvole e con un nodo allo
stomaco le domandai chi fosse e come facesse
a conoscerla, dato che doveva essere ormai
morta da tempo.
Con voce flebile mi rispose che la Lucia
Brambi che tanto cercavo e che visse nei miei
sogni, era sua nonna, che morì dando alla luce
sua madre, nel lontano 1917.
Il mondo mi crollò addosso. Troppe
coincidenze, troppe casualità che
combaciavano.
La mia reazione fu palese, tanto che Lucilla,
dopo essersi riavuta da quelle scoperte mi
parlò con calma delle poche e confuse notizie
che poteva darmi su quella persona.
La mattina successiva appena alzati Lucilla
scese in cantina e tornò con un vecchio
bauletto in pelle e legno che aveva ereditato
alla morte della madre.
Aprendolo ne tirò fuori degli incartamenti
avvolti in una vecchia cartella, annerita dal
tempo.
Essa conteneva dei fogli di carta ingialliti e
stropicciati, tra cui i certificati di nascita della
nonna, del suo successivo affidamento alla
98

sorella di Lucia, che era sposata ma senza
alcun figlio e, in una busta ancora sigillata
trovammo due lettere ed una fotografia.
Lucilla prese le lettere in mano, ognuna
chiusa separatamente e diede a me la foto.
Abbassai lo sguardo e scrutai l’immagine
sbiadita.
Quel viso pallido, quei capelli e quegli occhi
profondi e tristi. Non potevo sbagliarmi, la
donna della foto, anche se in bianco e nero, era
la mia Lucia.
Le due lettere furono per me un autentico
shock: la prima, a me familiare era la stessa
che avevo sognato di scrivere lo stesso giorno
della missione presso il Castelletto, la seconda
invece fu scritta di suo pugno: era la risposta
che a me non giunse mai.

poterti rincontrare un giorno, anche se in
tempi diversi.
Sento terribilmente la tua mancanza e sappi
che ti porterò sempre nel mio cuore.
Conserverò queste due lettere insieme, in
modo da poter rimanere, almeno in questa
forma, uniti per tutta la vita.
Per sempre tua, Lucia. >>
La lettera rimase così inerte nelle mie mani.
Ancora sbigottito, la richiusi delicatamente e la
riposi nella busta che conteneva la mia lettera
e quella foto ormai sbiadita dal tempo.
domandai a Lucilla, che nel
frattempo si era messa a sedere e mi guardava
incredula.

fosse stata sua>> disse, tentando di ricordare i
vecchi aneddoti che la madre e la vecchia zia
le raccontava quando era piccola.
La guardai, palesemente addolorato per
quanto avessi appena appreso dalle sue
parole. Dopo aver riposto le lettere nel baule,
Lucilla si avvicinò a me e baciandomi
dolcemente sulla fronte, mi disse
“È stato solo un sogno? E se non fossi
andato alla maratona? E se non avessi mai
conosciuto Lucia, come potrei conoscere la
realtà che sto vivendo ora?” Mi balenò una
valanga di interrogativi, ma non trovarono
risposta. A volte è meglio non porsi troppe
domande, rischiamo di perdere di vista l’unica
cosa per cui davvero vale la pena vivere: il
presente.
Un’increspatura, una piccolissima
increspatura e in quei pochi minuto svenuto
sulla montagna fui catapultato in un passato
101

che ha modificato per sempre il destino del
mio futuro.
Non posso raccontare quello che mi è
successo, nessuno mi crederebbe e anzi sarei
scambiato per un pazzo. Ciò che mi è accaduto
in quella fredda giornata di inizio estate sulla
Tofana resterà per sempre un segreto tra me e
Lucilla.
Quel terribile incubo che mi ha tormentato
per anni è svanito per sempre, nel nulla, come
un tenue soffio di vento.
Ero finalmente libero, il mosaico si era
ricomposto quasi completamente, ma ancora
doveva essere collocato al suo posto un
piccolo tassello; che fine aveva fatto il Tenente
Pauletti?
Trovare quel tassello e riuscire a collocarlo
mi procurò ancora fortissime emozioni!
102

Parte Seconda
L’inverno
103

Siamo spiriti?
La natura è misteriosa, potente, crudele,
imprevedibile ma anche in grado di offrirci
sensazioni bellissime.
Ciò che ci circonda è reale o frutto della nostra
fantasia?
Siamo solo spiriti che si sono creati un mondo
immaginario per sconfiggere la monotonia
dell’infinito, oppure siamo creature reali plasmate
da una entità superiore?
L’universo è realmente antropomorfo, cioè a
nostra immagine e somiglianza, oppure siamo solo
uno scherzo della natura nel continuo evolversi
della materia?
Fantasia, mistero, immaginazione, delirio: spesso
tutto ciò si intreccia come in un puzzle e venirne a
capo risulta quasi sempre impossibile, ma quando si
scopre una possibile soluzione il mistero si
trasforma in meraviglia e incredulità.
Un segreto, bisogna mantenere il segreto per
evitare di essere considerati pazzi ed esclusi dalla
società, ma se il mistero si rivela a più di noi
contemporaneamente è necessario diventare
complici, perché noi sappiamo qualcosa di indicibile
che ci differenzia da tutte le altre persone.
Ma voi siete capaci di tenere un segreto?
105

La curiosità del sapere è solo pari al desiderio di
raccontare qualcosa di incredibile!
106

Il complice
Il fulmine produsse un botto fortissimo, un
lampo di luce abbagliante poi tutto svanì.
Era fine giugno, le prime giornate d’estate,
ma come ben sapeva Alvise, in montagna il
tempo può cambiare repentinamente e
d'altronde le previsioni di Arabba avevano
parlato chiaro: depressione proveniente dalla
Francia in rapida evoluzione con possibilità di
pioggia sin dal mattino e neve a tratti sopra i
2800 metri.
Fenomeni in aumento con probabilità di
precipitazioni anche violente dal primo
pomeriggio.
Quel giorno a Cortina, dall’altra parte della
valle era in programma il giro della Tofana di
Rozes organizzato per celebrare i 90 anni dello
scoppio della mina del Castelletto, evento al
quale partecipavano centinaia e centinaia tra
atleti e semplici appassionati provenienti da
tutto il mondo.
Alvise, che aveva effettuato quel percorso
decine di volte, preferiva la solitudine alla
moltitudine, e d’accordo con il suo amico
107

Christian, pensava di effettuare una
passeggiata più tranquilla e solitaria.
Entrambi non più giovanissimi, l’uno
estroverso e burlone l’altro schivo e taciturno,
erano montanari dell’ultima generazione
amanti sì della montagna ma anche dei confort
offerti dalla vita moderna, a differenza dei
propri genitori che erano vissuti in gioventù di
stenti e di miseria, in case senza riscaldamento
solo con una stanza riscaldata, la stube,
alimentata con la legna raccolta durante
l’estate.
Sembra incredibile e inconcepibile oggi che
si sia potuto vivere con temperature esterne
anche di 40 gradi sottozero senza
riscaldamento, ma la tempra del montanaro è
legata proprio alla durezza della vita alla
quale furono sottoposti.
Fino a pochi anni fa’ i genitori ottantenni di
Alvise vivevano in un appartamento senza
riscaldamento, poi in seguito a due brutte
bronco-polmoniti furono convinti a dormire
nella stube.
Per loro fu quasi un’umiliazione doversi
trasferire in un ambiente riscaldato ed
108

