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maggio 2008 - poliscritture

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Prezzo: 4 euro<br />

Rivista di ricerca<br />

e cultura critica<br />

Numero<br />

4<br />

Maggio <strong>2008</strong>


POLISCRITTURE<br />

Rivista di ricerca e cultura critica<br />

Redazione: Ennio Abate, Marcella Corsi, Luca Ferrieri, Laura Galli, Ornella Garbin, Marcello Guerra,<br />

Alessandra Roman, Donato Salzarulo, Antonio Tagliaferri, Pier Paride Vidari (I profili dei redattori si<br />

leggono su www.<strong>poliscritture</strong>.it alla voce: Chi siamo ->Redazione)<br />

Copertina: Ornella Garbin<br />

Stampa: Cartotecnica Cremasca Sira – Divisioni Arti Grafiche Cremasche Via R. Sanzio, 7 – Crema ( CR)<br />

Abbonamenti: Un numero costa 4 euro. Abbonamento a tre numeri 10 euro. Gli abbonamenti decorrono<br />

dal gennaio di ciascun anno. Gli abbonamenti non disdetti entro il 31 dicembre si intendono rinnovati per<br />

l’anno successivo.<br />

Collaborazioni: I testi proposti vanno spediti a <strong>poliscritture</strong>@gmail.com o a ennioabate@alice.it;<br />

e, se per posta normale, a Ennio Abate (Poliscritture), via Pirandello, 6 – 20093 Cologno Monzese (Milano)<br />

su floppy disk e su carta. Il materiale non pubblicato non sarà restituito.<br />

Impaginazione grafica: Ennio Abate, Luca Ferrieri, Ornella Garbin. Le immagini del n. 4 sono di: Giuseppe<br />

De Vincenti (pag.70 e 86), Ennio Abate (pag. 72 e 103), Ornella Garbin (tutte le altre), Pier Paride Vidari<br />

(pag. 7, 13, 14, 25 e 89). L’inserto fotografico ospita alcuni scatti di Carla Cerati.<br />

«Poliscritture» esce come supplemento a «L’ospite ingrato», semestrale del Centro Studi Franco Fortini,<br />

aut. Tribunale di Siena N.703 del 22.12. 2000.<br />

I testi pubblicati sulla rivista e altri aggiornamenti sono reperibili sul sito www.<strong>poliscritture</strong>.it<br />

Norme grafiche per i collaboratori<br />

La correzione delle bozze è a carico del collaboratore, se fornito di posta elettronica. Chi non lo fosse, deve comunque adeguarsi<br />

ai seguenti criteri redazionali:<br />

1) Note. Ridotte al minimo, vanno a piè di pagina.<br />

2) Citazioni. Se lunghe (oltre tre righe) vanno fuori testo, senza virgolette e in corpo minore. Se interne al testo si usano le<br />

virgolette basse (« ») e, per eventuali citazioni interne alla stessa citazione quelle alte (“ “). Le omissioni vanno indicate con<br />

tre puntini tra parentesi quadra [...].<br />

3) Titoli. Per i libri: Nome (intero o con iniziale puntata) e Cognome dell’autore in tondo con l’iniziale maiuscola, Titolo in<br />

corsivo, Editore, Città e data (non separata da virgola), pagina (p. o pp. se più d’una). Per i saggi su rivista: Nome e Cognome<br />

dell’autore in tondo, Titolo del saggio in corsivo, «Titolo della rivista (in tondo tra virgolette basse)», numero, anno, pag.<br />

Altre indicazioni. Le virgolette basse (« ») vanno solo per le citazioni; le alte (“ “) per dare enfasi o indicare attenuazioni. Per<br />

gli accenti distinguere ‘perché’ da ‘cioè’ e usare la ‘È’. Le parole straniere non entrate nell’uso vanno in corsivo. Secoli e decenni<br />

vanno in lettere con l’iniziale maiuscola (Es. l’Ottocento, gli anni Settanta).


Indice<br />

l’editoriale<br />

Quadro vivo e mosso sul disagio di ieri e di oggi 5<br />

1 Samizdat<br />

Malinconie<br />

Luca Ferrieri 8<br />

Sul disagio ieri e oggi e qualche sua causa. Conversazione con Vincenzo Loriga<br />

Ennio Abate 10<br />

[Critica dialogante] 14<br />

Epifania dell’ombra e del fuoco<br />

Michele Ferrara degli Uberti 15<br />

Disagi d’oggi: pratiche e interrogativi di uno psicanalista. Pietro Andujar intervistato dai<br />

redattori di «Poliscritture». 16<br />

Distruggere quello che ti distrugge<br />

Giacomo Conserva 26<br />

“Arsenio Lupin” e il “dominio delle cose” . La difficoltà di mentalizzare le emozioni<br />

Marina Massenz 27<br />

La forma inquieta<br />

Giorgio Bedoni 30<br />

L’Atelier di Cologno<br />

Carla Girardi e Laura Tonani 34<br />

Due poesie<br />

Ferrrucio Brugnaro 36<br />

Nuove Strategie di libertà. Ritornando su Ceti medi quale futuro? di Sergio Bologna<br />

Ennio Abate 37<br />

2 Latitudini<br />

(Esterno con alberi)<br />

Anna Cascella Luciani 43<br />

Rodoviaria brasiliana<br />

Alessandro Teruzzi 44<br />

3 Esodi<br />

E ti dolzura che te vorressi<br />

Marcella Corsi 47<br />

[Critica dialogante] 47<br />

L’eroe del giorno<br />

Fabio Ciriachi 48<br />

Gli animali, la morte, il tempo, la memoria, la letteratura, il suicidio<br />

Giorgio Mannacio 50


Due voci su Die Reise (Il viaggio) di Bernward Vesper 52<br />

Considerazioni su Il viaggio<br />

Fabio Ciriachi 52<br />

4 Storia adesso<br />

La pseudorivoluzione e la pseudonovità dei neocon<br />

Franco Tagliafierro 61<br />

5 Zibaldone<br />

Figure dolenti<br />

Donato Salzarulo 66<br />

Nannìne. Reliquario materno<br />

Ennio Abate 71<br />

“Ma chi è quel signore che mi sta sempre attorno?”<br />

Ornella Garbin 72<br />

Balletto<br />

Mario Fresa 74<br />

Colomba<br />

Claudia Iandolo 75<br />

Nel sottile filo di ragnatela: zia Marsiella e altri<br />

Anna Maria Celso 76<br />

Scrittura come terapia del dolore<br />

Sonia Scarpante 79<br />

6 Letture d’autore<br />

Raccontami un altro mattino<br />

Marcella Corsi 82<br />

Appunti su Verbale di Michele Ranchetti<br />

Ennio Abate 84<br />

Mondi che finiscono<br />

Massimo Cappitti 87<br />

[Critica dialogante] 89<br />

7 Sulla giostra delle riviste<br />

Storia della rivista «Fogli di informazione»<br />

Paolo Tranchina con la collaborazione di Maria Pia Teodori 90<br />

8 Riprese<br />

Ripensando alla concezione borghese della convivenza fra i popoli: in margine al “caso<br />

armeno”<br />

Giulio Toffoli 97<br />

9 Giochi di specchi<br />

Il sito di «Poliscritture» 103


l’editoriale<br />

Quadro vivo e mosso sul disagio<br />

di ieri e di oggi<br />

Questo numero di «POLISCRITTURE» va in stampa ad urne elettorali aperte, col Partito<br />

Democratico che non ha sfondato al centro, con la scomparsa della Sinistra Arcobaleno<br />

dal Parlamento e coi risultati politicamente insignificanti di chi ha riproposto sulla scheda<br />

elettorale la falce e il martello. La sinistra critica (comunista, femminista, ecologista, ecc.) rischia<br />

di apparire, elettoralmente parlando, animale in via di estinzione. Fauna carismatica, come la<br />

definirebbero gli esperti, da conservare e proteggere per garantire la biodiversità.<br />

Che rapporto abbiamo noi con questa fauna?, noi che con le nostre scarsissime forze abbiamo<br />

cercato, fin dal numero zero, di affrontare temi e problemi importanti e urgenti per reinventare e<br />

ridefinire le armi della critica e per contrastare l’egemonia culturale e politica della destra? Non<br />

possiamo chiamarci fuori e far finta di niente. Non possiamo mostrare indifferenza per quanto è<br />

successo. Il rischio è che noi stessi sembriamo dei panda.<br />

È vero che laddove la nostra redazione ha dei legami territoriali, questa sinistra, ridotta a nomenclatura<br />

senza popolo, fa di tutto per escluderci, per non riconoscerci, per continuare ad affibbiarci,<br />

come accadeva nella peggiore tradizione stalinista, l’epiteto di “intellettuali”. Ma tutto ciò non<br />

ci consegna al rancore e alle dinamiche di rivalsa. Il nostro lavoro intellettuale (di scrittura, di<br />

organizzazione, di tessitura sociale di legami, ecc.) vorremmo che entrasse in rapporto con le idee,<br />

le emozioni, le visioni, gli atteggiamenti dei molti. Dovrebbe modificare e lasciarsi modificare. Altrimenti<br />

contribuiremmo ad affollare la galleria del narcisismo contemporaneo.<br />

Cultura non è cristallo puro. Per dirla con un antropologo americano, Clifford Geertz, è insieme<br />

ibrido di “modelli di” e “modelli per”. Mappe le prime che aiutano a descrivere eventi, processi,<br />

fenomeni; le seconde, che forniscono istruzioni per costruire realtà. E’ ciò che esattamente continuiamo<br />

a fare in questo numero, un numero quasi doppio, ricco di pensieri, riflessioni, poesie e<br />

storie, capaci di descrivere, raccontare ma anche di costruire eventi psichici, rinnovate percezioni<br />

di facce e figure sociali.<br />

In che misura il tema affrontato in questo numero entra in rapporto con la cultura e la politica<br />

di una nuova sinistra critica degna di questo nome?<br />

Nelle pagine seguenti si narra e argomenta del disagio nelle sue varie forme: esistenziale,<br />

psichico, scolastico, sociale, politico.<br />

È la malattia che irrompe nella nostra quotidianità, la malattia del non riuscire a cambiare, a<br />

rompere le gabbie, a distruggere ciò che ci distrugge. Spesso è malattia mentale.<br />

Ebbene, proprio nel mese di <strong>maggio</strong>, cade il trentennale dell’approvazione della legge 180, più<br />

nota come legge Basaglia che decretò la chiusura dei manicomi. Fu una battaglia di libertà e di<br />

liberazione, sostenuta da un movimento antistituzionale e antipsichiatrico. Nel saggio di Paolo<br />

Tranchina e Maria Pia Teodori, Storia della rivista «Fogli d’informazione», è possibile cogliere<br />

qualcosa dei fermenti d’allora.<br />

Consapevoli degli attacchi condotti continuamente da destra e da molti settori dei mass-media a<br />

questa cultura e a questa legge, abbiamo pensato di tornare ad esplorare, per certi versi, la questione.<br />

L’abbiamo fatto dialogando sui disagi di ieri e di oggi con due psicoanalisti, Vincenzo Loriga e<br />

Pietro Andujar. Il primo, è vero che dal 2006, non riceve più pazienti. Ma li ha incontrati per quasi<br />

quarant’anni e questa lunga esperienza rende preziose le sue parole. Il secondo, in piena attività,<br />

lavora con pazienti di tutti gli strati sociali e sottolinea come, rispetto al passato, nelle sedute si<br />

abbia a che fare con disagi molto più complessi, tanto da rendere discutibili, se non poco attendi-<br />

Poliscritture/Editoriale Pag. 5


ili, le valutazioni diagnostiche. «Oggi il falso me stesso è merce assolutamente comune» e il cambiamento<br />

in atto, secondo Andujar, «è gigantesco e abbastanza totalizzante». È in primo luogo un<br />

cambiamento mediatico che scompone tutto il collettivo sociale quasi rendendolo virtuale.<br />

Abbiamo chiesto anche il contributo di alcuni psichiatri: di Giacomo Conserva che con semplicità,<br />

ma con molta consapevolezza e lucidità, verso la fine del suo articolo, dichiara di non avere, in<br />

quanto psichiatra, «nessuna lezione da insegnare, nessuna normalità da difendere» e di Giorgio<br />

Bedoni che ci guida sulla strada della «forma inquieta», verso alcuni percorsi stimolanti tra arte<br />

e psichiatria. Il quadro che ne risulta è vivo e mosso.<br />

Giacomo Conserva, oltre che in Samizdat, è presente in Esodi con un fitto scambio di riflessioni<br />

tra lui ed Ennio Abate a proposito di Die Reise (Il viaggio) di Bernward Vesper. Ne nasce, in chiave<br />

prevalentemente esistenziale, un’attenta riflessione sul fenomeno della lotta armata.<br />

In critica dialogante coi due leggiamo le considerazioni di Fabio Ciriachi.<br />

Ritornando al tema centrale, appare importante l’intervento di Marina Massenz, pensato a partire<br />

dal suo parziale osservatorio sul mondo dell’infanzia; si tratta di mettere a punto adeguate<br />

strategie terapeutiche a favore di un Arsenio Lupin di cinque anni. «Il disagio infantile si esprime<br />

a volte in modi “terrificanti” per gli adulti; il bambino “ladro” a cinque anni terrorizza i genitori,<br />

perché il mondo adulto fa spesso fatica a guardare il mondo dell’infanzia usando, come si dovrebbe,<br />

occhiali diversi». Sul versante delle risorse terapeutiche, può essere anche letta l’esperienza<br />

raccontata da Carla Girardi e Laura Tonani sull’Atelier di libere attività espressive destinate a<br />

pazienti affetti da una delle tante forme di soggettività frammentata e divisa.<br />

Oltre alle varie tecniche artistiche, terapeutica appare a Sonia Scarpante anche la scrittura. Il suo<br />

saggio si può leggere in Zibaldone.<br />

Scrittura suggestiva, letterariamente raffinata, con sguardo e commenti affilati è quella delle<br />

«Malinconie» contenute nelle pagine d’avvio di Luca Ferrieri. Sempre sul versante letterario, lucide<br />

e intelligenti le considerazioni di Giorgio Mannacio sugli «animali, la morte, il tempo, la memoria,<br />

la letteratura, il suicidio».<br />

Le pagine di Zibaldone, aperte da «Figure dolenti» di Donato Salzarulo, rappresentano una galleria<br />

narrativa, il «cantiere dell’innovare scrivendo», che contiene i tanti racconti interessanti di<br />

Ornella Garbin, Mario Fresa, Claudia Iandolo, Anna Maria Celso.<br />

Tante le poesie presenti in questo numero, tutte molto ricche e stimolanti: «Epifania dell’ombra<br />

e del fuoco» di Michele Ferrara degli Uberti, «E ti dolzura che te vorressi» di Marcella Corsi,<br />

«(Esterno con alberi)» di Anna Cascella Luciani, le «Due poesie» di Ferruccio Brugnaro e «Nannìne.<br />

Reliquario materno» di Ennio Abate.<br />

Proprio a partire dalla congiuntura politica evocata all’inizio, da segnalare i saggi «Nuove strategie<br />

di libertà» di Abate (che discute il libro Ceti medi, senza futuro? di Sergio Bologna) e «La pseudorivoluzione<br />

e la pseudonovità dei neocon» di Franco Tagliafierro, che sviluppa una limpida tesi:<br />

«la Nuova Destra neocon altro non è che una versione aggiornata della Vecchia Destra posteriore<br />

alla I Guerra mondiale».<br />

Infine, nella rubrica Letture d’autore: «Raccontami un altro mattino» di Marcella Corsi, che recensisce<br />

il libro omonimo di Zdena Berger, «Mondi che finiscono» di Massimo Cappitti, che riflette<br />

su un testo di Ernesto De Martino e una serie di appunti di Ennio Abate su Verbale, un libro di<br />

poesie di Michele Ranchetti, autore recentemente scomparso e particolarmente caro alla rivista.<br />

Il numero s’avvia alla fine con l’importante contributo di Giulio Toffoli sul “caso armeno” e Giochi<br />

di specchi. Qui il lettore trova un veloce vademecum per scoprire e visitare il nostro sito, alter ego<br />

virtuale della rivista cartacea, che avete in mano e che al centro - ve ne siete accorti - contiene un<br />

inserto di foto “storiche” scattate da Carla Cerati negli ospedali psichiatrici agli inizi dell’esperienza<br />

di Franco Basaglia.<br />

Non vorremmo apparire eccessivamente ambiziosi. Ma forse tutte queste pagine, se lette con attenzione<br />

e “critica dialogante”, aiutano a orientarsi e a collocarsi con intelligente e sfaccettata<br />

consapevolezza nell’attuale, difficile momento storico.<br />

Poliscritture/Editoriale Pag. 6


Elaborazione grafica da Lei, lui e i fantasmi di Vidari<br />

«E questo è il sonno ... » Come lo amavano, il niente,<br />

quelle giovani carni! Era il 'domani',<br />

era dell"avvenire' il disperato gesto...<br />

Al mio custode immaginario ancora osavo<br />

pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare<br />

di risvegliarmi nella santa viva selva.<br />

Nessun vendicatore sorgerà,<br />

l'ossa non parleranno e<br />

non fiorirà il deserto.<br />

Diritte le zampette in posa di pietà,<br />

manto color focaccia i ghiri gentili dei boschi<br />

lo implorano ancora levando alla luna<br />

le griffe preumane. Sanno<br />

che ogni notte s'abbatte la civetta<br />

affaccendata e zitta.<br />

Tutta la creazione ...<br />

Carcerate nei regni dei graniti, tradite<br />

a gemere fra argille e marne sperano<br />

in uno sgorgo le vene delle acque.<br />

Tutta la creazione ...<br />

Ma voi che altro di più non volete<br />

se non sparire<br />

e disfarvi, fermatevi.<br />

Di bene un attimo ci fu.<br />

Una volta per sempre ci mosse.<br />

Non per l'onore degli antichi dèi<br />

né per il nostro ma difendeteci.<br />

Tutto è ormai un urlo solo.<br />

Anche questo silenzio e il sonno prossimo.<br />

Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941.<br />

«Non possiamo più, - ci disse, - ritirarci.<br />

Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava<br />

Klockov.<br />

Rivolgo col bastone le foglie dei viali.<br />

Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia.<br />

Proteggete le nostre verità.<br />

(Franco Fortini, Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994, p. 63-64)<br />

Poliscritture/Editoriale Pag. 7


Atrabile<br />

Malinconie<br />

Luca Ferrieri<br />

Nella dottrina ippocratica, e poi aristotelica, degli umori,<br />

la malinconia è caratterizzata da un eccesso di produzione<br />

di uno dei quattro fluidi, la bile nera, che ha sede<br />

nella milza. Questo squilibrio produce una serie variamente<br />

graduata di disturbi e di manie, che vanno dalla<br />

depressione (cui la malinconia fu a lungo accomunata),<br />

alla nostalgia (il “dolore del ritorno”, una malattia di<br />

origine militare, che colpì nel ‘700 alcune guardie svizzere<br />

del Papa, fino a condurle alla morte), alla monastica<br />

accidia, il “demone meridiano”, che ebbe l’onore<br />

di finire compreso tra i nove peccati capitali, e che si<br />

presentava nella forma di una languida spossatezza in<br />

grado di indurre i migliori cristiani alle peggiori tentazioni<br />

della carne e dello spirito.<br />

La malinconia è una tristezza di tipo molto particolare:<br />

mai disunita da una sorta di straniamento, e quindi dalla<br />

capacità di vedersi dal di fuori, perfino con una piccola<br />

dose di (auto)compiacimento e compatimento, essa<br />

nasce non tanto da una sofferenza diretta, ma dal dolore<br />

indotto dalla fine di uno stato piacevole, dalla sua sparizione,<br />

e dalla sensazione di caducità che ne deriva. Può<br />

quindi manifestarsi come una forma quasi soave di consustanzialità<br />

con l’universale deperire del mondo e del<br />

cosmo, con l’alternanza delle stagioni, con i cicli dell’inizio<br />

e della fine, come una forma di saggezza complice<br />

che a volte sconfina deplorevolmente con il disincanto<br />

e l’abitudine al peggio. Ma in molte situazioni può farsi<br />

lancinante e scavare come un punteruolo nel petto: ciò<br />

avviene soprattutto quando essa misura l’incolmabile<br />

distanza tra le nostre capacità e le altrui esigenze, tra<br />

il possibile e il necessario, quando avverte nello stesso<br />

tempo il bisogno dell’azione e la sua inanità. In questa<br />

forma la malinconia è una forma altissima di coscienza<br />

e di autocoscienza, e per questo dagli antichi e dai moderni<br />

fu spesso avvicinata alla genialità. A differenza di<br />

questa, però essa non trova facilmente, anzi spesso non<br />

trova quasi mai, la via dell’espressione condivisa. Rimane<br />

introversa, chiusa, arroccata, isolata. Quando sconfina<br />

ormai nella disperazione, la sua intelligenza terragna<br />

e terrestre le indica, come unica prospettiva, la dolcezza<br />

del naufragio: come nei versi di due grandi malinconici,<br />

Leopardi (e il naufragar mi è dolce in questo mare) e<br />

Rilke (… noi, che pensiamo la felicità come un’ascesa,<br />

ne avremo l’emozione, quasi sconcertante, di quando<br />

cosa ch’è felice, cade).<br />

1 Samizdat<br />

c r i t i c h e, dissensi, p i r a t e r i e<br />

Folies Bergère ieri<br />

La ragazza delle Folies Bergère (sì, quella del famoso<br />

quadro di Manet) è davanti a me: il suo sguardo malinconico<br />

di la voratrice del bar attende la chiusura del<br />

locale, o forse non attende più nulla. Il vuoto del lavoro<br />

e dell’attesa è tutto in quello sguardo. Dietro di lei, o<br />

davanti, visto il gioco di spec chi, brillano le luci della<br />

festa, del consumo e del corteggiamento. Ma neppure<br />

da quello sguardo di tristezza l’amore è escluso: nello<br />

specchio appare un cappello a cilindro, un baf fo e un<br />

pizzo. Dunque è anche nella desolazione dell’amore e<br />

nell’incomunicabilità con l’amato che quello sguardo si<br />

specchia e si spezza.<br />

Folies Bergère oggi<br />

In questo negozio di borse lei, la commessa, parla al telefono<br />

incurante della folla del cen tro commerciale e della<br />

clientela che si ammassa nel negozio. Parla, e dal tono<br />

sussurrato, da alcune frasi sconnesse che mi giungono<br />

all’orecchio, dal suo sorriso che a tratti si spa lanca dolcissimo,<br />

capisco che è una telefonata d’amore, uno dei<br />

pochi fini che giustificano il mezzo (telefonico). Sto un<br />

po’ a guardarla, stupito della sua serafica indifferenza a<br />

ciò che le accade d’intorno. Lei non mi vede, non vede<br />

nessuno. Il suo sguardo è perso nella cornetta. Per un attimo,<br />

in questo centro commerciale anonimo e volgare,<br />

lei mi pare l’uni ca persona vivente. Come la cameriera<br />

delle Folies Bergère, lei guarda dall’alto il luccichio delle<br />

falsi luci. Se quella era malinconica, questa è sorridente,<br />

ma esprimono lo stesso altrove. E sullo sfondo, qua e<br />

là, il cappello a bombetta dell’uomo che guarda – o che<br />

ascolta. Non c’è vita senza il più abusato dei sogni, senza<br />

che l’amore, per un attimo che è un sempre, riscatti il<br />

luogo comune ripagandolo con la stessa moneta.<br />

Malinconie amorose<br />

François Truffaut è uno dei grandi cantori d’amore del<br />

Novecento. Ma non è dell’amore a tinte rosa e a lieto<br />

fine, non è di un tranquillo quadretto familiare che lui<br />

è perennemente innamorato. A lui interessa l’amore<br />

che passa i confini, che gioca e esce dal gioco, che mescola<br />

pericolosamente i colori e inclina di volta in volta<br />

al nero, al giallo, al rosso. Così se in Jules e Jim tratteggia<br />

l’utopia gioiosa del menage a trois, e poi il suo<br />

inabissamento finale, in Adele H è l’amour fou che fa<br />

vacillare gli equilibri mentali e in La signora della porta<br />

accanto la relazione che va in scena è clinicamente<br />

definibile come quella tra un ciclotimico e una depressa<br />

cronica. Di questo amore stupendamente abbietto e reietto<br />

Truffaut non si stanca di tessere l’elogio. E indica<br />

nell’amore stesso la cura migliore per le sue malattie.<br />

In due direzioni, apparentemente contrapposte: il dongiovannismo<br />

kierkegaardiano de L’uomo che amava le<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 8


donne in cui l’amore è una forza della natura cui è irragionevole<br />

opporsi, ed è tanto mortale quanto innocente,<br />

e la fedeltà assoluta, gioiosa e cieca, cieca fino alla<br />

lungimiranza, di Luis Mahé in La sirène du Mississippi.<br />

Questo è il film meno conosciuto di Truffaut, tradotto in<br />

italiano con l’insipido e ammiccante titolo La mia droga<br />

si chiama Julie, ed è uno dei pochi (insieme, forse a<br />

L’ultimo metro, una rivisitazione positiva del menage a<br />

trois) che potremmo definire tecnicamente a lieto fine.<br />

Ma chi lo avrebbe mai detto che quei due che cercano di<br />

passare il confine tenendosi per mano, in una tempesta<br />

di neve, hanno bevuto il veleno dell’amore fino al punto<br />

di uccidere e di tentare di uccidersi?<br />

La notte<br />

“La notte scende non prima, non dopo: è straordinariamente<br />

puntuale. Anche la tristezza è puntuale: né prima,<br />

né dopo. Il cuore lo sa” (Ferruccio Masini, Aforismi di<br />

Marburgo). La notte ha almeno due facce. Una è quella<br />

indagata da Levinas e da Blanchot: una notte puramente<br />

negativa, in cui l’io perde il suo potere diurno, in cui<br />

la sua presa sul mondo declina, la coscienza si rattrappisce<br />

e il pensiero si abbandona all’automatismo e alla<br />

passività. L’altra è quella che appare, per esempio, nelle<br />

pagine di Manguel (La biblioteca di notte): la notte si<br />

caratterizza per uno stato di sospensione della legalità<br />

diurna, che permette di liberare il mondo di fantasmi,<br />

di immaginazioni e di ossessioni che ci abita. Non è la<br />

notte in cui tutte le vacche sono nere, è quella dei mille<br />

chiaroscuri repressi dalla solarità, schiacciati dalla illuminazione<br />

coatta del giorno. E’ la notte che si nutre di<br />

letture ed è nutrita dalla lettura, soprattutto dalle letture<br />

che si fanno a letto (non a caso Duras diceva: “Leggo<br />

di notte. Non ho mai potuto leggere se non di notte”).<br />

Tutte e due queste modalità notturne sono spesso visitate<br />

dalla malinconia.<br />

Nella prima modalità la malinconia si esprime nella<br />

forma dell’insonnia: il silenzio si riempie di rumori,<br />

di ricordi, di bagliori, di paure; tutto si ingigantisce; il<br />

pensiero entra nel loop della ripetizione e dell’angoscia.<br />

Secondo Lévinas è l’anonimo brusio dell’esistenza che ci<br />

parla nel silenzio della notte, che ci impedisce di dormire,<br />

è l’esserci senza scopo e senza progetto che congela<br />

la temporalità in un eterno presente.<br />

La malinconia dell’altra notte, della notte brava, della<br />

notte trasgressiva, della notte onirica, è invece molto diversa.<br />

Non a caso irrompe con le luci dell’alba, quando<br />

la notte si chiude, la luce è crudele, rivela le piaghe, le<br />

rughe, le ferite, la durezza del risveglio. Quando rapidi<br />

passano quei sogni rivelatori, più reali del reale, che ci<br />

lasciano una sensazione agrodolce per tutto il giorno.<br />

E’ la malinconia del ritorno all’ordine, alla serialità, al<br />

lavoro. E’ la malinconia della perdita.<br />

L’incompiuta<br />

In momenti notturni o stranieri càpita di esser presi dal<br />

terrore dell’incompiuto... “Ecco, se morissi ora, in questa<br />

stazione, in questo paese (come se cambiasse qualcosa,<br />

contasse qualcosa, la localizzazione della fine), le<br />

mie carte, gli appunti, i lavori interrotti, tutto re sterebbe<br />

così, a metà, sospeso...”. E’ un terrore umano e diffuso,<br />

ma così assurdo e così mortuario. Solo la morte è compiuta.<br />

Tutto il resto è soggetto a uno statuto provvisorio,<br />

perfettibile, correggibile. Se muore uno che è vivo (ma<br />

spesso gli uomini muoiono già morti, e non so se sia un<br />

bene o un male) tutta la sua vita resterà interrotta. Sulla<br />

sua scri vania un libro a metà lettura, nella tasca della<br />

giacca l’appunto della spesa; una conversa zione che occorreva<br />

riprendere, una lettera senza risposta; e vagante<br />

nello spazio chiaro del mattino uno sguardo appena<br />

sfiorato e lasciato in balia del dubbio. Per sempre.<br />

Morire di ferragosto<br />

Sto per celebrare il lutto dei sogni che si rivelano incubi.<br />

La dannata metamorfosi, l’astuzia del cinismo, la rivincita<br />

della norma. Per esempio, il ferragosto: la deliziosa<br />

sensa zione di essere padroni della città, andare e venire<br />

senza gente tra i piedi, passare con il rosso in mezzo a<br />

radi passanti. Quante volte nel corso di un anno affollato<br />

hai sogna to queste vacanze in città. Poi ci sei e se<br />

ti capita per sbaglio di passare un ferragosto da solo in<br />

città può capitarti di svegliarti nel silenzio con una fitta<br />

al cuore. Non è rimasto in città nessuno che ti conosca<br />

(almeno così credi). Sei l’unico sopravvissuto di questa<br />

piccola catastrofe. E se volessi vedere qualcuno? Gli<br />

amici sono in vacanza, la fidanzata è dispersa, la madre<br />

persa. Allora ti mescoli alla scarsa folla residua che si<br />

accalca come per farsi forza, per farsi an cora più caldo.<br />

Ma non c’è luogo dove si è più soli come nella folla anonima.<br />

La sindrome ferragostana (che si ripete a natale<br />

e, in piccolo, a tutte le feste comandate) ti proietta in un<br />

futuro in cui tutte le persone care saranno morte, il che<br />

è molto peggio della morte. Ti vedi anziano, in mezzo<br />

ad estranei, a sconosciuti. La società “fondata sulla famiglia”<br />

non ha sa puto non dico creare, ma nemmeno<br />

immaginare (se non per una minoranza privilegiata) altri<br />

luoghi di condivisione, di scambio di esperienze, di<br />

affetti. Dove tu possa sentirti amato, compreso, comunque<br />

accolto.<br />

E’ così giusto morire di contrappasso. Annegare nelle<br />

illusioni più innocenti per sperimen tare come sarà<br />

quando crolleranno quelle maestre, le architravi del tuo<br />

occhio bendato.<br />

Fragili come siamo<br />

Fragili come siamo, basterebbe un colpo di vento a portarci<br />

via. Ma il peggio non è la real tà, sono i pensieri.<br />

La cura dei cattivi pensieri sono altri pensieri. E allora<br />

pensavo: a lui – nel romanzo di Giuseppe Berto, Il male<br />

oscuro – lui che ha paura di tutto, ha paura di guidare,<br />

ha paura di viaggiare, ha paura di stare da solo, ha<br />

paura di stare in mezzo alla gente, e la moglie che è in<br />

montagna gli parla per ore e ore al telefono cercando<br />

di tranquillizzarlo e lui prende l’auto e guida come un<br />

pazzo dalla città alla montagna, sui tornanti, al lato dei<br />

precipizi, e ce la fa, e quando arriva ci sono sua moglie<br />

e sua figlia che lo aspettano, e si abbracciano tutti e tre<br />

sul ciglio della strada. E poi pensavo a uno dei racconti<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 9


di Ali Smith - nella raccolta Altre storie (e altre storie),<br />

Roma, Minimum Fax, 2005 - che si inti tola Questione<br />

di energia. Ci sono due donne. Si amano teneramente.<br />

Mentre stanno per andare a dormire (secondo me sono<br />

le stesse che nell’altro racconto si raccontano sto rie prima<br />

di addormentarsi), lei dice all’altra: pensa un po’ se<br />

in questa stanza ci fosse un masso grandissimo, che viene<br />

addosso a noi lentamente e ci schiaccia… Non è una<br />

robetta da nulla, il masso nella mente di lei c’è davvero,<br />

è un’ossessione vera, e il libro ne è infar cito, come la<br />

nostra vita, solo che nel libro, e qualche volta anche nella<br />

vita, qualcuno ci indica la strada per uscirne. L’altra<br />

le prende la mano, intreccia le dita con le sue, le dice:<br />

dov’è uno scalpello?, dammi uno scalpello, e lo facciamo<br />

in mille pezzi. Lei pensa: “Basta questo. Basta una tua<br />

occhiata, un tuo colpo di traverso, e una roccia grande<br />

come una stanza esplode in una miriade di pietruzze”.<br />

Paura. Disegno infantile<br />

Vincenzo Loriga in<br />

conversazione con Ennio<br />

Abate<br />

Sul disagio ieri e<br />

oggi e qualche<br />

sua causa<br />

Comincerei dall’esperienza del disagio che<br />

lei ha conosciuto nella sua attività di psicanalista.<br />

Io mi sono trovato ad operare con un certo tipo di pazienti,<br />

più donne che uomini in generale, persone che<br />

andavano più o meno dai venti ai cinquant’anni. Non ho<br />

lavorato con persone più giovani e quasi mai con persone<br />

più vecchie. Noti che ho cominciato a lavorare come<br />

analista nel 1968 e ho interrotto l’attività nel 2006. Avevo,<br />

dunque, già fatto una serie di esperienze professionali<br />

e personali. Nella <strong>maggio</strong>r parte dei casi ho avuto a<br />

che fare con quella che veniva chiamata allora nevrosi di<br />

carattere, e cioè una difficoltà ad avere rapporti buoni o<br />

decenti o col partner amoroso o sul lavoro. Posso dire<br />

di aver avuto anche qualche giovane che faceva molta<br />

fatica ad entrare nel mondo sociale…<br />

Può accennare a qualche caso?<br />

Ho avuto, ad esempio, alcuni casi di nevrotici coatti abbastanza<br />

interessanti; e me li ricordo in quanto il nevrotico<br />

coatto è, diciamo, più nevrotico degli altri. E, infatti,<br />

Freud, parlando della nevrosi di coazione, la chiamava<br />

«la regina delle nevrosi». Ma forse lei desidera qualche<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 10


dettaglio?<br />

Se possibile…<br />

Lei adesso parla con uno che non fa più l’analista e che<br />

quindi ha maturato un distacco da queste cose. Comunque,<br />

ci sono stati dei casi in cui la patologia diventava<br />

quasi divertente. Per esempio, ho avuto un paziente<br />

– premetto che il nevrotico coatto è di solito molto intelligente<br />

– il quale riteneva che le distinzioni che noi<br />

facciamo tra un oggetto e l’altro (io, ad esempio, mentre<br />

le parlo al telefono, ho di fronte a me la scrivania, poi<br />

una lampada, una libreria, una finestra…) erano irreali,<br />

perché lo spazio è unico. E questo paziente aveva<br />

anche paura di non seguire con sufficiente attenzione il<br />

battito del cuore, pensava che in mancanza d’attenzione<br />

si potesse fermare. Le faccio un altro esempio. Ho<br />

avuto un paziente che era un comunista doc, uno stalinista.<br />

Beh, quando avvenne il rapimento e l’uccisione di<br />

Aldo Moro, il giorno in cui ci fu la manifestazione, qui a<br />

Roma, in piazza S. Giovanni, sia del popolo comunista<br />

che del popolo democristiano, io ero solo a casa mia –<br />

era un mercoledì pomeriggio e non lavoravo. A un certo<br />

momento questo giovane mi telefona spaventatissimo,<br />

dicendomi che mi vuol vedere. Arrivò da me in taxi. Di<br />

cosa aveva paura? Di mettersi a gridare in mezzo alla<br />

folla in piazza S. Giovanni «Viva le Brigate rosse!».<br />

L’inconscio lo spingeva potentemente dalla<br />

parte dei “cattivi” dell’epoca…<br />

Sì, comunque lui ce l’aveva con tutti. Temeva anche di<br />

finire per dare uno schiaffo al suo superiore, col quale<br />

aveva almeno in apparenza rapporti cordiali. E soprattutto<br />

non tollerava l’immagine della debolezza. E una<br />

volta, mi ricordo, ebbe un atteggiamento aggressivo nei<br />

miei confronti, perché, avendo io da poco subito un’operazione<br />

chirurgica, gli apparivo più debole.<br />

Tra gli inizi e la fase finale del suo lavoro di<br />

psicanalista quali differenze ha notato nei suoi<br />

pazienti o in lei stesso?<br />

Il mio atteggiamento è cambiato sicuramente nel corso<br />

degli anni. Secondo me, un analista non fa che cambiare.<br />

Un analista passa il tempo a liberarsi delle cose che<br />

gli hanno insegnato a scuola o ha appreso dai suoi maestri.<br />

Poi quando si è liberato del tutto, ha finito anche<br />

di fare…l’analista!<br />

Lei, dunque, oggi s’è staccato dalla psicanalisi?<br />

Beh, non la pratico più…<br />

Perché s’è stancato o per altre ragioni?<br />

Il primo motivo è che mi sono stancato. Il secondo motivo<br />

è forse più penetrante…<br />

Secondo me l’analisi ad un certo momento deve cessare.<br />

Finché uno resta impigliato nella rete analitica, tende<br />

a vedere le cose dell’animo umano - suo o anche dei<br />

pazienti - con occhio scientifico. Ma c’è un elemento di<br />

libertà o, se vogliamo, di arbitrio, che, secondo me, nella<br />

visione scientifica propria di quasi tutta la psicologia<br />

viene sacrificato. Credo che l’unico che in qualche modo<br />

abbia reso ragione a quest’elemento sia Lacan. Io non<br />

mi sono mai sentito particolarmente vicino a Lacan, ma<br />

su alcuni punti sono d’accordo con lui. Ne ho parlato in<br />

un dibattito assieme ad altri nel volume della rivista “La<br />

ginestra” che risale al 1994 ed ha come titolo Castrazione<br />

e autocastrazione. Lì diciamo che, per “guarire”<br />

(orrenda parola!), cioè per sentirsi se stesso, il paziente<br />

deve essere capace di un atto d’arbitrio. Senza questo,<br />

si rimane sempre lì a rigirarsi sui propri problemi. Insomma,<br />

uno diventa se stesso, quando non pensa più a<br />

se stesso.<br />

Abbandonare o oltrepassare dunque la psicanalisi<br />

per altre attività?<br />

Io attualmente scrivo. Scrivo di fantasia. Ma uno può<br />

anche fare, che so, l’imprenditore…<br />

Beh, se ci riesce! Non è così alla portata di<br />

molti come scrivere… Ma insisto, si deve proprio<br />

abbandonare la psicanalisi per “essere se<br />

stessi”?<br />

Se devo essere schietto, sì.<br />

Posso chiederle quale attività svolgeva prima di<br />

fare lo psicanalista?<br />

Come no! Dunque, per un certo periodo ho fatto il bohemien,<br />

il poeta. Poi ho lavorato nell’industria. E poi, a<br />

un certo momento, abbastanza tardi come ho detto, nel<br />

1968 sono diventato psicanalista.<br />

La sua scelta di dedicarsi alla scrittura, abbandonando<br />

la psicanalisi, farebbe pensare<br />

che lei sia ritornato a un desiderio della sua<br />

giovinezza…<br />

Diciamo che essermi occupato di analisi e aver fatto io<br />

stesso l’analisi mi ha permesso di vivere meglio. Vivere<br />

meglio con se stessi, vivere meglio con gli altri: questa<br />

è una cosa abbastanza importante. Però poi in questo<br />

vivere meglio si finisce per sacrificare una cosa alla quale<br />

personalmente tengo molto; e che potrei chiamare<br />

la potenza della parola. La parola, quando in qualche<br />

modo viene condizionata da una visuale scientifica, perde<br />

il suo vigore perché non ha più un rapporto diretto<br />

con l’esistenza.<br />

Eppure esiste un disagio anche dei cultori<br />

per eccellenza della parola, quali i poeti o gli<br />

scrittori.<br />

Sì, c’è questo disagio. Ma lei sa che spesso il poeta soffre<br />

d’insonnia?<br />

Non solo d’insonnia. Ho letto di recente su<br />

Internet un’intervista del 2005 rilasciata al<br />

“Corriere della sera” da Elio Gioanola. Trattava<br />

delle nevrosi di scrittori come Svevo, Tozzi,<br />

Campana e Gadda. Non la voglio condurre<br />

sull’annoso dibattito dei rapporti tra psicanalisi<br />

e letteratura, ma le chiedo: sfuggendo il disagio<br />

che può venire dall’attività psicanalitica<br />

e scegliendo la via della scrittura, non si passa<br />

comunque da un disagio a un altro?<br />

Beh, in realtà non parlo di disagio procurato dalla pratica<br />

della psicanalisi. Se uno non ha un problema di<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 11