ammettere che l’età non consentiva più di
godere di certe abitudini acquisite in gioventù.
La ricchezza ed il benessere iniziarono ad
arrivare pian piano con il turismo di massa a
seguito delle Olimpiadi Invernali svoltesi nel
1956 e tutta la generazione nata a partire dagli
anni sessanta ignorava quanto fosse dura e
difficile la vita quotidiana del contadinomontanaro,
solo i racconti dei vecchi oggi ci
potevano far comprendere le difficoltà sofferte
per secoli e secoli.
Alvise, proprietario di un rinomato
ristorante della valle, si godeva gli ultimi
giorni di riposo prima della riapertura del
locale per il periodo estivo che iniziava di lì a
pochi giorni.
Gli spaghetti alla cipolla, i casunzei, il
risotto al sugo di cervo, il risotto ai porcini, lo
stinco di maiale e di vitello con funghi porcini
e patate ampezzane, lo stracotto di capriolo al
ginepro con polenta, lo strudel di pere o di
mele, la sacher con panna, il semifreddo allo
zabaione, i frutti di bosco con gelato alla
crema, le infinite varietà di grappa
aromatizzata ai frutti ed erbe di bosco erano le
109

specialità del luogo per cui gli ospiti
affollavano le sale in tutto il periodo estivo ed
invernale con prenotazione del tavolo che, in
prossimità delle festività, superava la
settimana di attesa.
Per il cenone di Capodanno poi bisognava
prenotarsi già dall’estate prima.
Anche lui, come tanti altri paesani, aveva
iniziato con una piccola attività, aiutato dalla
moglie e dalla suocera, ma ben presto aveva
potuto prendere in gestione locali via via più
prestigiosi ed ora aveva a disposizione una
bellissima villa con vista sulla valle, tre ampi
locali, un bellissimo ingresso in boiserie con
piano bar e una nutrita schiera di camerieri
pronti a soddisfare le esigenza più sofisticate
dei clienti.
La cantina poi disponeva di una quantità di
vini bianchi e rossi di prestigio soprattutto
veneti e sud tirolesi, delizia per i palati più
raffinati.
In estate e nelle terse giornate invernali
l’ampio prato antistante il locale consentiva al
mattino di triplicare i tavoli a disposizione
degli ospiti che così potevano godere di una
110

vista tra le più belle al mondo tra i profumi
delle carni e verdure cotte al barbecue.
Anche Christian si godeva quegli ultimi
giorni di relativo riposo, e se pur non agiato
come Alvise, perché maestro di sci in inverno,
in estate portava i turisti nei rifugi con la jeep e
anche lui in agosto aveva liste di attesa di
diversi giorni per soddisfare tutte le richieste
dei turisti che affollavano all’inverosimile la
conca Ampezzana.
Una vera cascata d’oro si era riversata su
questa valle affascinante e meravigliosa
trasformando la vita magra contadinopastorale
in attività frenetiche proprie delle
grandi città occidentali.
Ma la ricchezza, si sa, porta con se anche il
tarlo dell’arroganza e del cinismo, per cui
alcuni di coloro che una volta, pur poveri,
erano felici educati e gentili ora si
comportavano, dall’alto dei propri jeepponi,
con fare maleducato e supponente
considerando il turista più come una pecora
da tosare che non un bene da rispettare e
salvaguardare.
111

Per fortuna non a tutti la ricchezza ed il
benessere avevano dato alla testa e
sicuramente Alvise e Christian erano tra
coloro che continuavano ad amare e
conservare le proprie montagne come un bene
da proteggere e tutelare guardando il turista
come una risorsa importante per il futuro loro
e dei propri cari.
disse Alvise
rispose Christian
I bivacchi infatti sono dei piccoli rifugi
metallici di forma cubica, con il tetto
arrotondato per sopportare meglio il peso
della neve, gestiti dal CAI, ma privi di
personale e normalmente si trovano in posti
112

isolati ad alta quota e non sempre facilmente
raggiungibili.
Al loro interno sono presenti pochi letti a
castello per ospitare escursionisti che
desiderano cimentarsi in passeggiate che
durano più giorni o che si trovano in difficoltà
a causa del maltempo.
Nei più dotati è possibile trovare coperte,
qualche pentola, candele, fiammiferi, e una
piccolissima dispensa con pochi generi
alimentari, altri invece, in stato di semi
abbandono, contengono solo letti a castello e
sono privi di tutto.
Qualche volenteroso, inviato dal CAI,
provvede in autunno a togliere le coperte e
quant’altro ed a inizio estate a rifornire il
bivacco del minimo necessario controllandone
l’agibilità.
La mattina successiva alle 11.00 in punto
arrivarono a Ra Stua, località amena punto di
ritrovo per innumerevoli passeggiate tra le più
belle e amate dai turisti, a cavallo del Parco
Naturale Fanes-Sennes-Braies e del Parco
Naturale delle Dolomiti d’Ampezzo e anche
113

punto terminale della strada percorribile dai
privati in alcuni periodi estivi.
Da qui è possibile arrivare a diversi rifugi
quali il Biella, Fodara Vedla, Sennes e Munt de
Sennes, forcelle erbose e panoramiche quali
Lerosa o faticose quali la Val Salata o le Crepe di
Son Forca, ancora laghi incantevoli quali i laghi
di Fosses e de Remeda Rosses dove spesso al
tramonto è possibile ammirare le nutrie lungo
le rive, cime facili e impegnative quali
Lavinores, Croda de R’Ancona, Croda Rossa
d’Ampezzo, Croda del Beco, numerosissimi
ricoveri e bivacchi.
Ognuno di questi luoghi è un ricordo, una
storia da raccontare, momenti sereni e felici
trascorsi con amici parenti figli, ricchi di
misteri e di fascino sfiorati dalla Grande
Guerra dove ancora sono visibili numerosi
baraccamenti, trinceramenti, abbeveratoi e
strade militari imponenti, tuttora percorribili e
di riferimento per gli itinerari turistici attuali.
Percorrere la strada che dai 1500 metri del
Pederù porta in pochi minuti ai 2000 metri del
Fodara Vedla è una esperienza esaltante e
terrorizzante al tempo stesso per l’arditezza
114

dell’opera realizzata dall’esercito Austro-
Ungarico, costituita da una serie infinita di
tornanti quasi sovrapposti gli uni agli altri e
con strapiombi impressionanti lungo tutto il
tragitto.
Visto il tempo alquanto incerto, in verità
carico di elettricità e di pioggia, nell’ampio
piazzale erano presenti solo due auto, una del
gestore del piccolo ristorante l’altra
probabilmente di qualche escursionista
volenteroso come noi e poi quasi tutti erano
andati a seguire o partecipare alla maratona
che si svolgeva intorno alla Tofana di Rozes.
Dopo aver scambiato due chiacchiere con il
gestore del ristorante insieme ad un buon
bicchiere di Merlot, partimmo con due zaini
carichi di materiale da lasciare al bivacco
situato oltre 800 metri più in alto e, con passo
deciso e costante, arrivammo in circa 20
minuti a Ru de Ra Cuodes attraversando il
bellissimo bosco di larici e abeti che dal fondo
valle saliva fin quasi ai 1800 metri.
Questo primo tratto quasi pianeggiante ci
consentì di prendere il giusto ritmo per
iniziare la salita vera e propria.
115