espressione, ma di espressione vera (penso all’arte o<br />

alla filosofia) non c’è a mio avviso disagio. La psicanalisi<br />

lo può aiutare a viver meglio, favorendo fra l’altro,<br />

oltre che un rapporto migliore coi propri simili, anche<br />

una migliore armonia fra mente e corpo (cosa fondamentale;<br />

non dimentichiamo che l’inconscio freudiano,<br />

specie nella prima fase del pensiero di Freud, è in gran<br />

parte fisicità). Ma, se ci poniamo su un altro piano, la<br />

psicanalisi può essere d’ostacolo a un linguaggio vero.<br />

E per linguaggio vero intendo linguaggio libero. In che<br />

senso è di ostacolo? il suo punto di riferimento è l’Ego:<br />

quello che appunto beneficia dei vantaggi della nuova<br />

visione del mondo che la psicanalisi gli offre, ma che<br />

non ha alcuna possibilità di accesso a un linguaggio che<br />

prescinda dall’utile.<br />

La parola vera è quella che si propone quando il senso<br />

dell’utile viene a cadere. O meglio ancora: il linguaggio,<br />

in sé, non appartiene all’uomo, semmai lo domina. In<br />

fondo io ripeto cose già dette, ma che spessissimo vengono<br />

dimenticate. Le aveva dette Rimbaud (L’Io è un altro!<br />

Giusto, giustissimo, perché l’Io vero, che è in stretto<br />

rapporto col farsi del linguaggio, non è certo l’Ego, e i<br />

suoi movimenti per lo più ci sfuggono). Le ha ridette Lacan.<br />

E sa chi altri le aveva dette? D’Annunzio. Non so se<br />

lei conosce, di D’Annunzio, il Di me a me stesso, un libro<br />

postumo, che contiene frasi folgoranti: «Lo stile è l’Incosciente»,<br />

scritte negli anni Venti. E ce n’è un’altra che<br />

dice: «Il discorso è pieno di pericoli», perché – spiega<br />

D’Annunzio - uno sa come lo comincia, ma non sa dove<br />

e come finirà. Ma potrei citare anche Aristotele, del quale,<br />

nell’Etica Eudemia, c’è questo singolare pezzo, che<br />

stupisce poi alcuni, che a torto lo considerano un pensatore<br />

troppo aridamente razionale. Traduco alla meglio:<br />

«Muove tutte le cose il divino che è in noi. E il principio<br />

del Logos non è il Logos, ma qualcosa di più forte». Per<br />

poi aggiungere che, spesso, il poeta e il veggente vedono<br />

prima, e più rapidamente, cose che un cervello razionale<br />

elaborerà col tempo. In proposito vorrei ricordare<br />

questa importante, felice frase di Lacan: «I poeti non<br />

sanno quello che dicono, ma lo dicono prima degli altri».<br />

Io però vorrei andare oltre e rifacendomi al detto di<br />

D’Annunzio («Il discorso è pieno di pericoli») osservare<br />

che anche un filosofo autentico, quando comincia il suo<br />

discorso, non sa dove questo lo porterà. Se lo sa, è un<br />

buon volgarizzatore; tutto qui.<br />

Ma così la ricerca non si chiude all’interno<br />

della parola o del discorso?<br />

Voglio fare un’eccezione per Freud, che in qualche modo<br />

sta a mezzo. Da un lato fa lo scienziato, tratta o cerca di<br />

trattare il materiale psichico come un oggetto, poi però<br />

la forza del discorso lo trascina e lo porta a concepire<br />

idee – vedi per esempio la pulsione di morte – che ai<br />

suoi più burocratici allievi risulteranno sgradite. C’è<br />

una libertà in lui - la psicanalisi non per nulla è stata<br />

per più lustri una disciplina d’avanguardia - che non<br />

ritroviamo più nei suoi seguaci e nei suoi imitatori. A<br />

me non dispiace affatto che Freud ogni tanto lavori di<br />

fantasia. Con la fantasia ogni tanto si scoprono verità<br />

importanti che spesso sfuggono al pensiero cosiddetto<br />

onesto. L’importante è che la fantasia sia tua, proprio<br />

tua, non condizionata da altri né per compiacere altri. È<br />

un po’ come con l’attore, che recitando sembra mentire,<br />

ma in realtà mette in luce punti dell’animo che di solito<br />

restano nascosti.<br />

E il corpo, in tutto questo, non c’entra?<br />

Ecco, l’aspettavo al varco. Vorrei cominciare con un’osservazione<br />

che potrà sembrare un po’ singolare. Ho notato<br />

che medici e poeti tendono a trascurare il loro corpo.<br />

Gli psicanalisti meno, stanno più attenti. E sa perché<br />

lo psicanalista in genere bada di più alla propria autoconservazione<br />

di quanto non faccia il poeta o il medico?<br />

Perché la saggezza gli consiglia di risparmiarsi. Ma la<br />

saggezza non è la libertà dello spirito, rientra nella categoria<br />

dell’utile. Mi sono chiesto spesso perché il poeta<br />

trascuri il proprio corpo. Le confesso però che non sono<br />

arrivato a una conclusione sicura. Io credo che la parola<br />

forte in qualche modo agisca contro la corporeità.<br />

Contro?<br />

Sì, la parola forte è corporea, prende forza dal corpo e<br />

gliela sottrae. Non così la parola piatta, o la parola segno,<br />

quella che adoperiamo negli scambi utili.<br />

Secondo lei, la parola che si fa corpo o carne,<br />

come afferma la dottrina cristiana, ha a che<br />

fare con questi discorsi?<br />

(Pausa) Non le so rispondere.<br />

A me pare di cogliere due processi: uno di<br />

spiritualizzazione che trascura il corpo (e gli<br />

esempi di poeti - ma non soltanto - potrebbero<br />

essere numerosi); l’altro che cerca di riportare<br />

in evidenza il corpo, la carne, la materialità.<br />

Io sul fatto che il poeta spiritualizzi ho qualche dubbio.<br />

Il poeta fa diventare idea la cosa, ma ama – e come – la<br />

cosa. Ma in cambio può dimenticare se stesso. Quanto<br />

alla chiesa essa parla sì di un verbo che si fa carne, ma il<br />

suo atteggiamento fondamentale è sempre stato di ostilità<br />

verso la carne. La chiesa è sempre stata contraddittoria<br />

su un punto, perché in certi casi si propone come<br />

gelosa custode della natura, mentre in altri la rifiuta recisamente.<br />

Le dirò che io non ho fatto lo psicanalista a<br />

caso. L’ho fatto perché volevo una riconciliazione con la<br />

mia corporeità. E qui mi permetto di ricordare il saggio<br />

di Freud del 1908, La morale sessuale “civile”, che poi<br />

è ripreso ne Il disagio della civiltà. È un atto violentissimo<br />

d’accusa contro una civiltà repressiva. Freud osserva<br />

che la repressione della sessualità com’era attuata<br />

nella società ottocentesca fino alle soglie del primo<br />

Novecento finiva per danneggiarla. Tutto il Novecento<br />

è stato agitato dal bisogno di riscoprire il corpo. Basti<br />

pensare alla fortuna di D’Annunzio, poi ai futuristi, a<br />

Freud, all’epoca del jazz in America; e poi negli anni<br />

Sessanta i Beatles, la rivalutazione del corpo anche nel<br />

modo di abbigliarsi. Siamo stati tutti travolti da un’ondata<br />

di giovanilismo.<br />

Oggi però si sostiene che la psicanalisi, che<br />

pur ha contribuito a rivalutare il corpo, non<br />

serva più. La spinta liberatoria della “rivoluzione<br />

psicanalitica” sarebbe stata capitalizzata<br />

e deformata dalla commercializzazione. È<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 12


Per una critica dialogante<br />

[mc]<br />

Mi colpisce il passo della conversazione di Vincenzo<br />

Loriga in cui afferma: «Mi sono chiesto spesso<br />

perché il poeta trascuri il proprio corpo. (..) credo<br />

che la parola forte in qualche modo agisca contro<br />

la corporeità. (..) la parola forte è corporea, prende<br />

forza dal corpo e gliela sottrae».<br />

Condivido, in linea di massima. Tuttavia, più che<br />

contro la corporeità, credo che la parola del poeta<br />

agisca come prolungamento della sua corporeità.<br />

La parola forte di cui parla Loriga è quella gratuita<br />

e necessitata della poesia. Una parola che ha passione<br />

di verità. Il discrimine sembra essere proprio<br />

nella passionalità e nel non utilitarismo della parola<br />

poetica (che non è l’utile, cui tende la parola segno<br />

citata nell’intervista). È parola poetica in questo<br />

senso anche l’espressione grafica o fotografica (o la<br />

scrittura in prosa…) cui l’autore si senta necessitato<br />

come a parte essenziale del suo vivere, così come<br />

non lo è la scrittura in versi originata da motivazioni<br />

di mera scrittorialità o altro utilitarismo. Questa<br />

parola forte o poetica, ampliando la corporeità del<br />

poeta, trasferendola fuori del limite fisico del corpo,<br />

in qualche modo, certo, fa diminuire il peso specifico<br />

della sua attenzione corporea. Ma assume anche,<br />

trasformandola in parola, quella capacità di adesione<br />

passionale alla realtà che il poeta, suo malgrado<br />

talora, detiene. Capacità che è insieme il suo dono<br />

e la sua fatica. Da un lato dunque gli sottrae forza,<br />

dall’altro lo libera di quel surplus di partecipazione<br />

che di necessità (in quanto poeta) lo lega a quanto,<br />

ben oltre il limite fisico del suo corpo, gli si fa carne<br />

e sangue. Quasi un meccanismo di compensazione,<br />

per chi sopporta una corporeità che è già tanto anche<br />

fuori di sé. Non a caso chi è in questo senso poeta<br />

e non produce poesia corre il rischio di impazzire (o<br />

di morire). Pur entro qualche consapevolezza ‘poetica<br />

di tale dinamica:<br />

tu quando scrivi preghi) io<br />

quando scrivo vivo e prego forse quando chiedo<br />

alle parole di farsi sulla carta immagine durevole<br />

forma che viva nonostante la distanza dalla vita.<br />

E poi… Sì, forse la “parola che si fa carne” dei cristiani<br />

ha qualcosa a che fare con questo discorso. Chissà<br />

che Cristo (qualcuno degli estensori della dottrina<br />

cristiana) non fosse un poeta!<br />

P.D.Vidari, Potere assoluto<br />

l’opinione di Eli Zaretsky, un docente di storia<br />

alla New School University di New York<br />

espressa nel recente Secrets of Soul (I segreti<br />

dell’anima). Di certo non si può contestare che,<br />

almeno in Occidente, i paradigmi forti del pensiero<br />

siano caduti e ci ritroviamo in un tipo di<br />

cultura informe.<br />

Stiamo in una cultura che sta a metà del guado, che non<br />

è né carne né pesce. C’è un livellamento dei gusti e dello<br />

stile di vita. In questo le industrie hanno il loro peso. Ma<br />

il suo peso l’ha anche l’orientamento generale, perché<br />

poi l’industria cerca di corrispondere a delle richieste.<br />

Ma le manipola un bel po’ queste richieste.<br />

Non crede che all’inizio esse abbiano una spinta<br />

autentica che viene tradita?<br />

Viene anche tradita. Ma penso anche che non ci sia –<br />

come spinta autentica – in troppe persone. Mi spiega,<br />

ad esempio, perché in Italia la televisione è così volgare?<br />

E non parlo dei programmi politici. Le sembra un<br />

caso, d’altronde, che certi programmi interessanti li si<br />

veda solo dopo mezzanotte?<br />

Perché a dirigere la Tv ci sono quelli che sollecitano<br />

i gusti più bassi. Ma la Tv si potrebbe<br />

usare in altri modi. Talvolta succede. Ha visto<br />

Benigni recitare Dante? Un professore può<br />

storcere il naso, ma non c’è paragone con il livello<br />

dei programmi involgariti.<br />

Ma sono seguitissimi anche questi…<br />

Ciò prova ancor più la potenza del mezzo.<br />

Secondo me, c’è una corresponsabilità. Non mi addentro<br />

in dettagli. Se ci fosse una rivolta da parte del pubblico,<br />

certe cose non verrebbero più trasmesse. Basterebbe<br />

chiudere il video. Resta il fatto che anche io rimprovero<br />

alla televisione italiana di non svolgere nessuna funzione<br />

educativa.<br />

Di solito vengono rimproverati soprattutto<br />

gli utenti della Tv. E l’élite dirigente che tollera<br />

trasmissioni di basso livello?<br />

Beh, capisco… La cosa andrebbe fatta con una certa gra-<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 13


dualità. Non è che si può imporre alla gente di mettersi<br />

a leggere Aristotele.<br />

E sul disagio dei giovani oggi, qual è il suo<br />

punto di vista?<br />

Glielo dico subito. Fino agli inizi del Novecento, ma<br />

anche più oltre, il principio della castrazione patriarcale<br />

funzionava. Naturalmente facendo anche dei danni<br />

agli individui più deboli psicologicamente. Adesso non<br />

funziona più. Da un certo punto di vista è stata una liberazione.<br />

Però non c’è stato nulla che abbia sostituito<br />

quel principio. Noi abbiamo una figura di padre indebolitissima<br />

e manchiamo quindi di un’etica condivisa.<br />

Ciascuno ha le sue ideologie, che sono ideologie private<br />

o di un gruppo ristrettissimo. Però non esiste più un’etica<br />

condivisa a livello di sentire. E allora succede che la<br />

<strong>maggio</strong>r parte dei giovani si trovano nell’impossibilità<br />

di farsi un progetto. Ora non è che tutti siano in grado di<br />

farselo Questo richiede già una personalità. Però la società<br />

un progetto prima glielo poteva dare. Adesso quello<br />

che la società gli può dare per i più è privo di fascino.<br />

È vero. Le trasformazioni del lavoro costringono<br />

a lavori flessibili, precari, intermittenti.<br />

Un giovane è costretto a dividersi tra varie occupazioni<br />

o va incontro a periodi imprevedibili<br />

di disoccupazione; e non riesce spesso a lasciare<br />

la famiglia. Figuriamoci a costruire un progetto<br />

di vita. Quando si uscirà da questo disagio?<br />

Secondo me ci vorranno decenni. Sono pessimista a<br />

breve termine, non a medio o lungo termine, anche se<br />

penso che quelli che erano i valori della civiltà occidentale<br />

è difficile ricostituirli in qualche modo, perché l’Occidente<br />

è in declino. Sul Corriere del 23 dicembre 2007<br />

c’era un’intervista, sul tema del declino dell’Italia, allo<br />

storico inglese Denis Mack Smith, che in passato scrisse<br />

una storia d’Italia con dati interessanti, anche se aveva<br />

qualche tratto superficiale. Lui trova miope quest’accusa,<br />

perché, se è vero che c’è un declino, visto che i centri<br />

dinamici della nuova civiltà si trovano nel Pacifico, esso<br />

tocca tutto l’Occidente.<br />

Tutte le comunità che avevano un’etica condivisa,<br />

come prima lei diceva, sono oggi sotto<br />

pressione e catapultate nel vortice della globalizzazione<br />

del mercato. Commerci, migrazioni,<br />

ma anche guerre avvengono in una confusa dimensione<br />

planetaria.<br />

È un mondo che poi, secondo me, è minacciato dall’entropia.<br />

Tutto sembra livellarsi, ma in realtà ci sono spinte<br />

centrifughe e gli uni sviluppano sentimenti molto aggressivi<br />

nei confronti degli altri.<br />

Il politologo Samuel Huntington parla senza<br />

esitazioni di “scontro di civiltà”. Due per il<br />

futuro sembrano le prospettive: o l’arroccamento<br />

dell’Occidente, che dovrebbe reimporsi<br />

con la forza alle altre civiltà: oppure un mondo<br />

multiverso, multietnico.<br />

Su quest’ultima ipotesi sono pessimista. Io sono convinto<br />

che, se viene meno l’egemonia degli Stati Uniti, ne<br />

nascerà un’altra e sarà cinese.<br />

E, in tal caso, sarebbe meglio o peggio a suo<br />

avviso?<br />

Mah, io i cinesi li stimo; e li stimo molto, ma la loro psicologia<br />

è così diversa dalla nostra, e così i loro valori.<br />

Forse ci sentiremmo un po’ spaesati.<br />

Ma conta ancora la matrice culturale nazionale<br />

di un popolo o contano di più i nuovi poteri<br />

sovranazionali?<br />

La cultura nazionale conta. Gli americani sono diventati<br />

quelli che sono anche perché erano fatti in un certo<br />

modo.<br />

Pensa che la cultura americana sia migliore<br />

delle altre?<br />

No, guardi… io sono molto legato alla cultura europea.<br />

Ma ritengo che attualmente la cultura europea non sia<br />

in grado di farcela da sola. Lo si vede a livello politico:<br />

non riescono a decidere. Io in America non ci sono mai<br />

stato e preferisco vivere nel vecchio mondo. Però mi<br />

rendo conto che probabilmente sono un sopravvissuto.<br />

In fondo io credo ancora nell’arte, ma temo che l’arte, o<br />

almeno un certo tipo di arte (non certo il cinema che per<br />

altro è un’arte) non abbia un grande futuro. Ha scarse<br />

possibilità. Lei non è d’accordo?<br />

Non so davvero come pensarla. L’arte oggi<br />

non ha la risonanza sociale che ebbe in passato<br />

nelle dimensioni cittadine o nazionali. Ma<br />

potrebbe essere un seme di “altro”. Ma posso<br />

sbagliare.<br />

No, no. È legittimo pensarla così.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 14


Epifania<br />

dell’ombra e del<br />

fuoco<br />

Michele Ferrara degli<br />

Uberti<br />

A Sharon mia diletta ombra nella forza dell’eros e della<br />

vita, e del mito dell’origine<br />

dedico questa epifania dell’ombra e del fuoco.<br />

Finirò, la stanza<br />

terminerà di essere arredata<br />

distratta fermezza,<br />

rigida notte,<br />

al limite degli alberi<br />

sulla pianura, precocemente adornata<br />

dai soffi del vento, quando cadrò<br />

ultimo frutto<br />

dell’ira,<br />

piangeranno vortici di luce<br />

chiesti dal padre,<br />

spina sul muro dov’è appesa una croce<br />

Volete volete, figlie inermi lacrime<br />

di mirto,<br />

ramoscelli di olivo<br />

per vivere per domandare<br />

quando vedrete, la ruota fermarsi<br />

l’officina chiudere le porte e mandare<br />

via gli abitanti<br />

follie lunari,<br />

vesti,<br />

della mente disabitata.<br />

* A Sofia<br />

Dal domani, sconosciuta,<br />

ambasciatrice<br />

di fierezza, verrai<br />

sul mio petto<br />

pieno dei sapori dell’alba<br />

tu spirito inquieto forgiato<br />

per gli antichi maestri<br />

cantori del mattino.<br />

*<br />

Con una cura paziente<br />

assolvo i compiti dell’ospite<br />

entrando nei cerchi della pietra<br />

sotto le città,<br />

distese come enormi dormienti<br />

in sacche oscure<br />

disseccato il tempo nelle mie mani<br />

respira attento<br />

materia dei corpi,<br />

rapide consistenze<br />

rapide bruciature<br />

sul legno carico d’occhi silenzioso<br />

enorme<br />

spaccatura,<br />

futura, vedrà consumarsi<br />

gli eventi<br />

e il confuso rito delle voci<br />

e la danza del libero mattino.<br />

* A Olivia<br />

Circondami di cure<br />

stella solitaria negli spazi del mattino<br />

abbraccia la mia carne voce mai narrata<br />

frammento, di una nascita<br />

tra la nudità delle pietre<br />

e il responso<br />

futuro, della sera ospite insana<br />

dietro la finestra<br />

scagliata nel firmamento<br />

spazio di luce, inascoltata energia<br />

del fuoco.<br />

*<br />

Perché io sono<br />

solo e non c’è<br />

giustizia in questo<br />

altalenare dell’edera sul muro<br />

e lo spaccarsi della luce<br />

nello specchio.<br />

Lontano nel paese dove brucia il sole<br />

passano gli uccelli, nel cielo<br />

in un basso volo<br />

e mi rapisce il suono delle onde<br />

che battono sulla terra<br />

entrando nella stanza<br />

frangendosi,<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 15


immaginaria<br />

rocce<br />

su alberi di vetro.<br />

*<br />

Brucia<br />

il canto sterminato<br />

dei campi.<br />

La luce richiede il conforto<br />

della tua opera,<br />

le sazie ginestre,<br />

come ferme pietre<br />

nel silenzio ascoltano<br />

antiche premonizioni<br />

stanche di assecondare<br />

il girare del vento<br />

che traccia cerchi sulla terra<br />

inquieta sottratta al respiro<br />

di colei, impazzita andata<br />

a cercare il suo assassino nei boschi.<br />

*<br />

Tu, che al mio disagio<br />

offri asce potenti<br />

reca la chiusa innocenza del<br />

risveglio, debole lume<br />

in tutte le terre considerate<br />

sacre, acceso.<br />

Sono venute pallide<br />

signore dalla veste di piombo<br />

la bocca spalancata<br />

a spargere foglie e la parola<br />

dei vangeli,<br />

caduta cancellazione<br />

dagli alberi<br />

per l’arbitrio delle forme;<br />

la danza, sui cerchi<br />

disegnati<br />

da abilissime mani;<br />

varrà il dubbio,<br />

la mutevole conseguenza<br />

dell’acqua<br />

che sfiora il corpo<br />

lingua<br />

griderà il suo terrore ai cieli il torrente.<br />

Pietro Andujar<br />

intervistato dai redattori<br />

di «Poliscritture»<br />

Disagi d’oggi:<br />

pratiche e<br />

interrogativi di<br />

uno psicanalista<br />

Cominciamo dalle esperienze di disagio che<br />

approdano al tuo studio. Sono cambiate rispetto<br />

al passato?<br />

Le esperienze di malessere, da dieci quindici anni a<br />

oggi, sono cambiate in modo molto netto, se devo riferirmi<br />

a dei criteri ortodossi, classici. Una volta al nostro<br />

studio arrivavano richieste d’aiuto da parte di pazienti<br />

cosiddetti ‘nevrotici’ che, secondo le vecchie categorie,<br />

avevano sofferenze più o meno riconducibili al tema<br />

edipico piuttosto che alle strutture familiari. Dominava<br />

l’opinione che il paziente potesse essere catalogato<br />

secondo la triade tipologica di perversione, psicosi o<br />

nevrosi. Questi erano gli atti di lettura, di derivazione<br />

sicuramente psichiatrica. Si pensava che la cura potesse<br />

essere di ordine relazionale, o più propriamente rivolta<br />

alla rilevazione di contenuti inconsci, o anche di<br />

supporto, perché con certi pazienti psicotici a volte si<br />

trattava di fare un lavoro più di sostegno, nel quale lo<br />

psicoterapeuta assumeva spesso una funzione di io vicario,<br />

come si usava dire allora.<br />

Fin da allora io non ero dell’idea che la divisione imposta<br />

dalla trilogia patologica fosse opportuna. Oggi sono<br />

assolutamente convinto che sia una tipologia insufficiente,<br />

perché i pazienti che ci si presentano adesso manifestano<br />

modalità di disagio molto più complesse.<br />

Non abbiamo una specie di psicogenesi del sintomo, di<br />

storia sintomatica che possiamo far risalire a un inadeguato<br />

tipo di sviluppo nel decorso della crescita del<br />

giovane, del ragazzo, della ragazza, ecc. Né possiamo<br />

pensare che siano avvenuti eventi traumatici specifici;<br />

oppure che ci siano fatti sociali, condizioni economiche<br />

scatenanti che giustificano il malessere psichico.<br />

Vediamo invece situazioni di patologie molto complesse,<br />

dove appaiono elementi psicotici abbastanza importanti<br />

e gravi: grosse fissazioni, deliri, componenti paranoiche<br />

abbastanza marcate o componenti maniacali<br />

molto forti: quelli che una volta potevano rientrare nella<br />

vecchia patologia psichiatrica e che costituivano, magari,<br />

il nucleo del sintomo cosiddetto psicotico e avrebbero<br />

potuto portare a una sorta di invalidità la persona<br />

sofferente.<br />

Oppure vediamo spesso persone che hanno una sofferenza<br />

abbastanza grave, però non innestata in quella<br />

che si pensava fosse una struttura di disturbo grave, ma<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 16


su una personalità magari perfettamente adattata alla<br />

realtà; e che, secondo i criteri sia sociologici - che io non<br />

ho mai amato molto - sia psicologici - che amo ancora<br />

di meno - può corrispondere alla definizione di personalità<br />

normale.<br />

E cosa sarebbe una personalità normale?<br />

Quando dico normale, non lo dico per una mia personale<br />

valutazione ideologica, ma mi attengo alle letture<br />

della sintomatica quotidianamente in uso.<br />

Se uso, ad esempio, il DSM IV, che è il sistema di diagnosi<br />

ufficializzato in tutto il mondo e condiviso dagli<br />

psicologi così come dai medici, e seguo i criteri ad albero,<br />

le diramazioni, le molteplicità patologiche, potrei<br />

riscontrare che i pazienti hanno dei disturbi di una certa<br />

gravità su un asse, ma non hanno affatto dei disturbi<br />

corrispondenti su un altro asse. Posso quindi ipotizzare<br />

che ci sia stato un particolare disturbo familiare, di conflittualità,<br />

e quindi presumere che ci siano delle carenze,<br />

dei disturbi, su un altro piano; ma non ci sono affatto.<br />

Vediamo la composizione di questa psicodiagnosi, usando<br />

magari la SWAP 200, una scala che in Italia ha divulgato<br />

Vittorio Lingiardi (uno psichiatra e psicoanalista<br />

junghiano molto vicino alla psicanalisi della relazione)<br />

nel tentativo di ridurre la vaghezza e l’approssimazione<br />

del DSM IV.<br />

Da pochi anni si usa in Italia questa specie di tecnica<br />

complementare di valutazione, composta da 200 item<br />

della scala, che lo psichiatra, lo psicanalista, lo psicoterapeuta,<br />

lo “psico-qualche-cosa” deve sottoporre a se<br />

stesso in relazione a ciò che ha rilevato del suo paziente,<br />

dopo che ha fatto una batteria di almeno quattro o<br />

cinque colloqui con lui. Se voglio fare una valutazione<br />

anamnestica, diagnostica e prognostica di un paziente,<br />

dovrei, dopo che l’ho visto per un mese, rispondere a<br />

queste domande e provare a pianificare una valutazione.<br />

La cosa curiosa è che gli esiti del protocollo della SWAP<br />

200 debbano essere parametrati in modo tale che le<br />

patologie dei pazienti vengano commisurate secondo<br />

certi canoni quantitativi. Ancora più interessante è, per<br />

esempio, che tra gli elementi di valutazione compaia la<br />

dicitura di «buon funzionamento» che può, come dire,<br />

compensare, e ri-parametrare la nostra patologia.<br />

Tu hai adottato questo sistema di diagnosi?<br />

Dato che per scelta ho sempre lavorato con una vasta<br />

gamma di pazienti - persone di tutti gli strati sociali,<br />

economici culturali e di tutte le età - ho provato per<br />

conto mio a guardare cosa succedeva applicando questi<br />

nuovi e “più raffinati” modelli diagnostici. Dunque, per<br />

esempio, ho avuto anni fa tra i miei pazienti un uomo<br />

di scienza con una componente altissima di malessere<br />

narcisistico grave, un intelletto sicuramente di alto<br />

funzionamento (come si suol dire) con trascorse patologie<br />

di dipendenza, con un malessere evidente. Questa<br />

persona, parametrata con la SWAP 200, risultava con<br />

tre o quattro aree patologiche significative; però, ri-parametrando<br />

la diagnosi con l’altissimo funzionamento<br />

intellettuale, il grado di inserimento e di capacità di au-<br />

toaffermazione, la patologia presunta viene ri-normalizzata.<br />

Un’altra paziente, una ricercatrice universitaria, era stata<br />

diagnosticata schizofrenica da alcuni colleghi: appariva<br />

come una pseudo anoressica. Dico ‘pseudo’, anche<br />

se pesava 32 chili, perché ritengo che la patologia conclamata<br />

grave non fosse il sintomo anoressico, dal quale<br />

si è riavuta in un tempo relativamente breve. Applicando<br />

i criteri di lettura della SWAP 200, ne risulterebbe<br />

una patologia media trattabile.<br />

La patologia media trattabile corrisponde a questa<br />

persona, che, quando è venuta da me si somministrava<br />

20 clisteri al giorno, oltre a mangiarsi un vasetto di<br />

marmellata lassativa di tanto in tanto, oltre a prendere<br />

cinque ordini di farmaci diversi, perché non sapendo<br />

come diagnosticarla, i medici le avevano prescritto un<br />

neurolettico (perché psicotica?), un S.S.R.I. - il classico<br />

farmaco antidepressivo - (perché bipolare?), uno stabilizzatore<br />

dell’umore, che è un vecchio antiepilettico<br />

(perché depressa organica?); e un paio di Benzodiazepine<br />

diverse, una per l’ansia e una per il sonno (perché<br />

nevrotica e ansiosa?).<br />

Con questo tipo di patologia la paziente ha avuto una<br />

polidiagnosi, potendo risultare relativamente poco o<br />

molto malata, secondo la valutazione.<br />

Quindi questi criteri di valutazione sono discutibilissimi…<br />

Quello che noi vediamo è che arrivano persone, che<br />

sono magari relativamente ben inserite nel loro lavoro,<br />

non hanno particolari difficoltà scolastiche, possono<br />

essere studenti, possono essere lavoratori che fanno<br />

piccoli corsi di vario tipo per imparare qualcosa, fanno<br />

lavori interinali, ecc. Queste persone riescono a funzionare,<br />

però possono avere delle fissazioni di matrice psicotica,<br />

dipendenza da sostanze come la cocaina, che è<br />

diffusissima, o polidipendenze; e, soprattutto, non sono<br />

più rispondenti alle categorie di struttura mentale che<br />

noi consideravamo fino a pochi anni fa.<br />

Se noi pensiamo, ad esempio, a quello che era considerato<br />

da Freud il tema classico dell’isteria, il desiderio<br />

inconscio rimosso, come veniva chiamato, o consideriamo<br />

l’aspetto ossessivo (oggi lo chiamano compulsivo),<br />

non vediamo più nel compulsivo un fobico nascosto,<br />

un soggetto immerso nell’angoscia, una paura profonda<br />

nascosta che agisce con reazioni di contenimento o<br />

di controllo (perché c’è una possibile dimensione “inconscia”<br />

censurata), ma riscontriamo magari un delirio<br />

visibile, non criptato.<br />

Ci fai un esempio?<br />

Ho un paziente - una persona di grande intelligenza -<br />

giovane e relativamente bravo nel suo lavoro, che si presenta<br />

dicendo: - Io ho dei disturbi del pensiero... È vero<br />

che ha dei disturbi, ma ha un pensiero perfettamente<br />

funzionante. Per essere preciso, intervengono nel suo<br />

pensiero dei disturbi. E cosa succede? Vedete questi<br />

tendoni, che non ho messo per dare un’aria particolarmente<br />

importante e barocca allo studio. Le due tendine<br />

centrali non coprivano bene il vetro. Allora ho montato<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 17