Nel frattempo una pioggerella fine e
qualche tuono in lontananza ci confermarono
che le previsioni meteo erano purtroppo
veritiere, ma da buoni montanari non era certo
un temporale a spaventaci e a farci tornare
indietro, anzi vento e pioggia li
consideravamo parte integrante dell’ambiente
che ci circondava e per questo non ci recava
alcun fastidio rendendo la passeggiata più
apprezzabile e godibile.
Salivamo lentamente nel bosco che via via si
diradava notando qualche bell’albero di
cirmolo, ma soprattutto larici e abeti rossi con
a destra un piccolo ruscello ricco d’acqua.
Continuando a salire lentamente a zigzag,
uscimmo dal bosco e ci trovammo in una
ampia radura cosparsa di larici e mughi.
Qui avremmo potuto facilmente scendere
per prati al Cason de Lerosa visto che pioggia
e vento stavano decisamente rinforzando, ma
il materiale che avevamo negli zaini, da
lasciare al bivacco, ci spinse a proseguire.
Salimmo tra fitti mughi che al passaggio
scaricavano ulteriore acqua sui nostri
indumenti già completamente bagnati, poi a
116

seguire un prato erboso attraversato da ripidi
tornantini fin sotto un costone roccioso.
Proseguimmo sotto il costone sino a sbucare
a Sote Ra Geralbes, luogo impreziosito da una
piccola madonnina incastonata nella roccia e
da qui, attraversato un ultimo ripido prato
erboso, infine giungemmo al bivacco.
Il bivacco si trovava in un ampio valloncello
erboso ondulato con un panorama molto bello
verso la valle e le splendide montagne
antistanti: la Croda de R'Ancona, Le Tofane,
Col Becchei, Croda del Valon Bianco,
Lavinores, e Furcia dai Fer.
Peccato che il tempo inclemente ci stesse
privando di un tale spettacolo!
Entrati nello spoglio bivacco posammo gli
zaini per terra, cercammo di asciugarci alla
meno peggio, mettemmo le coperte sui letti, le
pentole e le candele in un piccolo armadietto e
cercammo di sistemare quanto trovato in
disordine.
Talmente piccolo era il locale che non
riuscendoci a muovere in due, Christian uscì
mentre io proseguivo nelle pulizie.
117

Poi fu Christian ad entrare e io rimanere
fuori sotto la pioggia.
Mangiata una puccia con speck, uscimmo
dal bivacco decisi a ripartire per tornare in
fretta alla macchina.
Eravamo infreddoliti, il cielo era nero e
sembrava calata la sera, nonostante non
fossero ancora le due.
Intorno a noi le nuvole basse nascondevano
ogni cosa, il vento continuava a rinforzare e la
pioggia assai fitta ci sferzava le mani e la
faccia.
Sebbene gli indumenti fossero
impermeabili, un rivolo d’ acqua ci scendeva
lungo la schiena fino a bagnare le maglie e gli
indumenti intimi, le calze di lana negli
scarponi erano completamente fradice a tal
punto che sembrava di tenere i piedi
nell’acqua.
C’era tanta elettricità nell’aria che sentivamo
i peli delle braccia e delle gambe drizzarsi,
mentre dal cinturino metallico dell’orologio
iniziarono ad uscire piccole scintille luminose.
118

Il fulmine arrivò all’improvviso e produsse
un botto fortissimo, un lampo di luce
abbagliante.
Fui afferrato da una forza mostruosa,
sbattuto per terra con violenza, come fossi un
fuscello, a qualche metro di distanza con i
muscoli contratti in uno spasmo di dolore, gli
occhi accecati roteanti nelle orbite.
Nell’impatto con il terreno, sia pur erboso,
sbattei la testa con violenza e pian piano
cominciai a perdere conoscenza con il terrore
di non svegliarmi mai più.
Christian, scioccato dal rumore assordante,
al momento non si rese conto di quanto fosse
accaduto anche perché tutto avvenne in un
attimo.
Notò con orrore che la mia giacca a vento
fumava e sembrava come liquefatta lungo la
manica sinistra, che ero svenuto sul prato e un
acre odore di pelle bruciata si andava
diffondendo nell’aria tempestosa.
Si avvicinò, vide che respiravo con affanno,
tremavo tutto come preso da convulsioni, un
rivolo di saliva mi scendeva da un lato della
bocca semiaperta.
119

Prontamente chiamò il 118, sperando che un
elicottero fosse in grado di raggiungerci nel
più breve tempo possibile.
120

La scoperta
Ormai avevo dimenticato quasi tutto di
quella strana avventura che mi era capitata
alcuni mesi prima facendo la prima maratona
della Tofana di Rozes.
Ricordavo molto bene la frana che mi aveva
procurato la ferita alla testa e il ricovero al
Codivilla, ma sempre meno del tenente
Alberto Pauletti morto a Col dei Bos e di Lucia
Brambi.
Cio’ che mi era rimasto impresso, era che
mia moglie Lucilla fosse una discendente di
quella Lucia, ma il sogno-incubo che avevo
vissuto era rimasto fino ad ora un segreto
inconfessabile tra me e lei.
Mi immaginavo le facce degli amici e
conoscenti che davanti a me si mostravano
incuriositi e interessati del racconto, ma ridere
alle mie spalle dicendo che il colpo alla testa
mi aveva un po’ “rincoglionito”.
No, meglio tacere e condurre una vita
normale, finalmente avevo ritrovato la serenità
con mia moglie.
La passione per la montagna non era certo
scemata e con un po’ di testardaggine, ancora
121

una volta contro il parere di Lucilla, decisi
questa volta di allenarmi per partecipare alla
gara di fondo che si svolgeva tutti gli anni nel
mese di febbraio tra Dobbiaco e Cortina lungo
il tracciato della ex ferrovia.
Io amante dello sci sin da bambino, oramai
da alcuni anni mi dedicavo soprattutto al
fondo a causa dell’affollamento sempre
maggiore delle piste.
Con la scusa di eliminare le code e
aumentare la sicurezza in tutta la valle
avevano ammodernato gli impianti
aumentandone enormemente la portata senza
d’altro canto fare nuove piste, per cui se da un
lato non c’erano più code per le risalite, in
compenso le piste erano un delirio di sciatori e
snowbordisti.
Ma se il problema degli impianti avrebbe
potuto in parte essere risolto, ad esempio con
un regolamento che stabilisse la portata oraria
degli impianti in funzione della lunghezza
della pista, della loro larghezza e difficoltà,
nulla era più possibile fare per il trenino che
collegava Calalzo a Cortina e Dobbiaco.
122

Mi rivedo bambino a Zuel in una casa presa
in affitto, con mia nonna Elena e i miei
genitori, proprio di fronte alla ferrovia con
altri amichetti a fare gli indiani, con la tenda
regalatami per il mio compleanno piantata nel
prato antistante, e mettere pericolosamente
l’orecchio sulle rotaie per ascoltare l’arrivo del
treno proprio come avevo visto fare nei film
western.
Quanta incoscienza, ma che innocente
divertimento e quanta nostalgia per la
fanciullezza perduta!
Era una ferrovia ardita per l’epoca in cui fu
pensata e realizzata, infatti i primi progetti
risalivano alla fine dell’800 e nel 1905 venne
autorizzato il progetto di costruzione del
primo tronco tra Cortina d'Ampezzo e
Dobbiaco.
Solo allo scoppio della Grande Guerra, e per
esigenze belliche, fu realizzato il tratto tra
Calalzo e Cortina, addirittura sfruttando in
alcuni punti la sede stradale della attuale SS51
Alemagna, per consentire un rapido
approvvigionamento delle truppe dislocate sul
fronte Dolomitico.
123

Poi nel 1917 si iniziò a costruire una vera
linea ferroviaria tra Calalzo e Cortina, ma la
disfatta di Caporetto fermò per oltre due anni i
lavori che ripresero nel 1919 e l’inaugurazione
avvenne nel Giugno del 1921 con il transito dei
treni solo nei mesi estivi.
Alcuni anni dopo il treno iniziò a svolgere
un servizio regolare anche in inverno, ma il
problema principale era rimuovere la neve che
cadeva durante le abbondanti nevicate; fu
sempre rimossa manualmente utilizzando gli
spalatori!
Nel corso degli anni successivi furono fatte
numerose migliorie con varianti al tracciato
per preservarlo dalle slavine, furono
acquistate nuove locomotive, ma solamente
nel 1927 la linea fu elettrificata.
Anche i paesi attraversati dalla ferrovia
contribuirono economicamente allo sviluppo
della strada ferrata e all’acquisto di nuove
carrozze tanta era l’importanza del treno per
l’economia di quei paesi all’epoca poverissimi.
Nel periodo delle Olimpiadi invernali la
linea ebbe il suo momento di gloria portando
fino a 7000 passeggeri al giorno, da quel
124

momento iniziò un lento ma inesorabile
declino che portò alla sua soppressione a
causa del sempre maggiore utilizzo delle
automobili e dei pullman.
Per la mancanza di fondi, la manutenzione
divenne precaria e, proprio a causa di questa
gestione disastrosa, l’11 marzo 1960 si ebbe il
più grave incidente di tutta la storia della
ferrovia delle Dolomiti.
Un treno passeggeri, proveniente da
Cortina, ad Acquabona, a causa di un guasto
tecnico, uscì dai binari; una vettura, che si
trovava in curva, si rovesciò e fu trascinata per
alcuni metri dalla motrice rimasta sulle rotaie.
Il bilancio fu drammatico: 2 morti e 27 feriti.
Fu il colpo di grazia per la ferrovia che in tanti
anni non aveva mai subito incidenti.
Il collegamento tra Dobbiaco e Cortina fu
soppresso il 23 marzo 1962, mentre quello tra
Cortina e Calalzo il 17 maggio 1964. Erano le
ore 18,20.
Che delitto! Ripensai tra me e me. Con
milioni di euro sperperati per opere inutili e
incompiute e per interesse di qualche lobby
dei trasporti si rinunciò ad un opera utile e
125

meravigliosa incastonata tra le più belle
montagne del mondo.
Oggi tutti i paesi compresi nel vecchio
tracciato ferroviario soffrono del traffico
incessante e sono soffocati dallo smog.
Il trenino delle Dolomiti poteva, anzi
doveva, essere salvaguardato esattamente
come in Svizzera, dove i tracciati ferroviari
alpini sono un vanto nazionale e dove ogni
anno migliaia di turisti affollano le carrozze
per percorrere e ammirare quei luoghi
suggestivi.
Oramai da diversi anni il tracciato veniva
utilizzato in estate dalle biciclette e in inverno
per fare sci di fondo e soprattutto la gara cui
volevo partecipare.
Il tratto che attraversava Cortina veniva
chiamato un po’ tristemente “Viale del
Tramonto” perchè in agosto era sempre pieno
di persone anziane che, non potendo fare
passeggiate più impegnative, godevano
comunque del bel panorama e dell’aria sana
che era possibile respirare.
126

La gara si svolgeva immersi in una natura
incontaminata lungo un tracciato di 42
chilometri con panorami da sogno.
La partenza avveniva all’aeroporto di
Dobbiaco e da lì si proseguiva per la Val di
Landro sino all’omonimo lago con imponente
vista sul Cristallo completamente innevato.
Si proseguiva passando per Carbonin fino a
Cimabanche, punto più alto del percorso
avendo superato un dislivello di poco inferiore
ai 300 metri.
Con la Croda Rossa di fronte iniziava la
discesa dapprima molto dolce fino ad
Ospitale.
Da qui si iniziavano a vedere le maestose
Tofane, e il percorso, passando su una serie di
ponti sospesi e gallerie illuminate, si
immetteva nella valle d’Ampezzo immersa nel
freddo sole invernale.
Proseguendo si arrivava a Fiames da dove si
iniziava a sperare di raggiungere il traguardo,
ancora distante qualche chilometro, in poco
piu’ di un ora e mezza per gli atleti e anche 6
ore per i meno allenati.
127

Il mio obiettivo era quello di impiegare tra
le quattro e le cinque ore che, vista l’età e la
vita piuttosto sedentaria, sarebbe stato un
ottimo risultato.
Partimmo per la montagna il 18 dicembre
per trascorrere un lungo periodo fino alla
Epifania e quindi tornare qualche giorno
prima della gara per gli ultimi allenamenti.
Il clima natalizio che si respirava nel paese
era completamente diverso da quello estivo.
Il freddo pungente e secco consentiva di
rimanere all’aperto solo per pochi minuti
durante lo struscio serale, la neve scricchiolava
sotto la suola delle scarpe e in certi momenti il
freddo era talmente penetrante che,
nonostante un abbigliamento pesante, dopo
pochi minuti pareva di essere nudi.
Il corso era illuminato a festa così come tutti
i negozi, un vociare soffuso ed allegro
riempiva la bella strada con l’imponente
campanile sempre visibile lungo il percorso.
I ragazzi, ancora in tuta da sci, ridevano e
scherzavano nei numerosi punti di ritrovo con
davanti un buon bicchiere di vino e
abbondanti panini, le signore erano
128

impellicciate e ingioiellate che parevano delle
madonne, alcuni anziani signori si portavano
al rimorchio giovani ragazze dell’est, e poi
tanti stranieri che formavano un variegato
popolo di ricchi e nuovi ricchi spesso vestiti in
modo ridicolo e cafone.
Ogni tanto l’incontro di un vip, una star o
presunti tali, in una moltitudine di persone
gaudenti e festanti, dava un senso di allegria e
felicità come se ci si trovasse in un Luna Park
consapevoli della fortuna di potersi trovare in
un posto tanto bello, quasi fosse il paese del
Bengodi; si percepiva nell’aria un profumo di
legna bruciata che invogliava a respirare
profondamente per assaporare maggiormente
il piacevole aroma.
I giorni successivi all’arrivo andai a trovare
gli amici di sempre per scambiarci gli auguri
di Buone Feste e raccontare impressioni e
notizie sui comuni interessi cioè le
passeggiate, le sciate e ancora qualche notizia
sulla maratona estiva e sulle possibilità che
l’iniziativa, dato il successo incredibile, fosse
ripetuta anche l’anno successivo.
129

Un amico in particolare ricercai e andai a
trovare, Alvise Bortolon perchè condivise con
me la stanza del Codivilla nel periodo in cui
mi trovai in coma e in convalescenza.
Ci capitò qualcosa di incredibile
praticamente nello stesso istante, mentre io
svenivo colpito dai sassi che erano stati
scagliati della frana, lui sveniva perché,
sfiorato da un fulmine che lo aveva gettato a
terra, sbatté la testa con violenza.
Due eventi, successi, a quel che si era potuto
capire dalle testimonianze, praticamente a
distanza di pochissimi minuti se non
addirittura in contemporanea.
Lui riportò anche qualche lieve ustione al
braccio sinistro ma fortunatamente gli abiti
completamente bagnati lo protessero da più
gravi complicazioni.
Passammo un breve periodo di
convalescenza assieme e il suo carattere aperto
e gioviale contribuì a conoscerci meglio ed in
breve, constatati i comuni interessi per la
montagna, diventammo amici e una volta
guariti ci invitò nel suo splendido ristorante a
130

gustare quanto di meglio era in grado di
offrirci.
Lo andai a trovare nella sua bella casa a
Cadin di Sopra austera e funzionale, priva di
fronzoli e con una boiserie in cirmolo di fine
‘800 che avrebbe meritato di essere esposta in
un museo per la bellezza e raffinatezza degli
intarsi.
Entrato in casa ci abbracciammo come
vecchi amici.
dissi,
rispose disse
con un largo sorriso sulle labbra.
Mi offrì un buon bicchiere di prosecco e tra
un sorriso e l’altro si fece serio in volto e mi
disse

altrimenti sarei molto grato se mi spiegassi chi
è questa Lucia.>>
Mi sentii avvampare la faccia e non poco
imbarazzato risposi
rispose Alvise sempre più
serio .
Un silenzio glaciale scese nella stanza,
impallidii mentre un sudore freddo mi
scendeva copiosamente dalle ascelle
nonostante il calore della stanza.
rispose Alvise sempre più serio ed
imbarazzato