questi due tendoni laterali. Così, quando lui arriva, è<br />

tutto chiuso e assolutamente invisibile all’esterno. Arriva<br />

sempre almeno 5 minuti in ritardo, perché teme che<br />

qualcuno possa vederlo entrare. Poi qui oltre ad oscurare,<br />

a volte devo togliere quel panno, se si stende sul<br />

divano, perché gli può dar fastidio. Oppure le forme circolari<br />

gli rimandano vissuti inquietanti. Questa persona<br />

è una perfettamente funzionante.<br />

Altre persone che fanno dei lavori di servizio o che hanno<br />

attività di una certa importanza, invece, fanno uso<br />

costante di cocaina. Ce n’è una diffusione fitta, non sono<br />

poche.<br />

Si parla di persone giovani?<br />

Anche giovani. Un ragazzo che considero giovane - ha<br />

28 anni - e una ragazza di 25 anni, anche questa cocainomane.<br />

Lei dice di non esserlo, perché, secondo il suo<br />

parere “una volta alla settimana, non si è cocainomane”.<br />

Invece, l’emivita della cocaina nel sangue è di circa<br />

sette giorni. Quando uno ne fa uso una volta alla settimana,<br />

è già dipendente. La persistenza della sostanza –<br />

non dell’effetto - è di una durata analoga a quella degli<br />

antidepressivi serotoninergici. Gli americani avevano<br />

chiamato il Prozac “Bye-bye Blues” e ne facevano uso<br />

nei week-end: lo prendevano a fine settimana, quando<br />

iniziava a calare la concentrazione della sostanza attiva.<br />

Non avevano neanche tutti i torti a chiamarlo “addio,<br />

tristezza!”, perché l’effetto di ripresa dal malessere<br />

melanconico funzionava veramente nei fine settimana!<br />

Purtroppo la droga, invece, non è un regolatore dei neurotrasmettitori,<br />

e non si può liberarsene con la stessa<br />

semplicità e rapidità con cui ci si separa dal Prozac!<br />

Questa cosa è diffusissima tra i pazienti che vanno dai<br />

25 ai 35 anni e, attualmente, credo di averne cinque che<br />

ne fanno uso.<br />

Puoi farci ancora degli esempi?<br />

Ho due pazienti che stanno proseguendo un lavoro psicoterapico<br />

in qualche misura vicino alla psicoanalisi:<br />

cocainomani abusanti per molto tempo, con delle componenti<br />

che si potevano definire indirettamente perverse,<br />

mirate semplicemente a disturbare per telefono<br />

delle donne. La loro terapia è sostenuta o autorizzata<br />

dal tribunale. Sono persone che svolgono attività di gestione<br />

e di servizio veramente importanti e di una certa<br />

responsabilità.<br />

Un altro paziente, con una diagnosi di schizofrenia è<br />

una persona entrata in uno stato di dipendenza molto<br />

forte dalla cocaina. Poi ha virato la dipendenza soprattutto<br />

su un abuso di hashish. L’hashish oggi è fortissimo,<br />

a volte viene proposto tagliato, a volte anche con<br />

la cocaina. Può produrre una dipendenza molto forte,<br />

anche perché contiene una quantità di sostanza attiva,<br />

il delta-9-tetraidrocannabinolo, molto alta, dato che<br />

vengono coltivate piante selezionate allo scopo. Rispetto<br />

agli “spinelli” degli anni andati, la concentrazione di<br />

sostanze attive è altissima e il grado di dipendenza viene<br />

soprattutto dai tagli che contiene.<br />

Questo ragazzo, ad esempio, è stato scoperto dalla madre.<br />

Sono persone con mezzi economici proprio minimi:<br />

lei fa la domestica, lui lavorava in un grande magazzino;<br />

e quindi si fa presto a rimanere senza i soldi per pagare<br />

la bolletta della luce o del gas! La mamma se n’è accorta<br />

e ha chiesto aiuto per il figlio. Contravvenendo alle regole<br />

psicoanalitiche, seguo la madre da un lato e il figlio<br />

dall’altro. Il ragazzo è uscito dalla cocaina ed è arrivato<br />

ad un uso moderato dell’hashish, ha quasi ottenuto un<br />

lavoro stabile. Prima c’era anche un’instabilità lavorativa.<br />

Però si è dovuti passare attraverso il piano terapeutico<br />

psichiatrico per non pagare i farmaci costosissimi;<br />

e la diagnosi psichiatrica, che a mio avviso è stata incongrua<br />

- “schizofrenia latente”- è stata consegnata, per<br />

iscritto, nelle mani del paziente.<br />

In realtà, la madre è una schizofrenica, paranoide però.<br />

Una schizofrenia paranoidea abbastanza complessa,<br />

secondo alcuni clinici, non coinciderebbe con la schizofrenia.<br />

Il figlio ha degli elementi deliranti di stile paranoideo,<br />

ma, secondo me, non ha assolutamente la<br />

cosiddetta Spaltung, la scissione emotiva e intellettuale<br />

che di solito in uno schizofrenico di un certo tipo si può<br />

rilevare. Ha un grado di adattabilità molto forte, di relazione<br />

con l’altro, che non è poi finta o artificiale; ha un<br />

investimento di tipo ideale nelle figure maschili che si<br />

rivela in una serie di questioni che io conosco, avendo<br />

seguito la madre; però viene diagnosticato schizofrenico.<br />

C’è una componente di fragilità…<br />

In questo caso c’è una fragilità forte e questo figlio è cresciuto<br />

da solo con la madre che definiamo schizofrenica.<br />

Accenno a un altro caso trattato una decina di anni fa.<br />

Letizia Jervis Comba mi inviò una paziente già diagnosticata<br />

da altri psichiatri come schizofrenica. Con Christopher<br />

Bollas 1 fummo invece d’accordo di riconoscerla<br />

come una psicosi isterica. Qualcuno la diagnosticava<br />

una psicotica conclamata. Aveva un’incapacità di stabilire<br />

dei rapporti, nonostante fosse stata aiutata tentando<br />

di inserirla in attività lavorative, assegnandole una<br />

pensioncina d’invalidità e fornendole tutta una serie<br />

di servizi che cercavano di coinvolgerla. Eppure questa<br />

persona si assentava da qualunque attività. Non era in<br />

grado di stabilire dei rapporti con il mondo esterno, se<br />

non con personaggi molto importanti. Ricordo che un<br />

giorno ricevetti una telefonata da Franca Rame, esasperata<br />

da questa persona, che la tormentava e che le aveva<br />

lasciato il mio recapito. La paziente aveva stabilito<br />

contatti con Dario Fo, con Franca Rame, con l’avvocato<br />

Pisapia, perché era stata molto attiva nell’area culturale<br />

e di ricerca della Libreria delle Donne di Milano. Pur<br />

essendo una piemontese, gravitava su Milano, tormentava<br />

il povero professor Franco Fergnani - dicendogli<br />

che anche lei era un’ebrea perseguitata come lui e cose<br />

di questo genere. Però un rapporto comune con persone<br />

di pari grado, orizzontale, non esisteva assolutamente.<br />

1 Christopher Bollas è membro della “British Psychoanalytical<br />

Society”, del “Los Angeles Institute and Society for psychoanalytic<br />

Studies” Honorary Member dell’ “Institute for Psychoanalytic<br />

Training and Research”. Membro dell’ESGUT: “European<br />

Study Group of Unconscious Thought”. La supervisione<br />

e il dibattito su questo caso si svolse a Milano nel 1999, grazie<br />

alla disponibilità del dr. Mariano Enderle, già allievo e collaboratore<br />

di Bollas.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 18


In tutti i pazienti gravi che io ho non ce n’è uno invece,<br />

oggi, che non abbia una possibilità di correlazione<br />

orizzontale con altre persone, per cui è chiaro che tendenzialmente<br />

si dice che il disturbo non è lo stesso, non<br />

c’è.<br />

Ma che immagini, che modelli hanno in testa<br />

questi pazienti?<br />

È una grossa questione che implica delle identificazioni<br />

con svariati modelli e immagini precostituite: quello<br />

che una volta si chiamava falso Sé. Oggi si dovrebbe<br />

aggiungere un nuovo capitolo alla “Psicopatologia della<br />

vita quotidiana”, che è improntata soprattutto al tema<br />

della perversione. Io credo che oggi la difesa che si può<br />

ben osservare nella psicopatologia della vita quotidiana<br />

è quella che Freud chiamava la “Verleugnung”, la negazione<br />

del perverso: io nego pur sapendo di negare, posso<br />

negare come se non sapessi. È una struttura di negazione,<br />

una difesa di negazione perversa, che fa parte della<br />

vita quotidiana - quello che noi banalmente tanti anni fa<br />

chiamavamo falso Sé.<br />

Va ricordato che il termine è di derivazione inglese e potrebbe<br />

essere tradotto come un falso me stesso, non un<br />

Sé metafisico. Oggi il falso me stesso è merce assolutamente<br />

comune. Anzi che uno non abbia una serie di falsi<br />

Sé è quasi raro. È il Sé del commercio insomma (generalizzando<br />

il concetto, quest’ultimo lo chiamerei un<br />

Sé metafisico in senso filosoficamente proprio!). Questo<br />

favorisce, secondo me, tutto un frullare di vortici di falsa<br />

identità talmente fitta, che genera ovviamente una<br />

identificazione di falsa immagine, quella che il vecchio<br />

Lacan chiamava falso sembiante, che è quasi impossibile<br />

frenare<br />

Il cambiamento nel tipo di sofferenza quale<br />

problema pone a uno psicanalista?<br />

Il problema che abbiamo noi psicanalisti si è moltiplicato<br />

cento volte. Sul piano tecnico è difficilissimo oggi<br />

lavorare e le persone giovani sono formate malissimo.<br />

Anche quelle della mia generazione a volte sono formate<br />

proprio male, non capiscono assolutamente niente<br />

della contemporaneità.<br />

È difficilissimo lavorare, perché il cambiamento in<br />

atto è gigantesco e abbastanza totalizzante. Mediatico<br />

in primo luogo. Quello è il primo grandissimo cambiamento,<br />

che fa sì che qualunque cosa virtuale possa<br />

essere scambiata per reale. Ho la possibilità di aprire<br />

Internet sul mio computer, dialogare con un’altra persona,<br />

prenotarmi un aereo piuttosto che comperarmi<br />

all’Outlet l’ultimo paio di Superga, che invece di costare<br />

150 euro ora ne costano cinquanta, oppure posso<br />

sapere attraverso un blog cosa succede, oppure posso<br />

comunicare attraverso questi mostruosi aggeggi continuamente.<br />

Ciò ha prodotto una serie di estensioni, se<br />

vogliamo comunicative, ma anche di fraintendimenti<br />

fra ciò che è immaginario e ciò che è reale.<br />

Tu come ti poni rispetto all’attuale invadenza<br />

del virtuale?<br />

Non si può dare una disdetta al virtuale, che appartiene<br />

di fatto al piano di realtà. Qualche anno fa assieme a<br />

Marco Riva, uno psichiatra che ha anche una formazione<br />

psicanalitica, avevamo condiviso una ricerca sull’immagine<br />

virtuale e i suoi effetti, anche positivi. Marco<br />

aveva proposto di proiettare dei video nelle sale d’attesa<br />

dell’ambulatorio psichiatrico dove lavorava. Le proiezioni<br />

erano concepite per passare gradevolmente i tempi<br />

morti in alcuni luoghi-nonluoghi (come le sale d’attesa<br />

delle stazioni, degli aeroporti, degli ospedali, degli<br />

uffici pubblici, le fermate del tram, ecc.). Questi cortometraggi<br />

avevano semplicemente una valenza estetica e<br />

un libero flusso associativo caratterizzava il montaggio.<br />

C’era anche l’intenzione di stimolare i pazienti, per incoraggiarli<br />

a prestare attenzione a qualche cosa di soggettivo,<br />

che le circostanze un po’ fuori dal senso comune<br />

a volte ci aiutano a trovare. Non molti colleghi avevano<br />

capito bene di cosa si trattava. I colleghi medici, ad<br />

esempio, non riuscivano a capire cosa c’entrasse con la<br />

psiche, con la sofferenza questa cosa. Però, secondo noi,<br />

vedere in questo virtuale qualche cosa che può fare un<br />

effetto e accorgersi (e poter pensare) di gestirlo o di capire<br />

quali sono gli effetti o d’interagire con queste cose<br />

ci sembrava un motivo molto importante [per tentare<br />

l’esperimento].<br />

È più attuale fare una cosa del genere che provare a vedere<br />

se lo psicotico è ancora psicotico, oppure se lo psicotico<br />

è un po’ perverso. Questo però ci porta - almeno<br />

ha portato me personalmente - alla questione che ritengo<br />

fondamentale, la questione del soggetto.<br />

Una questione centrale nella filosofia moderna<br />

e contemporanea, ma tu - crediamo - l’affronti<br />

da psicanalista…<br />

Per me, come psicanalista con una formazione filosofica<br />

di partenza - vengo da un’area umanistica, non medica -<br />

è la questione oggi più complessa e più difficile.<br />

Pensiamo a cos’è il soggetto nella psicanalisi, pensiamo<br />

al vecchio Freud, che io considero continuatore della<br />

tematica hegeliana dell’autocoscienza. Poi pensiamo<br />

a Lacan, che è stato l’altro che ha fatto, secondo me,<br />

un passo importante sul tema del soggetto: il soggetto<br />

sbarrato, lo stadio dello specchio 1 , lo scritto del ’49,<br />

dove in qualche modo parla di questo soggetto illusorio,<br />

nel quale io m’identifico. Si scatena tutta una serie di<br />

strutturazioni, assieme all’impedimento al soggetto di<br />

raggiungersi in modo onnipotente e totale. Lì c’è la prima<br />

visione lacaniana del soggetto.<br />

Oltre a Freud e Lacan chi ne ha parlato?<br />

Franco Fornari, negli anni ’70, era stato molto bravo<br />

da questo punto di vista: aveva scritto delle belle cose<br />

sui codici familiari, i codici affettivi, le parentele, tutte<br />

questioni che poi aveva esteso anche alla politica. Parlava,<br />

per esempio degli Usa come struttura psicopolitica<br />

dominata dal codice paterno, della Russia dominata dal<br />

codice materno, dell’Europa come zona della tragedia<br />

di Tieste 2 . E però, se parliamo di soggetti, non possiamo<br />

1 “Le stade du miroir comme formateur de la function du Je<br />

“ telle qu’elle nous est révélée dans l’experience psychanalytique.<br />

Communication faite au XVIe congrès international de<br />

psychanalyse à Zürich, le 17 juillet 1949.<br />

2 Tieste è personaggio mitico in feroce conflitto col fratello<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 19


più pensare che il soggetto sia riducibile alla mamma<br />

buona, alla mamma cattiva, al papà, al codice fraterno,<br />

ecc. Oggi ci troviamo di fronte a una grossissima difficoltà<br />

a dare una fondazione del soggetto riconoscibile,<br />

perché con questa mediatizzazione grossa, con questa<br />

scomposizione di tutto il collettivo sociale, che è completamente<br />

scomparso, tu non hai più nessun polo di riferimento,<br />

di rispecchiamento, non hai più alcuna possibilità<br />

di deliberare con un riscontro convincente da<br />

parte dell’altro (il che sarebbe ciò che ti fa un po’, tra virgolette,<br />

innamorare dell’altro!). Ma hai continuamente<br />

delle protesi d’identificazione possibile, delle sembianze<br />

di similitudine, dei falsi noi che si creano e che sono anche<br />

difficili e a volte pericolosi da smantellare. Perché<br />

a volte ti ritrovi di fronte a persone che hanno come<br />

strutturato un loro modo d’essere su quello che Lacan<br />

chiamava «sembiante». Ma un sembiante complesso,<br />

con la sua quota di realtà e che ti mette in una posizione<br />

di interazione abbastanza gravosa, dove io credo che si<br />

dimentichi per es. tantissimo il corpo.<br />

C’è qualcuno che affronta oggi la questione<br />

in modi interessanti?<br />

Christopher Bollas ha scritto nel 2002-2003 un libro<br />

interessantissimo e non ancora tradotto, “Free Association”<br />

dove riprende il tema della libera associazione<br />

freudiana. Lo tiene buono come principio, ma fa vedere<br />

come su di esso ci siano stati dei fraintendimenti colossali.<br />

Sostiene che la libertà di pensiero associativo del<br />

soggetto sia una caratteristica indispensabile, per considerare<br />

correttamente la mente umana.<br />

Bollas di formazione è un letterato, è docente di letteratura<br />

inglese, è stato allievo di Donald D. Winnicott ed<br />

è membro ordinario della British Psychoanalytical Society.<br />

Ha pubblicato nel 2007 un libro nuovo, The Freudian<br />

Moment (Il momento freudiano). Può sembrare<br />

una tematica di vecchio stile, però i titoli dei capitoli<br />

sono molto significativi (uno è Identificazione percettiva<br />

e qui il corpo c’entra qualche cosa). E il sapere inconscio,<br />

a cui lui si riferisce, viene chiamato Unconscious<br />

Known, cioè il conosciuto inconscio, il saputo inconscio.<br />

C’è anche un gioco letterario, senz’altro, in questa cosa,<br />

perché il vecchio inconscio freudiano Unbewußt in tedesco,<br />

scomparirà poi nella seconda topica freudiana,<br />

dove farà capolino l’Es. In inglese abbiamo “Unconscious<br />

known” cioè “Unbewußt- Bewußt”.<br />

Fa pensare a quello che il poeta Giancarlo<br />

Majorino chiama l’ignoto del noto…<br />

Si può chiamare anche così. Bollas sottolinea soprattutto<br />

l’aspetto inconscio dell’ identificazione percettiva,<br />

perché è di cultura molto inglese. Pensa che lo stesso<br />

Winnicott ha scritto un saggio di psicoanalisi dal titolo<br />

Human Nature (La natura umana), tema tipico inglese.<br />

Siamo a Locke, ma più ancora a Hume, alla tradi-<br />

Atreo. Fra I numerosi libri detti di “Psicopolitica”, Franco<br />

Fornari pubblicò “La Malattia dell’Europa. Saggio di psiocopolitica<br />

sulla struttura diabolica del potere segreto”, Feltrinelli,<br />

Milano, 1981. Tra di noi, allievi del gruppo di metodologia<br />

clinica, questo testo si chiamava “Tiestopa”<br />

zione classica inglese, che è sempre stata molto vicina<br />

alla percezione come fondamento della stessa coscienza.<br />

Qui, secondo me, andrebbe fatta fuori tanta cultura<br />

accademica, soprattutto italiana e anche francese. Gli<br />

inglesi pongono molto in luce l’aspetto percettivo della<br />

coscienza. La coscienza non è composta di solo pensiero.<br />

Per noi - e i francesi forse peggio di noi - la coscienza<br />

è pensiero. Direi, con l’evidenza della contemporaneità,<br />

che la coscienza è, forse prima di tutto, percettiva. Bollas<br />

mette in luce questa cosa e molto bene, secondo me.<br />

È la prima volta che sentiamo nominare Bollas.<br />

Ci puoi dire qualcosa di più?<br />

Christopher Bollas è uno dei più importanti psicoanalisti<br />

della British Psychoanalytical Society, allievo di Winnicott,<br />

aperto alla pluralità delle teorie psicoanalitiche,<br />

“Independent” , cioè libero dalle costrizioni più ortodosse.<br />

Ha sostenuto potentemente il valore della creatività<br />

soggettiva e ha criticato duramente alcuni canoni stereotipati<br />

della pratica psicoanalitica. Nel suo ultimo libro,<br />

The Freudian Moment, ad esempio si trovano capitoli<br />

intitolati Cos’è la teoria?, oppure Sull’interpretazione<br />

del transfert come resistenza alla libera associazione.<br />

Cosa va dicendo? In sostanza, che l’analista che comunica<br />

un’interpretazione del transfert al paziente, impedisce<br />

e pone una resistenza alla potenzialità di associare<br />

liberamente. In altre parole, se io interpreto, ad esempio,<br />

che tu ti stai comportando così, perché evochi attraverso<br />

il rapporto con me un rapporto conflittuale col padre,<br />

piuttosto che un’altra qualsiasi area inconscia attivata,<br />

blocco ogni lavoro di libera associazione, che è il pensiero<br />

creativo, che è la parte più significativa del soggetto.<br />

Nonostante la sua rigorosa formazione kleiniana, l’analisi<br />

con il grande Winnicott e la conoscenza di Wilfred<br />

Bion hanno forse aiutato Bollas a spingersi oltre nelle<br />

critiche ai dogmi di certa psicoanalisi ufficiale.<br />

Sempre in questo testo afferma una cosa molto semplice<br />

e molto vera, che abbiamo sempre saputo tutti: il libero<br />

pensiero è una modalità tipica, strutturale dell’essere<br />

umano. Non è cioè un’acquisizione della psicanalisi o<br />

di chi ha fatto l’analisi; e dunque teniamo conto che il<br />

soggetto umano è dotato di una capacità di libero pensiero!<br />

Certi filosofi l’hanno sempre detto, ma gli<br />

scienziati sono d’accordo?<br />

La teorizzazione di Bollas, o di alcuni sostenitori della<br />

psicoanalisi relazionale, è abbastanza in sintonia con<br />

certe acquisizioni delle neuroscienze. Pensiamo ad Antonio<br />

Damasio, al suo bel testo, Emozione e coscienza,<br />

dove ha la capacità di sostenere che esiste un soggetto<br />

biologico. Come esiste un soggetto nel senso filosofico<br />

comune del termine, c’è una soggettività, un’individualità<br />

biologica.<br />

Secondo me, il passaggio teorico necessario in questo<br />

momento impone – sia dal punto di vista di un determinista,<br />

che di un costruttivista pluralistico, o di uno<br />

strutturalista, o di qualunque altra posizione intellettuale<br />

si voglia sostenere - che non si neghi più come<br />

indeterminato ciò che è invece soggettivo, individuale,<br />

peculiare. C’è un diritto di esistenza specifica, partico-<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 20


lare del soggetto.<br />

È questa, dunque, anche la tua posizione?<br />

Il mio scopo personale coi pazienti da un po’ di anni<br />

a questa parte, ma particolarmente adesso, è proprio<br />

quello di essere su questa posizione etica di assoluta tutela,<br />

di diritto ad essere del soggetto, di potersi inventare,<br />

di essere qualche cosa che non sia determinato da<br />

meccanismi. Per cui in qualche modo penso che anche<br />

il vecchio Edipo, per esempio, sia da considerare un po’<br />

alla stregua di una strutturazione archetipica. L’archetipo<br />

è come una struttura: d’accordo che io ho il cuore,<br />

i polmoni, lo scheletro, l’apparato muscolare, ma non<br />

posso essere ridotto a questa dimensione, perché, se<br />

no, mi spiego che sono così perché ho questa struttura.<br />

Oggi questa è una cosa talmente palesemente falsa,<br />

inadeguata, che non si può fare altro che passare a una<br />

legittimazione di un soggetto che va facendosi, pur non<br />

avendo delle identificazioni sostenibili all’esterno. E<br />

questa è la contemporaneità freudiana autentica.<br />

Ma allora non c’è più una teoria psicanalitica,<br />

ce ne sono varie?<br />

Bollas è assolutamente pluralista rispetto alle teorie<br />

psicoanalitiche: ritiene che siano integrabili l’una con<br />

l’altra, o meglio, che debbano essere coesistenti. Fra i<br />

colleghi milanesi ritengo che Carlo Viganò, allievo diretto<br />

di Lacan, sia pluralista e molto tollerante: è stato<br />

molto vicino a Basaglia e mantiene uno stile di psichiatria<br />

democratico. Bollas è forse più “ecumenico”, perché<br />

ritiene che oggi è impensabile che un analista abbia una<br />

formazione limitata a una scuola. È anche molto critico<br />

rispetto alla rigidità delle ortodossie. Ma sostiene che<br />

non puoi pensare di avere letto Freud e di non avere letto<br />

nulla di Winnicott o di Melanine Klein, di Jacques<br />

Lacan o di Wilfred Bion. È necessario appropriarsi di<br />

una vasta gamma di concezioni dell’inconscio per poter<br />

sostenere la teoria del soggetto. E ciò non significa<br />

nemmeno che si debba rinnegare una teoria dell’attaccamento,<br />

pensa a Bowlby e ai suoi seguaci. Bisogna far<br />

proprio ciò che proviene da questi punti di vista…<br />

Ma il riconoscimento della pluralità nella<br />

psicanalisi è assodato?<br />

Poco, poco…Diciamo, per esempio, che ci sono psicoanalisti<br />

come Carlo Viganò che sono aperti da questo<br />

punto di vista. Lavoro con lui all’ex O.P. “Paolo Pini” da<br />

sei anni. Da dieci vi si tiene un seminario sulla costruzione<br />

del caso clinico. Il gruppo che ha organizzato il<br />

lavoro ha avuto la direzione di Salvatore Freni, uno psicoanalista<br />

della S.P.I. (Società Psicoanalitica Italiana),<br />

di impostazione bioniana, psichiatra e docente universitario,<br />

che ha dato spazio a Viganò, pur essendo lui un<br />

rappresentante della leva lacaniana. Ha dato la parola<br />

anche a me, che considera abbastanza vicino all’area<br />

inglese winnicottiana, nonostante in Italia io mi senta<br />

forse più vicino all’area lacaniana. Sapete che io ho percorso<br />

anche un lungo tratto di analisi con un analista<br />

junghiano. C’è anche qualche junghiano che partecipa<br />

alla discussione…<br />

Su queste rigidità di scuola rimango tuttora molto per-<br />

plesso. Però diciamo che a Milano c’è questa realtà del<br />

Paolo Pini. E lì si può praticare ancora una forma di<br />

psicoterapia quasi gratuita, pagando semplicemente un<br />

ticket. Ciò vale per molte persone, per cui si può dire che<br />

c’è ancora quest’area pluralistica e aperta che continua.<br />

Però dire che c’è un’apertura alle varie scuole è molto<br />

azzardato.<br />

E tu come ti muovi in questa situazione?<br />

Personalmente mi considero un po’ un poliglotta perché,<br />

avendo avuto la formazione di base con dei freudiani<br />

ortodossi, la prima formazione clinica con Fornari,<br />

che allora era più bioniano che kleiniano, avendo poi<br />

frequentato per molti anni gli junghiani e altrettanto i<br />

lacaniani, so qual è il registro da cambiare quando tu<br />

vuoi parlare.<br />

Una cosa interessante è successa con Bollas. Gli ho presentato<br />

un caso di un paziente, figlio di madre suicida<br />

quando lui aveva 16 anni. Manifestava una serie di malesseri<br />

gravissimi, ai quali si è aggiunto l’alcoolismo,<br />

insomma una situazione allarmante. Un mio amico<br />

psichiatra voleva ricoverarlo, ma abbiamo convenuto<br />

di aspettare un po’ di tempo e il paziente ha accettato<br />

di assumere un dosaggio moderato di antidepressivi,<br />

perché era il caso, anche se ho fatto fatica a convincerlo.<br />

Siamo riusciti a non farlo ricoverare e a lavorare insieme.<br />

Dopo tre anni di lavoro con lui, tante cose sono<br />

andate decisamente molto bene, anche se su alcune<br />

questioni c’è ancora molto lavoro da fare. Per mia curiosità<br />

intellettuale ho presentato proprio questo caso a<br />

Bollas. Volevo sentire lui che cosa mi diceva. E la cosa<br />

interessante è stata questa: secondo lui la conduzione di<br />

questa psicoanalisi era assolutamente coincidente con<br />

la psicanalisi della relazione d’oggetto. Certo era stata<br />

condotta in modo rigoroso dal punto di vista del setting,<br />

delle regole analitiche. Ma il registro di lavoro da me<br />

adottato con il paziente era assolutamente diverso da<br />

quello che Bollas poteva riscontrare nel mio lavoro. La<br />

caratteristica comune era la scelta decisamente non interpretativa,<br />

il paziente stava steso sul divano, veniva<br />

due volte alla settimana e attraversava una serie di contenuti<br />

associativi liberi.<br />

Perché la cosa è interessante? Perché indipendentemente<br />

dal riferimento teorico adottato, effettivamente<br />

fai parlare il soggetto! Ha importanza il soggetto non la<br />

teoria. E, se conosci le lingue in cui si parlano le varie<br />

teorie, la traduzione dall’una all’altra è possibile!<br />

Sul piano teorico a me interessa il fatto che si possa passare<br />

da un linguaggio all’altro, perché – e qui riprendo<br />

Bion – i vertici sono tanti: puoi cambiare vertice e guardare<br />

da un altro punto di vista l’oggetto. L’importante è<br />

ricordare che l’oggetto ha una sua esistenza di soggetto<br />

e che non prevalga la teoria. La nostra psicanalisi, in generale,<br />

è ancora molto dogmatica: adotta una vecchia<br />

meccanica ‘metafisica’.<br />

Nella fase di preparazione di questo incontro<br />

almeno alcuni di noi si sono segnati una serie<br />

di libri (“Le nuove malattie dell’anima” di Julia<br />

Kristeva, “L’indifferenza dell’anima” di L. Russo,<br />

“Intimità fredde. Le emozioni nella socie-<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 21


tà dei consumi” di E. Illoux), atti di convegno<br />

(“Itinerari del rancore”, “Forme contemporanee<br />

del totalitarismo”, “Paranoia e politica”),<br />

legati al disagio della civiltà. È arduo orientarsi<br />

nel dibattito tra neuroscienze, cognitivismo,<br />

psicanalisi e psichiatria fenomenologica. Tu<br />

sembri dirci: ragazzi il viaggio non è finito, la<br />

società cambia, dobbiamo assumere atteggiamenti<br />

più complessi…Ma che importanza dai a<br />

tutte o ad alcune di queste teorie?<br />

Sulla questione delle varie psicologie e psichiatrie che<br />

hai nominato, la cosa più importante da dire sarebbe<br />

che non si legge più la clinica. Tu trovi molte formulazioni<br />

teoriche - forse le hai nominate tutte - che portano<br />

esemplificazioni di “vignette” cliniche (adesso si<br />

usa chiamarle così) per comprovare l’attendibilità della<br />

teoria o della tecnica psicoterapica utilizzata. In questo<br />

senso, ripeto, le psicologie e le psicoterapie (psicoanalisi<br />

compresa) sono delle metafisiche dogmatiche e incongrue.<br />

Mi pongo in modo un po’ marxiano in questo: prassi<br />

e teoria. La psicanalisi non può assolutamente, e non<br />

deve, evitare di basarsi sulla pratica. Le cliniche nominate<br />

spesso sono teorizzazioni e astrazioni formali che<br />

non si fondano sulla casistica clinica. Ti porto, invece<br />

l’esempio di due casi clinici di psicosi che sono stati<br />

presentati di recente 1 . Nel trattamento si espongono le<br />

complicazioni del caso, ciò che succede. Perché è importante<br />

prestare attenzione alla clinica? Da un certo punto<br />

di vista rimango molto vicino alla posizione lacaniana<br />

del cosiddetto après coup, quello che succede dopo,<br />

l’evento. Ogni trattamento clinico procede per eventi e<br />

accadimenti. Non si può pensare che io prevedo e predico<br />

l’accadimento.<br />

Ma queste teorizzazioni non procedono<br />

così?<br />

No, perché incasellano tutto. Detto in parole povere,<br />

eliminano il concetto di inconscio completamente, eliminano<br />

la lettura della terza topica lacaniana - il nodo<br />

dei tre anelli R.S.I. - quella del Reale, del Simbolico,<br />

dell’Immaginario, che sono sempre interconnessi. Perché<br />

il Reale è l’ineludibile, ciò a cui non mi posso opporre,<br />

il Simbolico è il linguaggio, l’Immaginario è il come<br />

se. Bene, se guardiamo la questione da questo punto di<br />

vista, le teorie s’incistano sul Simbolico o sull’Immaginario<br />

o sul Reale.<br />

I cognitivisti, i comportamentismi, i biologisti sul Reale.<br />

Gli psicanalisti di stile iperteorico – compresi molti<br />

lacaniani - sul Simbolico. Li ho criticati e me ne sono in<br />

parte allontanato, perché non ne potevo più di questa<br />

mitizzazione del simbolismo linguistico: la parola, la<br />

parola, il ragionamento sulla parola. Sì, il dominio del<br />

Simbolico, che diventa un’assolutizzazione di quell’anello<br />

topico. Gli junghiani e i kleiniani: Immaginario allo<br />

1 Al IX Joint Meeting fra l’AAPDP (American Academy of Psychoanalysis<br />

and Dynamic Psychiatry) e OPIFER (Organizzazione<br />

di Psicoanalisti Italiani. Federazione e Registro) dedicato<br />

alle strategie della psicoterapia dinamica ho presentato<br />

uno scritto intitolato Free thinking: la psy-chose prochaine.<br />

Ovvero il libero pensiero e la follia vicina di casa.<br />

stato puro, il come se (i cosiddetti desideri che affollano<br />

l’immaginario) posto come uguale al Reale. Poi ci sono<br />

i fenomenologi che a furia di parlare di soggetto lo rendono<br />

oggetto all’estremo.<br />

Ci sono lavori interessantissimi di varia provenienza,<br />

ormai sono dei classici. Prendete Ronald Laing, che ha<br />

scritto il testo più bello, L’io diviso, che è un esempio di<br />

fenomenologia straordinaria, ma anche di psicanalisi.<br />

Lui era allievo di Winnicott. In Lacan ci sono cose splendide<br />

negli Écrits e, soprattutto, in alcuni dei Séminaires<br />

. Anche alcuni colleghi hanno scritto cose eccellenti, ma<br />

indipendentemente dalla “scuola” di appartenenza. Per<br />

esempio ci sono delle cose intelligentissime scritte da<br />

qualche junghiano (si pensi a Vincenzo Loriga, ma anche<br />

a Cesare Viviani, o a Peter Schellenbaum).<br />

Non voglio dire che gli psicoanalisti oggi siano stupidi<br />

o che siano da svalutarsi i loro scritti. Ma, quando<br />

estrapoli da queste teorie provvisorie delle teorizzazioni<br />

e ne fai un sistema, tu fai un tipo di riduzione alla logica<br />

sbagliata.<br />

La logica della psicanalisi è una logica clinica. Non è una<br />

logica della teoria. Da questa chiusura in una cultura<br />

molto vecchia, noi italiani non usciamo e pure i francesi<br />

fanno molta fatica a venirne fuori. La teoria chiude tanto,<br />

non ti dà modo di avere un’interazione libera, soggettiva<br />

e intersoggettiva, dico io. Le teorie psicologiche<br />

o psicoterapiche sono veramente scatole cinesi.<br />

E però una teoria che fosse attenta alla varietà,<br />

pluralità e singolarità dell’esperienza non<br />

potrebbe suscitare una <strong>maggio</strong>re attenzione<br />

verso di essa? Non è che la teoria di per sé chiude<br />

soltanto…<br />

Per chiarezza, vorrei dichiarare i pochi dogmi del mio<br />

‘catechismo’: primum Freud. Allora, due cose. In Analisi<br />

Terminabile e Interminabile (1937), [Freud] nomina<br />

tre azioni la cui realizzazione corretta è impossibile, ma<br />

a cui non si deve rinunciare: «Sembra quasi che quella<br />

dell’analizzare sia la terza delle professioni “impossibili”<br />

il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo.<br />

Le altre due, note da molto più tempo, sono quelle<br />

dell’educare e del governare». Sono d’accordissimo che<br />

non possiamo portare la bandiera del valore etico o intenzionale<br />

di ciò che stiamo facendo come giustificazione<br />

del nostro lavoro, eppure non possiamo prescindere<br />

dalla necessità etica di praticarlo. L’altra cosa che Freud<br />

scrisse nell’Introduzione alla psicoanalisi (1932), ultima<br />

serie di lezioni, è che la psicanalisi non è una Weltanshauung<br />

(concezione del mondo). Importantissimo:<br />

la psicanalisi non è un modo di guardare al mondo, non<br />

è una visione del mondo. La psicanalisi è innanzitutto<br />

una pratica. L’errore protratto molto a lungo è stato<br />

quello di innescare questa continuità tra il pensiero accademico,<br />

filosofico e la psicanalisi.<br />

Il connubio tra filosofia e psicanalisi sarebbe<br />

dannoso?<br />

Guarda che cosa hanno scritto i vari psicanalisti (Lavagetto,<br />

Orlando, ecc.) che si sono occupati di letteratura o<br />

di arte. Franco Fornari stesso ha scritto un bruttissimo<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 22


libro su Agostino di Moravia. Soprattutto la psicanalisi<br />

degli anni Settanta ha cercato di attestare una sua attendibilità<br />

teorica. Invece che ispirarsi in modo creativo e<br />

curioso all’arte e alla letteratura, cogliendone gli stimoli<br />

preziosi e la capacità di intelligenza e di rappresentazione,<br />

certa brutta psicoanalisi ha cercato di spiegare i tratti<br />

psicopatologici nascosti dell’artista o della sua opera.<br />

Per fortuna, filosofi come Gilles Deleuze hanno fatto<br />

giustizia e chiarezza sull’arte di Francis Bacon; semiologi<br />

come Roland Barthes ci hanno aperto gli occhi sulla<br />

lettura dell’immagine! Sembra che la psicanalisi si senta<br />

sempre sorella minore della medicina, della filosofia<br />

delle scienze positive. E c’è ancora chi cerca di dire che è<br />

scienza, che è vera, è giusta e cura; e poi non ci credono<br />

davvero a quest’effetto di cura. È come sentirsi né carne<br />

né pesce e rimanere schiavi della medicina e fratelli minori<br />

della cultura filosofica e intellettuale.<br />

Quindi per te la psicanalisi non è una teorizzazione?<br />

E non ha bisogno di teoria?<br />

Ha bisogno di una pluralità di teorie. Non possiamo dire<br />

che c’è una teoria psicanalitica, ma è anche sbagliato<br />

dire: c’è quella freudiana, quella kleiniana, quella lacaniana.<br />

Ripeto: si può virare da una all’altra, se si conoscono<br />

i punti di snodo, ma la psicanalisi ha bisogno di<br />

una quantità molto vasta di teorizzazioni.<br />

E deve guardare di più alle scienze?<br />

Pensiamo ad Antonio Damasio o ai neuroscienziati che,<br />

spiegando la funzione dei neuroni a specchio, permettono<br />

di convalidare l’importanza dei processi inconsci di<br />

identificazione. Ciò significa, ad esempio, che guardando<br />

un paziente, ascoltando la sua voce e sentendo lui la<br />

mia, muovendomi e pensando certe idee, attivo un’area<br />

di arricchimento di comprensione e di conoscenza possibile<br />

che si potrebbe chiamare banalmente creativa. La<br />

scienza oggi mi dice: quello che fai è attendibile, è vero<br />

che funziona. Come psicoanalisti l’abbiamo dato sempre<br />

per scontato, ma dirlo non è così facile. Per questo<br />

compaiono la famosa empatia o le relazioni affettive rimosse,<br />

quasi a giustificare che fra due soggetti qualcosa<br />

di nuovo accade!<br />

E come potrei negare le funzioni di neurotrasmettitori,<br />

come la serotonina, la dopamina, la noradrenalina,<br />

ecc.? Devo sapere che un individuo sottoposto a una fatica,<br />

a uno stress, al dolore, o a qualche cosa di molto<br />

grave, andrà accudito, magari aiutato ad accettare un<br />

aiuto farmacologico stabile o temporaneo adeguato.<br />

Dovrò poter telefonare a un collega psichiatra e dirgli<br />

che questo neurolettico per questo paziente è troppo,<br />

lo fa star male. Oppure: guarda che questo neurolettico<br />

non va bene, non si può sostituirlo o somministrargliene<br />

un po’ meno?<br />

Se non so queste cose, non so curare il paziente. La teoria<br />

mi può dire quello che vuole, però io sono presente<br />

anche per riconoscere che un farmaco a una persona fa<br />

bene ma all’altra fa malissimo, che una cura tipica può<br />

essere straordinaria per un’anoressica ma inutile o dannosa<br />

per un’altra, che solo un ottavo del dosaggio standard<br />

di un farmaco neurolettico è sufficiente a quello<br />

psicotico cosiddetto delirante: è semplicemente preda<br />

di un’angoscia tremenda e quel farmaco che non lo stordisce<br />

gli fa recuperare un grado di calma e magari poi<br />

smetterà anche di prenderlo.<br />

Ora io non posso teorizzare che i farmaci non servano,<br />

che la serotonina non è così importante. Alla stessa<br />

stregua, un cognitivista così come un fenomenologo su<br />

certe cose hanno ragione. Se lo psicanalista interpreta<br />

come atto mancato un comportamento inconsueto che<br />

in realtà dipende da un’anomalia dell’amigdala, sta facendo<br />

un abuso teorico, ignorando le conoscenze che ci<br />

hanno portato le neuroscienze. Allora da un certo punto<br />

di vista bisogna dire con chiarezza che la psicanalisi non<br />

è una teoria unitaria.<br />

L’attenzione dello psicanalista verso le scienze<br />

non significa rifiuto della filosofia, vero?<br />

No, anche dalla filosofia possiamo trarre insegnamenti<br />

preziosi. Io trovo interessanti ad esempio le questioni<br />

del tempo, del tempo inconscio, del non tempo dell’inconscio<br />

(una questione importante in sospeso) da Husserl<br />

ad Heidegger a Emanuele Severino, un uomo di<br />

grande intelletto secondo me: la questione dell’eterno<br />

presente, del tempo presente è una vera spiegazione teoretica<br />

del modulo logico del tempo. Da psicoanalista<br />

non posso affermare che il senso del tempo è quello che<br />

dico io e non è quello che dice Emanuele Severino…<br />

Possiamo dire che la psicanalisi è un sapere<br />

o una scienza aperta…<br />

È una scienza aperta. Riprendiamo ancora Freud, che<br />

segnalò quello che la psicanalisi non deve fare: negare.<br />

Perché non deve avere una funzione negativa? Perché<br />

la funzione negativa si legge, in psicoanalisi, come meccanismo<br />

difensivo rispetto al reale, e al sapere che si<br />

produce. Non mi posso permettere, come psicanalista,<br />

come essere pensante, come essere umano, di negare a<br />

priori un dato del sapere solo perché scombina la mia<br />

teoria.<br />

Prendiamo l’esempio di alcuni pazienti citati da Damasio.<br />

Potrebbe capitare che uno di loro, portatore di una<br />

lesione all’amigdala, dia una risposta assolutamente serena<br />

e non aggressiva davanti a chi lo insulta o lo malmena,<br />

anzi è sorridente e bonario. Come psicoanalista,<br />

o psicologo, o psichiatra, potrei pensare che probabilmente<br />

il paziente ha un tratto masochistico, o forse ha<br />

una componente d’identificazione con il proprio aggressore,<br />

o forse interpreta l’attacco in modo metaforico.<br />

Potrei dire un sacco di sciocchezze! Perché chi ha una<br />

microlesione nell’amigdala può essere assolutamente<br />

capace di vivere, di amare, di lavorare di fare una vita<br />

comune, ma non riesce ad individuare i segnali aggressivi<br />

(tono di voce, alterazione motoria, ecc.) di un altro<br />

come minacciosi, non codifica questo come un attacco,<br />

si comporta in modo non reattivo.<br />

Allora, se dieci anni fa potevamo pensare che fossero<br />

fissazioni dello scienziato, oggi dovremmo imparare<br />

qualcosa di più dalla metodologia filosofica: sospendere<br />

il giudizio, fare “l’epochè”, la sospensione del pre-giudizio,<br />

in attesa delle rilevazioni fenomeniche adeguate al<br />

giudizio. Se no, si fanno delle operazioni assolutamen-<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 23


te criticabili. Come psicanalisti dobbiamo interrogarci:<br />

perché mai dobbiamo negare qualche cosa?<br />

La psicanalisi oggi è sottoposta a molti attacchi.<br />

Nel 2005 è uscito Il libro nero della psicanalisi<br />

e, in risposta a quel testo, Elisabeth Roudinesco<br />

ha scritto Pour quoi la psichanalyse.<br />

Qual è la tua opinione?<br />

La Roudinesco fa una serie di osservazioni sulla legittimità<br />

del lavoro analitico, sul fatto che il soggetto umano<br />

non può essere ridotto a certe categorie e dà una risposta<br />

anche abbastanza attendibile. Però penso anche che la<br />

psicanalisi dovrebbe abbattere la propria presunta onnipotenza.<br />

Noi stessi siamo stati psicanalizzati da quelli<br />

che abbiamo considerato maestri, ma credo che oggi il<br />

mito sia sfatato, che forse vada preso atto che un’umiltà<br />

rispetto agli altri saperi dobbiamo averla, perché altrimenti<br />

rischiamo di ideologizzare, di confezionarci “vestiti<br />

di idee” (l’Ideenkleid che Husserl ci ha insegnato a<br />

riconoscere).<br />

Eppure tutti parlano di epoca post-ideologica…<br />

Quest’anno mi hanno colpito molto alcuni colleghi americani.<br />

In modo pregiudiziale spesso li avevo considerati<br />

poco stimolanti sul piano intellettuale. Invece ho conosciuto<br />

Eric Plakun, che lavora da trent’anni all’Austen<br />

Riggs Center, dove sono ricoverati i pazienti suicidali o<br />

con rischio suicidale alto e con un alto grado di rifiuto<br />

di ogni forma di trattamento psicanalitico o psicoterapico.<br />

Lui è responsabile da trent’anni di quest’ospedale.<br />

È di una semplicità, di un’umiltà assolute. Ha scritto un<br />

saggio bellissimo (ci ha lasciati tutti con tanto di naso!)<br />

che riflette sugli errori dei terapeuti, che non sanno affrontare<br />

il fallimento della propria terapia né la paura<br />

di parlare di morte o la mortalità possibile del paziente.<br />

Ciò implica che a volte i terapeuti non sanno usare<br />

costruttivamente quell’aggressività che viene sollecitata<br />

dai pazienti.<br />

Plakun pone la questione in questi termini: tu, analista<br />

che lavori con una persona che si può ammazzare<br />

e rifiuta la terapia, sai che cosa ti sollecita, sai che controtransfert<br />

– diremmo noi negativo - sollecita in te, sai<br />

che parti tue di rigetto, di furia, di rabbia, di non accettazione,<br />

di negazione, sollecita?<br />

Ha fatto un’indagine sugli errori nel processo, quando<br />

non si guarda e a volte non si parla col paziente di questa<br />

problematica. Ora all’Austen Riggs hanno una bassa<br />

percentuale di pazienti che si suicidano lo stesso. Ma<br />

un’altissima percentuale di pazienti riesce a superare<br />

questa impasse.<br />

L’altra cosa intelligentissima è che, se un terapeuta in<br />

supervisione non riesce ad affrontare la questione distruttiva<br />

ed è in qualche modo quasi complice del paziente,<br />

il team che segue il paziente darà il compito di<br />

elaborare il nucleo distruttivo a un altro terapeuta, che<br />

interviene magari col gruppo, anziché con la terapia individuale<br />

piuttosto che con la terapia farmacologia. Sarà<br />

quest’ultimo a svolgere la funzione necessaria, senza<br />

bloccare l’altra funzione utile che il terapeuta conniven-<br />

te in qualche modo sta svolgendo.<br />

Da un americano non mi aspettavo tanto, francamente.<br />

Ed è un insegnamento che ti fa pensare. Per esempio<br />

quando noi generalizziamo e non prendiamo atto che<br />

abbiamo delle difficoltà, dobbiamo affrontare delle cose<br />

che non ci piacciono proprio e ci troviamo di fronte a<br />

questioni abbastanza complesse… ecco, loro fanno una<br />

clinic, dove c’è questa gente che lavora insieme e si integra<br />

in uno scopo comune. Per noi è una cosa abbastanza<br />

strana e di là da venire…<br />

Con questa pluralità di approcci e, diciamo<br />

pure, di eclettismo e d’incertezza come fa l’analista<br />

a sciogliere i nodi più difficili? Quando ha<br />

dei dubbi, a cosa, a chi ricorre? Ci sono dei supervisori?<br />

Non ce n’è quasi nessuno. Io vado a Londra da Bollas,<br />

magari anche solo per una supervisione. Lavoro con lui<br />

e procediamo in un lavoro di ricerca a tempo indeterminato.<br />

Grazie al cielo ci capiamo bene. Ho anche degli<br />

scambi con alcuni colleghi di Parigi, posso confrontarmi<br />

abbastanza frequentemente coi colleghi americani, c’è<br />

qualche collega milanese col quale è possibile uno scambio<br />

di punti di vista. Devo dirvi se a Milano c’è qualcuno<br />

che mi capisce? Pochi e poco. Molti non capiscono neanche<br />

di cosa sto parlando. Se sono chiusi in una teoria,<br />

sono io che mi devo sforzare di parlare il loro gergo, i<br />

miei riferimenti pluralistici sono faticosi!<br />

Allora un analista, che s’accorge della complessità<br />

dei nuovi disagi e dei rischi che corre<br />

nell’affrontarli, su cosa può contare?<br />

Secondo me su un lavoro d’équipe. L’ex Ospedale Psichiatrico<br />

“P.Pini” in qualche modo lo fa: sono una rete<br />

di persone che possono collaborare.<br />

In primo luogo ci vorrebbe un lavoro d’équipe organizzato<br />

principalmente dallo psicanalista. In secondo<br />

luogo una collaborazione stretta con le altre figure terapeutiche<br />

(non un’esclusione come se una fosse la figura<br />

utile e le altre figure accessorie). A volte la figura psicoterapica<br />

più efficiente può non essere affatto quella<br />

dello psicoanalista, ma lo psicoanalista deve supportare<br />

adeguatamente la figura designata e favorire un’armonizzazione<br />

dei compiti dell’équipe.<br />

L’altro discorso è la supervisione. Sì, la supervisione<br />

posso chiederla ad alcuni. Per carità, se c’è una persona<br />

che mi può illuminare! Però a volte sono pochissimi<br />

quelli capaci di lavorare su piani complessi. Ormai con<br />

queste scuole esplose dovunque, non c’è più psicoanalisi<br />

che si sofferma a pensare!<br />

L’altro discorso è che io ho in supervisione alcuni colleghi.<br />

Cosa faccio, quando prendo in supervisione casi<br />

gravi? Una comunicazione almeno settimanale; e poi<br />

prendo in carico assieme al collega il lavoro che sta facendo,<br />

segnalandogli chiaramente quello che non vede.<br />

Viene da me una collega che a volte lavora con casi gravi<br />

e si è trovata nel panico. Allora, per es., quando tu fai un<br />

quadro molto dettagliato e preciso con un collega che<br />

supervisioni, prima di tutto devi sapere fino a che punto<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 24