Pauletti, è come avere una doppia personalità,
di giorno sono Alvise e spesso mentre dormo
sogno Alberto.>>
Lo stupore mi aveva annientato, mi sentivo
completamente privo di forze e la mente,
completamente vuota, non era in grado di
proferire parola.
Rimanemmo così per diversi minuti
evitando di guardarci negli occhi,
sorseggiando il prosecco per bagnare la gola
improvvisamente seccatasi.
A quel punto mi decisi
Ottenuta la sua promessa raccontai di come
durante il coma mi fossi trovato proiettato nel
passato nel corpo del Tenente Pauletti e
l’intensa storia d’amore vissuta con
l’infermiera Lucia, volontaria del corpo delle
Crocerossine.
Gli raccontai pure come Lucia fosse la
nonna di mia moglie.
133

Alvise rimase profondamente colpito dal
racconto e mi disse
si
interruppe, mi offri e si versò un altro
134

icchiere di prosecco e proseguì
Rimasi interdetto perchè i mesi che avevo
vissuto nei panni di Pauletti in realtà erano
stati solo pochi minuti del mio presente
mentre ero svenuto ai piedi della montagna,
non sapevo nulla del suo passato se non quella
incredibile storia d’amore con Lucia.
Quanto mi stava raccontando Alvise era
qualcosa di diverso, infatti lui, nel presente, si
ritrovava in continuazione nei panni di un
soldato morto nel 1916.
135

Che collegamento c’era con il mio sogno,
perchè quella povera anima aveva tormentato
prima me ed ora Alvise?
In apparenza un solo fatto ci accomunava,
eravamo entrambi svenuti lo stesso giorno e
nello stesso istante sia pure a qualche
chilometro di distanza.
proseguì Alvise
sempre più turbato
.
dissi

il periodo che ha combattuto a Monte Piana.
Trasferito lì nel 1915 allo scoppio della guerra,
ha diretto uno dei reparti che hanno
contribuito alla fortificazione dell’altopiano
sommitale della montagna e alla costruzione
delle numerose trincee lì presenti fino a
realizzare un vero e proprio labirinto>>.
.
Rimase in silenzio quasi in lacrime con lo
sguardo basso e perso nel vuoto.
Alla fine per spezzare l’atmosfera pesante
che si era creata dissi ad Alvise che mi stavo
allenando per la gara di fondo Dobbiaco -
Cortina e con grande meraviglia mi disse che
anche lui, nonostante la piena stagione
turistica invernale, intendeva partecipare alla
gara per rompere lo stress a cui ultimamente
era sottoposto.
137

Decidemmo quindi di effettuare il tragitto
assieme e comunque di tenerci in contatto se
fosse emerso qualcosa di nuovo su Pauletti.
La notte rimasi a lungo sveglio ripensando a
quanto mi aveva svelato Alvise e decisi per il
momento di non turbare Lucilla evitando di
raccontarle la storia.
Nei giorni successivi in pieno clima festivo,
mentre con Lucilla passavamo piacevoli serate
a cena in compagnia degli amici, trascorrevo le
mattine ad allenarmi o lungo il bel circuito di
Fiames o lungo la ex ferrovia o in Val Fiscalina
dove l’imponente frana dell’ottobre 2007
aveva per sempre modificato la morfologia di
Cima Una.
Quella valle sembrava incantata e fuori dal
mondo, circondata da montagne che
sembravano cosparse di farina come
incastonate in un presepe.
Il paesaggio era quieto e tranquillo, il solo
rumore percepibile era quello del proprio
respiro e degli sci che silenziosamente
scivolavano sulla neve cristallina.
Il tracciato, ora immerso tra mughi ora in
spazi aperti, proseguiva in leggerissima salita
138

fino al Rifugio di Fondo Valle, luogo
incantevole che meritava una pausa per
godere dell’ambiente circostante candido e
luccicante.
I bassi raggi del sole invernale fermati dalle
creste delle montagne che si stagliavano in un
cielo azzurro intenso, colpivano le pendici
delle montagne opposte creando incredibili
giochi di luce mutevoli con il passare dei
minuti quasi ci fosse un direttore d’orchestra a
dirigerne il coro.
Proseguii poi ancora per un ampio tratto fin
quasi a toccare le montagne che chiudono la
valle con il Rifugio Zsigmondy-Comici ben
incastonato nella roccia 700 metri più in alto.
È uno dei percorsi più godibili delle
Dolomiti, peccato un po’ distante da Cortina,
ma il piacere che si prova in quei luoghi
sopperisce ampiamente la noia del tempo
passato in macchina per poterli raggiungere.
Il 28 pomeriggio iniziò una violenta nevicata
che in breve mise in tilt il traffico, proseguì per
tutta la notte e la mattina successiva,
formando una coltre di oltre mezzo metro di
candida neve.
139

Erano ormai le 11.00 di mattina e stavo
godendo di tale bellezza seduto al tavolo di
fronte alla finestra quando Alvise mi telefonò.
Stavo per fare la sciata più bella della mia
vita. Arrivammo in cima al Pomedes verso
mezzogiorno e mezza praticamente da soli con
il sole che faceva capolino dietro le ultime
nuvole in rapido dissolvimento. Che
spettacolo, che meraviglia!
Ci buttammo giù per il canalone da soli
senza ancora alcuna traccia, la neve morbida,
alta più di mezzo metro, arrivava fin sopra le
ginocchia e schizzava da tutte le parti, mentre
sotto, un manto ben compatto, consentiva di
sciare come se si stesse su di un tavolo da
biliardo.
Arrivammo giù tutti pieni della neve che
noi stessi avevamo sollevato, ma l’euforia era
al massimo e continuammo così per oltre due
140

ore con le piste, sempre semivuote, in una
condizione unica ed irripetibile.
Proseguii le vacanze tranquillamente tra
allenamenti e belle serate trascorse con Lucilla
e i nostri amici.
Un pomeriggio raccontai a Lucilla ciò che
mi aveva detto Alvise e anche lei rimase
stupita per questo incredibile puzzle di cui
conoscevamo parecchi frammenti, ma non
riuscivamo a trovare e collocare il tassello
mancante nella giusta posizione.
In verità la soluzione era più vicina di
quanto potessimo sperare ed arrivò
inaspettata di lì a poco.
141

La gara di fondo
La mattina della gara mi svegliai presto per
effettuare un buon preriscaldamento, passai a
prendere Alvise e quindi partimmo per
Dobbiaco dove arrivammo in poco meno di un
ora a causa del gran traffico presente sulla
strada.
Ci presentammo alla partenza solo con
qualche minuto di anticipo, infatti avevamo
preferito trascorrere l’attesa in un bar a causa
del freddo pungente, nonostante la splendida
giornata di sole.
Io avevo il pettorale 1248 ed Alvise 1249 e
complessivamente i partecipanti erano quasi
mille e ottocento.
La partenza era divisa in tre sezioni; nella
prima c’erano gli atleti più forti, nella seconda
giovani sino a 35 anni, nella terza, la più
numerosa, noi insieme a tanti altri
appassionati tra cui alcuni signori di ottanta
anni.
Al via partimmo dalla pista dell’aeroporto
con andatura decisa in tecnica classica per
passare quindi dentro lo Stadio del Fondo
costruito a Dobbiaco e teatro di tante gare di
143