il collega ha lavorato su di sé.<br />

Ho avuto una collega in analisi per due anni e mezzo,<br />

perché aveva bisogno di capire delle cose che non aveva<br />

mai analizzato per continuare in quest’area di supervisione.<br />

E allora era importante che prendesse contatto<br />

con delle aree psicotiche di sé, che non aveva mai tenuto<br />

in considerazione e che quindi interagivano male con<br />

quelle del paziente. Non poteva essere così pacata da lasciarlo<br />

tranquillo se aveva bisogno di catalogarlo, di collocarlo,<br />

di applicare la tecnica - questa cosa di applicare<br />

le tecniche è mostruosa!<br />

Imparate queste cose, allora, il lavoro può essere: “stiamo<br />

vedendo quello che succede!”. Non è che io preveda<br />

esattamente quello che succederà, ma devo avere una<br />

mappatura molto precisa, come un piano cartesiano che<br />

ti permette di individuare il punto, l’oggetto.<br />

È un lavoro davvero difficile…<br />

Secondo me, quando ci sono grosse difficoltà col collega<br />

in supervisione che ha un caso difficile da trattare, devi<br />

disporre tanti occhi che guardano, devi tenere presente<br />

una serie di dinamiche che si muovono.<br />

A volte ci vuole pazienza da parte del terapeuta o<br />

dell’analista, perché pare che per molto tempo non succeda<br />

niente... E magari nell’analista si coltiva l’angoscia,<br />

si annida un malessere, non dorme di notte: ti porti<br />

dentro dei mattoni pesanti, incredibili. E devi reggere.<br />

A volte quello che fa succedere qualche cosa è proprio il<br />

fatto che tu riesca a tenerti tutta questa carica mostruosa<br />

di angoscia, di malessere, portartela dentro; e a volte<br />

vedi il paziente che esce alleggerito dal tuo studio e tu ti<br />

senti pieno di pesi, di lividi, di insuccessi…<br />

Un paziente che aveva delle fissazioni gravi mi era stato<br />

mandato da un reparto psichiatrico importante di Milano.<br />

Aveva delle gravi situazioni deliranti. Ho notato<br />

che aveva bisogno di un tempo della seduta completamente<br />

fuori da quello del setting, fuori da certi canoni.<br />

Perciò fa una seduta di due ore. Tutte le volte, per un<br />

anno abbondante, due ore alla volta, perché per sentirsi<br />

a proprio agio, per sciogliersi verbalmente, per poter instaurare<br />

un rapporto sufficiente, ha bisogno di almeno<br />

una mezz’ora. E adesso che si sente a proprio agio, il<br />

tempo è quello, un tempo lungo.<br />

So che sarebbe dovuto venire non meno di due tre volte<br />

la settimana. Ma ci sono più problemi. Primo: secondo<br />

lui due, tre volte è troppo e non se lo può concedere. Poi<br />

economicamente non se lo può permettere. E poi per<br />

lui venire più volte sarebbe un segno di gravità. E allora<br />

cosa ho fatto? Ho lasciato l’accordo di una sola seduta<br />

alla settimana, una seduta che occupa il tempo di tre<br />

sedute che si tengono in giorno solo.<br />

È fortemente antieconomico, dal punto di vista del denaro<br />

che guadagno. E però a volte un tempo antieconomico<br />

è indispensabile… Il tempo prolungato così, per<br />

questo paziente, è indispensabile. Se confronti il mio<br />

comportamento con un rigido setting, si può dire che io<br />

mi comporti in modo selvaggio! Ma il paziente è guarito,<br />

se così si può dire, dalla propria patologia psicotica<br />

e sta lavorando ora come ogni normale nevrotico, anzi<br />

come uno dei migliori analizzanti!<br />

Anche la questione del vecchio dispositivo delle quattro<br />

o cinque sedute alla settimana, della neutralità dello<br />

psicanalista, dell’accettazione indiscutibile delle regole<br />

e dei tempi, della frequenza e dei pagamenti non può<br />

essere attuata al giorno d’oggi. Pensa che a New York è<br />

rimasto un solo allievo psicoanalista che procede nella<br />

formazione tradizionale dell’Internazionale Freudiana.<br />

Vorrà pur dire qualcosa rispetto ai cambiamenti necessari.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 25


Distruggere<br />

quello che ti<br />

distrugge 1<br />

Giacomo Conserva<br />

Lo statuto della follia è sempre stato dubbio: dono degli<br />

dei; espressione della fragilità umana e suo specchio;<br />

pura negatività; chiave verso un futuro. Apro casualmente<br />

un testo appena scaricato dalla Rete (Typography, di<br />

Lacoue-Labarthe), e leggo l’inizio: “Quasi dappertutto<br />

è stata la follia ad aprire la strada per l’idea nuova, a<br />

rompere l’incantesimo di una abitudine venerata e della<br />

superstizione. Capite perché è stata la follia a far questo?<br />

Qualcosa dalla voce e dall’atteggiamento inquietanti<br />

e incalcolabili come i modi demonici del tempo e<br />

del mare, e perciò meritevole di un uguale rispetto e attenzione?<br />

Qualcosa che portava altrettanto visibilmente<br />

il segno della totale non libertà delle convulsioni e della<br />

bava dell’epilettico, e che sembrava designare il folle<br />

come la maschera ed il portavoce degli dei? Qualcosa<br />

che nel portatore di una nuova idea risvegliava reverenza<br />

e timore per sé stesso - non più i tormenti della coscienza<br />

- e lo spingeva a divenire il profeta ed il martire<br />

della sua idea?”<br />

Altre letture sono state fatte. Il problema sono i ‘sani’,<br />

la ‘normalità’: tutte le formulazioni di Laing etc. E che la<br />

‘normalità’ incorpori un alto tasso di repressione sociale<br />

interiorizzata mi pare difficile da contestare. Ma è stato<br />

pure detto: fare della malattia un’arma (l’SPK, collettivo<br />

socialista dei pazienti- Heidelberg inizio anni ’70):<br />

gruppi di discussione con ‘pazienti’, utilizzando sullo<br />

sfondo Marx e la Fenomenologia dello Spirito - gruppi<br />

di discussione e rottura dell’ordine psichiatrico (e non<br />

solo) - ben al di là della rivendicazione del proprio diritto<br />

alla devianza dalla norma.<br />

Naturalmente, la ‘follia’, in quanto tale, non esiste. O almeno,<br />

non esiste più, in quanto le categorie percettive,<br />

ideologiche, teoriche sono cambiate. In questo c’è una<br />

lunga storia, non conclusa (per es. all’inizio degli anni<br />

’70 in USA l’omosessualità venne ufficialmente non più<br />

considerata una malattia). Ora abbiamo psicosi, depressione,<br />

ansia, disturbi di personalità… Abbiamo persone<br />

1 Letture: Gloria Anzaldua, Borderlands /La frontera, The<br />

new mestiza, Aunt Lute Books 2007 (1987). - Saskia Sassen,<br />

Una sociologia della globalizzazione, Einaudi <strong>2008</strong> ( 2007).-<br />

Neil Brenner e Roger Keil, a cura di,The Global Cities Reader,<br />

Routledge 2006.- G. Deleuze e F.Guattari, Millepiani.<br />

Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi 2003 (1980).- Allen<br />

Ginsberg, Kaddish (1961), in Poesie scelte 1947-1995, testo<br />

inglese a fronte, Net 2005.- F. Lyotard, Il dissidio, Feltrinelli<br />

1985 (1983). - R.D. Laing, L’io e gli altri. Psicopatologia dei<br />

processi interattivi, BUR 2002 (1961).<br />

che a volte chiedono aiuto; altre rispetto alle quali viene<br />

chiesto aiuto (e anche questa è una categoria vastissima:<br />

si pensi all’uso a suo tempo in URSS della categoria<br />

‘paranoia’ - delirio di persecuzione e di grandezza - contro<br />

non pochi oppositori).<br />

Inoltre, il problema non riguarda solo ‘gli altri’, ma<br />

ciascuno in prima persona: io, che scrivo queste righe<br />

(come te, che le leggi), posso avere avuto (o avere, ora<br />

o in futuro) periodi di alterazione e sofferenza estrema;<br />

di me (di te) può venire detto - a un certo punto - che<br />

sono strambo, bizzarro, patologico. A torto o ragione.<br />

(Non solo nessuno è senza colpa, ma nessuno è esente<br />

dai rischi della conditio humana).<br />

La globalizzazione e la rivoluzione tecnico-scientifica<br />

comportano sovvertimenti cognitivi e sociali. L’ambiente<br />

di lavoro e di vita cambia senza tregua (e spesso senza<br />

preavviso). Flussi di denaro, di merci, di immagini e<br />

suoni e parole, di persone, di tecnologia si intrecciano<br />

vorticosamente. Il caos ha anche i suoi lati positivi, certo.<br />

Era stato detto: non avere una identità fissa (contro<br />

la società patriarcale, autoritaria, fallocentrica); ma vi<br />

sono anche gli aspetti di violenza, disgregazione, distruttività<br />

pura, diffusa, o interpersonale nei piccoli gruppi,<br />

o contro sé stessi. Le nostre menti e i nostri corpi hanno<br />

a volte difficoltà a fare i conti con tutto questo.<br />

Tutto ciò è particolarmente evidente se esaminiamo le<br />

storie di stranieri ‘con problemi psichiatrici’ (o psicologici).<br />

Se si scava appena sotto la superficie, ci troviamo<br />

proiettati in luoghi come Kushab, perso nelle campagne<br />

del Punjab, ove c’è un reattore per il plutonio; o Souk<br />

Sebt (un vecchio piccolo mercato settimanale, come<br />

dice il nome), Marocco, regione di Beni Mellal (povera,<br />

ad altissimo tasso di emigrazione): leggendo un blog nel<br />

sito del municipio scopro (da un migrante che scrive furioso<br />

dalla Germania) della recente apertura lì, contro<br />

ogni tradizione e contro la legge coranica, di una vineria<br />

(a Beni Mellal, d’altro canto, stanno per aggiungere un<br />

moderno reparto psichiatrico all’ospedale distrettuale).<br />

Un russo-italiano mi parla (è ben al di là della fase acuta<br />

dei suoi problemi), per diverse variabili della sua storia,<br />

di una città chiusa russa specializzata in produzioni<br />

strategiche e militari, di un porto sul mare Artico, di una<br />

città dell’Australia, di un sito elettronico che permette di<br />

contattare i suoi compagni di liceo variamente dispersi<br />

per il mondo, oltre che di Parma, dove vive; da una piccola<br />

città della Moldavia mi giungono storie di aggressioni<br />

di strada, e della guerra con la Trans-Dnistria all’inizio<br />

degli anni ’90. Posso discutere di Al Jazeera (trasmessa<br />

dal principato del Dubai) con un operaio di Fornovo (a<br />

Fornovo si svolse nel 1495 una famosa battaglia contro<br />

Carlo VIII di Francia e nell’aprile 1945 una altra battaglia<br />

contro divisioni tedesche e della Repubblica di Salò<br />

in ritirata: si arresero alla fine in 15.000) … e tutte le<br />

variabili e intrecci di storia - familiari, sociali, economiche<br />

- possibili e immaginabili. Lo stesso, naturalmente,<br />

vale per gli italiani nativi (ammesso che p.e. non siano<br />

nati in Germania, come non poche volte capita di vedere).<br />

Era stata la lezione di Deleuze e Guattari: indagare e<br />

seguire i flussi, le ramificazioni, i concatenamenti - fare<br />

linea, non punto - mettersi dal punto di vista dei processi,<br />

e delle strutture e dei gruppi in trasformazione.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 26


Ornella Garbin, In cerca di aiuto<br />

In quanto psichiatra non ho nessuna lezione da insegnare,<br />

nessuna normalità da difendere. Posso solo aiutare<br />

le persone a fare quello che cerco di fare io: muovermi<br />

in questo oceano, essendo il più lucido possibile<br />

su dove mi trovo e cosa sto facendo e cosa ciò implica;<br />

e il meno rigido possibile davanti agli eventi interni ed<br />

esterni, alle situazioni, alle emozioni, ai rapporti.<br />

Naturalmente, è molto più facile da dire che da fare.<br />

Ma, come è stato pure detto - wir sind nicht allein - non<br />

siamo soli: si può, nel corso del tempo, chiedere aiuto,<br />

riceverlo, pure darlo.<br />

“Arsenio Lupin”<br />

e il “dominio<br />

delle cose”<br />

la difficoltà di mentalizzare le<br />

emozioni<br />

Scena I<br />

Marina Massenz<br />

All’uscita dalla terapia, S. dice che vuole andare in bagno.<br />

La mamma chiede: “Hai bisogno d’aiuto?”. “No,<br />

no… faccio da solo.” Sento subito una nota “stonata” in<br />

quest’affermazione, peraltro apprezzabile in un bambino<br />

di cinque anni in cerca di una sua autonomia; è una<br />

sfumatura, un tono di voce… Che però mi torneranno in<br />

mente, suonando come un campanello d’allarme, quando,<br />

per tutto il pomeriggio, il Centro presso cui lavoro<br />

vive il disagio della scomparsa delle chiavi della porta<br />

dei servizi. Sapevo già che il bambino aveva l’abitudine<br />

di “rubare” i soldi dal borsellino della madre, uno dei<br />

sintomi del suo malessere che aveva convinto i genitori<br />

a chiedere un aiuto terapeutico per comprenderlo e<br />

aiutarlo. Ma fino a quel momento non avevo incontrato<br />

che un bambino molto bello, intelligente e vivace che si<br />

limitava a giocare con me alcune partite sul tema oppositivo-provocatorio;<br />

eravamo all’inizio della terapia.<br />

Il dialogo telefonico con la madre, il giorno seguente, si<br />

sviluppa intorno al fatto avvenuto al Centro: ha preso<br />

S. le chiavi del bagno? Il bambino, da lei interrogato,<br />

prima nega, poi ammette; dove sono ora non lo sa, forse<br />

le ha perse…<br />

Nel nostro incontro successivo, racconto a S. (come fosse<br />

solo un fatto che riguardava me) quanto fossimo stati<br />

“disperati” non trovando più le chiavi; faccio un racconto<br />

realistico, dettagliato, ma non gli chiedo nulla. S. è<br />

molto partecipe emotivamente e subito mi offre il suo<br />

aiuto: “Cerchiamole…”. Esce, guarda in bagno, poi dice:<br />

“Forse sono cadute… forse nello zainetto di un bambino<br />

(e fruga nel suo). Forse sono cadute nelle tasche<br />

del cappotto (e guarda nella tasca del suo)”. Purtroppo,<br />

esprime un certo dispiacere, non si trovano!<br />

Scena II<br />

Alcuni mesi dopo, S. termina la sua seduta con molta<br />

fatica; il gioco che stavamo facendo lo coinvolgeva molto,<br />

stavamo bene insieme… Sono comunque costretta<br />

a richiamarlo all’orario, alla conclusione del nostro incontro.<br />

Esce con un certo sforzo, si adatta alla “regola”<br />

stabilita, ma noto che osserva con intensità F., il bambino<br />

che entra nell’ora successiva alla sua. Poi, dopo che<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 27


l’ho salutato e richiuso la porta per iniziare il mio lavoro<br />

con F., vedo la sua testa che fa capolino dalla porta;<br />

“ciao!” mi dice. “Ciao S., ci vediamo la settimana prossima!”<br />

Capisco la sua fatica, cerco così di rassicurarlo<br />

sulla continuità della nostra relazione.<br />

Ma… quando F. esce dalla stanza non ci sono più le sue<br />

scarpe! Il bambino va nel panico, vive con angoscia<br />

questo attacco ai suoi oggetti personali, le scarpe poi!<br />

Gli dico che forse qualcuno le ha nascoste, cerchiamo!<br />

Infatti, troviamo una scarpa di F. nascosta nella cesta<br />

dei panni. Ma l’altra? Anche il nonno, molto in ansia<br />

perché non può portare a casa F. senza scarpe e lo aspettano<br />

per una data ora, ci aiuta nella ricerca. Niente.<br />

Telefono alla mamma di S., che, molto prontamente,<br />

mi dice: “Adesso torno subito lì con S.!”. S. nega fermamente<br />

di aver fatto sparire lui la scarpa di F., finché<br />

la mamma, frugando quasi senza più speranza nel suo<br />

zaino, la trova lì. Quando arrivano al Centro, la scena è<br />

inquietante; lei è imbarazzatissima e mortificata per il<br />

comportamento del figlio, F. è furibondo e, pur essendo<br />

timido, è rosso in viso e lancia saette dagli occhi, anche<br />

se non dice nulla apertamente a S.; il nonno, molto<br />

saggio, ma ora alterato, in ansia e in ritardo, cerca di<br />

metterci una buona parola, ma con scarsi risultati. S.<br />

osserva la scena con apparente indifferenza, anzi noto<br />

in lui un sorrisino trattenuto.<br />

Dopo avere gestito come potevo questo momento difficile<br />

un po’ per tutti, con la bambina dell’ora successiva<br />

che mi tirava per la mano sollecitandomi ad andare<br />

nella “nostra” stanza, mi richiudo la porta alle spalle.<br />

Mi resta in testa, come una foto istantanea, l’immagine<br />

della mimica del viso di S.; un insieme complesso<br />

di espressioni, dallo scherno (il sorrisino), alla paura<br />

(nello sguardo), all’apparente indifferenza del resto del<br />

volto. Come se lui fosse lì per sbaglio e guardasse da<br />

lontano tutto quel parapiglia e l’affanno delle persone<br />

intorno a lui; come se il “fatto” non lo riguardasse più<br />

di tanto.<br />

Scena III<br />

Proprio pochi giorni prima S. era arrivato da me accompagnato<br />

dalla signora che fa i servizi a casa sua; così,<br />

in seduta, avevo avuto l’opportunità di parlare con lui<br />

dell’affetto che nutre nei confronti di questa persona,<br />

la cui bravura nel cucinare è molto apprezzata dal bambino.<br />

Parla invece della sua baby-sitter in termini assolutamente<br />

diversi; è arrabbiato con lei perché, quando<br />

va a prenderlo all’uscita da scuola, non gli permette di<br />

fare la merenda prima dei compiti. Lui invece è molto<br />

stanco e ha fame! Questo racconto (che rimanda forse<br />

non tanto alla stretta verità dei fatti, ma piuttosto al suo<br />

vissuto emotivo-affettivo di questa relazione) mi pare<br />

una prima apertura al “pensiero sugli affetti” e quindi<br />

un momento importante di transizione verso il percorso<br />

di “mentalizzazione delle emozioni” che ho ipotizzato<br />

come strategia terapeutica.<br />

Purtroppo però questo inizio di elaborazione dei propri<br />

vissuti da parte del bambino non è sufficiente ad impedire<br />

un ulteriore “fattaccio”; infatti sparisce il portafo-<br />

glio della baby-sitter. Il fatto è grave, perché vi erano<br />

contenuti anche documenti, carta di credito e soprattutto<br />

il permesso di soggiorno, dato che la ragazza è<br />

straniera; quindi la scena che si svolge in casa è drammatica.<br />

Lei piange, si dispera; la madre di S. l’accompagna<br />

in questura a denunciare il furto del portafoglio, ma<br />

prima interroga S., spiegandogli la gravità del fatto e<br />

mettendolo di fronte al dispiacere della sua baby-sitter.<br />

Niente! S. assicura in maniera fermissima che no, non<br />

ne sa proprio nulla!<br />

La sera anche il padre lo prende da parte e con parole<br />

calme e accorate lo invita a dire la verità, a restituire subito<br />

il portafoglio, gli spiega che più tempo passa più il<br />

fatto si fa grave, che poi risulterà essere anche bugiardo<br />

ecc. Ma il bambino, che io immagino ormai sopraffatto<br />

dalla vergogna e dal dispiacere per quell’azione, non ce<br />

la fa proprio a parlare; si trincera dietro una negazione<br />

insormontabile.<br />

Il fatto accade il venerdì; il martedì successivo, l’altra<br />

giornata in cui la ragazza viene a casa loro, S. compare<br />

sventolando il portafoglio e dicendo alla baby-sitter<br />

sorridendo: “Ho un regalo per te!...”.<br />

Arsenio Lupin<br />

Dopo il secondo atto comincio a chiamare dentro di me<br />

S. “Arsenio”; del famoso ladro ha non solo l’abilità, ma<br />

anche la capacità di predisporre piani infallibili. Una<br />

mente che programma il “danno”, che studia le mosse<br />

e le parole giuste, che sa colpire in modo imprevisto e<br />

imprevedibile. Però, questa è la mente di un bambino di<br />

cinque anni. Di un bambino che soffre. Perché “ruba”,<br />

Arsenio? Ruba affetto, che sente di non avere ricevuto<br />

in misura adeguata ai suoi bisogni, che pensa sia stato<br />

dato in misura <strong>maggio</strong>re alla sorella gemella; esprime<br />

gelosia, verso di me, che anziché occuparmi solo di lui<br />

dopo un’ora lo lascio per giocare con un altro bambino;<br />

manifesta rabbia, verso la baby-sitter, che non gli lascia<br />

fare la merenda come lui vorrebbe, prima dei compiti…<br />

Le emozioni non sono pensabili, la sua piccola mente<br />

non riesce a contenerle, elaborarle o dare loro degli<br />

sbocchi più immediati e leggibili, che consentirebbero<br />

anche agli adulti che gli sono intorno di comprenderlo<br />

meglio e magari, quando è possibile, accogliere i suoi<br />

bisogni, sintonizzarsi sui suoi vissuti. Arsenio utilizza<br />

tutta la sua intelligenza per studiare “piani” che portino<br />

queste emozioni “ingestibili” fuori dal contesto relazionale,<br />

per renderle fatti, per commerciare emozioni con<br />

cose.<br />

Nella confusione e nel panico generale che il suo comportamento<br />

genera - collera e sgridate, castighi e “ramanzine”<br />

- egli si trova poi sopraffatto da sensi di colpa<br />

e sinceramente pentito e forse disperato; l’ha fatta così<br />

grave che è impossibile rimediare! Quindi il circolo vizioso<br />

tende a riprodursi; al “danno irrimediabile” succede<br />

un ulteriore danno, quasi a confermare l’immagine<br />

di bambino cattivo e pericoloso che sta costruendo<br />

intorno a sé.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 28


Ornella Garbin, Capriola sull’erba<br />

Un’altra modalità che S. utilizza per “provocare” gli<br />

adulti è quella di fare la cacca, senza che nessuno sulle<br />

prime se ne accorga, nei posti più improbabili: in mezzo<br />

al giardino della scuola materna, nel salotto di casa,<br />

nella camera che divide con la sorella (presso le cose di<br />

lei), a volte “spargendola” con cura sul suo tavolo…<br />

Per questo l’attitudine terapeutica che mi sembra più<br />

utile per aiutarlo è quella di evitare la colpevolizzazione<br />

(“Hanno preso le chiavi del bagno… chi sarà stato?),<br />

puntando a rimettere in moto le parti “buone” e<br />

“capaci”di S., esprimendo indirettamente fiducia nelle<br />

sue possibilità di “aggiustare il danno”. Entro in sintonia<br />

con il bambino che segretamente soffre per avere<br />

così crudelmente attaccato l’oggetto (gli oggetti) d’amore<br />

e che si sente incapace di risollevarsi dalla situazione<br />

emotiva (dolore, colpa, immagine negativa di sé, vergogna…)<br />

in cui si trova; lo sviluppo di capacità “riparative”<br />

è infatti quello che consente ai bambini di accettare la<br />

propria aggressività, le proprie parti “cattive”, proprio<br />

perché integrate come meno pericolose e distruttive.<br />

Insomma, posso anche fare un cattivo scherzo, un dispetto,<br />

un capriccio con la mamma, ma sapere anche in<br />

fondo che non soccomberà a questo mio attacco e che<br />

attivamente potrò (un abbraccio, una parola dolce, un<br />

sorriso…) recuperare il suo affetto, solo temporaneamente<br />

(nel vissuto del bambino) perduto.<br />

Se il potenziale aggressivo e i sentimenti negativi possono<br />

essere vissuti dal bambino come “non troppo minacciosi”<br />

egli potrà giocarseli apertamente nella relazione<br />

con l’altro, fiducioso nella propria capacità di farsi perdonare<br />

e di essere perdonato. Spesso durante le sedute<br />

lo gratifico per le sue abilità, le costruzioni meravigliose<br />

che sa fare, la capacità di “giocare bene” con me; gli occhi<br />

azzurri e profondi di S. si illuminano di vera gioia in<br />

questi casi, e posso vedere attivarsi un bambino molto<br />

dotato e di buoni sentimenti.<br />

Il rapporto tra S. e Arsenio è però molto complesso e<br />

difficile da sbrogliare; infatti il crinale che divide queste<br />

due diverse modalità di essere del bambino è ancora<br />

molto sottile. La strada, in salita, è quella di rendere<br />

mentalizzabili le emozioni, di poter pensare ed esprimere<br />

anche quelle negative, di rinunciare progressivamente<br />

a questi agiti per lasciar posto ad una loro circolazione<br />

all’interno della comunicazione con l’altro.<br />

Su questa strada ci stiamo avviando, faticosamente; è<br />

quasi un percorso archeologico, nel senso che con la paletta<br />

del nostro secchiello - la relazione affettiva che si è<br />

creata tra noi - stiamo cercando di disseppellire queste<br />

indicibili emozioni per renderle meno violente ed accedere<br />

alla possibilità di “giocarle” sul piano simbolico<br />

(la scena è spesso quella del duello, che si svolge tra noi<br />

senza morti e feriti grazie a bastoni di gommapiuma),<br />

per poterle anche poi esprimere verbalmente.<br />

Considerazioni generali<br />

Il disagio infantile si esprime a volte in modi “terrificanti”<br />

per gli adulti; il bambino “ladro” a cinque anni<br />

terrorizza i genitori, perché il mondo adulto fa spesso<br />

fatica a guardare il mondo dell’infanzia usando, come<br />

si dovrebbe, occhiali diversi. Per S. il furto è un’azione<br />

lesiva, è senz’altro un’aggressione all’adulto, ma non è<br />

assimilabile al codice delle leggi e dei comportamenti<br />

adulti.<br />

Per S. si tratta di agire il suo impulso, come potrebbe<br />

fare un altro bambino dando un calcio o spaccando un<br />

giocattolo; paradossalmente, le sue stesse doti (l’intelligenza)<br />

gli hanno reso la vita più grama. Infatti, la capacità<br />

di sviluppare una “strategia” complessa per esprimere<br />

i suoi sentimenti nascosti lo rende ancora più difficile<br />

da capire e gestire di quanto lo è un bambino che<br />

tira un calcio. Inoltre, questa strategia è anche in grado<br />

di “nasconderlo ai suoi stessi occhi”: per un po’, finché<br />

non lo scoprono, S. può dimenticarsi di “essere cattivo”.<br />

Spesso, anche scoperto, nega l’evidenza, come se fosse<br />

possibile fare in modo che, come l’ha dimenticata lui,<br />

possano scordarla anche gli altri. La negazione è quindi<br />

la seconda trappola che si costruisce, la cui fragilità lo<br />

espone poi a reazioni ancora più pesanti da parte dei<br />

genitori e dell’ambiente che lo circonda. Insomma, ladro<br />

e pure bugiardo.<br />

Disseppellire le emozioni prima che Arsenio se ne appropri<br />

e le agisca dentro a un suo piano “diabolico” è<br />

quindi per me come una strana gara con il tempo e le<br />

situazioni.<br />

Il dominio delle cose<br />

Ma perché rubare? Le cose stanno al posto di altro…<br />

come possiamo vedere intorno a noi, come avviene anche<br />

nel mondo degli adulti. Oggetti al posto di amore,<br />

soldi per valore di sé, chiavi per bisogno di esclusivi-<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 29


tà, cibo per nutrimento affettivo ecc. Spesso non è più<br />

possibile ricondurre il disagio infantile, o almeno il suo<br />

modo di esprimersi, all’interno di una visione che comprende<br />

unicamente quel bambino, quella famiglia; si<br />

tratta di comprendere forse come anche i bambini siano<br />

ormai allenati al “commercio delle merci”, da cui sono<br />

inondati sia direttamente che indirettamente, attraverso<br />

le immagini pubblicitarie. Ricostruire non è più solo<br />

un compito che attiene agli affetti, alla buona circolazione<br />

degli stessi e alla risoluzione dei conflitti; si tratta<br />

anche di ricostruire un “linguaggio”, che non è solo la<br />

parola, ma anche i simboli, le metafore attraverso cui<br />

ci esprimiamo.<br />

Dal mio parziale osservatorio sul mondo dell’infanzia<br />

osservo con tristezza un generale impoverirsi dei<br />

mezzi d’espressione; emerge un diffuso analfabetismo<br />

sulle metafore espressivo-corporee e sulla parola sentita,<br />

che dice e viene ascoltata, mentre si diffonde una<br />

generale difficoltà nel vivere emozioni, così forti per i<br />

bambini da risultare pertanto spesso inesprimibili;<br />

vengono così trasferite su sistemi di comunicazioni o<br />

più primitivi o materiali. Come se al posto dello sguardo<br />

che chiede o della parola che, magari incespicando,<br />

sussurra bisogni e desideri, avanzasse prepotentemente<br />

la mano che afferra, prende, ruba, nasconde; la bocca<br />

che ingoia, mai satura, senza masticare, alla ricerca del<br />

latte primario, l’unico digeribile se nel frattempo non<br />

sono cresciuti i denti, oppure, se anche sono cresciuti,<br />

non sono stati integrati nell’immaginario del corpo<br />

come mezzo per “masticare” le emozioni e gli affetti.<br />

La forma inquieta<br />

Percorsi tra arte e psichiatria 1<br />

Giorgio Bedoni<br />

Non bisogna credere che tutto è vero, ma che tutto è<br />

necessario, scrive Kafka nel Processo. L’aforisma, che<br />

sconcerta e sembra scompaginare le carte, ben si presta<br />

a cogliere quell’urgenza insita nel lavoro dell’artista: necessità<br />

che supera tutte le altre, attraversando con forza<br />

sorprendente esistenze fragili, proprio nel punto in cui<br />

si è aperto uno iato tra l’io e la vita.<br />

Ossessioni/simboli<br />

Artisti e psichiatri del Novecento hanno dialogato con<br />

insistenza sul “bisogno d’espressione”, sulla sua natura<br />

primaria e pulsionale, come la definiva negli anni venti<br />

lo psichiatra e storico dell’arte Hans Prinzhorn. “Necessità<br />

interiore” nelle parole di Wassily Kandinsky, quando<br />

nel caleidoscopico laboratorio dello “Spirituale”, che<br />

registra il percorso compiuto per giungere all’astrazione,<br />

invitava l’artista “a fissare gli occhi e tendere l’orecchio<br />

sulla vita interiore”.<br />

Urgenza, dunque, che possiamo meglio comprendere<br />

alla luce di una nozione antica e socratica, Daimon,<br />

parola che ci richiama al mito e individua la nostra peculiarità,<br />

il nostro particolare destino quando entriamo<br />

nel mondo.<br />

E’ questo, indubbiamente , uno dei filtri possibili attraverso<br />

cui leggere l’opera e i processi creativi, la loro<br />

dimensione unica ed irripetibile, percorsi che trovano<br />

un senso nell’ossessione inventiva, nelle sue tensioni e<br />

disarmonie.<br />

L’esperienza artistica, ha scritto recentemente Mario<br />

Perniola, vive di conflitti e fratture e, per certi versi, si<br />

rende infine irriducibile a quelle istanze che intendono<br />

normalizzarla.<br />

In questa prospettiva il Novecento accoglie storie disarmoniche<br />

e tuttavia esemplari: storie di outsiders, di irregolari,<br />

di malati mentali i cui linguaggi, talvolta oscuri,<br />

irrompono sulla scena per mano delle avanguardie<br />

artistiche.<br />

Ferdinand Cheval, il “postino costruttore” dedicherà la<br />

sua esistenza all’edificazione” di una straordinaria babele<br />

morfologica e iconografica” ( Tosatti, 2000): “ Ho<br />

lavorato per anni ininterrottamente”, scrive Cheval,<br />

“soprattutto la notte, con una candela in testa…”.<br />

1 Riferimenti bibliografici: Bedoni G., Tosatti B. (2000),<br />

Arte e psichiatria. Uno sguardo sottile. Milano, Mazzotta. -<br />

Bedoni G. (2004). Visionari. Arte, sogno, follia in Europa.<br />

Milano, Selene.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 30


Ossessione inventiva che non lascia tregua e tuttavia<br />

necessaria, dal giorno in cui, continua Cheval, “ mentre<br />

facevo il mio giro di consegna delle lettere….inciampai<br />

in qualcosa che mi fece ruzzolare per qualche metro.<br />

Scoprii che col mio piede avevo fatto uscire dalla terra<br />

una pietra di forma strana e attraente e che il luogo ne<br />

era pieno; l’avvolsi allora nel fazzoletto e con molta cura<br />

me la portai a casa, ripromettendomi di cercarne altre<br />

nei momenti liberi dal lavoro. Da quel momento non<br />

ebbi più riposo né pace: potevo fare anche cinque o sei<br />

chilometri col mio carico di pietre in spalla”.<br />

I surrealisti dedicheranno grande attenzione all’opera<br />

di Cheval, al suo Palais Idéal di Hauterives: Andrè Breton,<br />

collocherà queste forme d’espressione sotto l’ala<br />

del surrealismo. In un saggio del tutto particolare, molto<br />

caro a Breton e pubblicato per la prima volta nel 1957<br />

così scrive: “ Tutta una corrente trovava la sua rivincita<br />

e la sua giustificazione gloriosa nell’appello al funzionamento<br />

reale del pensiero, quello dell’arte dei naif, dei<br />

pazzi, dei bambini, dei medium. Il palazzo meraviglioso<br />

del postino Cheval e le architetture deliranti di Gaudì…<br />

tutto questo dilettantismo geniale testimoniava contro<br />

l’arte ufficiale europea”.<br />

Funzionamento reale del pensiero, dunque: ogni riferimento<br />

è all’automatismo, che verrà proposto come<br />

l’essenza stessa della poetica surrealista. Surrealismo,<br />

scrive Breton nel 1924, “ è automatismo psichico puro…<br />

è il dettato del pensiero con l’assenza di ogni controllo<br />

esercitato dalla ragione...”. L’automatismo diviene così<br />

la via maestra per accedere ad una realtà “altra”, assoluta:<br />

surrealtà.<br />

Su questa strada il surrealismo sarà fecondo sul piano<br />

della sperimentazione e delle tecniche, irrinunciabili<br />

nel portare alla luce contenuti inconsci, per accedere al<br />

profondo.<br />

Negli stessi anni altri labirinti simbolici catturano lo<br />

sguardo di artisti e di psichiatri: nell’universo indifferenziato<br />

dell’asilo manicomiale un giovane psichiatra<br />

svizzero, Walter Morgenthaler, restituisce un nome<br />

ed una storia a uno schizofrenico istituzionalizzato da<br />

più di vent’anni e in termini espliciti ne eleva l’opera al<br />

rango di vera arte. Nel 1921 pubblica infatti Ein Geisteskranken<br />

als Kunstler ( un malato mentale come artista),<br />

una monografia dal titolo inconsueto per l’epoca e<br />

la prima dedicata a un malato asilare che viene consacrato<br />

come artista.<br />

Il complesso e labirintico linguaggio di Adolf Wolfli<br />

segna in profondità l’esperienza psichiatrica di Walter<br />

Morgenthaler: come Cheval, Adolf Wolfli edifica senza<br />

tregua la sua grande opera narrativa, più di 20.000<br />

pagine a carattere autobiografico con migliaia di illustrazioni:<br />

opere in bianco e nero e a colori, ordinate<br />

e precise, spesso con simmetrie, forme geometriche e<br />

ornamentali in gran parte astratte, nelle quali vengono<br />

introdotti motivi figurativi, mandalas e collages.<br />

Wolfli è un costruttore, la sua opera si configura come<br />

il tentativo, intenzionale, di ristabilire un contatto con<br />

la realtà. Un lavoro nutrito e sostenuto dalla lettura di<br />

riviste e dalle immagini di atlanti che Morgenthaler gli<br />

mette a disposizione: luoghi reali, carte geografiche per<br />

viaggi straordinari eppure necessari nel vuoto di una<br />

esistenza deprivata.<br />

Non c’è terapia nell’esistenza di Wolfli: l’arte tuttavia,<br />

arte che nasce dal conflitto, è formazione di compromesso<br />

che salva dalla catastrofe e permette forme embrionali<br />

di ricostruzione di sé.<br />

Morgenthaler leggerà nel linguaggio formale di Wolfli<br />

una funzione regolatrice; un sistema originale per reintegrare<br />

la realtà in via di dissolvimento: qui il processo<br />

creativo, prima ancora di essere individuato come l’area<br />

illusionale che soddisfa l’espressione del delirio, è un<br />

dispositivo che consente di reinvestire gli oggetti esterni<br />

di fronte al progressivo allentamento del rapporto di<br />

realtà innescato dalla psicosi.<br />

L’arte si configura così come il luogo del molteplice, dei<br />

linguaggi e delle tecniche; dell’ altrove e del sintomo,<br />

del progetto e del desiderio. Una breve storia clinica,<br />

nondimeno segnata dalla sua eccezionalità, ci introduce<br />

ulteriormente in questo campo, dove il contatto bruciante<br />

con la differenza provoca l’estetica, la riflessione<br />

psicopatologica e l’istanza terapeutica sul terreno dei<br />

metodi e dei ragionamenti.<br />

Corpi/figurazioni<br />

E’ un giorno d’estate del 1939 quando Serge Lifar si<br />

reca all’ospedale psichiatrico di Munsingen, dove dal<br />

gennaio di quello stesso anno è ricoverato il grande<br />

ballerino russo Vaslav Nijinski. I diari clinici descrivono<br />

un uomo assente alla vita, serrato in un silenzio<br />

assoluto, inerte: l’immagine di uno stato catatonico<br />

schizofrenico.<br />

Serge Lifar ha deciso di danzare per lui, davanti a lui,<br />

nonostante l’inconsueta stranezza di Nijinski lo intimorisca.<br />

Prepara dunque un fonografo, ha con sé alcuni<br />

dischi del Fauno, dello Spettro della Rosa: inizia a<br />

danzare il Fauno, Nijinski lo osserva con attenzione,<br />

sembra spaventato. Si allontana, il ritmo del Fauno<br />

non sembra stimolare alcuna risonanza. A quel punto<br />

Serge Lifar s’interrompe, riprende a danzare, questa<br />

volta sulle note dello Spettro della Rosa: il ritmo avvince<br />

il danzatore russo, “ rispondendo all’appello dei miei<br />

salti”, scrive Lifar, Nijinski inizia a saltare,senza alcun<br />

sforzo, senza preparazione.<br />

La musica finisce, Nijinski è affannato: “ preso dall’estasi”,<br />

ricorda Lifar,” mi getto in ginocchio davanti a lui,<br />

ed è allora che il genio della danza rispose una volta<br />

ancora al mio richiamo, al mio slancio, si mise in ginocchio<br />

da davanti a me e disse, indicando il mio piede:<br />

bon! Oui! Tres bien! » 1 .<br />

Il celebre, ultimo salto di Vaslav Nijinski conferma<br />

quanto l’arte sia necessaria allo sguardo psichiatrico,<br />

laddove restituisce un senso ed un linguaggio ad espe-<br />

1 Tratto da: Der letze Kontinent. Bericht einer Reise zwischen<br />

Kunst und Wahn, Limmat Verlag, Zurich, 1997.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 31