Coppa del Mondo, dove una moltitudine di
persone sulle gradinate ci incitava con urla ed
applausi.
Sapevo che c’era Lucilla insieme a tanti altri
amici, ma nella ressa e confusione generale,
non individuai nessuno dei conoscenti anche
perché ero concentrato sulla gara.
Se questo primo tratto era tutto un vociare,
l’equilibrio era incerto perchè gli altri
concorrenti spingevano e strattonavano,
arrivati all’inizio della valle di Landro, lì dove
iniziava la salita, una prima selezione ci
consentì di distanziarci e, entrati nel bosco, il
silenzio prese il sopravvento su tutto, rotto
solo dallo scivolare degli sci e dal respiro che
pian piano diventava sempre più affannoso
ma regolare.
Alvise mi precedeva di pochi metri ed io, se
pur affaticato perchè il tratto era in costante
leggera salita, cercavo di seguirlo e nello stesso
tempo ammiravo gli alberi intorno a me
carichi di neve.
Ogni tanto un blocco di neve, staccandosi
dai rami, cadeva delicatamente a terra con un
144

umore sordo e piacevole, attutito dalla neve
stessa presente in abbondanza sul terreno.
Arrivati al Lago di Landro finalmente
potemmo godere di un tratto pianeggiante sul
lago ghiacciato illuminato dal sole con sullo
sfondo la sagoma dell’imponente Cristallo e
sul lato sinistro le ripide pareti di Monte
Piana.
Tranquilli proseguimmo fin oltre Carbonin
quando Alvise si fermò di colpo come stordito,
perse quasi l’equilibrio, ed io pensai che la
stanchezza ed il freddo avessero provocato un
eccesso di affaticamento.
Mi sbagliavo, perché guardandolo in faccia,
vidi che aveva gli occhi fissi nel vuoto,
muoveva le labbra come se parlasse con
qualcuno ed infine quasi urlò
Il tutto durò non più di mezzo minuto e lì
per lì non capii le sue parole ma ben preso lo
invitai a spiegarsi.
Lui si appoggiò a me e mi disse

prendere un buon bicchiere di vino caldo e
sederci per qualche minuto, giusto il tempo di
raccontarti cosa ho scoperto.>>
Non osai contraddirlo e così ripartimmo
lentamente l’uno affianco all’altro verso la
meta.
Cimabanche, nonostante la quota non
elevatissima, solo 1530 metri, è una delle
località più fredde delle Dolomiti perchè
d’inverno rimane sempre in ombra, ma
fortunatamente quel giorno di metà febbraio
qualche raggio di sole riusciva a illuminare il
bar ristorante presente lungo il percorso
riscaldando l’aria quel tanto da consentire di
sederci ad un tavolo all’aperto.
quasi lo
implorai.

dentro quella trincea scavata nella roccia
calcarea. Ho capito esattamente il punto in cui
il tutto è accaduto a poche decine di metri dal
Sasso Misterioso.>>
disse tutto di un fiato
con la faccia pallida e tesa.
Finalmente tutti i tasselli cominciavano a
collocarsi al loro posto e una visione chiara e
incredibile si prospettava dinanzi a noi.
Il mio stato di coma sotto la Tofana era
terminato alcuni attimi prima che Alberto mi
rivelasse le sue volontà ma pochi istanti dopo
cadeva in coma Alvise che percepiva la sua
storia in un modo diverso dal mio.
147

Evidentemente il fulmine aveva modificato
il suo modo di percepire il tempo lasciandogli
socchiusa una finestra sul passato che
sporadicamente si apriva con ricordi alcune
volte frammentari e confusi, altre volte limpidi
e chiari.
Anche perchè il Tenente Pauletti si fosse
rivolto a me e quindi ad Alvise ora era chiaro.
Mia moglie Lucilla era una discendente
diretta di Lucia ed Alvise, esperto conoscitore
dei luoghi, mi avrebbe aiutato a ritrovare i
resti di Alberto.
Eccitati per la scoperta brindammo con un
secondo bicchiere di vino e iniziammo la
discesa verso Cortina senza sentire più né la
fatica né gli incitamenti del pubblico che da
Fiames si era ammassato lungo il percorso
sino all’arrivo nel centro di Cortina.
Arrivammo al traguardo in poco meno di 5
ore, e considerando la lunga fermata a
Cimabanche, era sicuramente un tempo molto
buono.
Sapevamo di non poter far nulla nel periodo
invernale per quanto riguardava le ricerche,
148

ma ci ripromettemmo di sentirci a primavera
per decidere come procedere.
149

Il ritrovamento
Rimasi in contatto telefonico con Alvise,
ansioso di iniziare le ricerche e finalmente mi
chiamò dicendomi
Tornai a Cortina la prima settimana di
giugno e subito iniziammo i preparativi per
quella nostra piccola spedizione segreta.
Il giorno stabilito decidemmo di arrivare in
Val Travenanzes passando per la galleria del
Castelletto appena riaperta dal gelo invernale
e da lì iniziare le ricerche.
Il percorso in realtà era costituito da una
breve ferrata che, dopo due scale metalliche
verticali, si percorreva all’interno della galleria
di guerra costruita per arrivare al punto in cui
creare la camera di scoppio, cioè la stanza
nella quale collocare la dinamite per far saltare
la fortezza così strenuamente difesa dagli
austriaci.
Percorrerla, obbligatoriamente con una
torcia elettrica, era sempre elettrizzante sia
pensando al lavoro immane effettuato dai
soldati sia per le finestre che improvvisamente
151

si aprivano sulla parete verticale consentendo
un panorama unico su Col di Bois, Lagazuoi,
Cinque Torri ed in lontananza Marmolada e
Civetta.
Usciti dalla galleria, che si snodava secondo
un percorso elicoidale e in breve consentiva di
salire per oltre 200 metri, anziché proseguire
per la via ferrata Lipella, scendemmo lungo un
facile ghiaione dominato dalla Tofana di
Rozes.
“Ripensai all’ultima volta che avevo fatto la
Lipella pochi anni prima, dopo oltre venti anni
di assenza. Quante volte avevo fatto quella
ferrata da ragazzo! Sicuramente molte, ma
dopo così tanto tempo fu come se fosse stata la
prima volta. Andai con due amici e ho ancora
negli occhi e nel cuore il ricordo della
bellissima arrampicata effettuata in una
radiosa giornata di agosto. Ricordo la
stanchezza arrivato alle Tre Dita, fradicio di
sudore, ma felice per l’impresa compiuta.
Dopo un cambio di maglietta e un breve
spuntino proseguimmo per la cima della
Tofana, seguendo la via normale. Il piacere ed
il godimento per quella passeggiate fu
152

indescrivibile e spero ancora in futuro di poter
ripercorrere quel sentiero meraviglioso”.
Al termine del ghiaione ci affacciammo sulla
valle sottostante scorgendo la traccia della
lunghissima trincea vista da Alvise nel flashback,
trincea che oramai dal basso appariva
come un semplice avvallamento a causa del
tempo trascorso.
A sinistra poco più in alto era ben visibile il
Sasso Misterioso, così chiamato dagli alpini
per la sua forma squadrata e di enormi
dimensioni rispetto all’ambiente circostante.
Esso era un punto di riferimento ben visibile
e distinguibile immerso nel nulla di una
distesa di erba e sassi.
Proprio da lì partiva la traccia della trincea e
da lì iniziò la nostra ricerca.
disse Alvise

ed il rame alle fabbriche del Cadore che
pagavano pochi spiccioli per queste merci.>>

ospitare i poveri resti di tanti soldati senza
nome.>>
Iniziammo l’ispezione a monte della trincea
secondo i ricordi di Alvise e percorremmo
faticosamente un lungo tratto tra roccette e
sassi instabili.
Infatti in montagna, se è facile camminare
lungo i sentieri ben segnati, è altrettanto
difficile, e spesso pericoloso, spostarsi al di
fuori degli stessi per il terreno accidentato a
cui si è inevitabilmente esposti.
155