ienze ritenute ormai perdute alla vita.<br />

Per certi versi l’arte dei malati è l’oggetto ritrovato della<br />

psichiatria, sospeso, come la vicenda di Nijinski insegna,<br />

tra perturbante alterità e possibilità terapeutica.<br />

Forma di cura dunque, quando consente, come scrive<br />

Paul Ricoeur, “ la capacità di riaprire” quello spazio di<br />

contingenza un giorno appartenuto al passato.<br />

La dimensione estetica, aldilà dello specifico scenario<br />

della cura psichiatrica, si configura così come un dispositivo<br />

che riavvicina ad esperienze infantili precoci,<br />

attiva ricordi, fantasie e intrecci narrativi: è dunque<br />

un’esperienza affettiva e cognitiva intensa che restituisce,<br />

in determinati casi, l’ombra e l’immagine del racconto<br />

originario, quelle prime relazioni d’ogni storia<br />

individuale che, per essere elaborate, richiedono un<br />

contesto facilitante e tuttavia solido, sicuro e continuo<br />

nel tempo.<br />

“Non opera che è, ma opera che diviene”, osserva Paul<br />

Klee negli scritti che raccolgono la straordinaria lezione<br />

didattica del Bauhaus di Weimar: qui il racconto originario<br />

si dipana nel divenire dinamico della forma; è il<br />

mondo delle forme in fieri, della Gestaltung, un concetto<br />

chiave che, con singolare coincidenza 1 , utilizzerà negli<br />

stessi anni lo psichiatra Hans Prinzhorn di fronte alle<br />

opere dei malati che daranno vita alla grande collezione<br />

della clinica psichiatrica di Heidelberg.<br />

Altre coincidenze richiamano analogie tra il processo<br />

della messa in forma descritto da Klee e certe caratteristiche<br />

del lavoro psicoterapeutico: In certi quadri, scrive<br />

l’artista bernese, “ si può, in questo o in quell’elemento,<br />

scorgere un’allusione alla forma originaria. A volte la<br />

distanza rispetto all’immagine originaria è assai grande;<br />

è stato percorso un lungo cammino nell’elaborazione di<br />

un’esperienza. E in tal caso la coerenza è <strong>maggio</strong>re, poiché<br />

non esiste alcun legame a determinati concetti”.<br />

Si è detto in precedenza come il “fare” dell’arte definisca<br />

un campo di polarità aperto a costanti relazioni tra memoria<br />

e progetto, tecniche e linguaggi. Gli scritti degli<br />

artisti documentano direttamente queste intersezioni<br />

e confermano il valore delle esperienze primordiali. Ne<br />

sono un esempio le pagine autobiografiche di Man Ray,<br />

che sottolineano gli stretti rapporti tra ricordi infantili<br />

e invenzione. Nello scritto di Man Ray si rammenta una<br />

1 Il dialogo tra arte e psichiatria vive di infinite coincidenze.<br />

Coincidenze temporali,che intrecciando eventi rivelano lo spirito<br />

del tempo. Così nel 1907 Les Demoiselles D’Avignon di<br />

Pablo Picasso annuncia una rivoluzione formale,il Cubismo,<br />

che si nutre dell’arte nera e del primitivismo, cioè di quell’<br />

“altrove “ espressivo che sarà accostato, anche in termini discutibili,<br />

agli oggetti estetici prodotti dai malati mentali. Nello<br />

stesso anno, sempre a Parigi, lo psichiatra francese Paul Meunier<br />

aveva posto le basi per un riconoscimento delle opere dei<br />

malati, pubblicando sotto lo pseudonimo di Marcel Réja un<br />

saggio pionieristico e inusuale per i tempi, L’art chez les fous.<br />

Ma il 1907 è anche l’anno in cui Sigmund Freud presenta al<br />

pubblico viennese “Il poeta e la fantasia”, saggio che stabilisce<br />

una serie di connessioni rivoluzionarie per l’epoca tra l’esperienza<br />

del gioco infantile e l’immaginario adulto impegnato<br />

nel processo creativo. Secondo Freud, infatti, quest’ultimo<br />

costituisce un vero e proprio sostituto “del primitivo gioco dei<br />

bimbi”, necessario all’adulto perché indirizza gli investimenti<br />

affettivi entro uno spazio illusionale separato dalla realtà.<br />

serata parigina del 1922:<br />

“ Di nuovo, quella sera, sviluppai le lastre che avevo impressionato.<br />

Un foglio di carta sensibile intatto, che era<br />

finito inavvertitamente tra quelli già esposti con su il negativo<br />

era stato sottoposto al bagno di sviluppo. Mentre<br />

aspettavo invano che comparisse un immagine con un<br />

gesto meccanico poggiai un piccolo imbuto di vetro, il<br />

bicchiere graduato e il termometro nella bacinella sopra<br />

la carta bagnata. Accesi la luce; sotto i miei occhi cominciò<br />

a formarsi un’immagine; non una semplice silhouette<br />

degli oggetti, ma deformata e rifratta dal vetro, a<br />

seconda che fossero più o meno in contatto con la carta,<br />

mentre la parte direttamente esposta alla luce spiccava<br />

come in rilievo sul fondo nero. Mi ricordai di quando<br />

ero bambino e sistemavo su un telaietto da stampa un<br />

rametto di felce e un foglio di carta per bozze; passavo<br />

sopra con il rullo e ottenevo un negativo bianco delle<br />

foglie. Il concetto era lo stesso, ma con l’aggiunta di un<br />

effetto tridimensionale e d’una gradazione dei toni. Affascinato<br />

dall’esperimento esaurii in una serie di tentativi<br />

la mia preziosa provvista di carta. Prendevo tutti gli<br />

oggetti che mi capitavano sotto mano….non era necessario<br />

immergerli nel liquido, bastava posarli sulla carta<br />

e poi esporli per pochi secondi alla luce. Ero molto eccitato<br />

e mi divertivo enormemente.<br />

La mattina esaminai i risultati e appesi alla parete un<br />

paio di rayogrammi, come decisi di chiamarli. Avevano<br />

un aspetto sorprendentemente nuovo e misterioso”.<br />

In questo campo gli esempi sono pressoché infiniti:<br />

Jackson Pollock, la cui esistenza è attraversata dalla<br />

depressione e dall’alcolismo, amava ripetere di aver appreso<br />

la tecnica specifica del dripping ( sgocciolamento,<br />

una tecnica che già Max Ernst utilizzava, seppur diversamente,<br />

dagli anni quaranta) dalle popolazioni indiane<br />

che vivevano nella sua terra originaria; una tecnica<br />

rituale, che permetteva di tracciare segni complessi sul<br />

terreno.<br />

Questa particolare procedura consentirà a Pollock di<br />

rinunciare al cavalletto e alla parete; la tela verrà infatti<br />

posta direttamente sul pavimento e l’artista danzerà<br />

attorno ad essa, lasciando sgocciolare il colore con una<br />

“controllata “casualità 2 : una tecnica, dunque, che enfatizza<br />

la dimensione corporea, gestuale. Qui , in assenza<br />

di un contatto diretto tra pennello e tela si modificano i<br />

punti di vista percettivi ( un utile suggerimento per terapie<br />

a mediazione artistica) visualizzando così in altri<br />

termini il noto concetto di regressione al servizio dell’io<br />

coniato dallo psicoanalista viennese Ernst Kris, che riscontrava<br />

nel processo creativo spostamenti progressivi<br />

di livello psichico, contrassegnati da stati di fusione e di<br />

differenziazione dalla materia.<br />

2 “Jackson usava dei rotoli di cotone da vela”, ricorda la moglie<br />

Lee Krasner, “ne srotolava un pezzo sul pavimento…..venti<br />

piedi circa…. Poi usando delle stecche o dei pennelli induriti<br />

e delle siringhe per spruzzare, iniziava il lavoro. Il suo controllo<br />

era sorprendente, usare una stecca era già abbastanza<br />

difficile, ma la siringa era come una grande penna stilografica.<br />

Doveva controllare il flusso dell’inchiostro, oltre che il proprio<br />

gesto…”. In: C. Ross ( 1990), Abstract Expressionism. Creators<br />

and Critics, Harry N. Abrams, New York.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 32


Ritorna, dunque, il tema del corpo: il corpo di Nijinski,<br />

fissato dall’obiettivo fotografico nel suo ultimo slancio,<br />

il corpo di Pollock nel ritmo esecutivo dell’Action Painting.<br />

Il corpo come luogo dell’opera, ormai oltre i confini spazio<br />

temporali della tela: negli anni cinquanta questo processo<br />

di estensione porterà il corpo al centro dell’azione<br />

pittorica e dell’invenzione. Nelle performances del<br />

Wiener Aktionismus e quindi, negli anni sessanta, con<br />

le vicende della Body Art, il corpo verrà proposto come<br />

opera, oltre la mediazione dell’immagine.<br />

Arnulf Rainer, esponente di spicco dell’azionismo viennese,<br />

sarà uno di quegli autori che in termini programmatici<br />

salderà il tema dell’identità, del corpo e delle tecniche<br />

ad esperienze di pratica artistica durante l’uso di<br />

allucinogeni. Non solo: negli stessi anni si accosta alle<br />

opere dei malati mentali, nel solco di una lunga tradizione<br />

di rapporti tra arte e psichiatria che attraversa in<br />

modo particolare la storia del Novecento.<br />

Il corpo, dunque, come testo, come plus espressivo e comunicativo<br />

che connette l’esperienza artistica alla vita<br />

stessa dell’autore: è nel più, scrive Roland Barthes, che<br />

“abita la differenza”.<br />

Per certi versi la distinzione tra Korper e Leib, tra “corpo<br />

organico” e il corpo che vive l’esperienza del mondo,<br />

viene ricomposta nell’attività artistica.<br />

Paul Valery ricorda che il pittore “si dà con il suo corpo”,<br />

affermazione perentoria, che Maurice Merleau-Ponty<br />

riprende per tracciare un percorso esemplare sul valore<br />

della sensorialità nell’esperienza estetica, considerando<br />

come, prestando il proprio corpo al mondo, l’artista trasformi<br />

il mondo stesso in pittura.<br />

Arte/cura<br />

E’ questa, indubbiamente, una prospettiva importante<br />

per interventi di cura che privilegiano medium artistici:<br />

l’attenzione al corpo,infatti, un corpo spesso coartato<br />

e bersaglio di agiti distruttivi, permette di meglio<br />

osservare e comprendere tutti quegli indispensabili<br />

contatti con la materia e con la dimensione spaziale del<br />

setting artistico che non solo precedono, ma già sono,<br />

( ricordiamo la lezione di Klee sul processo della messa<br />

in forma) processo creativo. Il dialogo con la materia,<br />

l’attenzione alle dinamiche relazionali ed ai bisogni<br />

che nascono dall’esperienza estetica, e dunque le stesse<br />

ipotesi interpretative , sono, per certi versi, gli organizzatori<br />

dell’esperienza rispetto ad inopportune, quanto<br />

“selvagge” e non richieste incursioni nell’immagine prodotta<br />

che troppo spesso vengono propagandate in nome<br />

della decodifica dei linguaggi.<br />

L’esperienza estetica non può essere ridotta entro griglie<br />

“psicologistiche”, qualunque sia la loro origine: la<br />

pittura, ha detto Robert Rauschemberg, “è un buco nero<br />

tra l’arte, la vita e l’avventura”; al suo interno, nelle sue<br />

alchimie s’accendono più eventi di quanti ne preveda la<br />

vita stessa.<br />

Il setting artistico, dunque, definisce un campo d’espe-<br />

rienza dai confini mobili, che individua i propri elementi<br />

costitutivi nel delicato equilibrio tra procedure tecniche<br />

e libertà espressiva, tra la cornice dello scenario e le<br />

dinamiche relazionali sollecitate dal processo creativo.<br />

Le intuizioni del pensiero psicoanalitico sono in questo<br />

settore disciplinare di grande interesse perché contribuiscono<br />

a definire i caratteri costitutivi del setting artistico.<br />

Nello specifico il contributo di Donald Winnicott , così<br />

come quello di autori contemporanei che si rifanno alle<br />

sue note teorie ( Christopher Bollas, ad esempio), è di<br />

grande rilevanza culturale oltrechè terapeutica e offre<br />

tuttora stimoli all’impianto complessivo dell’arte come<br />

forma di cura: si pensi, tra gli altri, alla valorizzazione<br />

della dimensione ludica e ai fenomeni illusionali ad essa<br />

correlati; alla nozione di oggetto mediatore nelle terapie<br />

a mediazione artistica, che evoca l’oggetto transizionale.<br />

Già Winnicott considerava necessario allo stesso dispositivo<br />

terapeutico un dialogo con la materia: per lo psicoanalista<br />

britannico ogni forma di cura doveva, infatti,<br />

offrire l’opportunità “di una esperienza informe”, ricca<br />

di stimoli corporei e sensoriali. Egli riconosceva il valore<br />

trasformativo di queste esperienze, capaci di attivare<br />

le parti creative della personalità.<br />

La creatività, diversamente dall’essere apprezzata come<br />

un plus, è qui considerata una risorsa umana difficilmente<br />

eliminabile, “ anche nei casi più estremi”, come<br />

ricorda Winnicott in un celebre passo dei suoi scritti.<br />

Essa coincide con “l’essere vivi” e si alimenta dall’incontro<br />

con la realtà.<br />

La fiducia nelle qualità espressive si conferma così un<br />

paradigma necessario, quando individua nell’esperienza<br />

creativa e nell’arte stessa quegli elementi capaci di attivare<br />

processi generativi anche nelle forme psicotiche<br />

più gravi e nel più istituzionalizzato dei malati.<br />

L’arte, tuttavia, non è riducibile ad una semplice questione<br />

comunicativa: l’opera, per certi versi, ridefinisce<br />

i confini dell’agire psichiatrico e psicoterapeutico. Essa,<br />

qualunque sia il contesto da cui trae origine, anche nel<br />

più accogliente ed esposto alle migliori correnti empatiche,<br />

conserva sempre un suo statuto segreto e contraddittorio.<br />

Scriveva Winnicott nel 1963: “ Al centro di ogni persona<br />

c’è un elemento incomunicato, inviolabile, che è sacro e<br />

che va preservato”.<br />

Un segreto forse custodito in quell’ombra sul muro<br />

nell’ultimo salto di Vaslav Nijinski. Ombra che ci è compagna<br />

discreta, il “raggio invisibile” che Andrè Breton 1<br />

rammenta nell’ultima pagina di un celebre scritto, prima<br />

di chiudere con queste fulminanti parole: “ vivere e<br />

cessare di vivere sono soluzioni immaginarie. L’esistenza<br />

è altrove”.<br />

1 Si tratta del testo “ Segreto dell’arte magica surrealista”, in:<br />

De Micheli M., Le avanguardie artistiche del Novecento, Milano,<br />

Feltrinelli, 1966.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 33


L’Atelier di<br />

Cologno<br />

Carla Girardi<br />

e Laura Tonani<br />

Esiste uno spazio creativo a Cologno che da anni opera<br />

intorno ad un progetto di grande rilievo culturale e sociale.<br />

Stiamo parlando del LIBERO ATELIER DI ATTI-<br />

VITÀ ESPRESSIVE DI COLOGNO MONZESE, in Villa<br />

Citterio, inaugurato il 2 ottobre 1999 e nato dalla sinergica<br />

collaborazione tra il Comune di Cologno Monzese e<br />

il C.P.S. di Cologno dell’Azienda Ospedaliera Ospedale<br />

Civile di Vimercate. Frequentano con costanza il laboratorio<br />

circa una ventina di utenti, ma, dall’inizio dell’attività,<br />

ben una settantina di persone hanno potuto fruire<br />

di questa esperienza che ha contribuito alla loro crescita<br />

personale e ha favorito il bisogno di risocializzazione.<br />

Per ognuno di loro entrare a far parte di un gruppo<br />

sollecita aspettative e timori complessi sia verso l’altro<br />

che verso sé stessi. L’incontrarsi insieme in uno spazio<br />

sul territorio cittadino, vicino ai luoghi della cultura e<br />

lontano dai simbolismi tipici dell’istituzione medicoassistenziale,<br />

uno spazio che piano piano si è costruito<br />

come luogo simbolico della creatività, ha rappresentato<br />

l’aprirsi di una possibilità altra per dare espressione alla<br />

propria personalità.<br />

Una soggettività spesso frammentata e divisa, scissa tra<br />

mente e corpo, può trovare nell’espressione artistica gli<br />

strumenti per manifestarsi ed integrarsi oltre la parola<br />

ritrovando il piacere di raccontarsi e anche di mostrarsi,<br />

una possibilità protetta e facilitata dalla relazione<br />

di fiducia e collaborazione creativa tra arteterapeute e<br />

operatori sanitari che nasce dalla condivisione dell’idea<br />

della sofferenza.<br />

Il nostro atelier opera utilizzando i linguaggi propri<br />

dell’Arte, dalla pittura al disegno fino a quelli contemporanei,<br />

come la performance, l’installazione, la poesia<br />

visiva e le tecniche care ai surrealisti, come il frottage<br />

e il collage. Ogni persona esplora i materiali e i diversi<br />

linguaggi liberamente, scegliendo poi la dimensione<br />

espressiva più congeniale. Nella prospettiva di una<br />

possibilità di Cura del disagio psichico anche attraverso<br />

l’arte, si sono sviluppati, in tempi abbastanza recenti,<br />

una serie di interessanti esperienze di ricerca.<br />

I temi proposti agli utenti rappresentano tappe fondamentali<br />

per la conoscenza della loro personalità e spesso<br />

creano un “ponte” attraverso il quale il mondo interiore<br />

si fa strada e si mostra ai nostri occhi. Per esempio<br />

l’esperienza dell’autoritratto, argomento di grande<br />

complessità psicologica e ricco di illustri riferimenti nel<br />

mondo dell’arte, ci consente di capire il rapporto che<br />

ognuno di loro ha con la propria immagine corporea che<br />

spesso non coincide con ciò che vediamo con occhi ingenui.<br />

Nell’autoritratto le pulsioni autobiografiche rac-<br />

contano trame esistenziali che prendono corpo in segni,<br />

colori e parole, accompagnando lo sviluppo del lavoro<br />

in un intreccio di significati. L’arteterapeuta segue, con<br />

sguardo sottile, il processo creativo, aiutando la persona<br />

nei momenti d’incertezza, facilitando l’espressione grazie<br />

al suggerimento delle tecniche idonee, calibrate su<br />

ogni singola necessità.<br />

La tecnica infatti non è un fatto secondario; essa è linguaggio,<br />

possibilità di comunicare emozioni, è la voce<br />

dell’immaginazione. Come sottolinea Dino For<strong>maggio</strong><br />

“La tecnica non è legge statica, cieca disciplina, regola<br />

inesorabile; non è monologo. La tecnica è dialogo; come<br />

tecnica artistica, poi, è linguaggio più che lingua, cioè<br />

parola e comunicazione. È dialogo e linguaggio non banale,<br />

non decaduto alla ripetizione idolatria del discorso<br />

comune, ma riportato alla sua origine, all’atto che ritorna<br />

su se stesso per rilanciarsi più lontano, all’azione vivente<br />

nel corpo delle materie viventi; al gesto che domanda,<br />

che risponde, che qualitativamente crea dall’interno<br />

e a seconda dell’intima vita del tempo e delle cose<br />

nel tempo”. 1<br />

Affinché l’immagine interiore affiori in superficie e possa<br />

diventare forma, figura, occorre alimentare le pulsioni<br />

creative che spesso giacciono assopite in qualcuno di<br />

noi. Non è semplice spiegare come e perché si riesca ad<br />

“innescare” tale processo, ma tra i molteplici aspetti,<br />

approfonditi nel corso del lavoro in atelier, ci siamo resi<br />

conto che alcuni materiali e argomenti hanno una loro<br />

capacità di tipo maieutico, cioè facilitano l’atto creativo.<br />

I nostri frequentatori non hanno alcuna formazione artistica<br />

di tipo accademico, perciò il loro approccio all’arte<br />

è spontaneo e motivato dalla voglia di intraprendere<br />

un’esperienza gratificante, piacevole. La sensibilità<br />

all’ascolto degli operatori, l’accoglienza, l’atmosfera luminosa,<br />

serena che l’atelier offre crea il setting, il luogo<br />

ideale per la libera espressione di una creatività felice.<br />

Da queste premesse s’intuisce come possano nascere<br />

straordinari sviluppi e sinergie, in ambito riabilitativo<br />

e preventivo, e la collaborazione con gli arteterapeuti<br />

ha comportato l’integrazione di un diverso linguaggio,<br />

nonché di uno sguardo, nei progetti di cura delle équipe<br />

psichiatriche. L’arteterapia è territorio interdisciplinare<br />

dove Arte e Psiche dialogano mantenendo i propri<br />

ruoli, le proprie competenze, ma ritrovando la comune<br />

prospettiva di comprensione della creatività.<br />

La terapeutica artistica è il luogo dove corpo, espressione<br />

e idea tornano ad integrarsi superando, a volte solo<br />

occasionalmente, il blocco determinato dalla malattia.<br />

Certo è che il linguaggio espressivo artistico comunica<br />

aspetti che la parola a volte tace. Il problema, come abbiamo<br />

già illustrato, è quello di strutturare, attraverso<br />

strumenti efficaci e cioè le tecniche dell’arte, il messaggio<br />

interiore.<br />

Perciò i conduttori dell’atelier devono prima di tutto<br />

essere artisti, conoscere le proprietà maieutiche insite<br />

nella materia, devono guidare il soggetto dell’esperien-<br />

1 Dino For<strong>maggio</strong>, Fenomenologia della tecnica artistica,<br />

Pratiche Editrice, Parma-Lucca, 1978, pag .265.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 34


za creativa con grande sensibilità e abile regia. I nostri<br />

utenti sono seguiti e affiancati nel processo creativo in<br />

modo delicato, sensibile, e ad ogni loro richiesta, domanda<br />

di aiuto, trovano sostegno. Molti di loro hanno<br />

acquisito nuove capacità, rafforzando la propria autostima,<br />

hanno ritrovato il piacere di creare “qualcosa di<br />

bello” per sé e per gli altri: una dimensione creativa che<br />

è fondamentale per il benessere dell’individuo.<br />

Tempo fa qualcuno di loro ci ha detto che “dipingere<br />

fa bene al cuore”; in questa semplice frase è racchiuso<br />

un significato molto profondo, e forse il senso della nostra<br />

esperienza. Il gioco creativo è espressione di libertà<br />

per l’individuo. Del resto arte e gioco sono intimamente<br />

legate: “…l’arte ha inventato il gioco dell’animo, il cui<br />

<strong>maggio</strong>r pregio è quello di conservare all’animo la sua<br />

freschezza e la sua giovinezza. “L’arte - scrive Delacroix<br />

– ricolloca l’uomo sulla via dalla quale l’utilità biologica<br />

e sociale l’avevano allontanato, e risveglia una potente<br />

virtualità che la vita ha spento. […] L’arte è prima di tutto<br />

liberazione, disinteresse e rottura degli interessi pratici,<br />

per cui si arriva alla formazione di un’attività accessoria,<br />

di un’attività « di lusso », che si prodiga per mera<br />

potenzialità, per desiderio di esercizio: questo è quanto<br />

c’è di vero nel paragone tra arte e gioco, il quale ultimo<br />

è anch’esso libertà, sogno che cerca la sua realizzazione,<br />

azione fedele al sogno”. 1<br />

Questo è in sintesi il progetto silenzioso, ma dalla forza<br />

dirompente, che si svolge nell’atelier colognese. Annualmente<br />

il nostro lavoro “si mostra” durante rassegne<br />

aperte alla cittadinanza che hanno sempre avuto un<br />

buon riscontro di pubblico.<br />

Nell’estate 2005, l’atelier ha realizzato le scenografie<br />

per due opere liriche, I pagliacci e Il Barbiere di Siviglia,<br />

messe in scena dall’Associazione musicale città<br />

di Cologno, interagendo così con il tessuto cittadino e<br />

dando prova di grande capacità organizzativa<br />

interna. Un gruppo di lavoro felice si legge,<br />

infatti, dall’armonia che caratterizza l’opera<br />

costituita. Le fasi di realizzazione del lavoro<br />

hanno permesso agli utenti dell’atelier di provare<br />

l’esperienza pittorica sul grande formato,<br />

l’incontro totale, corporeo, con il colore e l’utilizzo<br />

di tecniche pittoriche e materiali inusuali<br />

rispetto alle tipologie classiche degli atelier<br />

arteterapeutici, il tutto affidato all’esperienza<br />

dei conduttori del gruppo. Anche nello scorso<br />

ottobre durante la rassegna L’isola a Colori,<br />

il nostro gruppo ha incontrato la cittadinanza<br />

nell’isola pedonale, proponendo una serie di<br />

attività artistiche, dalla pittura al teatro, dalla<br />

musica alla performance, coinvolgendo il<br />

pubblico a partecipare ad una festosa giornata<br />

creativa, realizzando insieme ai nostri utenti<br />

una grande opera corale.<br />

Attualmente siamo impegnati nella realizzazione<br />

di una pubblicazione che sta rappresentando<br />

per tutti noi un momento di grande<br />

1 Charles Baudouin, Psicoanalisi dell’arte, a cura di Arnaldo<br />

Ceccaroni, Guaraldi editore, Firenze, 1972, pp. 248-249.<br />

riflessione su alcune esperienze particolarmente significative.<br />

L’occasione ha consentito al gruppo di operare<br />

intorno al progetto del libro, dagli aspetti grafici alla<br />

scelta dei temi, discussi e approvati insieme. L’utilizzo<br />

del computer, di alcuni programmi che alcuni utenti in<br />

parte conoscevano, ha contribuito a creare nuovi interessi<br />

assolutamente imprevisti.<br />

La scrittura, l’immagine elaborata digitalmente e l’idea<br />

di realizzare un video in collaborazione con l’atelier di<br />

teatro terapia, che da circa quattro anni, si è affiancato<br />

all’atelier di attività espressive, ha ampliato le possibilità<br />

espressive degli utenti.<br />

L’aspetto straordinario è la capacità del gruppo di accogliere<br />

le novità con entusiasmo: sicuramente tutto ciò è<br />

motivato dalla sua forte coesione, ma anche dalla fiducia<br />

che i nostri ragazzi e ragazze hanno in noi. Fiducia che<br />

ci sprona continuamente a fare meglio, ad impegnarci<br />

con passione e dedizione in ciò che crediamo essere una<br />

funzione sociale dell’arte, argomento fuori moda, forse,<br />

ma che ancora affascina tanti giovani artisti.<br />

Il nostro atelier ha molti sostenitori, primi fra tutti gli<br />

studenti di Brera che chiedono costantemente di realizzare<br />

tesi, tirocini e progetti con noi. Spesso ci è stata<br />

richiesta la presenza in prestigiosi convegni, dove la nostra<br />

esperienza ha potuto dialogare con quella altrui e<br />

riflettere sui propri contenuti scientifici.<br />

Tutto ciò ci gratifica molto in quanto sappiamo, nel nostro<br />

piccolo, di alimentare una corrente molto più grande<br />

di noi, quella che ha ancora il coraggio di vedere nella<br />

creatività la via verso il benessere personale e sociale.<br />

Tra i nostri futuri progetti vi è anche quello di creare altri<br />

spazi per l’anima, citando James Hilmann, offrendo<br />

ad altri cittadini l’opportunità di accostarsi alla dimensione<br />

terapeutica dell’arte.<br />

Autoritratto. Disegno infantile<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 35


Due poesie<br />

Ferruccio Brugnaro<br />

Menzogne insopportabili<br />

Mi sento in pezzi stasera.<br />

Mi sembra di avere sul petto<br />

enormi scavatrici.<br />

Alla televisione ora un volto torvo<br />

sta parlando con enfasi<br />

di morale<br />

di pudicizia<br />

di amori peccaminosi.<br />

Mi si rivolta lo stomaco.<br />

La terra non ne può più<br />

di queste iene.<br />

I giorni sono stanchi<br />

di questi corvi di sventura.<br />

Basta<br />

basta<br />

con le invenzioni che uccidono.<br />

Mi si parli di libertà<br />

di liberazione.<br />

Mi si parli di vita<br />

di amore<br />

di tanto amore<br />

l’amore che riproduce<br />

di continuo il mondo<br />

e il nostro cuore.<br />

Non vedono più nessuno, niente<br />

Sono sempre gli stessi.<br />

Tengono in pugno tutto<br />

sempre allo stesso<br />

modo.<br />

I loro discorsi sono pieni<br />

di democrazia, libertà<br />

e continuano ad opprimere, a<br />

calpestare<br />

con cinismo.<br />

Disseminano guerre atroci<br />

tra i popoli<br />

nascondendosi dietro grandi ideali.<br />

Mettono Dio in mezzo<br />

a ogni parola.<br />

Hanno raggiunto in questi giorni<br />

culmini<br />

di follia omicida<br />

che non so, non so<br />

chi potrà mai dimenticare.<br />

Non vedono più nessuno, niente.<br />

Il loro obiettivo è denaro<br />

tanto denaro;<br />

potere<br />

grande potere<br />

dentro montagne di chiacchiere<br />

sul bene della nazione, sulla civiltà<br />

sul popolo.<br />

Il loro obiettivo è denaro<br />

tanto denaro;<br />

potere<br />

grande potere<br />

dentro montagne di chiacchiere<br />

sul bene della nazione, sulla civiltà<br />

sul popolo.<br />

Non importa se poi<br />

a mille metri di profondità,<br />

nelle miniere più infernali<br />

una tenace umanità<br />

crolla<br />

colpita a morte continuamente,<br />

non importa se nelle fabbriche<br />

vite e vite umane vengono<br />

lentamente, inesorabilmente<br />

disfatte;<br />

non importa se uomini e uomini<br />

muoiono dissanguati<br />

in tutte le trincee della terra<br />

aggrappati<br />

a un sogno schernito fino all’ultimo.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 36


Nuove Strategie<br />

di libertà<br />

Ritornando su Ceti medi quale<br />

futuro?<br />

di Sergio Bologna<br />

Ennio Abate<br />

Su www.<strong>poliscritture</strong>.it, nella rubrica dialogare,<br />

criticare, polemizzare, si possono leggere le pepate risposte<br />

di Sergio Bologna a 6 mie domande su Ceti medi,<br />

quale futuro?.<br />

Proprio perché il valore culturale e politico del libro è<br />

per me fuori discussione e credo di muovermi in una<br />

prospettiva di libertà democratica non dissimile dalla<br />

sua, vorrei, secondo il metodo della «critica dialogante»,<br />

insistere a scavare le mie gallerie di dubbi e obiezioni<br />

dentro questo suo terreno così ricco di spunti e dati<br />

economici.<br />

Ecco allora per punti le mie osservazioni:<br />

1. Conricerca<br />

Nella mia prima domanda a Bologna insistevo sul<br />

bisogno d’integrare il necessario ascolto (chi non ascolta<br />

come può dialogare o confrontarsi realmente?) «con<br />

uno sforzo anche teorico e immaginativo». Non parlavo<br />

di teoria tout court. Bologna mi ricorda che nelle esperienze<br />

da me richiamate (inchiesta operaia, storie di vita<br />

montaldiane, storia orale) è la «conricerca che produce<br />

teoria». Ed è certo più esatto dire che «Geiger e Lederer<br />

[da lui studiati e fatti conoscere in Italia 1 ] più che dei teorici<br />

in senso stretto [sono stati] dei maestri d’analisi». 2<br />

Non credo però che in quelle loro analisi siano state<br />

del tutto irrilevanti «né la visione cattolica di Geiger<br />

né quella austro-marxista di Lederer» (come non lo è<br />

la teologia di S. Tommaso per la Commedia di Dante).<br />

Le teorie o le “visioni generali” possono essere esplicite<br />

o implicite, ma non mancano anche nel più piatto positivismo,<br />

altrimenti sarebbero tutte intercambiabili o<br />

forse irrilevanti.<br />

Non lo penso: credo invece che anche l’ascoltatore<br />

(S. Bologna) che ha raccolto nella blogosfera storie<br />

tanto significative non sia stato soltanto “orecchio”. E<br />

d’altronde i giovani che lì raccontano di sé non hanno la<br />

mente sgombra da «idee politiche bislacche» o ingenue,<br />

come egli annota ma mette tra parentesi.<br />

Secondo me, esse non sono tanto secondarie, ma in-<br />

1 Cfr. S. Bologna in «L’ospite ingrato», Anno primo, Quodlibet,<br />

Macerata1998<br />

2 Bologna, risposta 1.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 37


SCHEDA DEL LIBRO<br />

[E.A.]<br />

Allora io con questo primo post porterò la bandiera delle milioni di Nuove Imprese che sono sorte in Italia. Detta così ci si<br />

immagina un qua dretto assolutamente rassicurante ed esaltante: tanti piccoli imprenditori che aprono il loro laboratorio (capannoncino<br />

per gli emiliani, la fabbri chetta un po’ più a nord), gente che stanca di stare sotto padrone cerca l’emancipazione<br />

aprendo nuove ditte, lavorando, assumendo ... E inve ce ... le tante neonate Nuove Imprese, orgoglio dei programmi di governo<br />

sia di destra sia di sinistra, non sono altro che milioni di persone che per non farsi sfruttare dai contratti di collaborazione si sono<br />

aperti la fatidica Partita Iva. Siamo stati COSTRETTI a creare queste nuove imprese. Più che nuove attività, ci hanno costretto ad<br />

avventurarci nell’impresa di di ventare liberi professionisti, ai “quali chiedere più del 40% di tasse (non è una fandonia chiedete<br />

ai vostri amici con P.Iva). lo sono uno di questi nuovi liberi professionisti, io sono una nuova impresa. Perché l’ho fatto? Perché<br />

con una partita iva ho qualche possibilità in più di far valere i miei diritti mentre con i contratti a progetto ho solo doveri. O<br />

almeno non c’è nessuno che vigili sull’uso quasi criminoso che i datori di lavoro fanno di questa formula contrattuale. Diversamente<br />

ricattati, senza soluzione al ternativa: o te la cavi da solo con la tua Iva, o ti obblighiamo a lavorare alle nostre condizioni<br />

senza tredicesima, senza malattia pagata (e non si parla di un’influenza da 5 o 6 giorni, chiedete a chi ha dovuto affrontare una<br />

de genza ospedaliera o semplicemente a chi è rimasta incinta/o). (S. Bologna, Ceto medio, quale futuro?, pag. 18, DeriveApprodi,<br />

Roma 2007)<br />

Questa è la testimonianza di Rufus, un lavoratore “autonomo”. È una delle tante che circolano su Internet e Sergio Bologna la<br />

cita come esempio emblematico dell’esasperato e motivato disagio delle nuove figure di lavoro, alle quali, forse tra i primi in<br />

Italia, si è interessato da vicino e dall’interno, essendosi egli stesso, come racconta, trasformato dopo vent’anni di insegnamento<br />

universitario in «ricercatore libero professionista».<br />

Si tratta dei «lavoratori autonomi di seconda generazione» che egli distingue nettamente da quelli tradizionali 1 .<br />

Viaggiando nella cosiddetta blogosfera, ha trovato testimonianze di vario tipo: la trentenne romana che «si offre per una notte<br />

d’amore in cambio di un lavoro decente», chi spera nella tutela del magistrato e non più del sindacato, chi immagina o pratica<br />

espatri e fughe in altri paesi, chi denuncia le truffe dell’offerta di falsi «stage di formazione», chi organizza le prime rivendicazioni<br />

dei lavoratori autonomi e dei precari.<br />

Le storie si somigliano. Dicono che il lavoro precario – che per Bologna va considerato un modo «strutturale» di organizzazione<br />

della società del lavoro di oggi e non temporaneo e riassorbibile in quello a tempo indeterminato, come sostengono i sociologi<br />

accademici del lavoro (Accornero, Reyneri) con cui polemizza - sta stravolgendo la vita, gli affetti, le relazioni familiari o amicali<br />

di milioni di persone, senza che ci si decida a sanare la situazione con un serio intervento giuridico: «Così siamo arrivati al punto<br />

che il 47% circa degli occupati nell’economia di mercato oggi non gode delle tutele sociali previste dallo Statuto dei lavoratori del<br />

1970, che si applica soltanto alle imprese con più di 15 dipendenti». (p. 183)<br />

A ingrassare sul lavoro dei precari e degli autonomi non sono solo imprese marginali o microimprese in difficoltà, ma i grandi<br />

gruppi e soprattutto la Pubblica Amministrazione. S’è creata così una divisione tra lavoratori con prerogative e tutele garantite<br />

dalla legge e lavoratori «flessibili» con zero diritti. L’impresa su tale divisione ci marcia, mentre il sindacato ha optato per una<br />

strategia di difesa corporativa dei soli lavoratori già tutelati, contribuendo così ad esasperare le differenze (che non sono quindi<br />

solo generazionali, come si dice).<br />

Questa grave situazione, «non più compatibile con un paese civile» come rileva Bologna, non è cascata dal cielo: sono stati gli accordi<br />

sindacali con la Confindustria del luglio 1993 che, centralizzando la contrattazione sindacale hanno impedito ai lavoratori<br />

a tempo indeterminato di negoziare alcunché sul proprio salario con le imprese e incentivato le forme “atipiche” del lavoro nelle<br />

«imprese individuali» o microimprese.<br />

Ne è conseguito un «mutamento genetico» nella mentalità stessa dei lavoratori: la stragrande <strong>maggio</strong>ranza degli autori di queste<br />

testimonianze – una “folla solitaria” di giovani e meno giovani, prigionieri del «circolo vizioso della precarietà»e che tirano su<br />

per alcuni mesi, quando tutto fila liscio, dai 433 euro mensili ad un massimo di mille, è convinta che «bisogna cavarsela da soli».<br />

La fiducia nella possibilità e utilità di coalizzarsi con persone che vivono in condizioni di lavoro simili, che ha caratterizzato la<br />

storia dei lavoratori per tutto il Novecento, è stata estirpata. Per lo più domina la rassegnazione.<br />