Nella prima ora non trovammo nulla di
interessante se non un lungo tratto di filo
spinato completamente arrugginito, solo in
parte visibile perchè oramai era un tutt’uno
con il terreno sottostante.
Alvise che aveva un occhio molto più
allenato del mio trovò un paio di bossoli di
fucile, un proiettile e un piccolo frammento di
granata.
mi disse, indicandomi la cima
della Tofana, >
e mi indicò le montagne di fronte,
dove si stagliavano i maestosi profili di Monte
Castello e Monte Cavallo

consentire all’avversario di individuare la
postazione e quindi, con il binocolo, attendere
il momento propizio per sparare il colpo
mortale.>>
Continuammo la ricerca mentre Alvise mi
raccontava moltissimi aneddoti interessanti
riguardanti la Grande Guerra e il posto in cui
ci trovavamo, ma il tempo passava e le nostre
ricerche non approdarono ad alcun risultato.
Continuammo così alla cieca per tutto il
giorno e alla fine stanchi, acciaccati e un po’
demoralizzati decidemmo di rientrare in paese
per riprovare il giorno dopo.
Al mattino mi svegliai particolarmente
dolorante a causa del percorso che avevamo
seguito il giorno prima, in particolare alle
ginocchia, per cui Alvise mi consigliò di
utilizzare le racchette per alleggerire il peso
sulle gambe e trovare una posizione di
maggiore equilibrio sul terreno accidentato
che dovevamo esaminare.
Non amavo molto l’uso delle racchette,
tanto care agli escursionisti tedeschi e oramai
diffuse anche tra i turisti italiani, forse proprio
come il contadino che desiderava dormire al
157

freddo perchè abituato così dall’infanzia,
comunque potei verificare, dopo pochi minuti
di camminata, che il beneficio era reale e il
dolore agli arti inferiori contenuto.
Quella seconda giornata partimmo dal
Magistrato delle Acque seguendo la vecchia
strada militare che portava a Forcella Bois,
praticamente lo stesso percorso fatto durante
la maratona, solo che questa volta la giornata
era incantevole e il bosco, risvegliatosi dal
torpore invernale, profumava di mille odori e
brillava di una moltitudine di colori.
La terra umida, scaldata dal sole, restituiva
l’acqua accumulata nei mesi invernali tramite
un leggero vapore acqueo che saliva
pigramente dalle radici dei mughi.
In alcuni tratti il velo di vapore nascondeva
il terreno e pareva di camminare su di una
nuvola, sospesi nel vuoto.
Molto tranquillamente risalimmo la vecchia
strada militare ed in breve raggiungemmo la
forcella e da lì il Sasso Misterioso.
Alvise, ben sicuro di quanto aveva visto nel
flash-back, mi disse che dovevamo
158

concentrarci sui primi cento metri di trincea
perchè lì si doveva trovare il corpo di Pauletti.
Iniziammo la ricerca speranzosi e certi che le
nostre esperienze erano reali e non frutto di
fantasia, ma dopo un paio di ore un senso di
frustrazione e scoramento cominciò a
prendere il sopravvento.
Nel frattempo il dolore alle ginocchia era
tornato più violento che mai e oramai mi
appoggiavo pesantemente alle racchette per
alleviare il dolore lancinante.
Avvenne il miracolo!
Una delle due racchette così pesantemente
appoggiate sul terreno roccioso, in apparenza
solido, sprofondò per più di mezzo metro ed
io lanciai un grido di dolore e paura avendo
perso l’equilibrio.
Non mi resi subito conto che quello che mi
era accaduto era la chiave di volta della nostra
ricerca, il tassello mancante del nostro puzzle.
Alvise, lontano da me qualche decina di
metri, accorse immediatamente sentendomi
gridare e vedendomi piegato, quasi
accovacciato per terra.
159

La racchetta era incurvata e saldamente
conficcata nel terreno, sembrava impossibile
estrarla, anche perchè la rondella, in
prossimità della punta, era di ostacolo per
l’estrazione.
Con qualche robusto strattone infine Alvise
riuscì a tirar via il bastone e un piccolo sasso
caduto nel foro produsse il classico rumore di
un oggetto che cade nell’acqua.
Dunque sotto di noi si trovava una cavità
nascosta dalle macerie sovrastanti, che dopo
novanta anni si erano compattate rendendo il
terreno uniforme, in apparenza solido, simile a
quanto si trovava tutto attorno.
Con l’aiuto di una piccola pala e di una
piccozza, che ci eravamo portati negli zaini,
iniziammo a scavare delicatamente.
Circa 20 centimetri sotto il terreno ed i sassi,
sentimmo il rumore di tavole di legno con
sotto il vuoto e procedemmo con la massima
cura a rimuoverle una per una con la paura
che tutto potesse franare all’interno.
Quando il buco fu sufficientemente largo lo
illuminammo con una potente torcia e
vedemmo il fondo a circa due metri e un
160

lungo cunicolo proseguire nell’oscurità più
totale.
Avevamo scoperto una trincea protetta
superiormente da robuste travi per evitare agli
occupanti di essere esposti agli spari dei
cecchini, ne vedevamo un breve tratto ma non
avevamo idea della sua lunghezza.
Con cura allargammo ulteriormente il foro a
sufficienza per poter entrare nel cunicolo
senza correre troppi rischi.
Alvise entrò per primo e io lo seguii quasi
subito, tale era l’emozione e il desiderio di
scoprire quanto si nascondesse in quel luogo
abbandonato da quasi un secolo.
L’aria era fredda e umida ma il cunicolo si
rivelava sufficientemente largo per passare
comodamente uno alla volta mentre il terreno
sotto ai nostri piedi era viscido e con
numerose pozze d’acqua stagnante.
I muretti a secco che costituivano le pareti
della trincea sembravano ben conservati
mentre le travi in legno di sostegno al soffitto
ed il soffitto stesso parevano in pessime
condizioni.
161

Procedemmo per diversi metri evitando
accuratamente di toccare quei legni marci
consapevoli che anche un piccolo
smottamento ci avrebbe portato a morte
sicura.
Arrivammo a una biforcazione e
verificammo che il percorso alla nostra sinistra
era totalmente franato mentre sulla destra il
cunicolo proseguiva con una brusca curva a
gomito.
Proseguimmo quindi fino alla curva e girato
l’angolo, circa tre metri avanti a noi, il cunicolo
risultava completamente franato.
Eravamo un po’ delusi di non aver trovato
nessuna traccia umana per cui decidemmo di
tornare indietro fino al punto in cui eravamo
entrati.
Poiché il cunicolo proseguiva anche
nell’altra direzione verso l’alto, decidemmo di
fare una rapida ispezione di quel tratto e
finalmente trovammo o pensammo di trovare
ciò che cercavamo.
Dietro una ampia curva, per terra era ben
visibile uno scheletro con ancora qualche
brandello di indumenti, le scarpe accartocciate
162

ma ben conservate, un fucile, una piccola
scatola arrugginita e soprattutto una
medaglietta anch’essa arrugginita che
sapevamo essere quella che ciascun militare
portava al collo con il numero di matricola per
l’identificazione.
Preso il cranio del caduto, potemmo
costatare il foro di un proiettile sulla fronte
proprio sopra gli occhi.
Riposammo con cura il cranio emozionati
per il ritrovamento, raccogliemmo il fucile, la
piccola scatola arrugginita e la medaglietta ed
infine uscimmo all’aperto a respirare a pieni
polmoni l’aria limpida e fresca.
Rimanemmo lì in silenzio rigirandoci tra le
mani quanto trovato, tristi ma nello stesso
tempo felici di essere riusciti in un impresa in
apparenza impossibile.
.
163