Poche perciò sono per ora le spinte associative tra i lavoratori autonomi e precari. Bologna le paragona a quelle che nell’Ottocento<br />

portarono alla formazione delle prime associazioni artigiane o alle prime società operaie. Allora i “senza voce” si riunivano<br />

in qualche osteria per sfuggire alla polizia o alle spie del padrone. Oggi lo fanno nello spazio del web, gettando le basi di una<br />

«coalizione virtuale», che Bologna giudica «una delle forme moderne di democrazia, forse una delle ultime rimaste», visto che<br />

«i sindacati non rappresentano più questa forza lavoro, non hanno voluto rappresentarla» (p. 20).<br />

In altri paesi la situazione è più promettente: in Francia nella primavera del 2006 si sviluppò un movimento contro la legge sul<br />

«contratto di prima assunzione» (CPE) del governo Villepin; negli Usa sono nate le «Frelancers Unions» di New York, organizzate<br />

dall’avvocatessa Sara Horowitz, che ha costruito un sindacato dei lavoratori autonomi di seconda generazione con 40mila<br />

iscritti e la «United Professional» della sociologa Barbara Ehrenreich che si rivolge ai lavoratori autonomi e ai colletti bianchi.<br />

In Italia, a Milano, sulla spinta di questi modelli sono sorti «l’ascoltatoio» sulle forme del lavoro postfordista presso la Libreria<br />

delle donne, che si propone di «raccogliere testimonianze di persone che raccontano semplicemente le loro esperienze di lavoro»<br />

e, nel 2004, Acta (Associazione di consulenti nel terziario avanzato), di cui Bologna è uno degli animatori, mentre si va facendo<br />

strada l’«evento» Mayday, la manifestazione quasi carnevalesca, sullo stile dei gay pride o dei love party, dei «devoti di San Precario».<br />

Promossa dai centri sociali autogestiti, dal 2001 contrappone simbolicamente il significato originario del Primo Maggio<br />

(dignità e necessità del riscatto e della liberazione del lavoro) al rito stanco e forzato dei sindacati.<br />

In Italia uno dei massimi ostacoli all’organizzazione dei lavoratori autonomi e precari sta per Bologna nei partiti e nei sindacati,<br />

che definisce «professionisti della sconfitta».<br />

1 Bologna li chiama così perché li considera differenti e per certi versi opposti a quelli di «prima generazione», rappresentati<br />

dai tradizionali professionisti tutelati dagli Ordini (architetti, medici, avvocati, ecc.) o dai lavoratori autonomi del commercio<br />

o dell’agricoltura (p.127) e, in un passo precisa: «questa gente, cui io appartengo, cui appartengono altri 6 milioni di persone, è<br />

gente che lavorano poggiando esclusivamente su mezzi propri, su proprie risorse umane, intellettuali, economiche, relazionali, è<br />

gente comune, un po’ middle class un po’ proletariato, un po’ Lumpen del postfordismo» (p. 220).<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 38


terferiscono nella presa di coscienza dei nuovi bisogni e<br />

della realtà al momento in cui, ad es., poniamo il problema<br />

cruciale di «cosa possiamo fare perché quella ragazza<br />

se lavora possa lavorare in maniera decente». 1<br />

Accolgo perciò solo in parte il consiglio di lasciar stare<br />

(per evitare sterili litigiosità, per non perdere di vista<br />

l’essenziale) «le diatribe sull’operaismo, il marxismo, il<br />

comunismo, il concetto di classe, il femminismo» 2 , che<br />

oggi capirebbero in pochissimi. Tuttavia, per cogliere<br />

l’importanza di fatti, dati e misure che Bologna espone<br />

con tanta chiarezza, bisogna pur districarsi nella selva<br />

delle nuove forme assunte oggi dall’individualismo e<br />

dalla legge del mors tua, vita mea (p. 15), per ritrovare<br />

(forse!) tracce di quella «solidarietà» che egli stesso<br />

vede ormai estirpata dall’animo e dalla mente dei lavoratori.<br />

Dire che una “teoria” o, almeno, una cornice, un<br />

lessico, un linguaggio comune, una qualche tradizione<br />

ripensata ci aiuterebbe, non mi pare volgere le spalle ai<br />

fatti, ai dati, alle misure (e alle scelte etiche che la loro<br />

conoscenza impone).<br />

Se ci fosse, darebbe sia agli studiosi “in ascolto” che<br />

ai narratori che “si sfogano” la possibilità di capirsi di<br />

più e magari di agire assieme.<br />

2. Anarchismo e comunismo: sfondi dell’attuale<br />

conricerca<br />

Una “cornice” (non voglio chiamarla “teoria implicita”)<br />

a me pare sia presente anche in questo libro di Bologna.<br />

L’idea di una «coalizione» del «lavoro autonomo di<br />

seconda generazione» non nasce, infatti, come Venere<br />

dal mare o solo dalla conricerca svolta da Bologna nella<br />

blogosfera, ma attinge alla memoria, alle «buone rovine»<br />

(Fortini) della tradizione anarcosindacalista, cara<br />

a lui e in buona misura pure a me. Però – ecco la mia<br />

seconda (fraterna) obiezione – oggi a me pare necessaria<br />

ma insufficiente. Non perché, abbindolato da quelli<br />

che Bologna chiama «professionisti della sconfitta» e<br />

in particolare dalle «componenti che si richiamano alla<br />

tradizione comunista e quindi a un’immagine del lavoro<br />

di stampo fordista», coltiverei il «retaggio del gene<br />

stalinista» (p. 25). Ma per una considerazione storica,<br />

che mi fa vedere anarchismo e comunismo comunque<br />

intrecciati in tutta la storia del movimento operaio.<br />

Trascurare tali intrecci e non attingere – come<br />

credo si debba fare – sia alle «buone rovine» della tradizione<br />

anarcosindacalista che a quelle della tradizione<br />

comunista mi pare un gesto unilaterale, che tra l’altro<br />

cancellerebbe una lezione, quella di Danilo Montaldi,<br />

che Bologna stesso è impegnato a preservare. 3<br />

1 Bologna, risposta 6.<br />

2 Bologna, risposta 6.<br />

3 «Danilo […] ti dice solamente che la dimensione nuova con<br />

cui lui ha letto la storia del comunismo gli ha consentito di<br />

acquistare un’autonomia di giudizio e una possibilità di pratica<br />

non eterodiretta. Se t’interessa, puoi provarci anche tu. In<br />

pratica significa che puoi fare politica, puoi agire pensando di<br />

cambiare l’ordine delle cose anche senza un Partito alle spalle.<br />

[…] Danilo non ti diceva di partire da una condizione di “ta-<br />

La storia del comunismo o dei comunismi o dei<br />

comunisti a cui penso non è quella devastata dal «gene<br />

stalinista». È la stessa per la quale Bologna mostra gran<br />

rispetto ed enorme interesse: «quella che le versioni<br />

ufficiali amavano mettere in ombra». 4 Quei comunisti<br />

messi in ombra dal partito piacciono a lui, ma piacciono<br />

anche a me; e bisognerà pur spiegare perché rimanevano<br />

comunisti, malgrado le persecuzioni dei loro “compagni”.<br />

A parte poi il fatto che anch’io non sono mai stato<br />

iscritto al PCI e ho imparato qualcosa da Montaldi, il<br />

suo invito sarcastico a «comunisti o post-comunisti o ex<br />

comunisti o neocomunisti a rivitalizzarsi» 5 , sembra una<br />

scorciatoia un po’ contraddittoria con quel gran rispetto<br />

e interesse per la storia del comunismo. Come se essa<br />

dovesse interessare solo a chi ritiene «più importante il<br />

governo della società» e non – direi - altrettanto a chi<br />

giudica «la società più importante del quadro politico»,<br />

che sono le due formule in cui Bologna riassume di fatto<br />

storia del comunismo e storia dell’anarchismo. 6<br />

Non mi pare, insomma, utile mettere ancora<br />

in primo piano qualcuno dei tanti momenti tragici e<br />

mortali della contrapposizione frontale di anarchici<br />

e comunisti 7 e rimuovere, fossero pure pochissimi, i<br />

momenti, “aurorali” se si vuole, di avvicinamento e<br />

di solidarietà almeno tra i militanti di base (i soviet, i<br />

consigli), che rappresentarono “il meglio”, soffocato<br />

ma prezioso, di quelle due tradizioni. E dico questo<br />

pur riconoscendo che anche a me la «coalizione» di<br />

matrice anarcosindalista oggi sembra più realistica<br />

della forma «partito comunista», che ha agonizzato<br />

per tutto il Novecento e che, come Bologna dice a<br />

proposito dell’ultimo Luigi Pintor, ha forse chiuso<br />

il suo ciclo storico, imponendo a chi in essa aveva<br />

pensato un pezzo del Novecento a rifugiarsi poi in un<br />

«vocabolario millenarista» (p. 176). Eppure, malgrado<br />

tutto, ripensare (e ritentare) ancora la mai riuscita<br />

“quadratura del cerchio”, che sotterraneamente trapela<br />

dall’intera storia conflittuale delle due tradizioni, non<br />

mi pare un’ingenuità. Forse è giusto ripartire dall’idea<br />

di «coalizione» dei lavoratori, ma evitando i rischi<br />

di una “coalizione ristretta” e correndo quelli di una<br />

“coalizione larga” (ma dirò ora….). Un movimento<br />

capace di non farsi vampirizzare dai “politici”, di<br />

sostituirsi ad essi, espropriandoli della politica che<br />

hanno professionalizzata e resa continuamente<br />

fenomeno d’èlite (o di casta, come oggi si dice) non s’è<br />

bula rasa”, da un’assenza di memoria, da una verginità politica<br />

artificiosa. Al contrario, ti diceva che non facevi un passo<br />

avanti se non avevi fatto i conti con la storia del comunismo,<br />

anzi, dei comunismi, meglio, dei comunisti (Bologna, Sulla figura<br />

di Danilo Montaldi come crocevia di generazioni, in Ceto<br />

medio quale futuro?, p 229, Derive Approdi, Roma 2007).<br />

4 Bologna, risposta 3.<br />

5 Bologna, risposta 3.<br />

6 Bologna, risposta 3.<br />

7 Bologna, risposta 3: «Fossi stato in Spagna nel ’36 i comunisti<br />

mi avrebbero fucilato».<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 39


mai realizzato, ma non è mai impossibile.<br />

3. Coalizione “stretta” e coalizione “larga”<br />

Torno al presente e al libro. Se l’attuale «rivoluzione<br />

capitalistica» ha accentuato, anche grazie alle burocrazie<br />

sindacali e partitiche, una divisione tra lavoratori<br />

“tradizionali” e lavoratori collocati nei punti dove avvengono<br />

le trasformazioni più dinamiche e sconvolgenti<br />

del lavoro (che da fordista va facendosi postfordista),<br />

non mi pare «meglio per tutti che ciascuno marci per<br />

conto suo». 1 Come si passerebbe da un “esodo d’emergenza”<br />

(minoritario o persino individuale) a un esodo<br />

costruttivo e vasto? Alla politica sempre più corporativa<br />

dei sindacati negli ultimi decenni e allo svuotamento<br />

della democrazia si sta già rispondendo “marciando ciascuno<br />

per conto suo”. Come non vederne i limiti? Non<br />

ho nessun dubbio sull’obiettivo proposto da Bologna: i<br />

nuovi lavoratori autonomi devono ottenere quella tutela<br />

che governi e sindacati s’incaponiscono a riservare<br />

solo ai lavoratori a tempo indeterminato. 2 Eppure la sua<br />

ipotesi di «coalizione» è rivolta innanzitutto e soprattutto<br />

(se non esclusivamente) ai «lavoratori autonomi<br />

di seconda generazione» ed ha – lo riconosce egli stesso<br />

- un «sapore fortemente elitario». 3<br />

Non so se per orgoglio o rassegnazione («È la<br />

caratteristica storica dell’operaismo» 4 ) questo sapore<br />

rischia di diventare permanente. Il che potrebbe a<br />

mio parere spingere i lavoratori autonomi di seconda<br />

generazione a guardare dall’alto in basso non solo i lavoratori<br />

dipendenti, ma anche i precari più generici; e<br />

questi ultimi a “invidiare” i lavoratori dipendenti, perché<br />

“al sicuro”, o i lavoratori autonomi meglio professionalizzati,<br />

perché hanno più opportunità e vantaggi<br />

economici di loro. In questo elitarismo per me si annida<br />

un rischio: la nuova figura dei lavoratori autonomi di<br />

seconda generazione rischia di essere pensata dai suoi<br />

concreti rappresentanti secondo una logica purista.<br />

Avremmo una replica storica delle vecchie “aristocrazie<br />

operaie”. La nuova coalizione si ridurrebbe a una “coalizione<br />

dei più vicini”, che scarterebbe o vedrebbe come<br />

fumo negli occhi ogni possibile coalizione più ampia ed<br />

eterogenea, sicuramente oggi difficile da immaginare e<br />

da costruire, ma secondo me irrinunciabile. Ammetto<br />

il “realismo” della proposta di Bologna. Sì, i lavoratori<br />

autonomi, se coalizzati, potrebbero «creare non pochi<br />

fastidi all’assetto dominante», azzeccare «il punto<br />

sensibile del potere, il suo nervo scoperto e lì [premere]<br />

fino a fargli male». 5 Ma ciò basta?<br />

1 Bologna, risposta 2.<br />

2 «Uno ha il diritto, se vuole, di vivere di lavori alla giornata,<br />

ma ha anche il diritto di pretendetere di non essere trattato<br />

da cittadino di serie B per questa scelta» (p.163); «la richiesta<br />

politica è un’altra: chi lavora per scelta o per necessità in<br />

maniera intermittente non deve essere discriminato sul piano<br />

delle tutele previdenziali e assistenziali. I diritti sociali, la tutela<br />

della salute, della maternità, della vecchiaia debbono essere<br />

garantiti a tutti e non soltanto alle categorie di lavoratori<br />

con contratto di lavoro a tempo indeterminato» (p. 191)<br />

3 Bologna, risposta 6.<br />

4 Bologna, risposta 6.<br />

5 Bologna, risposta 6.<br />

Il fatto che oggi nessun altro, tantomeno l’attuale<br />

sinistra, sappia offrire una (indispensabile o no?)<br />

«”rappresentanza generale” degli interessi di classe»<br />

non abolisce il problema, trascurato dai sindacati o gestito<br />

dai “politici di professione” nelle forme mistificate<br />

della «postdemocrazia» (Marramao 6 ). Non vedo perciò<br />

perché la ripresa della conricerca non debba implicare<br />

fin dall’inizio gli esponenti dei vari settori dell’attuale<br />

forza lavoro (lavoratori della conoscenza, lavoratori<br />

“tradizionali”, informe “galassia” degli immigrati),<br />

tutti coinvolti in varie misure e forme dal mutamento<br />

postfordista.<br />

4. Gli esclusi dalla «coalizione»: gli immigrati<br />

Per dirla tutta lealmente, mi chiedo: conricerca<br />

e coalizione devono essere limitate ai soli lavoratori<br />

autonomi di seconda generazione per mancanza<br />

di forze capaci di «ascolto» o per sfiducia degli attuali<br />

“ascoltatori” verso lavoratori privi di «quelle risorse di<br />

capitale umano possedute da coloro che occupano posizioni<br />

di relativa forza sul mercato»? 7 Propenderei per<br />

la seconda ipotesi quando m’imbatto nel giudizio un po’<br />

censorio che Bologna dà di quelli che oggi si occupano<br />

“caritatevolmente” degli immigrati. 8 È vero che questo<br />

volontariato è quasi sempre cattolico e bloccato nella logica<br />

paternalistica del filantropismo (e sul n. 3 di «Poliscritture»<br />

lo avevo rilevato io pure, parlando dell’ipotesi<br />

di «villaggio solidale» a Cologno Monzese promossa da<br />

don Colmegna). Che i marxisti (del resto azzittitisi o da<br />

tempo trasformatisi per lo più in para-cattolici) siano<br />

latitanti verso questo settore di forza lavoro (in parte<br />

“debole”, in parte dinamicissimo) o non siano in grado<br />

di costruire pratiche e narrazioni alternative al «gran<br />

parlare di “accoglienza”, di “civiltà multietnica” e bla<br />

bla filantropico» 9 (o svelare l’illusione dell’acconto di<br />

«eterno» che le religioni offrono attingendo alla rendita<br />

del sacro) non significa che la «coalizione» non vada<br />

cercata anche con le fasce degli immigrati. E bisogna,<br />

comunque, riconoscere al volontariato cattolico almeno<br />

il merito di sapersi accostare a condizioni di vita pesanti<br />

e di misurarsi a suo modo con i “diversi” che ormai sono<br />

in mezzo a noi europei ex-colonizzatori. Esso, specie<br />

nelle sue forme di “militanza di base”, non è perciò tutto<br />

riducibile alla “colonizzazione” che denunciava Fanon.<br />

E, di sicuro, l’oscuramento dei problemi del lavoro non<br />

è tutto ad esso imputabile.<br />

Se – come ricorda un po’ polemicamente Bologna<br />

- i bruciati alla Thyssen Krupp non sono immigrati,<br />

quella sorte atroce toccò nel 2000 al rumeno Cazacu cosparso<br />

di benzina e dato alle fiamme da un piccolo imprenditore<br />

di Oggiona S. Stefano perché chiedeva un’assunzione<br />

regolare. Sarebbe meglio, insomma, parlare di<br />

«una situazione disastrosa del lavoro» non soprattutto<br />

6«Nella postdemocrazia non vige uno stato d’eccezione reale,<br />

ma uno stato d’eccezione «formattato», creato ad arte per<br />

rendere indiscernibili i profili dei veri conflitti, delle effettive<br />

linee antagonistiche» (il manifesto, 18 marzo <strong>2008</strong>).<br />

7 Bologna, da me citato nella domanda 6.<br />

8 Bologna, risposta 2.<br />

9 Bologna, risposta 2.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 40


o soltanto per i «cittadini italiani», 1 ma del lavoro in generale.<br />

Così non si rischia di scivolare nella difesa dell’<br />

”italianità” del lavoro. Vedo, insomma, nel discorso di<br />

Bologna, così concentrato sulla middle class o che si<br />

spinge al massimo verso la lower middle class, una trascuratezza<br />

verso le condizioni di vita di fette consistenti<br />

di “neoproletariato” o “moltitudine”. 2<br />

5. La “città invisibile” nascosta dalla Milano<br />

«città del capitale»<br />

Anche nell’immagine che Bologna delinea di Milano, la<br />

«città che dipende dal mercato dei segni e delle immagini,<br />

città dell’industria dei media e dell’intrattenimento,<br />

della moda con le sue infinite articolazioni, del design,<br />

della pubblicità, dei servizi alle imprese, dell’informatica»<br />

(p. 26) e che attira dal suo hinterland o vi disloca<br />

forza lavoro, a me pare manchi qualcosa. Non voglio accentuare<br />

più del dovuto una contrapposizione tra Milano<br />

e il suo hinterland (tra l’altro la LUMHI 3 ha nel suo<br />

nome stesso il termine hinterland). Eppure, oltre agli<br />

interlocutori di riferimento di Bologna - quei lavoratori<br />

che operano nell’industria dei media, dell’informatica<br />

e dei settori affini -, 4 ce ne sono tanti altri: quelli che<br />

agiscono nelle strutture statali (scuole, etc.), gli stessi<br />

«devoti di San Precario», che secondo lui mostrano una<br />

nostalgia tutta fordista del «posto fisso» (p. 93), i ricercatori<br />

universitari, che, avendo chiesto l’abrogazione<br />

della legge 30, hanno mirato, sempre secondo Bologna,<br />

a «un’illusoria abolizione della precarietà piuttosto che<br />

[puntare] sui sistemi di tutela per conviverci» (p. 28). A<br />

questa massa di figure più “tradizionali” andrebbero aggiunte<br />

quelle marginali o alla deriva in quartieri degradati,<br />

che io, vivendo a Cologno Monzese, noto di più. In<br />

queste sezioni della società il dinamismo del postfordismo<br />

sembra spento o inafferrabile o sperimentato solo<br />

nei suoi aspetti di deriva. 5 Vorrei che proprio da parte<br />

1 Bologna, risposta 2.<br />

2 Un altro esempio: l’attenzione prestata al movimento francese<br />

degli intermittents du spectacle a scapito della rivolta<br />

dei giovani delle banlieues (p. 22). E ancora: perché la giusta<br />

esigenza di «guardare anche dentro casa nostra» occupandosi<br />

del «disagio delle classi medie» non dovrebbe essere integrata<br />

con i dati che vengono dalle discussioni sulla «povertà<br />

dei paesi dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia, dei paesi<br />

dell’ex Unione Sovietica», anche se «molto si parla ma ben<br />

poco di concreto si fa» per eliminare questi gravi problemi?<br />

(pag. 156)<br />

3 La LUHMI è la Libera Università di Milano e del suo Hinterland<br />

intitolata «Franco Fortini e fondata nel 1995 da S. Bologna.<br />

4 «quelli che rappresentano la forza lavoro del mercato dei segni<br />

e dei simboli, cioè dell’industria dei media, dell’informatica<br />

e dei settori affini… forza lavoro dotata di skill professionali,<br />

spesso senza titoli universitari, uscita da scuole tecnicospecialistiche<br />

o da corsi di formazione professionale, capace<br />

di tenersi bene a galla nel mercato districandosi tra occasioni<br />

saltuarie, periodi di lavoro all’estero, gelosa della propria autonomia<br />

e pertanto senza il miraggio del posto fisso» (27).<br />

5 Leggo su «il manifesto» del 23 marzo <strong>2008</strong> la recensione<br />

di Agostino Petrillo a Milano ai tempi delle moltitudini di<br />

Aldo Bonomi. Mi pare interessante (nella recensione, non<br />

nel libro di Bonomi che non ho letto) il richiamo un po’ boccioniano<br />

al «rumore di fondo che sale dalla “città invisibile”,<br />

ossia dalle cerchie di coloro che sono spremuti ed espulsi dal<br />

di chi si trova nei punti alti del postfordismo si riuscisse<br />

a considerare tutto questo insieme di forza lavoro, sicuramente<br />

percorso da contraddizioni interne non solo<br />

oscure ma quasi ingovernabili. È utopia? Non credo. Si<br />

“sentirebbe” e si comprenderebbe meglio la condizione<br />

di chi è costretto a dibattersi tra prospettive (lavoro<br />

autonomo, posto fisso) spesso entrambe illusorie e non<br />

veramente alternative non così disgiunta da quella,<br />

quasi invisibile, dei tanti “alla deriva”.<br />

6. Il lavoro precario come “scelta”<br />

E torno, infine, su un punto per me decisivo,<br />

che avevo affrontato nella domanda 5 e che non ha trovato,<br />

secondo me, una risposta da parte di Bologna.<br />

Egli ha scritto: «Mai dimenticare che il postfordismo è<br />

stato il prodotto di una doppia spinta: da una parte la<br />

riorganizzazione capitalistica e dall’altra il rifiuto del lavoro<br />

normato, così come si manifestò, per esempio, nel<br />

movimento del ’77. La precarizzazione l’abbiamo voluta<br />

anche noi! E pertanto deve essere cancellato ogni accento<br />

vittimista»» (p. 31). Io dubitavo che il movimento<br />

del ’77 avesse puntato proprio alla «precarizzazione»<br />

e esprimevo perplessità verso le critiche al cosiddetto<br />

“vittimismo” e scetticismo verso la qualità delle attuali<br />

«strategie di libertà» costruite «anche attraverso il lavoro<br />

intermittente o indipendente». 6<br />

Ora torno a chiedermi: ma perché chi muove<br />

delle critiche (anche “vecchie” ma fondate su fatti e esperienze)<br />

a queste sia pur relativamente nuove «strategie<br />

di libertà» farebbe del “vittimismo”? Giusto sfuggire ai<br />

vecchi ideologismi, ma perché sostituirli con nuovi ideologismi?<br />

Chiedersi (caso per caso, se si potesse) quanto<br />

il lavoro “autonomo” di cui andiamo parlando sia davvero<br />

«indipendente» o quanto potrà magari diventarlo<br />

(e a me pare importante stabilire anche per quanti potrà<br />

diventarlo) è domanda seria e non dovrebbe infastidire i<br />

sostenitori di un lavoro autonomo, quando la loro visione<br />

è fondata su esperienze reali e non su ideologismi.<br />

Non credo perciò di dire una cosa campata in<br />

aria se affermo che «strategie di libertà» limitate, quali<br />

sono per me quelle stesse qui delineate per il «lavoro<br />

autonomo di seconda generazione», sono state possibili,<br />

e forse lo sono ancora, con altre modalità, anche nel<br />

lavoro dipendente. Del resto, anche se Bologna sostiene<br />

con forza le «opportunità di liberazione e di autonomia<br />

che la condizione del precario offre», nelle pieghe del<br />

suo complesso e documentatissimo discorso si trovano<br />

molte affermazioni che dimostrano come non gli sfuggano<br />

né l’incertezza né la drammaticità né la pesantezza<br />

del mutamento in corso. Accenna, infatti, alle spinte e<br />

controspinte che portano i giovani ora verso un lavoro<br />

autonomo per necessità (pag. 61), perché esiste una<br />

reale impossibilità di accedere al mercato del lavoro di-<br />

mercato del lavoro, da chi paga i costi umani e sociali della<br />

trasformazione[di Milano, e cioè dei] “naufraghi del fordismo”<br />

di vario genere:: migranti impiegati nei nuovi lavori servili,<br />

giovani disoccupati o precarizzati, manodopera ipersfruttata<br />

dal ritorno del caporalato e dal dilagare del lavoro nero, soprattutto<br />

in settori come l’edilizia».<br />

6 Intervista, domanda 5.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 41


pendente, ora a tentare l’avventura a volte piena di illusioni<br />

del lavoro indipendente. 1 Né tace, col richiamo a<br />

Sennet 2 , gli effetti deleteri sulla psiche almeno di un certo<br />

lavoro precario. Come non gli sfugge una situazione<br />

ancora peggiore: «la condizione di quelli che lavorano<br />

per niente, gratis». 3<br />

Ecco perché non mi pare inutile o reazionario<br />

chiedersi: le offre davvero e per quanti queste occasioni<br />

di “libertà” il lavoro precarizzato? Se esse stentano ad<br />

essere afferrate, forse vuol dire anche che spesso non<br />

ci sono o ci sono solo per pochi più fortunati. E allora,<br />

ci vorrebbe una <strong>maggio</strong>re prudenza: messianica può risultare<br />

non solo l’attesa del posto fisso, ma anche quella<br />

delle opportunità di lavoro “autonomo”, proprio perché<br />

«i confini dell’insicurezza sociale vanno ben al di là del<br />

rapporto tra «posto fisso» e lavoro precario» (p. 94).<br />

Certo, «il lavoro occasionale, il lavoro flessibile è stato<br />

anche scelto, cercato, dalla forza lavoro così come la<br />

fuga dalle campagne è stato un movimento spontaneo<br />

durante certi periodi dell’industrialismo dell’Ottocento<br />

e del Novecento, non è stato soltanto un esodo forzato»<br />

(p. 191), ma non sarebbe più realistico parlare di lavoro<br />

dipendente e flessibile come di due varianti all’interno<br />

di una costante che è il lavoro comunque sottoposto al<br />

controllo del capitale? E tenere a mente l’obiettivo della<br />

liberazione del lavoro nel suo complesso, anche se questa<br />

ipotesi allo stato attuale appare scandalosa o addirittura<br />

pazzesca?<br />

Insomma un breve richiamo non alla sinistra<br />

d’oggi, ma all’idea gramsciana di «rivoluzione passiva»<br />

gioverebbe ad approfondire la questione. O questa sarebbe<br />

ideologia? Sì, «una visione puramente pessimistica<br />

e catastrofista del postfordismo non ci aiuta nemmeno<br />

a capire perché certe persone continuano a difendere<br />

certi stili di vita», ma perché «il primo punto da mettere<br />

in discussione è proprio quello del «posto fisso»,<br />

dell’occupazione a vita, dell’accettazione di un sistema<br />

gerarchico, di un’organizzazione del tempo e dello spazio<br />

secondo criteri definiti da una volontà superiore, al<br />

tempo stesso dispotica e protettiva» (p. 166)? Come se<br />

il lavoro autonomo fosse – qualcuno forse lo vive così<br />

con qualche buona ragione - un’alternativa piena che<br />

già sfugge del tutto al sistema gerarchico del capitale.<br />

Non sono convinto, cioè, che la libertà (quella vera) sia<br />

più tangibile o a portata di mano nel lavoro autonomo<br />

e meno nel lavoro dipendente, proprio perché entrambi<br />

- qui sarò “veterissimo” (ma anche Bologna, quando si<br />

propone di demistificare il falso potere liberatorio del<br />

lavoratore autonomo e del personal computer, 4 parrebbe<br />

esserlo…) - sono lavori sottomessi al capitale; e se<br />

1 «Il soggetto abbandona la sfera simbolica del lavoro ed entra<br />

in quella dell’impresa, da lavoratore pensa di essere diventato<br />

imprenditore, di essere passato al proletariato alla borghesia.<br />

In realtà, molto spesso, non è né l’uno né l’altro» (p. 181).<br />

2 R. Sennet, L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano 1999.<br />

3 «regalando a un signor X, sconosciuto, il loro tempo e le loro<br />

competenze. Li chiamano stage […] Da noi succede di frequente<br />

presso gli studi delle professioni tradizionali. Grossi studi di<br />

avvocati o architetti dove i giovani lavorano gratis anche per<br />

anni (p. 180).<br />

4 Bologna, risposta 4.<br />

certi vantaggi interstiziali si trovano nel lavoro autonomo,<br />

in forme diverse si trovano – ripeto - pure nel lavoro<br />

dipendente. I liberti ci sono sempre stati, ma senza<br />

che venisse abolita la schiavitù.<br />

Il problema che nessuno mi toglie dalla testa è<br />

quale tipo di libertà si può/si deve cercare (nel lavoro?<br />

o anche oltre il lavoro?). È, insomma, sulle «strategie di<br />

libertà» e su come misurarle che dovremmo intenderci.<br />

Bologna ammette che il lavoratore autonomo è «una figura<br />

di compromesso», che «non rovescerà il sistema».<br />

Di più non si può fare: chi ne è capace si faccia sotto» (p.<br />

36) . Sarebbe, dunque, infantile intestardirsi su un desiderio<br />

di libertà “assoluta”? Qui si dovrebbe aprire un<br />

lungo discorso “teorico”, ma né lo spazio disponibile né<br />

il rispetto che sento di dover portare al libro di Bologna<br />

permettono in questa occasione di cominciarlo.<br />

Poliscritture/Samizdat Pag. 42<br />

L’urlo. Disegno infantile


(Esterno con<br />

alberi)<br />

aria fuoco acqua terra<br />

i quattro elementi lontani<br />

- un passero picchietta<br />

emettendo i suoi suoni<br />

il centro di piccoli fiori<br />

- mandorli o peschi piantati -<br />

- infruttuosi - sul marciapiede<br />

di via Settembrini - Roma -<br />

vicino piazza Mazzini - i petali<br />

cadono sul tavolino del bar -<br />

è un 20 di febbraio<br />

del <strong>2008</strong> - Ippolita ed io<br />

beviamo qualcosa - mi parla<br />

d’una vacanza lontana - lei<br />

ed un uomo si avventurano<br />

in macchina - all’inizio una pista<br />

visibile - poi all’improvviso<br />

la sabbia confonde - li perde -<br />

non sanno più dov’è l’est - dove<br />

è l’ovest - sorpresa degli elementi<br />

natura - paura - a fatica<br />

un villaggio - gli adulti<br />

stupiti li ospitano - qualche<br />

bambino li attornia - il giorno<br />

dopo - con carri di buoi<br />

e con funi - portano macchina<br />

e i due alla città più vicina<br />

(che era lontana) e con grazia seria<br />

gli dicono “jamais le désert” -<br />

Ippolita ringrazia - lascia<br />

delle scarpe - una giacca - qui<br />

passano macchine - motorini -<br />

ai tavolini poche persone<br />

nel pomeriggio - il tronco<br />

del mandorlo - o pesco - è scuro<br />

nerissimo - si salvano dalla pece<br />

dell’aria le radici - quelle<br />

ancora respirano - ancora avviene<br />

la fioritura - annuso i petali<br />

- li prendo - caduti -<br />

2 Latitudini<br />

o v u n q u e e c o n o g n i m e z z o<br />

Anna Cascella Luciani<br />

dal tavolino - pendici<br />

di colli - di prati altrove<br />

- li conservo dentro una carta<br />

poi il cellulare di Ippolita<br />

squilla - il campo dei fili<br />

invisibili ha avuto il suo<br />

corso - una donna anziana<br />

- italiana - discreta - pudìca<br />

ha chiesto qualcosa - offriva<br />

piccoli porta-fortuna -<br />

o portachiavi - l’economia tira<br />

avanti per la sua strada -<br />

senz’occhi - il prezzo<br />

della benzina oggi ancora<br />

salito - noi poveri troveremo<br />

domani ancora rialzate frutta<br />

verdura ma oggi è il mio<br />

compleanno di festa - dieci<br />

euro ai tavolini<br />

del bar - gentili le ragazze<br />

al servizio - i lindi capelli<br />

scuri o più chiari<br />

in ordinati chignon - aprono<br />

un varco tra le sedie quando<br />

andiamo via - compio 67 anni -<br />

[da Incisioni, inedito]<br />

Poliscritture/Latitudini Pag. 43


Rodoviaria<br />

brasiliana<br />

Alessandro Teruzzi<br />

Quelli che seguono sono alcuni estratti del libro I<br />

diari della rodoviaria, nel quale vi sono il racconto, le<br />

riflessioni, le emozioni che io e Gigi (il mio compagno di<br />

viaggio) abbiamo vissuto in 45 giorni on the road (ma<br />

anche on the river) in Brasile. Il termine ‘rodoviaria’<br />

è una parola portoghese che indica la stazione degli<br />

autobus. Agli occhi più attenti non potrà certo sfuggire<br />

una certa somiglianza tra questo titolo e quello di un<br />

altro diario: I diari della motocicletta, film del regista<br />

Walter Salles, che portò al cinema i diari che Ernesto<br />

Guevara raccolse in Latinoamericana. L’idea è quella<br />

di sottolineare come questo nostro viaggio rappresenti<br />

un momento di conoscenza e di maturazione, sia come<br />

persone che come cittadini del mondo.<br />

Buona lettura<br />

[…] MANAUS, capitale dello stato dell’Amazonas,<br />

nel cuore della foresta, alla confluenza tra<br />

Rio Negro e Rio delle Amazzoni<br />

Dopo solo 40 ore di viaggio siamo arrivati da padre<br />

Riccardo 1 a Manaus. Elias 2 ci ha accompagnato<br />

dall’aeroporto a Novo Israel, il bairro dove abitano<br />

Riccardo, Pedro 3 e gli altri. Il quartiere è costruito su una<br />

discarica che è stata occupata dai dannati di Manaus per<br />

reclamare il loro diritto ad avere una casa. Pare che sia<br />

stata una suora indigena (Elena) a guidarli nella lotta.<br />

Spero vivamente di conoscerla.<br />

Venendo nel Bairro abbiamo subito visto la miseria e la<br />

fatiscenza delle “case”. Dopo poco siamo entrati nella<br />

casa dei missionari, un’abitazione che non ha nulla<br />

da invidiare alle nostre. Non possiamo fare a meno<br />

di pensare se sia giusto che esista un’oasi di relativo<br />

benessere in un mare di miseria. E se fosse sbagliato,<br />

non saremmo forse noi ancora più colpevoli?<br />

Padre Enzo 4 ci ha accolti e abbiamo scambiatoquattro<br />

chiacchiere. Parlando di Lula 5 , la sua posizione è<br />

sembrata piuttosto moderata: non era molto convinto<br />

che nel PT 6 ci fossero stati episodi di corruzione e<br />

giustificava le scelte (non abbastanza di sinistra) di<br />

1 Padre Riccardo è il capo della comunità presente a Novo<br />

Israel, una delle favelas di Manaus. Il centro vive grazie ai soldi<br />

che arrivano dall’associazione “Groppone Missionario”, un<br />

gruppo attivo tra Verona e Venezia. Padre Riccardo ne è un po’<br />

l’“amministratore delegato”.<br />

2 Elias è uno degli educatori del gruppo. Non molto alto, pelle<br />

olivastra, in carne ma non grasso, capelli corti, crespi e neri.<br />

Faccia simpatica, sorridente. È sui 20 anni.<br />

3 Pedro è un altro educatore: fisico asciutto, abbastanza sornione,<br />

anche lui sui 20 anni. Studia filosofia in università.<br />

4 L’altro prete che dà una mano a Riccardo. È in Brasile solo<br />

da 6 mesi.<br />

5 L’attuale presidente del Brasile.<br />

6 Partido dos Trabalhadores . È il partito di Lula.<br />

Lula con il fatto che il presidente del Brasile non ha la<br />

<strong>maggio</strong>ranza nei due rami del parlamento.<br />

È un punto di vista ragionevole? Oppure quando uno<br />

REALMENTE vuol fare le cose, le fa, e tutto il resto sono<br />

scuse?<br />

Il viaggio è solo all’inizio, ma le domande sono già tante:<br />

sarà un viaggio di interrogativi più che di risposte.<br />

D’altra parte, siamo qui per cercare, non per trovare.<br />

L’accoglienza di Pedro nei nostri confronti è cambiata<br />

radicalmente non appena ha saputo che siamo amici<br />

di Adriana: da apatico/quasi annoiato a entusiasta/<br />

loquace. Che Adriana gli abbia rubato il cuore?<br />

[…]Durante la visita della favela di Novo Israel<br />

E adesso (dopo la teoria) arriva il piatto forte (la<br />

pratica), la botta, il pugno nello stomaco che ti stende<br />

senza appello. Signore e signori, benvenuti al giro delle<br />

meraviglie nella favela di Novo Israel: baracche, vita<br />

inumana, madri trentenni logorate da 10 figli, una vita<br />

di ingiustizie e violenze e padri/mariti assenti, ubriachi<br />

e violenti 7 .<br />

La situazione più forte l’ho vissuta dalla penultima<br />

famiglia del “giro”. Un buco voncio e pieno di resti di<br />

cibo e di animali, un 3x3 sul lato di una collinetta a<br />

strapiombo sul pattume. Tra un divano, un mobile,<br />

un materasso disteso a terra e una amaca c’erano otto<br />

bambini, una madre e un marito ubriaco che dormiva<br />

su un materasso in terra.<br />

Quando siamo entrati Eleite (la mia “autista”) mi ha<br />

presentato come un missionario. Nessuno mi rivolgeva<br />

la parola e i bambini (soprattutto la ragazzina, quella più<br />

grande, forse 8 anni) mi guardavano con degli occhioni<br />

neri che se avessero potuto parlare avrebbero riempito<br />

un libro. Erano bambini bellissimi: vedere tanta<br />

bellezza in una simile condizione grida vendetta. Chissà<br />

cosa avrebbero voluto chiedere dietro quegli occhioni:<br />

come ti chiami, da dove vieni, c o s’è l’Italia, anche tu vivi<br />

in una casa come la nostra... La cosa più incredibile è<br />

stato quando ho chiesto di fare una foto. La madre ha<br />

acconsentito. Quando ho tirato fuori la macchina, si è<br />

affrettata a chiedere che NON fotografassi la casa, ma<br />

le persone. Anche in questa situazione, questa madre ha<br />

un amor proprio, un senso della dignità. Questa donna<br />

si vergogna del posto dove vive. I volontari del centro,<br />

con il loro lavoro educativo mirano proprio a questo:<br />

far capire alle madri che valgono, che hanno diritti da<br />

reclamare. Che è colpa di altri, non loro, se sopravvivono<br />

in una favela.<br />

Quando vivi una cosa del genere i sentimenti che<br />

provi sono RABBIA e poi frustrazione, perché non<br />

vedi un modo per combattere la situazione. Allora<br />

ti siedi a pensare per trovare una soluzione. Solo la<br />

consapevolezza e la lotta politica possono essere i<br />

detonatori per la liberazione dei dannati della terra. Ma<br />

la vera domanda è: noi occidentali siamo colpevoli? Ma,<br />

soprattutto, IO sono colpevole? Colpevole di vivere da<br />

ricco in un mondo di poveri? Colpevole di essere parte<br />

di un meccanismo che ruba ai poveri per dare ai ricchi?<br />

A questa domanda NON ho ancora una risposta, una<br />

risposta dalla quale dipendono le scelte di tutta una<br />

vita.<br />

7 Io e Gigi ci dividiamo e due ragazzen del Movimento ci accompagnano<br />

su è giù per il bairro a far visita a diverse famiglie<br />

legati a progetti di adozione a distanza.<br />

Poliscritture/Latitudini Pag. 44


Un’altra riflessione che deve trovare posto in questo<br />

diario è senz’altro il contrasto tra alcuni volontari (Marzia,<br />

su tutti) e i preti/volontari italiani.<br />

I primi sembrano usciti da un film di Ken Loach 1 : duri,<br />

incazzati, combattivi, con idee chiare e un lavoro sul<br />

campo, nella merda. I secondi, al massimo, sono usciti<br />

da un film dei Vanzina con Abatantuono 2 : parlano in<br />

dialetto veneto, fanno discorsi da “volemose bene,<br />

diamo una mano a sti poveracci”, sembra che sono qui a<br />

fare villeggiatura, che non capiscono la realtà sociale che<br />

li circonda. Effettivamente, padre Riccardo è un uomo<br />

d’affari, un direttore di impresa, un manager. Qua, con<br />

lo stipendio da prete, fa una bella vita: bella casa, cene<br />

al ristorante, poco lavoro. Non condivide nulla con gli<br />

abitanti della favela.<br />

Sicuramente è meglio di niente, ma è abbastanza? Di<br />

sera abbiamo parlato con Pedro: ci ha detto che lavora<br />

(in nero) per padre Riccardo per pagarsi gli studi. È<br />

giusto? È sbagliato? Padre Riccardo è uno stronzo? Una<br />

cosa è certa: Pedro non se la passa bene.<br />

Dopo siamo andati, con Elias, in un quartiere di lusso<br />

e molto turistico di Manaus (Ponte Negra) a cenare. È<br />

stato incredibile come nell’arco di pochissimo tempo<br />

siamo passati dalla miseria più disperata al lusso. Il<br />

fatto suscita parecchie riflessioni.<br />

[…] Lasciamo Manaus e cominciamo la navigazione<br />

sul Rio delle Amazzoni in direzione Belem<br />

A questo punto del rio, le coste si popolano di baracche,<br />

palafitte di legno tra il fiume e la foresta. Quando il barco<br />

passa, decine di canoe con a bordo madri e bambini si<br />

avvicinano alla nave nella speranza che qualcuno getti<br />

soldi e vestiti. Altri, soprattutto ragazzi, “abbordano”<br />

il barco con canoe piene di cocco, banane, gamberi e li<br />

vendono ai passeggeri. Questa gente probabilmente sta<br />

peggio di quelli nelle favelas: niente luce, niente acqua,<br />

niente fogne, niente scuole, collegamenti con la città.<br />

Però, ogni tanto, si vedeva qualche casa col tetto in<br />

cotto, le pareti dipinte: qualcuno che aveva “fatto<br />

fortuna”. Qualche casa aveva anche il campo da calcio<br />

sul retro. La cosa che più colpiva eravamo noi, i turisti,<br />

che senza capire la tragedia e la miseria di questa gente,<br />

ci divertivamo a vederli e a fotografarli, come se fossero<br />

una attrazione per i visitatori. A pensarci, è come se uno<br />

svizzero venisse a Milano e si mettesse a fotografare i<br />

lavavetri ai semafori.<br />

[…] Cambio di scenario: Teresina, capitale del<br />

Piauì. Siamo ospitati nella sede del Movimento<br />

dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (MST)<br />

Jesus ci spiega il rapporto tra MST e Lula. Se lo devono<br />

tenere, perché di meglio in giro non c’è niente (o forse è<br />

il meno peggio) ma sono delusi e non si fanno problemi<br />

a dargli addosso a parole e a fatti (la marcia di 300 km<br />

tra aprile e <strong>maggio</strong>). Il nodo fondamentale, lo stesso<br />

per tutta la Latino- America è sempre il medesimo: la<br />

riforma agraria. Da cento anni a questa parte questo è<br />

stato l’oggetto principale di tutte le lotte, rivoluzioni,<br />

movimenti in questa parte del mondo (e non solo).<br />

1 Per Ken Loach un film a scelta tra “Terra e Libertà”, “Paul,<br />

Mick e gli Altri”, “Piovono Pietre” o “Brad and Roses”.<br />

2 Per Abatantuono non può mancare “Il barbiere di Rio”.<br />

L’analisi dei Sem Terra è molto semplice: il latifondo è la<br />

causa principale della grande povertà che c’è in Brasile.<br />

Se le terre fossero ridistribuite non solo i contadini<br />

avrebbero di che vivere, ma anche il problema delle<br />

città si risolverebbe, perché la gente potrebbe avere il<br />

suo pezzo di terra in campagna. Non ci sarebbe più,<br />

quindi, il fenomeno di urbanizzazione di massa che<br />

c’è ora e che alimenta le favela e quindi la povertà e la<br />

violenza. Inoltre, il problema del Brasile non è che è una<br />

nazione povera, anzi. La questione è che la ricchezza è<br />

tutta nelle mani di pochi. “Chi ha la terra non la lavora e<br />

chi la lavora non ha la terra” diceva il campesinho indio<br />

nel film di Salvatores “Puerto Escondido”. È sempre<br />

questo il nocciolo della questione. Il governo Lula in<br />

questa direzione ha fatto pochissimo: in due anni ha<br />

dato la terra a sessantamila famiglie. Con questo ritmo,<br />

per provvedere ai 4,5 milioni di famiglie senza terra gli<br />

ci vorranno cent’anni!<br />

Meno severo il giudizio di Jesus su Lula per quanto<br />

riguarda gli scandali economici del governo. Secondo<br />

lei c’è una macchinazione, un complotto per screditare<br />

il governo. Infatti, tutti rubano e comprano i voti, ma si<br />

parla solo del PT. Mah...<br />

[…] Cambio di scenario: Recife, capitale del Pernambuco.<br />

Il mattino dopo un’indimenticabile<br />

notte.<br />

Al mattino, dopo una bella colazione con anche un<br />

ovetto strapazzato per reintegrare, Liliany mi porta a<br />

fare un giro per il paese. A un certo punto lasciamo la<br />

strada principale e saliamo su una collinetta, a ridosso<br />

della foresta, dove abita un suo amico.<br />

Credo che sia uno spacciatore: mi fa vedere dove coltiva<br />

la maria, mi dice che è stato in viaggio per sei mesi in<br />

Spagna con un narcotrafficante. Per concludere in un<br />

degno crescendo, mi dice che se vivesse in Italia si<br />

affilierebbe subito alla mafia, perché con la mafia girano<br />

un sacco di soldi. Mi chiede anche perché io non sia<br />

ancora entrato in cosa nostra. Mi rifugio in un ”não<br />

gosto”. 3<br />

Poi mi racconta della sua collezioni di insetti, e per<br />

finire in bellezza mi porta una scatoletta, la apre, ed<br />

esce una tarantola grigia e pelosa. Appena la vedo faccio<br />

un salto di un paio di metri e mi allontano. Il tipo se la<br />

tiene tranquillamente in mano. Mi spiega che ha così<br />

tanto veleno che con un solo morso può zazzare 4 cinque<br />

uomini, ma che lui non ha nulla da temere perché la<br />

tarantola è stata raccolta quando era ancora piccola<br />

nella foresta e quindi conosce il suo odore e non gli farà<br />

niente.<br />

Mi dice anche che il ragno è in grado di saltare per<br />

oltre 5 metri: a questo punto faccio un altro salto e mi<br />

allontano di altri due metri. C’è da dire che il ragazzo è<br />

simpatico e gentile: prima di andare via mi regala un<br />

braccialetto, di quelli che si trovano sulla spiaggia, fatti<br />

di corda, ninnoli e conchiglie.<br />

3 “Non mi piace”.<br />

4 Espressione colloquiale che significa, a seconda del contesto,<br />

segare, uccidere, bocciare.<br />

Poliscritture/Latitudini Pag. 45


[…] Lungomare di Copacabana, Rio de Janeiro<br />

Sulla via del ritorno ci fermiamo a bere qualcosa in un<br />

bar. È pieno zeppo di ragazze. Mentre bevo incrocio lo<br />

sguardo con una di loro. È molto carina e mi sorride.<br />

Ricambio. Accade un’altra volta. Allora io prendo il mio<br />

succo d’arancia e vado verso di lei. Come ti chiami?<br />

Lohane. Lavori o... Lavoro. E sorride. Quanti anni hai?<br />

Diciannove. E a me quanti me ne dai? Ventiquattro.<br />

Brava! Si vede che hai ventiquattro anni, ma con la barba<br />

sembri più vecchio. Non ti piace la mia barba? Penso che<br />

staresti meglio senza. Dopo un po’ che parliamo noto<br />

che non sta bevendo niente. Vuoi qualcosa da bere? Mi<br />

vuoi offrire qualcosa? Eccome, no!?<br />

Mentre siamo al bancone le chiedo che lavoro fa.<br />

Lavoro qui, dice ridendo. Ah, lavora qui, ma non fa la<br />

cameriera... Ah, ho capito. Ti piace il tuo lavoro? Più o<br />

meno. A un certo punto mi chiede che vogliamo fare. Le<br />

dico che mi piace molto, ma non mi piace molto pagare.<br />

Le dico che forse è meglio se vado, se lei deve lavorare.<br />

Sorride. Sì, penso di sì. Ci salutiamo. Mi dice che spera<br />

che la prossima volta che ci vedremo sarà in un posto<br />

diverso: un ipermercato, una spiaggia, un ristorante.<br />

Lo spero anch’io. E spero che non dovrà più fare questo<br />

lavoro. Esco dal locale e aspetto Gigi che sta parlando<br />

con una collega di Lohane. Gigi, dimostrandosi ancora<br />

una volta molto più sveglio di me, ha capito subito il<br />

mestiere della sua interlocutrice. Mentre aspetto passa<br />

una tipa che vende rose. Ne compro tre bianche e le<br />

regalo a Lohane. Avevo voglia di fare così. Spero che le<br />

faccia piacere. Non tanto per le rose. Quanto per il fatto<br />

di sapere di non essere (per tutti) un oggetto di piacere,<br />

ma una persona, una ragazza. Torno in albergo con una<br />

grande tristezza. Non so perché. Forse perché vedere<br />

una ragazza così carina, così dolce (a me è sembrata<br />

così, non so se fosse parte del suo lavoro) a 19 anni, che<br />

fa la puttana, e che forse, addirittura, non le dispiace<br />

più di tanto, mi fa male. In questo viaggio abbiamo visto<br />

moltissima gente che se la passa molto (molto molto)<br />

peggio, però... non so, fa male.<br />

Il giorno dopo…<br />

Alla mattina si va al Cristo del Corcovado. Ovviamente,<br />

essendo dei duri, ce la facciamo a piedi. Ci vogliono due<br />

ore e mezza, camminando sui binari del trenino che<br />

porta in cima i turisti meno volenterosi. Il percorso è<br />

quasi tutto nella foresta che avvolge la collina. Oltre<br />

metà strada, incontriamo “un uomo della foresta”, una<br />

sorta di eremita della montagna, intento a far fare una<br />

visita naturalistica a un gruppo di turisti. L’incontro<br />

avviene nei pressi di una fonte: gli chiediamo se l’acqua<br />

è potabile (abbiamo una sete porca). Ci risponde che è<br />

molto più pulita di molte acque in bottiglia. Ci sono dei<br />

batteri, ma sono “di montagna” (giuro, ha detto così!),<br />

fanno bene. A lui. Speriamo sia così anche per noi.<br />

Alla fine, vediamo che l’attrazione simbolo di Rio è<br />

molto sopravvalutata. In cima è pieno di turisti merdoni<br />

che smaniano solo dalla voglia di farsi fotografare sotto<br />

il Cristo. Non sanno un cazzo del Brasile. Per loro il<br />

Brasile è una merdosa collinetta con una altrettanto<br />

merdosa statua.<br />

Alle 3 del pomeriggio siamo di nuovo a Copacabana<br />

per l’ultimo bagno. L’acqua è fredda e sporca. Una<br />

delusione. Ci dicono tutti che il periodo migliore per Rio<br />

è tra gennaio e marzo. Nota per il prossimo viaggio.<br />

Andiamo a fare l'ultimo pasto (cena) del Brasile.<br />

Troviamo un posticino inculato che ci fa mangiare a<br />

piacere per 10 Reais in due. Torniamo in spiaggia per<br />

l'ultimo giro. Sta cominciando a fare buio, ma la spiaggia<br />

è ancora affollata e illuminata dai fari. Ci si avvicinano<br />

due tipi (come era già successo un sacco di volte) e ci<br />

offrono della maria, ci chiedono dell'Italia e bla bla<br />

bla. Ci chiedono se possiamo dar loro un dollaro per<br />

mangiare. Intanto, senza che ci facessimo molto caso, i<br />

tipi diventano sei.<br />

La situazione butta male: infatti, quando facciamo per<br />

alzarci e andarcene ci saltano addosso e uno di loro<br />

tira fuori un coltello e mi minaccia. A Gigi saltano<br />

addosso in due. Ci portano via i soldi (euro e reais), la<br />

mia macchina fotografica e la chiavetta MP3 di Gigi. Ci<br />

lasciano documenti e carte di credito. Alla fine, ho solo<br />

un taglietto sul dito e il bottone di una tasca dei pantaloni<br />

rotto. Poteva andare molto peggio. Per un paio di ore<br />

non mi va molto di parlare. Man mano che realizzo<br />

cosa è successo una rabbia feroce e furiosa mi monta<br />

dentro. Quando arriviamo alla rodoviaria sono in piena<br />

fase esplosiva. Tiro una media di una bestemmia ogni<br />

15 secondi. Credo di essere abbastanza intrattabile. Dei<br />

soldi non me ne frega niente. Della macchina un po' me<br />

ne frega, ma non molto. Ma sono incazzato nero per le<br />

foto che c'erano. Una cinquantina. Da Fortaleza in poi.<br />

I catadores, Marina, le favelas, Liliany. Tutto perduto.<br />

Come mi fa incazzare. Porco D.... Saliamo sull'autobus<br />

per San Paolo. Sono le 23.<br />

Il giorno del ritorno. Arriviamo a S. Paolo molto presto,<br />

verso le 5. Cominciamo a camminare verso la sede dei<br />

Sem Terra. Ci fermiamo in un bar-pasticceria e facciamo<br />

colazione. Arriviamo alla sede verso le sette. L'obiettivo<br />

è comprare un po' (un bel po') di roba da rivendere a casa<br />

per finanziare il Laboratorio. La sede apre alle otto. Ci<br />

aspettavamo di trovare camion e camion di magliette e<br />

bandiere. Restiamo molto delusi. Avevamo preventivato<br />

di spendere 2000 R. con tutta la buona volontà che<br />

ci mettiamo arriviamo solo a 350 R. Intanto il tempo<br />

passa, ma l'incazzatuara per la rapina rimane. Se mi<br />

facessero votare adesso per il referendum, voterei NO e<br />

poi andrei a comprare un bazooka. Però il tempo dirada<br />

anche le emozioni e cominciano a farsi strada anche<br />

delle riflessioni più razionali. Così credo di capire cos'è<br />

che mi fa tanto arrabbiare. La rabbia che provo è una<br />

forma di risentimento, perché mi sono sentito indifeso,<br />

impotente, alla mercè dei capricci di altre persone.<br />

Credo che sia per questo che provo tanto rancore. Oltre<br />

che, naturalmente, per le foto che sono andate perdute.<br />

Porca troia!<br />

Ci andiamo a imbarcare all'aeroporto e succede il<br />

delirio. Come da accordi, chiediamo alla tipa di fare il<br />

doppio check-in, in modo da ritirare i bagagli a Milano e<br />

non dover andare fino a Parigi. La tipa ci dice che non è<br />

possibile, dobbiamo per forza arrivare fino alla capitale<br />

francese. GELO. Cominciamo a dirle che non è possibile,<br />

che avevamo già chiesto e che ci era stato assicurato che<br />

non ci sarebbe stato alcun problema. Allora la tipa ci<br />

gira all'ufficio Alitalia. Lì, un'altra tipa, dopo essersi<br />

consultata col suo capo, ci dice che non è possibile.<br />

Al che, riparte la pantomima (“ma non è possibile, ci<br />

avevate garantito....”)<br />

Alla fine, come nei migliori film di Totò, le chiediamo: “ci<br />

faccia parlare col direttore”. E, anche con quest'ultimo,<br />

ripetiamo la sceneggiata. Alla fine ce la facciamo e ci<br />

fanno il doppio check in. Grazie a dio/buddha/visnù/<br />

allah/manitù/!<br />

Poliscritture/Latitudini Pag. 46


E ti dolzura che te<br />

vorressi<br />

Marcella Corsi<br />

E ti dolzura che te vorressi<br />

rinverdire e dolzemente avere loco<br />

e permanere e rindolzire noi pure<br />

e liberare de nostre durisie più dure<br />

ti dolzura sì minuscola e ‘nnascosa<br />

‘ndoleita de tanto nasconderse<br />

in tra durisie nostre grandi, ti<br />

picolisia impertinente de frescura<br />

intima mente pura, de nullo indolente<br />

– donde te prende forsa e duratura<br />

come te ‘ntrighi ne la tera nostra dura<br />

e nuda de le piante che sole te nudre<br />

donde te prende forsa che te dure<br />

noi nonostante e tutta intiera<br />

la durisia nostra contra la vida vera<br />

E tu dolcezza che vorresti<br />

rinverdire e dolcemente avere luogo<br />

e permanere ed indolcire noi pure e<br />

liberarci delle durezze più dure<br />

tu dolcezza così minuscola e nascosta<br />

indolenzita da tanto nascondersi<br />

tra le durezze nostre grandi, tu<br />

piccolezza impertinente di frescura<br />

intimamente pura, di nulla indolente<br />

– da dove prendi la tua forza duratura<br />

come t’impasti con la nostra terra dura<br />

e nuda delle piante che sole ti nutrono<br />

dove prendi forza che ti duri<br />

noi nonostante e tutta intera<br />

la durezza nostra contro la vita vera<br />

3 Esodi<br />

p a s s a r e i c o n f i n i<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 47<br />


cercarsi le parole negli angoli più riposti della lingua<br />

italiana prendendo in prestito parti di dialetti esistenti<br />

e creando ex-novo parole con suono e senso<br />

più convincenti di quelle codificate. Stando così le<br />

cose non avrebbe bisogno nemmeno di una traduzione<br />

in italiano. Tanto si capisce, o comunque, quel<br />

po’ d’incomprensibile che rimane non è superiore<br />

a quello che qualunque testo poetico contiene. Potresti<br />

invece aggiungere una nota in cui racconti dei<br />

tuoi dubbi circa il da fare a proposito di una così<br />

insolita (e per te stessa sorprendente) forma espressiva.<br />

Insomma, voglio dire che le traduzioni si fanno<br />

da una lingua all’altra e non all’interno della stessa<br />

lingua, altrimenti è parafrasi, spiegazione, esegesi,<br />

quello che vuoi ma non poesia.<br />

Un abbraccio<br />

Fabio<br />

(…) La mia opinione è che la prima versione nella<br />

“strana lingua” debba avere il risalto della poesia e<br />

la seconda deve adattarsi al ruolo di traduzione di<br />

servizio (per cui non mi dannerei per ‘te ‘ntrighi’ tradotto<br />

con ‘t’impasti’). Il dialetto ( a me pare cogliere<br />

qualcosa di veneto, ma non sono certo) ha una sua<br />

forza, che va rispettata e non messa in competizione<br />

con l’italiano.<br />

Sul tuo cruccio per l’assenza di spazio a innocenza e<br />

intenerimento vorrei seguirti. Non ci riesco, se non<br />

nel senso che mi sento di proteggerla in chi la vive o<br />

la esprime (anche in poesia). Ma siccome penso che<br />

comunque questi sentimenti, per sussistere in un<br />

mondo così caotico e tragico, abbiano bisogno di un<br />

bel po’ di rimozione, mi sento abbastanza imbarazzato<br />

a dirlo (e a dirtelo). Sembra sempre che voglia<br />

rimproverare o non sia in grado di capire …<br />

Un caro saluto<br />

Ennio<br />

(…) È con questi versi e con l’immagine di un pruno<br />

(che selvatica e tenera pianta!) che vorrei augurare<br />

a tutta la redazione (vicina e lontana) una buona<br />

Pasqua. Sì, Ennio, lo so. In questo momento sugli<br />

schermi scorrono le immagini dei Tibetani oppressi e<br />

uccisi. Io non rimuovo niente. Vorrei augurare anche<br />

a loro “dolzura” e forse hanno bisogno di liberarsi “de<br />

nostre durisie più dure” anche gli oppressori cinesi...<br />

Nel ‘68 - i lottarmatisti son venuti dopo! - c’era anche<br />

chi sosteneva di “dirlo coi fiori”.<br />

Ad ogni buon conto, buona Pasqua e un carissimo<br />

abbraccio a tutti<br />

Donato<br />

L’eroe del giorno<br />

Fabio Ciriachi<br />

Quelle che seguono sono le ultime pagine di un racconto,<br />

dal titolo L’eroe del giorno, inserito nella raccolta<br />

omonima in corso di pubblicazione presso l’editore<br />

Gaffi. A fare da filo conduttore, le vicende di Ivan e di<br />

Giggi-stecco che, sul finire degli anni Cinquanta, vivono<br />

le loro adolescenze in quel punto di attrito tra fantasia<br />

e realtà (ma anche tra natura e storia) che è l’estrema<br />

periferia romana del quartiere africano, dove un’urbanizzazione<br />

in continuo sviluppo divora, assieme a fette<br />

sempre più consistenti di campagna, anche gli ultimi<br />

residui di mito che su di essa ancora aleggiano.<br />

[…] Ora che Lillo non c’era più, Ivan, il Moretto e Giggistecco<br />

si sentivano più grandi, più seri, più cattivi<br />

di prima. La morte fa di questi scherzi; strappa dal<br />

calendario un sacco di foglietti insieme, leva di colpo<br />

la voglia di ridere, fa provare piacere per il dolore degli<br />

altri. Dopo Lillo era toccato alla sorellina del Moretto.<br />

Difterite. Per giorni e giorni, finché il destino non si<br />

decise a lanciare i dadi, il palazzone trattenne il fiato<br />

per la vita di Rossella. La speranza era consentita, e<br />

siccome non costava nulla (o costava solo dolore, che<br />

era come nulla) scorreva a fiumi. Tutti speravano e<br />

molti pregavano.<br />

La primavera aveva appena imbiancato di margherite<br />

i pochi campi rimasti al di là di viale Somalia quando i<br />

lamenti della signora Santulli echeggiarono per le scale<br />

ponendo fine alle novene delle vecchie. Andarono tutti<br />

alla veglia funebre. Davanti all’appartamento del terzo<br />

piano c’era un via vai di gente che bisbigliava e scuoteva<br />

la testa. Rossella giaceva sul lettone dei genitori con<br />

l’abito bianco della prima comunione e le mani giunte<br />

poggiate sul petto. Tra le dita, la coroncina del rosario.<br />

Ornata di veli trasparenti, sembrava una sposa in<br />

miniatura. Aveva anche i calzini bianchi e le scarpe dello<br />

stesso colore con le suole quasi pulite.<br />

Il Moretto non sapeva bene che atteggiamento<br />

assumere. Non aveva mai provato una spiccata simpatia<br />

per la sorellina ma a forza di vedere gente commossa gli<br />

venne spontaneo spargersi un po’ di dolore sulla faccia.<br />

Al funerale la bara bianca fu preceduta da una doppia<br />

fila di bambine col vestito della comunione e un giglio<br />

bianco in mano. Don Angelo, col suo discorso a braccia<br />

larghe e testa inclinata, ricordò che un’innocente era<br />

andata in cielo e che i gigli bianchi ne rappresentavano<br />

la purezza. Ripensando al racconto del Moretto, Ivan<br />

immaginò don Angelo che leccava la lingua dell’amico<br />

attraverso la grata del confessionale. Che schifo,<br />

esclamò tra sé e sé rallegrandosi che non fosse toccata a<br />

lui quella penitenza.<br />

Si sentivano grandi e cattivi dopo la morte di Lillo, e<br />

camminavano con la testa fra le spalle e la schiena curva<br />

come James Dean nel film Il gigante. Erano terribili,<br />

o almeno così volevano apparire alla banda di Jimmy<br />

l’americano che dettava legge nel quartiere scorrazzando<br />

qua e là su moto di grossa cilindrata, in giacconi di<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 48


pelle nera e cinte con le borchie di metallo. Si diceva<br />

che Jimmy l’americano fosse capace di entrare in una<br />

tabaccheria con la pistola in pugno, di farsi consegnare<br />

una stecca di sigarette, poi di pagarla e andarsene.<br />

Sembrava che fosse anche pieno di donne. Ivan e gli<br />

altri non lo avevano mai visto, e l’unico vero contatto<br />

con la sua banda avvenne nel cinema Trieste dove i<br />

tre amici andavano di tanto in tanto per guadagnarsi<br />

qualche liretta facile.<br />

Sulla scia di Giggi-stecco, anche Ivan e il Moretto<br />

avevano cominciato a fumare e avevano bisogno di<br />

soldi per il vizio. I soldi guadagnati al cinema, Ivan non<br />

li metteva nel salvadanaio - come gli spiccioli che gli<br />

dava sua madre se lavava i piatti, lustrava gli ottoni col<br />

Sidol, faceva le commissioni da Aronne - ma li spendeva<br />

subito per non farseli trovare in tasca. Come avrebbe<br />

potuto giustificarli altrimenti? Non era certo il caso di<br />

dire a sua madre che andava coi froci. Le sarebbe venuto<br />

un colpo; e poi chissà che idea si sarebbe fatta di lui.<br />

Mentre invece non c’era niente di strano in quel lavoro,<br />

e oltre tutto poteva vedere un sacco di film.<br />

L’orario migliore per incontrare i froci al cinema Trieste<br />

era il primo spettacolo, con la sala quasi vuota e pochi<br />

ficcanaso in giro. Ivan prendeva posto per conto suo,<br />

come anche il Moretto e Giggi-stecco, si accendeva una<br />

sigaretta e si metteva a guardare il film. Dopo un po’<br />

un signore gli si sedeva accanto e cominciava a fare<br />

ginocchietto finché Ivan gli diceva “Quanto mi dai?”.<br />

Stabilito il compenso - cinquecento lire, un doblone,<br />

come chiamava la bella moneta d’argento da poco<br />

in circolazione - se il frocio era d’accordo pagava in<br />

anticipo; poi, accertatosi che non ci fossero presenze<br />

indiscrete, gli apriva la bottega dei calzoni e cominciava<br />

a smaneggiare.<br />

Ivan doveva sempre chiedere aiuto alla fantasia per<br />

dargli soddisfazione. Ne approfittava per concedersi<br />

avventure mozzafiato con la madre di Giggi-stecco,<br />

la vedova, che da un po’ gli piaceva più delle signore<br />

che abitavano nel palazzone. Immaginava di andare a<br />

casa sua con un pretesto. Pomeriggio torrido d’estate,<br />

la palazzina nuova dormiva, silenzio ovunque. Lei era<br />

da sola in casa, accaldata, febbrile, vestaglia nera e<br />

trasparente mezz’aperta. Non verrà nessuno gli diceva<br />

muovendo le labbra rosse e umide, e intanto si sfilava la<br />

vestaglia e restava in reggiseno e mutande e calze con le<br />

giarrettiere. Ivan sentiva il sangue battergli nelle tempie,<br />

e da lì precipitarsi verso l’inguine dove i peli erano<br />

cresciuti abbondanti, e gonfiargli il pisello e farglielo<br />

diventare duro e lungo come quello di Franco Picchioni.<br />

Le guardava la pancia, le cosce, lo spacco tra i seni, il<br />

gonfiore della fica il cui pelo straripava dalle mutande.<br />

L’abbracciava furioso e la leccava, mordeva, toccava<br />

come avesse avuto dieci bocche e cento mani. Lei si<br />

sdraiava tirandolo su di sé, gli frugava nella bottega dei<br />

calzoni e a quel punto tutto si confondeva e una delizia<br />

indescrivibile gli faceva piegare la testa all’indietro. A<br />

cose fatte il frocio tirava fuori dalla tasca il fazzoletto, gli<br />

puliva con cura il pisello e se ne andava. Tutto lì.<br />

Quando all’uscita gli amici si ritrovavano, a Ivan<br />

sembrava che Giggi-stecco avesse sempre una faccia<br />

beata e un’espressione furba da presa in giro che non<br />

gli piaceva affatto. Cominciò a sospettare che mentre<br />

immaginava di farsela con la bella madre dell’amico,<br />

quel paraculo ne approfittasse per intendersela con<br />

la sua. Non poté mai saperlo con certezza. Le fantasie<br />

sessuali erano l’unico argomento di cui non facevano<br />

parola, il territorio inviolabile della vera libertà. Niente<br />

di più facile, quindi, vista la propensione di Ivan a fare<br />

certe visite alla madre di Giggi-stecco, che questi gli<br />

rendesse pari pari la cortesia.<br />

Il giorno in cui si scontrarono con gli uomini di Jimmy<br />

l’americano Franco Picchioni aveva portato una ragazza<br />

che gli piaceva al cinema Trieste, dove Ivan, il Moretto e<br />

Giggi-stecco erano appena arrivati. Il metodo John Vigna<br />

gli aveva sviluppato muscoli degni della sua eccezionale<br />

forza fisica, una forza che metteva sempre al servizio<br />

di qualche nobile causa. L’avevano soprannominato il<br />

Nembo Kid del quartiere perché dove c’era un sopruso<br />

arrivava lui e a parole o a cazzotti faceva giustizia. Aveva<br />

la faccia angelica, e questo sorprendeva sempre gli<br />

avversari incautamente tentati da soluzioni manesche.<br />

Franco Picchioni non sapeva che la sua ragazza piaceva<br />

anche a uno della banda di Jimmy l’americano,<br />

un energumeno sfregiato che quel giorno, con due<br />

guardaspalle, l’aveva seguita fin nel cinema. Furono<br />

subito scintille. Nonostante l’energumeno si fosse<br />

infilato il pugno di ferro, Franco Picchioni fu più veloce.<br />

Lo colpì al viso con due ganci brevi e secchi e mentre<br />

a gambe larghe lo guardava cadere, con una mossa di<br />

judo si liberò di uno dei due guardaspalle che aveva<br />

provato a colpirlo da dietro. L’altro, vista la malaparata,<br />

rinunciò a combattere e aiutò gli amici sanguinanti a<br />

filarsela dal cinema. Il Trieste era una specie di tritatutto<br />

capace di accogliere e digerire qualunque avvenimento.<br />

Così, malgrado la rissa, la proiezione andò avanti come<br />

niente fosse, i froci continuarono ad aggirarsi in cerca<br />

di pischelli, e il poliziotto sullo schermo non smise di far<br />

fischiare le ruote della sua auto lanciata a cento all’ora<br />

dietro quella dei banditi.<br />

Euforici per la scazzottata vittoriosa, Ivan, Giggi-stecco<br />

e il Moretto, anziché sedersi uno qua uno là in attesa<br />

dei froci, decisero di vedere il film e basta. Così, dopo<br />

essersi accesa una sigaretta, si misero tutti e tre vicini,<br />

alle spalle di Franco Picchioni e della sua ragazza che<br />

adesso quasi gli sveniva tra le braccia per l’ammirazione<br />

e per le tante carezze che lui le dava. Nel buio fumoso<br />

della sala Ivan staccò gli occhi dall’eroe dello schermo e<br />

li posò su quello in carne e ossa che gli sedeva davanti.<br />

Voglio diventare forte come lui, pensò con la solenne<br />

serietà del giuramento, e mentre carezzava con lo<br />

sguardo la schiena e la testa di Franco Picchioni, capì<br />

che proprio quella sagoma massiccia era il ritratto<br />

fedele della forza che cercava, come se il segreto delle<br />

cose abitasse semplicemente nella loro forma.<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 49


I.<br />

Gli animali, la<br />

morte,<br />

il tempo,<br />

la memoria, la<br />

letteratura,<br />

il suicidio<br />

Giorgio Mannacio<br />

Negli ultimi due anni di lunghe marce e di aspri combattimenti,<br />

Lola Ribar era stato visto quasi sempre in<br />

groppa al suo cavallo. L’animale aveva sempre mostrato<br />

strani segni di angoscia se veniva separato, anche per un<br />

solo istante, dal suo padrone. Dopo la morta di Lola, diventò<br />

incontrollabile e nessuno poté più avvicinarglisi.<br />

Il senso della perdita subita portò il cavallo alla pazzia;<br />

alcuni giorni dopo, con selvaggia determinazione, si uccise<br />

gettandosi in un burrone .<br />

( F.W. Deakin : La montagna più alta – Einaudi 1972,<br />

pag. 262-263 )<br />

Questo episodio non è stato inventato da un poeta; non<br />

fa parte di un racconto fantastico e non è neppure l’interpretazione<br />

di un fatto proveniente da persona intenta<br />

a speculazioni religiose, esoteriche, filosofiche o scientifiche.<br />

Si tratta di un’annotazione, incidentale all’interno<br />

di un resoconto storico – politico, di un militare inglese<br />

impegnato in una rischiosissima azione di guerra ( stabilire<br />

i contatti tra i rappresentanti del Governo inglese<br />

di stanza al Cairo e le formazioni partigiane jugoslave<br />

comandate da Tito ). È proprio l’uso improprio ed ingenuo<br />

dei termini che ne garantisce l’autenticità.<br />

II.<br />

Si coglie subito, in questa vicenda, un rapporto tra assenza<br />

temporanea/segni di angoscia e assenza definitiva/<br />

salto nel burrone ma questo rilievo mette in luce,<br />

immediatamente, alcune difficoltà concettuali.<br />

Secondo quali criteri si può parlare di assenza temporanea<br />

e di assenza definitiva di una persona?<br />

Quest’ultimo evento, nel mondo degli uomini, si relaziona<br />

alla morte e vede in essa il suo paradigma più significativo.<br />

Anche se nessuno ha esperienza della propria<br />

morte, è sufficiente per noi, per la definizione di essa,<br />

considerare la morte degli altri ed arrivare, attraverso<br />

la relativa constatazione, alla conclusione che essa costituisce<br />

un territorio inesplorabile dal quale nessuno è<br />

mai tornato ( Amleto : Atto III, scena I ).<br />

In questo senso la memoria della morte diventa elemento<br />

necessario perché la si descriva – concettualmente –<br />

come fine dell’individuo, di ogni individuo e si diventi<br />

tragicamente consapevoli che ciascuno di noi è coinvolto<br />

in tale comune, irreversibile destino di scomparsa.<br />

Ma si propone, a questo punto, un’altra difficoltà. Non<br />

basta, a questa singolare esperienza la memoria del singolo.<br />

Una persona morta non ha ricordo della propria<br />

morte ed esso è solo l’ombra lasciata ad altri che le sopravvivono.<br />

I viventi che sognano i defunti non fanno<br />

che ritrovarsi di fronte ad una memoria collettiva. Ma<br />

il sogno appartiene alla vita. Se immaginiamo la contemporanea<br />

morte di tutti e quindi la fine del sogno collettivo<br />

siamo portati inevitabilmente a concludere che<br />

laddove non c’è memoria non c’è morte.<br />

Se, dopo un cataclisma definitivo, nascesse per miracolo<br />

un secondo Adamo costui potrebbe sapere della morte<br />

solo a condizione di sperimentare un’altra morte o di<br />

scoprire “ i segni “ delle morti passate, quale che sia la<br />

natura di questi segni. La morte, dunque, nella sua essenza<br />

concettuale non è un luogo, né un tempo, ma solo<br />

letteratura.<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 50<br />

III.<br />

F.W.Deakin avrebbe forse potuto fantasticare di un cavallo<br />

(quello di Lola Ribar ) che – unico tra gli animali<br />

– conosce (ha memoria) della morte. Ma questa meravigliosa<br />

invenzione avrebbe dovuto accompagnarsi, in<br />

una coerenza che non l’avrebbe smentita ma semmai<br />

confermata, all’immagine di un cimitero dove i cavalli<br />

recitano i loro riti funebri ovvero di una biblioteca dove<br />

sono raccolte quelle che furono le vite , più o meno illustri,<br />

dei cavalli defunti.<br />

Ma non è tanto una astratta convinzione a legarci alla<br />

certezza che gli animali non hanno conoscenza della<br />

morte quanto l’osservazione concreta (che allo stesso<br />

tempo li avvicina e li allontana da noi ) che essi non sono<br />

capaci di creare e trasmettere segni su questo evento<br />

che resta così confinato in un eterno presente simile a<br />

quello che circoscriverebbe il secondo Adamo privo di<br />

compagni mortali e di una storia trasmessagli da altri.<br />

Dando per scontato ( ma all’esperienza del militare inglese<br />

si aggiungono aneddoti troppo numerosi e concordanti<br />

per essere falsi) che l’animale avverta l’assenza<br />

provvisoria attraverso il sintomo dell’angoscia, possiamo<br />

dedurre che come alla assenza temporanea segue<br />

un’angoscia passeggera, così all’assenza definitiva segue<br />

una angoscia duratura.<br />

Ma questi rilievi hanno a che fare, ancora una volta, con<br />

la memoria e la creazione e trasmissione di segni. Se la<br />

temporaneità si correla alla speranza del ritorno, la definitività<br />

è legata alla certezza del non ritorno ma tanto la<br />

speranza che le certezza presuppongono una memoria<br />

dei termini entro i quali esse vivono e , dunque , ancora<br />

una volta creazione e trasmissione di segni. Con questo<br />

non si vuole affermare, non si può affermare, che gli<br />

animali non abbiano, per così dire, il “ senso del tempo<br />

“. Tra lo stato di fame e lo stato di sazietà che segue la<br />

golosa ingestione di croccantini di pesce, il mio gatto<br />

avverte una differenza. La situazione complessiva - che


è quasi spaziale ( se si dipinge una ciotola piena, un gatto<br />

che mangia e una ciotola vuota) – è divisa, appunto<br />

in due parti che chiameremo fame e sazietà in mezzo<br />

alle quali porremo il pasto. Vi è in questo tratto lineare<br />

dell’esistenza una modificazione che ci consente di parlare<br />

di un prima e di un dopo e che, in alcune circostanze,<br />

ci impone la costruzione di un nesso causale tra lo<br />

stato precedente e lo stato successivo.<br />

Rispetto a questo quadro la vicenda del cavallo di Lola<br />

Ribar presente tratti comuni e tratti differenziali che<br />

non possiamo descrivere se non con il nostro vocabolario.<br />

Certo parliamo di prima e dopo, di causa ed effetto;<br />

di stati di quiete e di angoscia che si susseguono e –<br />

adattando quella vicenda alla nostra struttura – diciamo<br />

che l’angoscia è successiva alla scomparsa del padrone<br />

ed effetto di essa. Oggettivamente, se è possibile esprimersi<br />

così, anche il cavallo subisce una modificazione.<br />

A quella sazietà o sicurezza che si fondava sulla presenza<br />

del padrone segue la fame o inquietudine correlata<br />

alla di lui scomparsa. Per il cavallo il prima e il poi sono<br />

scanditi dalla presenza e dall’assenza di una persona e<br />

poco importa rilevare che nell’esempio del gatto il punto<br />

di frattura sia rappresentato da un pasto.<br />

L’aspetto singolare del caso del cavallo, piuttosto, consiste<br />

nel rilievo che la modificazione non riguarda quelli<br />

che, nel nostro linguaggio, potremmo chiamare “ bisogni<br />

primari o elementari “ ma da bisogni che definiamo<br />

“ elevati e nobili “ cadendo, così e ancora una volta nel<br />

tranello delle convenzioni. La distinzione, che a questo<br />

punto si può chiamare impropria, potrebbe essere recuperata<br />

e ridefinita riflettendo sulla diversità degli effetti.<br />

Non sono in grado, per mia ignoranza, di dire quali<br />

siano le conseguenze immediate del mancato soddisfacimento<br />

del bisogno primario di cibo, ma l’esito definitivo<br />

è, biologicamente, scontato. La debolezza estrema<br />

dell’organismo comporterà l’impossibilità di ogni movimento<br />

e dunque la fine, ma se si riflette solo un poco<br />

ci si accorge che tutto sembra implicare una questione<br />

di tempo.<br />

Senza cedere ad alcuna suggestione fantastica ed attenendoci<br />

ai fatti, possiamo attestarci, prudentemente,<br />

sulla considerazione che ogni modificazione dello stato<br />

presente induca ad uno stato di allarme, quale che sia<br />

la “ qualità “ delle causa di modificazione. Man mano<br />

che ci si addentra nell’analisi di questa modificazione<br />

il quadro complessivo diventa più oscuro e complicato.<br />

È evidente che la nozione di definitività presuppone<br />

una esperienza specifica delle causa modificatrici e che<br />

– in particolare – la definitività dell’assenza come morte<br />

postula una ragionamento sulla morte che, a quanto<br />

ne sappiamo, non appartiene al regno animale. Si può<br />

perciò dare per scontato che il termine definitivo usato<br />

da Deakin sia trasposto dal nostro ad altro mondo. È<br />

però certo che il cavallo ha vissuto in maniera differente<br />

l’assenza di Lola Ribar “quanto al tempo“ e che quando<br />

l’assenza ha superato un certo limite essa è diventata,<br />

in termini biologici, intollerabile. In termini umani potremmo<br />

dire che il cavallo non ha saputo elaborare il<br />

lutto dell’assenza. In termini fattuali che si è comportato<br />

in modo diverso da quello secondo il quale si sarebbe<br />

comportato prima.<br />

Ancora una volta l’uomo Deakin scrive che il “ cavallo<br />

si è ucciso “ conferendo ad esso una intenzione di<br />

sparire definitivamente dall’orizzonte del mondo. Al di<br />

fuori di una meravigliosa fantasia ci è difficile accettare<br />

tale conclusione. Attenendoci all’oggettività possiamo<br />

limitarci a dire che le modificazioni del quadro di riferimento<br />

hanno determinato uno stato di disorientamento<br />

radicale, togliendo al cavallo ogni senso del pericolo e<br />

portandolo al compimento di un movimento che il suo<br />

istinto avrebbe evitato.<br />

La definitività si è consumata nella reiterazione del fenomeno<br />

dell’assenza, in un accumulo di presenti intollerabili.<br />

Non sono in grado di analizzare i meccanismi<br />

biologici e neurologici che precedono la “ feroce determinazione<br />

“ di buttarsi nel vuoto e mi limito ribadire<br />

che la modificazione del quadro di riferimento produce<br />

un disorientamento assoluto ( riferibile quindi anche al<br />

quadro degli istinti )<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 51<br />