.
Ormai era pomeriggio inoltrato, tornammo
a Cortina giusto in tempo per andare dai
Carabinieri e raccontare del nostro
ritrovamento.
Con la promessa di restituirle il giorno
dopo, ci permisero di tenere il piccolo
contenitore e la medaglietta, ma non il fucile e
ci assicurarono che entro una settimana
avrebbero provveduto a mandare una squadra
di soccorso per il recupero della salma.
Alvise si offrì volontario per accompagnare
la squadra di recupero nel punto esatto e la
sua offerta fu accettata e gradita in quanto
persona competente e conosciuta in tutta
Cortina.
Tornati a casa, pur stanchi e doloranti
eravamo desiderosi di avere la conferma di chi
fossero quei poveri resti.
164

Aprire la piccola scatola non fu facile perchè
il coperchio oramai formava un tutt’uno con il
resto del contenitore.
Alvise pensò di usare una piccolissima
quantità di liquido sbloccante che, insieme a
tanta pazienza, ci consentì al fine di aprirla.
Era piena di oggetti quasi irriconoscibili ma
con molta attenzione e delle piccole pinzette
riuscimmo a separare quelle che sembravano
delle lettere, un paio di sigarette, tre foto.
Subito fui attratto da queste ultime, ma
ormai erano molto sbiadite e quasi del tutto
cancellate dalle muffe; su di una si
intravedeva il viso austero di un uomo con i
baffi e una scritta sbiadita in basso che
sembrava essere “papà”, su di un’altra i
lineamenti gentili, ma non più giovanili di una
donna con una scritta anch’essa appena
leggibile “mia adorata madre”, sulla terza il
volto sorridente appena riconoscibile a me
familiare di Lucia.
Lui la prese delicatamente in mano e rimase
ad ammirare la bellezza della giovane donna
165

mentre io preso da una profonda tristezza
iniziavo un pianto dirotto, uno sfogo
necessario dopo la tensione accumulata negli
ultimi giorni.
In quei momenti mi pareva che Lucia fosse
stata la mia donna e che quanto avvenuto a
San Vito nel 1916 fosse realmente accaduto a
me e non a Pauletti.
Provammo anche a leggere le due lettere
presenti nella piccola scatola ma riuscimmo a
leggere solo “Mia adoratissima Lucia….” e
“….qualunque cosa accada staremo assieme
per l’eternità’ ….”, tanto la carta oramai era
rovinata ed ammuffita.
Passammo ad analizzare la medaglietta che
presentava evidenti segni di corrosione ma
con una attenta e delicata pulizia riuscimmo a
leggere RE957.. 27.
Io avevo il numero di matricola del tenete
Pauletti, trovato nelle mie ricerche su internet
e finalmente avemmo la prova che tanto
cercavamo, la matricola era Regio Esercito
9570927.
Scattammo entrambi in piedi abbracciandoci
e urlando di felicità.
166

Avevamo la prova che potevamo raccontare
al mondo senza svelare i nostri segreti, e
infatti così fu.
La settimana successiva la squadra di
recupero guidata da Alvise individuò
immediatamente il luogo del ritrovamento e i
poveri resti furono messi in una piccola teca
nell’attesa della sepoltura.
Io chiesi, alla luce delle prove mostrate, di
voler seppellire Pauletti nel cimitero di Carate
Brianza dove si trovava la cappella della
famiglia Brambi e dove riposava Lucia.
Fu una cerimonia semplice ma toccante
insieme a Lucilla e Alvise che come me
avevano voluto onorare uno sfortunato
soldato mandato allo sbaraglio in una guerra
stupida ed insensata combattuta in luoghi che
il buon senso avrebbe dovuto consigliare di
svolgere, se davvero necessaria per l’onore e
gli interessi della patria, in altri luoghi più
ospitali.
La promessa di Alberto finalmente si era
avverata: “vivremo assieme per l’eternità” e
forse quell’ultimo pensiero prima di morire
così forte e voluto aveva trapassato il tempo
167

fino a trasferirsi nella mia anima e nel corpo di
Alvise.
Alvise pian piano non soffrì più di quella
strana forma di epilessia che lo aveva colpito
dopo l’incidente, e i medici dissero che le cure
cui si era sottoposto, ed il tempo, avevano
guarito gli effetti del fulmine; io invece dopo
questa ulteriore esperienza volutamente
cercavo di non dimenticare e rimasi in contatto
con lui per cercare nuovi particolari della vita
di Alberto e Lucia.
Quando potevo mi ritrovavo con Alvise,
venne anche a trovarmi in città, ed insieme a
Lucilla ci piaceva ripercorrere l’incredibile
storia che avevamo vissuto arricchendola
spesso di piccoli dettagli, ora piangendo, ora
ridendo, ma con l’animo sereno di chi era stato
sfiorato da un evento misterioso che ci aveva
consentito di vivere un’esperienza unica ed
irripetibile.
“Lucilla, Alvise ed io ora siamo complici,
complici di un segreto fantastico e indicibile che ci
differenzia da tutti voi e che mai sveleremo al
mondo perchè la società non è in grado di capire e
accettare le nostre diversità.
168

Così è da sempre, chi è diverso è costretto a
restare nell’ombra, ma state molto attenti, potrebbe
capitare anche a voi e vi accorgerete che mantenere
un segreto è molto, molto difficile!
Un’increspatura, una piccolissima increspatura e
……”
169

Ognuno di noi ha qualche piccolo
segreto che non svelerà mai a nessuno!
171

In memoria di quei giovani e valorosi soldati
morti sulle Dolomiti che, sopportando
sofferenze e tormenti indicibili, sperarono fino
alla fine in un futuro migliore.
Un monito a tutti gli appassionati di alpinismo
che, troppo spesso imprudentemente, amando
la montagna, sono morti e continuano a
morire ignorando i pericoli nascosti dalla
natura con tanta maestria e cinismo, lì dove
sembra possibile toccare il cielo con un dito.
173

Ringraziamenti e dediche
Dedico questo libro a mia moglie Donatella
perché mi ha stimolato a portare avanti questa
strana idea di improvvisarmi scrittore, ai miei
tre figli Maria Elena, Alessandro e Maria Luisa
perché rimangano sempre uniti nel bene e nel
male, a mia madre perché ha sempre creduto
in me e mi ha aiutato nei momenti difficili
della vita, a mio padre che è stato la luce che
ha illuminato la mia giovinezza.
Ringrazio Barbara Sulis che mi ha aiutato a
migliorare alcuni capitoli della prima parte del
libro.
Ringrazio anche la inconsapevole
professoressa di mia figlia per la divertente
storia delle Tòfane.
Ringrazio il destino per avermi dato
l’opportunità di passare, almeno 60 giorni
all’anno, nelle Dolomiti, uno dei luoghi più
belli del mondo, a partire dal 1950 ...e non nel
1915-1918!
Un doloroso addio a Sandro, compagno di
tante belle passeggiate e sciate, scomparso
prematuramente alle Cinque Torri in una
radiosa giornata di sole il 10 febbraio 2008.
175

Come me amava la montagna e spesso diceva
che in futuro si sarebbe trasferito volentieri tra
queste montagne per trascorrere una vecchiaia
serena insieme a sua moglie Nicoletta. Ora
riposa in pace nel piccolo e austero cimitero di
Cortina. In me rimarrà sempre vivo il ricordo
di una persona piena di vita, generosa e
gioviale.
176