IV.<br />

Il vero suicidio, quello che non è accompagnato da alcuna<br />

spiegazione e giustificazione, presenta qualche<br />

singolare analogia con il racconto del militare inglese.<br />

Con profonda intuizione Ottiero Ottieri (L’Irrealtà quotidiana,<br />

Bompiani 1966) enunciò che il suicidio non si<br />

pone come abbandono della vita ma come estremo tentativo<br />

di sfuggire alla “morte verticale “, quella presenza<br />

che ci si para di fronte, in un certo momento e per cause<br />

ignote, come l’unica alternativa possibile (l’unica porta<br />

aperta ?). E, altrettanto profondamente, Blanchot ( Lo<br />

spazio letterario, Einaudi 1967 ) enuncia, con singolare<br />

finezza, che il suicidio non è ciò che accoglie la morte<br />

ma piuttosto ciò che vorrebbe sopprimerla come futuro,<br />

togliendole quella parte di avvenire che è come la sua<br />

essenza, renderla superficiale, senza speranza o senza<br />

pericolo.<br />

Se ipotizziamo che il cavallo cercasse – nella sua “ feroce<br />

determinazione “ – soltanto un altro punto di riferimento,<br />

avremmo un motivo per sentirlo in qualche modo<br />

simile a noi.<br />

Disegno infantile


Due voci<br />

su Die Reise<br />

(Il viaggio) di<br />

Bernward Vesper 1<br />

Parlare oggi in Italia degli anni Settanta e della piega<br />

lottarmatista che presero per una parte dei “militanti”<br />

di allora - minoritaria, ma politicamente non così trascurabile<br />

(come molti allora sostennero; e se ne videro<br />

gli effetti, purtroppo tragici, culminati nel rapimento<br />

e nell’uccissione di Aldo Moro) è come, fatte le debite<br />

proporzioni storiche, parlare del Terrore alla Robespierre<br />

nell’epoca del Termidoro o dei mazziniani e di<br />

Pisacane nel Piemonte di Cavour o dei soviet in epoca<br />

stalinista. Un tabù s’è consolidato – insidioso e non dichiarato<br />

– soprattutto nelle menti di quanti quell’epoca<br />

l’hanno vissuta, non solo per ragioni anagrafiche<br />

ma per coinvolgimento emotivo, intellettuale e pratico<br />

nelle varie formazioni partitiche o nella miriade di collettivi<br />

sociali. Tanto che persino le storicizzazioni più<br />

documentate, come ad esempio quelle di Giorgio Galli, 2<br />

stentano ad essere accolte e discusse.<br />

Eppure le passioni, i furori e gli incubi di quel decennio<br />

si riaffacciano, magari in carteggi privati, come questo<br />

tra me e Giacomo Conserva, quasi scaturito “per caso”<br />

dal richiamo a un libro che, nella Germania anch’essa<br />

attraversata negli anni Settanta dalla parossistica<br />

esperienza della RAF e dalla tragedia di Stammheim,<br />

fu giudicato «testamento di una generazione».<br />

Nel carteggio i problemi d’interpretazione politica e<br />

storica sono appena accennati e la piega esistenzialista<br />

prevale. I brani del testo di Vesper – così in presa<br />

diretta con gli umori più oscuri e forse distruttivi<br />

di quell’epoca sommersa – risulteranno a molti quasi<br />

indecifrabili (e non basterebbe un solido apparato di<br />

note a chiarirli, tant’è vero che alla fine vi abbiamo rinunciato).<br />

Si dia atto solo di questo: che la memoria<br />

sta “lavorando” e non si contenta di demonizzazioni<br />

imposte o delle correnti apologie di una mummia del<br />

’68 tutta sorriso ebete o puerile. [E.A.]<br />

1 Per la biografia di B. Wesper vedi oltre: Carteggio, 12 settembre<br />

2007, Da Giacomo.<br />

2 Si veda Giorgio Galli, Piombo Rosso. La storia completa<br />

della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, Baldini Castaldi<br />

Dalai, Milano 2004<br />

Considerazioni<br />

su Il viaggio<br />

Fabio Ciriachi<br />

Ho incontrato Il viaggio, di Bernward Vesper, all’inizio<br />

degli anni Ottanta. Vivevo ad Arezzo, allora, e dopo<br />

una lunga assenza dalla pratica della scrittura, stavo<br />

lentamente considerando la possibilità di riprendere la<br />

penna in mano; questo, per dire che l’ho letto con gli occhi<br />

del potenziale scrittore. A interessarmi subito, nella<br />

quarta di copertina, era stata la dichiarata intenzione<br />

di scrivere un romanzo sotto l’egida, diciamo così, psichedelica.<br />

Durante gli anni Settanta avevo accumulato<br />

una discreta esperienza diretta con l’LSD. Caratteristica<br />

comune ai sempre diversi viaggi fatti in quel periodo,<br />

la loro incompatibilità con l’espressione verbale. Dominavano<br />

le immagini, travolgenti; e solo di rado pensieri<br />

balenavano in profondità (ovvero, il più possibile<br />

lontani dalla loro resa in parole), tanto in profondità da<br />

sembrare tutt’uno con la violenza delle emozioni. Annichilimento,<br />

stupore, espansione, scoperte folgoranti<br />

e indicibili. Ecco, indicibili è il termine esatto con cui<br />

potrei etichettare quelle esperienze. E Vesper, invece, ci<br />

aveva costruito sopra una buona parte del suo lavoro!<br />

Devo dire che il libro, poi, mi aveva talmente interessato<br />

per la sua cruda incompletezza di opera postuma che la<br />

specifica curiosità iniziale si era diluita presto nel piacere<br />

delle tante scoperte impreviste offerte in abbondanza<br />

da quel suo essere laboratorio a cielo aperto, lavoro in<br />

corso che il suicidio dell’autore aveva fissato a metà delle<br />

spazio fra intenzioni e risultati. Ulteriore interesse per Il<br />

viaggio, la sua ambizione di costituirsi come opera unica<br />

e definitiva, onnicomprensiva; desiderio che, nell’intimo,<br />

molti scrittori covano, e che raramente si concretizza<br />

per le immani difficoltà che comporta. Per anni e<br />

anni questo grande e dimenticato laboratorio compositivo<br />

- solo relativamente spia di una certa stagione politica<br />

in quanto, nel suo estremismo, rappresenta fino in<br />

fondo solo l’autore - è rimasto misconosciuto. Qualche<br />

mese fa, poi, ne ho letto in un articolo di Franco Cordelli<br />

su Uwe Tim 3 apparso, credo, sul Corriere della Sera,<br />

e ora, questa bella iniziativa di «Poliscritture» che, mi<br />

auguro, possa preludere a una ristampa de Il viaggio.<br />

Di nuovo - a riprendere oggi in mano la vecchia edizione<br />

Feltrinelli, con le pagine dai bordi sempre più ingialliti<br />

che assediano il cuore della scrittura - un sentimento di<br />

enorme pena per il piccolo Felix (figlio dell’autore e di<br />

Gudrun Ensslin) a cui il libro è dedicato e che, immagino,<br />

avrà avuto non poche difficoltà a capire la feroce<br />

ironia di quel nome in rapporto al tragico destino di sua<br />

madre e suo padre. A proposito di Felix: se ne sa qualcosa?<br />

È vivo? Ce l’ha fatta? (marzo <strong>2008</strong>)<br />

3 Uwe Timm, scrittore tedesco, autore di L’ amico e lo straniero,<br />

Mondadori, Milano 2007.<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 52


Miniantologia da Il viaggio di Vesper 1<br />

1 LIBRI, ED ALTRO:<br />

Sulla storia di Bernward Vesper esiste già un film di Markus<br />

Imhoof dell’86; un altro è in preparazione adesso, basato un<br />

libro di Koenen.<br />

- Bernward Vesper, ‘Die Reise. Romanessay’, Ausgabe Letzer<br />

Hand, bes. Jörg Schröder und Klaus Behnken, Rowohlt 2003<br />

(1983), - tr.it. ‘Il viaggio’, trad. Bruna Bianchi, Feltrinelli 1980<br />

( che a me pare largamente insoddisfacente; è comunque basata<br />

sulla originaria edizione del 1977, molto più limitata di<br />

quella letzer hand del 1983).<br />

- C. Pozzoli (a cura di), ‘Germania: verso una società autoritaria’,<br />

Laterza, 1968 ( trad. parziale di G.Schäfer, C.Nedelmann<br />

hg., ‘Der CDU-Staat’, 1967).<br />

- J. Agnoli, ‘La trasformazione della democrazia’, Feltrinelli<br />

1969 ( ‘Die Transformation der Demokratie’, 1968).<br />

- Edoarda Masi, ‘Lo stato di tutto il popolo e la democrazia<br />

repressiva’, Feltrinelli, 1976.<br />

- G. Koenen, ‘Vesper, Ensslin, Baader. Urszenen des deutschen<br />

Terrorismus’, Fischer 2005 (2003).<br />

-G. Kornen, ‚Das rote Jahrzehnt. Unsere kleine deutsche Kulturrevolution<br />

1967-1977’, Fischer 2002 (2001).<br />

-Wolfgang Kraushaar (a c. di), ‘Die RAF und der linke Terrorismus’,<br />

Hamburger Edition, 2006 .<br />

-Peter Brückner, ‘Ulrike Meinhof und die Deutschen Verhältnisse’,<br />

Wagenbach 2006 (1a edizione 1976, 2a edizione ampliata<br />

1995).<br />

-Stefan Aust, ‘Der Baader-Meinhof-Complex’, Goldmann,<br />

1998 (1a ed. 1985).<br />

-Bommi (Michael) Baumann, ‘Wie alles anfing’, Rotbuch Verlag,<br />

2007 (1975) (‘Come è cominciata’, La Pietra, 1977).<br />

-Alois Prinz, ‘Disoccupate le strade dai sogni. La vita di Ul- Ulrike<br />

Meinhof’, Arcana 2007 (‘Lieber wütend als traurig. Die<br />

Lebensgeschichte des Ulrike Meinhof’, 2003).<br />

-Bettina Röhl, ‘So macht Kommunismus Spaß! Ulrike Meinhof,<br />

Klaus Rainer Röhl und die Akte Konkret’, Europäische<br />

Verlagsanstalt, 2006.<br />

-Inge Viett, ‘Nie war ich furchtloser’, Rowohlt, 1999.<br />

-Hermann Glaser, ‘Deutsche Kultur 1945 – 2000’, Ullstein<br />

1999 (1997).<br />

-Martin Heidegger, ‚Hölderlins Hymne „Der Ister“ (Sommersemester<br />

1942)’, Klostermann, 1982.<br />

http://www.infopartisan.net/archive/1967/index.html<br />

http://www.zeitgeschichte-online.de/site/40208724/default.aspx<br />

http://www.bewegung.in/mate.html<br />

http://www.riolyrics.de<br />

a) Ton Steine Scherben: “Macht kaputt was euch<br />

kaputt macht” 2<br />

Le radio suonano, i dischi suonano,<br />

i film vanno, le TV vanno,<br />

comprano viaggi, comprano auto,<br />

comprano case, comprano mobili.<br />

Perché?<br />

Distruggete quello che vi distrugge!<br />

Distruggete quello che vi distrugge!<br />

I treni girano, i dollari girano,<br />

costruiscono fabbriche, costruiscono macchine,<br />

costruiscono motori, costruiscono cannoni.<br />

Per chi?<br />

Distruggete quello che vi distrugge!<br />

Distruggete quello che vi distrugge!<br />

Bombardieri volano, dollari girano,<br />

poliziotti picchiano, difendono titoli,<br />

difendono il diritto, difendono lo stato.<br />

Da noi!<br />

Distruggete quello che vi distrugge!<br />

Distruggete quello che vi distrugge!<br />

(1970)<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 53<br />

b)<br />

“Scriverò un libro”, ho detto a Burton. “Il libro si chiamerà<br />

‘L’odio’. Odio Dubrovnik. Odio la Germania. Odio<br />

queste verdure ambulanti. Odio le auto. Odio le strade.<br />

Odio Berlino. Odio i bambini. Odio mio padre. Odio tutti<br />

quelli che hanno fatto di me un maiale. [Odio i miei<br />

insegnanti] e così via per 150-200 pagine…”<br />

“Un bel libro”, disse Burton. 3<br />

c)<br />

Orfeo è rimasto troppo a lungo agli Inferi. (Ho attraversato<br />

l’Inferno. [Ho disimparato la paura, mentre<br />

arrostivo nelle ondate di fuoco dell’Inferno. Odisseo è<br />

rimasto troppo a lungo nell’isola di Circe. Tannhäuser<br />

troppo a lungo sul Venusberg. L’esercito del Faraone è<br />

stato troppo a lungo sotto lo specchio nuovamente ri-<br />

2 Una famosa canzone dalla Berlino autonoma-anarchica<br />

dell’inizio degli anni ’70 si può facilmente scaricarla da eMule.<br />

Un gruppo di movimento, un cantante - Rio Reiser- oggetto di<br />

culto. Uno slogan che giunse anche in Italia: ‘distruggi chi ti<br />

distrugge’- Toni Negri<br />

3 Da Bernward Vesper, ‘Die Reise. Romanessay’, Ausgabe<br />

Letzer Hand, bes. Jörg Schröder und Klaus Behnken, Rowohlt<br />

2003 (1983), pag. 20 passim. Poi verrà usata la formula: DR,<br />

pag. 20 passim.


chiusosi del Mar Rosso. Robert Musil è rimasto troppo<br />

a lungo sotto la tenda guardando la strada che scuriva.]<br />

Ma mi era impossibile esprimere tutto questo,<br />

mentre sedevo nell’OMBRA delle tapparelle abbassate<br />

vicino davanzale della stanza di Gerd Conradt o sulla<br />

seggiola nell’ombra e così via?) 1<br />

d)<br />

Posso concepire Ulrike, quando vedo le sue ginocchia<br />

piegate (e considero lei, rimpicciolita, accovacciata sulle<br />

ginocchia), mentre sfoglia carte dai faldoni al tavolo<br />

dell’Istituto, e i due guardiani, la pistola nella cintura,<br />

seduti lì vicino che non capiscono nulla della conversazione,<br />

solo se collego tutto questo con il balzo dalla finestra<br />

del 1° piano, pochi secondi dopo, mentre i poliziotti<br />

sono già stesi sul pavimento e quell’idiota si è buttato<br />

in mezzo come poliziotto ausiliario, e adesso è per terra<br />

davanti alla porta, sanguinante. E via sull’auto, e l’azione<br />

‘riuscita’ e Baader ‘libero’. Un silenziatore ed una<br />

Beretta italiana, rimasti sul ‘luogo del delitto’, portano i<br />

poliziotti sulle tracce di Voigt…<br />

Lontano dal balzo, dal suo splendore, dalla sua audacia,<br />

alle 11 di mattina in un quartiere di ville di Berlino,<br />

Voigt… 2<br />

e)<br />

Aspetta ancora, finché mi avrai tutto, quando arriverà<br />

l’estate,<br />

quando torneremo dal tempio al mare, il mare santo,<br />

che nostra madre<br />

mentre ancora ci attende il dio che ci ha creato, che noi<br />

abbiamo riconosciuto come la giustizia e l’amore.<br />

Rallegrati, presto riavrai il mio corpo intatto indietro<br />

dall’inferno,<br />

ed è solo poco tempo che ci conosciamo<br />

felici in noi come in lui: dappertutto c’è luce, e anche là<br />

dove non c’è, la vediamo! 3<br />

f)<br />

Mentre scrivo questo mi cade giù dal tavolo Love n. 5,<br />

con il comunicato di Leary, carcerato n° 26358 dello<br />

stato di California- che era prima già volato, proprio<br />

davanti a due carri armati, sopra il muro di una delle<br />

prigioni degli imperialisti. “Fratelli e sorelle! Non parliamo<br />

più di pace! Fratelli e sorelle! Questa è una guerra<br />

per la sopravvivenza. Dichiaro che adesso è in corso<br />

la Terza Guerra Mondiale. Viene condotta da robot dai<br />

capelli corti che, con l’introduzione di un ordine meccanico,<br />

vogliono distruggere la rete complessa della li-<br />

1 DR, pag. 192<br />

2 DR, pag. 158 passim.<br />

3 DR, pag. 573 (dal frammento di poesia‚AUS EINER AN-<br />

DEREN SPRACHE’, pagg. 572-3).<br />

bera vita selvaggia. Attenti! Non ci sono neutrali nella<br />

guerra genetica… Uccidere un poliziotto robot assassino,<br />

per difendere la vita, è un atto sacro…” 4<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 54<br />

g)<br />

SOL INVICTUS<br />

Burton mi rovina il trip.<br />

…adesso potevi piangere solo a piccoli tratti. Non c’è<br />

Nessuno cui tu possa dire che ti hanno lasciato solo,<br />

ma è una cosa buona saperlo, per te stesso. È un Punto<br />

Fisso. Non ti sposti di lì.<br />

E i passi andavano nel vuoto, andavo senza andare,<br />

una ruota che girava e girava, un viaggio nell’abisso,<br />

in cui il tempo è immobile, lo spazio…non ne salti fuori…Si<br />

attende l’aeroplano, la gente nella sala d’aspetto<br />

guarda le tabelle, i segnali rossi e verdi: partenza- atterraggio-<br />

ma tu [non atterri, tu] vieni meno, decadi,<br />

già fra duemila anni sarai completamente dimenticato<br />

[come se tu non fossi mai esistito, già domani, quando<br />

morirai]…<br />

Il freddo mi dava i brividi- andavo senza meta (e poi<br />

con una unica meta [, disfare la separazione]…<br />

In fondo al giardino, dietro al monumento equestre,<br />

la facciata vuota dell’edificio e improvvisamente un<br />

piegare il capo- IL SOLE! Un’arancia con strisce verdi,<br />

ma cresce, si stacca dai verdi banchi di nuvole andando<br />

verso l’alto- con lentezza, invicibilmente. IL SOLE!<br />

Un nuovo torrente di lacrime, di felicità, di stupore.<br />

Il piccolo sole! [Nel mio più profondo abbandono,] E<br />

improvvisamente ho capito, ho spalancato le braccia.<br />

Il segreto, il mio segreto: [il nostro segreto: Felix].<br />

FELIX È IL PICCOLO SOLE.<br />

Mi sono girato dietro, ho chiamato Burton, che procedeva<br />

dietro siepi alte fino alla vita, più lontano due<br />

giardinieri con rastrelli e grembiule blu.<br />

“Corri qui”, gli ho gridato.<br />

C’è voluto molto prima che sentisse: “Guarda, il<br />

sole!”<br />

Burton si avvicinò in silenzio, diede un’occhiata e si<br />

voltò dall’altra parte. Io ero calmissimo, felice, guardavo<br />

come il sole saliva in alto, come il rosso diventava<br />

sempre più chiaro, come la luce si diffondeva sul disco,<br />

costruiva uno spazio rossastro, diventava più chiara,<br />

BIANCA, BIANCA. “Fa male agli occhi”, disse Burton.<br />

Oh sì, e forse non si tornerà più indietro, quando il<br />

BIANCO riempie tutta la corteccia del cervello e ci si<br />

rifiuta di ritrarsi da questo stadio, dalla zona di enorme<br />

luminosità- per tornare alle vecchie condizioni…<br />

(“Non mi disturba affatto” dissi io. Non prestavo attenzione<br />

a quello che ancora stava borbottando. Creai<br />

4 DR, pagg. 497-8 passim (in Italia il testo di Leary apparve<br />

inizialmente su RE NUDO; diceva pure: ‘C’è il tempo del ridente<br />

Krishna e il tempo del torvo Shiva. Il conflitto che abbiamo<br />

cercato di evitare incombe su di noi’).


una linea di confine. Quando il bordo inferiore del sole<br />

si libererà del tutto dalle nuvole, mi volterò. Un meraviglioso,<br />

luminoso, splendente viaggio. Felix, il dio del<br />

sole sorge dalle ombre, percorre un cammino diritto<br />

nel maestoso cielo blu…) FELIX È IL PICCOLO SOLE.<br />

(Burton vuole rovinarmi il viaggio…)<br />

È sicuro: il sole non può volar via. Arriva. Continuerà<br />

a salire, scalderà i miei occhi, la fronte, mitemente,<br />

senza febbre. [(Felix dorme. È tanto che non lo vedo!<br />

Ma oggi sì, o domani.)] FELIX. (Viene da te e dice:<br />

Papà, me l’hanno preso via, fammelo restituire per favore.<br />

Ed io risi e piansi. “Il leone mi ha morso il dito”<br />

disse Felix. L’ho preso in braccio e ho detto: “Vieni qui<br />

da me, non me ne vado via, ci sono sempre…” e sono<br />

tuo Padre e resto con te fino alla fine del mondo, il tuo<br />

mondo. Smette di esistere quando anche tu smetti, e lui<br />

rise. Voglio vederlo! Devo vederlo! Non lo lascerò mai!<br />

Ci avevo pensato, di rinunciare a lui, per esempio, per<br />

intraprendere un viaggio, per sempre…)<br />

Sono andato da Burton, che aspettava un paio di<br />

passi indietro. (Felix è il piccolo sole. A lui non potevo<br />

dirlo. E tutto il giorno ho cercato qualcuno cui poterlo<br />

esprimere. La pura Verità!)<br />

//(Nulla è più come era nel 1969. In Inghilterra non<br />

governa più un governo laburista, ma i conservatori.<br />

In Francia non è più De Gaulle l’interlocutore, e nella<br />

Repubblica Federale Tedesca la CDU è stata sostituita<br />

dall’SPD come partito di governo.)// 1<br />

h)<br />

Il nuovo Stato<br />

Sono passati solo sei anni- e come una meraviglia<br />

è sorto dalle rovine un nuovo Stato,<br />

uno Stato di pace, uno Stato in armi,<br />

da uno solo voluto e da uno solo costruito,<br />

una cittadella di forza, nel centro del mondo<br />

collocato su un buon terreno,<br />

dalla fiducia e dal coraggio di un popolo,<br />

da pura volontà e puro sangue,<br />

su una fede che fa miracoli!<br />

Chi ha occhi aperti<br />

e non è traditore o stupido<br />

vede quello che è avvenuto e come tutto si è risolto<br />

in bene grazie a colui che ci ha mandato Dio:<br />

tutte le ruote in movimento, i pistoni in azione,<br />

gioiosi al lavoro vecchi e giovani.<br />

Il pane ben guadagnato<br />

rende luminosi gli occhi, rossa la schiena,<br />

e nessuno più soffre la miseria in Germania!<br />

E la discordia civile, l’antica peste,<br />

è finita per sempre!<br />

…<br />

il Führer posa lo sguardo…<br />

1 DR, pag. 110-112.<br />

Will Vesper- Per il 50° compleanno del Führer 2<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 55<br />

i)<br />

7 <strong>maggio</strong> 1969: assalto a ‘Konkret’ 3<br />

…Konkret: sugli spari di Berlino. Vomita tutto, amico<br />

mio! E lui ancora a vomitare: ‘L’anarchismo porta al<br />

fascismo’. E Klaus Rainer sbrodola per tre colonne, fa<br />

finta di non essere stato sposato per tredici (?) anni con<br />

Ulrike. Non ne sa niente. Non ha niente a che fare con<br />

lui- è uno sviluppo tra le cui cause Röhl non è trovabile.<br />

Ci mettiamo in moto di notte. I rocker con i loro elmetti<br />

d’acciaio, giacche di cuoio, le croci di ferro al collo.<br />

Un paio d’auto, un furgoncino VW. Di mattina, al Gänsemarkt<br />

il fotografo furtivo che di nascosto scatta foto<br />

verso il nostro tavolo.”Tira fuori la pellicola”- Tomayer,<br />

sex bomb fuori testa, eccola qui! E lo accompagnamo giù<br />

dalle scale, mentre l’oste crepa di paura. Così, dammi la<br />

macchina, fuori il rullino, e poi fila! Ci guardava con gli<br />

occhi sbarrati, sembrava aspettarsi che lo ammazzassimo<br />

di botte. “Chiamo la polizia!” Togliti di mezzo! Corri<br />

dai poliziotti, maiale! E poi iniziò l’assalto a ‘Konkret’.<br />

Qualche troia il giorno dopo ha blaterato qualcosa sui<br />

rossi in famiglia. Röhl tremava nell’appartamento di<br />

Rühmkorf, armato di una pistola a gas lacrimogeno. Sì,<br />

ci è sfuggito per un pelo, lui, il Capo, il piccolo imprenditore,<br />

il due volte sfruttatore, che ruba soldi dalle tasche<br />

dei rossi e giudica idiozia le loro idee, che ha cacciato<br />

via i rivoluzionari, ha rifiutato la collettivizzazione e infine,<br />

pieno di rabbia come un matto, ha levato il culo- lui<br />

che due dozzine di persone hanno trascinato via dall’ingresso<br />

della sede della rivista sbarrato dai poliziotti. Poi<br />

fuori dalla città, alla villa. La Volvo con i freni guasti, e<br />

poi una discussione con Astrid: Cazzo, Vesper, stai calmo!<br />

Incisioni francesi finivano per terra, oggetti liberty an-<br />

2 Will Vesper era il padre di Bernward.<br />

3 Ulrike Meinhof lasciò nel 1968 il marito, Klaus Rainer Röhl,<br />

editore di ‘Konkret’ (la rivista della sinistra radicale tedesca,<br />

con una tiratura a un certo punto giunta a 100.000 copie); abbandonò<br />

la lussuosa villa di Blankenese, vicino ad Amburgo, e<br />

si trasferì a Berlino. Vi erano problemi interpersonali, e grosse<br />

differenze politiche nella valutazione del movimento extraparlamentare.<br />

A un certo punto fondò una redazione alternativa<br />

(’rivoluzionaria’) della rivista, di cui da un decennio era<br />

la principale editorialista. Da Berlino il 7 <strong>maggio</strong> del ’69 partì<br />

una spedizione diretta ad Amburgo: prima alla sede di Konkret,<br />

in centro, presidiata dalla polizia, poi alla villa. C’era pure<br />

la Meinhof. La Volvo ricordata sopra era l’auto di Vesper. Cfr.<br />

Aust (‘ Der Baader-Meinhof- Complex pagg. 52-55 e 83-85 ),<br />

J_Seifert (pagg. 363-4 in Kraushaar ed. ‘Die RAF..’), Koenen<br />

(211 ).- Le 2 bambine finirono nel ’70 in una comune in Sicilia<br />

(da dove pare la Meinhof, passata intanto alla clandestinità,<br />

intendesse farle giungere ai campi palestinesi in Giordania);<br />

in modo rocambolesco Stefan Aust, suo amico e collega, le riportò<br />

dal padre ad Amburgo, sfuggendo poi di poco alla vendetta<br />

della RAF.- Da aggiungere che marito e moglie erano<br />

stati per anni iscritti al partito comunista clandestino, e che la<br />

rivista era stata originariamente finanziata dalla DDR (come<br />

si scoprì dopo il crollo di questa). Su tutto questo si dovrebbe<br />

pure leggere il libro di Bettina Röhl dedicato ai suoi genitori<br />

ed al loro mondo.


davano in frantumi. La pisciata si allargò ai lati della<br />

rivista sul ‘letto matrimoniale’, Dio lo sa, e il compagno<br />

veloce che proprio allora doveva urinare sporcò le belle<br />

lenzuola, cambiate di fresco. Vicino c’era Ulrike. “Per te<br />

deve essere un momento da ricordare” disse Benjamin.<br />

Era la sua casa, lei l’aveva messa su, abitata, lasciata<br />

assieme alle bambine. La percorreva come una rovina,<br />

una baracca che sta per essere sacrificata ai picconi, e<br />

guardando la quale tutto sembra ripetersi, le sequenze<br />

del film, la ricerca di una casa, le ipoteche, le trattative,<br />

il lento, mortale accumularsi di oggetti, che rapidamente<br />

riempiono tutte le stanze, coprono i muri, si annidano<br />

nella coscienza, diventano pietra, un guscio di morte,<br />

che blocca qualunque rottura, barricate che ostruiscono<br />

il futuro.<br />

È questa tutta l’offerta abitativa di un’unica casa? Sono<br />

gli scaffali delle porcellane, i letti, TV e stereo, tappeti<br />

orientali, stuoie, lampade, quadri, stanza da bagno,<br />

cucina, libri di arredamento? Bello, ma non è ancora<br />

tutto!// Adesso volano attraverso la finestra chiusa nel<br />

giardino, adesso bruciano parole Blu sulla facciata (e<br />

noi, “ mentre già il BLU riempie le valli da sud a nord a<br />

10000 metri d’altezza. Silenzio fra i braccioli del sedile<br />

del jet”) 1<br />

Carteggio<br />

6 agosto 2007<br />

Da Giacomo<br />

Continuo, fra le altre cose, a lavorare attorno a quel<br />

libro di Vesper, Il viaggio, e alla Germania degli anni<br />

attorno al ‘68 e post. Sicuramente ci scriverò qualcosa<br />

sopra. A parte le cose di fondo, ci sono tanti particolari<br />

almeno per me totalmente inattesi: la scuola di Francoforte<br />

è quasi diventata negli anni dal ‘90 in poi la filosofia<br />

di stato; un ex avvocato di Ulrike Meinhof e degli<br />

altri della RAF, a suo tempo vicino all’SDS,- a suo tempo<br />

accusato di complicità con i detenuti di Stammheim-<br />

Otto Schily, ben noto allora, è stato per anni ministro<br />

dell’Interno nel governo Schroeder; Horst Mahler, invece,<br />

l’avvocato di Berlino che fu fra i primissimi fondatori<br />

della RAF, è da anni un nazionalista molto vicino<br />

ai nazi; Klaus Croissant, un altro avvocato della RAF,<br />

arrestato a Parigi fra clamore e proteste nel ‘74, fu a lungo<br />

un informatore della STASI (come si è detto anche<br />

del notissimo giornalista e scrittore Guenther Wallraff,<br />

cognato di Heinrich Boll); d’altra parte, una delle mie<br />

figure mitiche di gioventù, Bommi Baumann, fu nel ‘73<br />

per oltre 10 giorni minuziosamente interrogato dalla<br />

STASI sullo stato del movimento- legale e illegale- in<br />

Germania (sono stati ritrovati gli atti completi dell’interrogatorio).<br />

Ma queste sono minuzie, anche se sono il<br />

tipo di cose che non avrei mai pensato potessero succedere<br />

(ricordo ancora, detto per pura associazione, il mio<br />

sconfinato stupore quando venne annunciata la ‘fuga’ di<br />

Lin Piao e la sua morte, o il viaggio di Nixon a Pechino).<br />

Tanto per ricordare che il mondo è molto più vasto e<br />

1 DR, pp. 199-201.<br />

vario di quanto a volte ci si immagina che sia (e pieno di<br />

possibilità, dunque, anche).<br />

12 settembre 2007<br />

Da Giacomo<br />

‘E Baader libero’: un libro dalla Germania (‘abbatto il<br />

muro del suono del delirio in tuo onore’-)<br />

Bernward Vesper era figlio di un poeta sentimental-nazionalista,<br />

un poco kitsch e celebre<br />

già prima della I Guerra Mondiale, che negli<br />

anni ’30 divenne nazista. Nacque nel 1938, con<br />

il padre già sessantenne; crebbe in una tenuta<br />

semifeudale nel Nord della Germania, vicino<br />

alla brughiera di Lüneburg. Naturalmente, nei<br />

discorsi del padre e dei suoi amici, la storia girava<br />

attorno alle vicende dei prigionieri polacchi e<br />

russi che lavoravano nei campi e nella torbiera,<br />

alla fine della guerra nel rombo di bombardieri e<br />

carri armati nemici e dell’antiaerea. Da ragazzo<br />

si impegnò, seguendo il padre, nei movimenti di<br />

destra. A 20 anni andò all’Università di Tubinga,<br />

ove a un certo punto incontrò Gudrun Ensslin,<br />

una dei sette figli di un pastore protestante progressista<br />

legato agli ambienti neutralisti e pacifisti.<br />

Insieme, nel corso degli anni, furono presi<br />

dal processo di trasformazione e radicalizzazione<br />

che investì una significativa porzione della<br />

società tedesca negli anni ’60 (con una serie di<br />

tappe: il movimento antiatomico; l’affare Spiegel<br />

del ’62, la Grande Coalizione e la lotta contro<br />

le leggi per lo stato di emergenza, la guerra del<br />

Vietnam, la morte di Benno Ohnesorg il 2 giugno<br />

1967 a Berlino, l’esplosione dell’SDS, il movimento<br />

delle Comuni, l’attentato a Dutschke,<br />

etc). Da sempre impegnato nell’editoria, fondò<br />

una piccola casa editrice, la Voltaire Verlag,<br />

che divenne uno dei portavoce del movimento<br />

antiautoritario e della opposizione extraparlamentare.<br />

Nel 1967, appena nato il loro bambino<br />

(chiamato Felix in segno d’augurio), Gudrun lo<br />

lasciò per Andreas Baader e per una attività politica<br />

sempre più dura (che inarrestabilmente la<br />

portò alla RAF, la Rote Armee Fraktion - ovvero<br />

‘Banda Baader-Meinhof’, a anni di prigionia,<br />

a una tragica e oscura morte dieci anni dopo).<br />

Rimase solo e disperato (dopo averla prima<br />

innumerevoli volte tradita), combattendo una<br />

perdente lotta per tenere con sé il bambino (su<br />

cui non aveva la patria potestà, sulla base della<br />

legge tedesca di allora, non essendosi i genitori<br />

sposati). Musica, hashish e altro, vagabondaggi,<br />

sogni di lotta armata (e forse collaborazione alla<br />

lotta armata), tentativi infine falliti di tenere in<br />

piedi la casa editrice- che perse definitivamente<br />

all’inizio del ’69, fluttuanti storie d’amore- di<br />

cui la più insensata con Ruth Ensslin, la sorella<br />

14enne di Gudrun.<br />

Nell’estate del ’69 portò il figlio a una coppia di<br />

Undingen (cristiano-democratici, classe media,<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 56


conservatori, amici degli Ensslin), che ricorrentemente<br />

se ne faceva carico. Proseguì nel Sud<br />

della Germania per il campeggio rivoluzionario<br />

di Ebrach. Infine, mentre diversi suoi amici<br />

e amiche stretti andavano in Giordania - su<br />

un furgone Ford pare fornito da Feltrinelli- per<br />

adddestrarsi alla guerriglia nei campi palestinesi,<br />

scese in auto in Italia, e quindi in traghetto<br />

giunse a Dubrovnik per incontrare Ruth, che vi<br />

si trovava in vacanza con i genitori. Il pastore<br />

Ensslin ancora gli ingiunse e lo supplicò di lasciare<br />

in pace la sua famiglia. Riuscì a trascorrere<br />

una notte con Ruth, che però lo respinse.<br />

Nel pomeriggio, disperato, ripartì in auto, risalendo<br />

la costa jugoslava. A Rijeka incontrò un<br />

giovane ebreo americano che faceva l’autostop<br />

(pieno di hashish lui, tutto il tempo, e avendo<br />

con sé un trip, un acido, datogli da una sua amica<br />

prima che lei, invece di recarsi in India come<br />

aveva progettato, salisse sul Ford Transit diretto<br />

in Giordania). Bernward e Burton tornarono<br />

insieme in Germania. A Monaco di Baviera<br />

all’inizio di agosto presero insieme l’LSD. ‘Da<br />

allora niente è più stato uguale’, scrive a un certo<br />

punto.<br />

Dopo qualche giorno, nella tenuta paterna,<br />

iniziò a scrivere a tempo pieno un romanzosaggio-autobiografia,<br />

un enorme frammento.<br />

Si incrociano viaggi reali, il trip di Monaco ed<br />

altri con peyote, fumo sempre, un ‘semplice<br />

resoconto’- sempre più lungo e penosamente<br />

dettagliato- della sua infanzia, la Germania di<br />

quegli anni, innumerevoli figure reali (i membri<br />

della Kommune 1 di Berlino, il fondatore dei<br />

Tupamaros West Berlin, Günther Grass, l’editore<br />

di Konkret e marito di Ulrike Meinhof Röhl,<br />

Ulrike M., Ingeborg Bachmann, Lena Conradt e<br />

suo marito il regista Gerd, Gudrun, Ruth, Petra,<br />

Elken…), polemiche con Günther Wallraff sulla<br />

lotta armata, con Martin Walser sull’LSD, scene<br />

del celebre congresso di Londra sulla Dialettica<br />

di Liberazione organizzato da Laing e Cooper<br />

nel ’67 (cui lui aveva partecipato), un diario<br />

(immaginario?) di viaggio nel Nord dell’Italia<br />

all’interno della sinistra extraparlamentare<br />

e delle Brigate Rosse allora in formazione, un<br />

dettagliato racconto di una guerrigliera tedesca<br />

in Giordania, frammenti di giornali vari, lettere<br />

all’editore con cui era in contatto per la pubblicazione<br />

del suo libro in fieri, - perfino un fattualmente<br />

accurato resoconto della liberazione di<br />

Andreas Baader nel <strong>maggio</strong> ’70 (l’inizio ufficiale<br />

della RAF), visioni insight sogni incubi con LSD<br />

hashish mescalina anfetamine, innumerevoli<br />

citazioni e richiami (Sartre, Camus, Genet, Pavese,<br />

Reich, Laing, Marcuse, Leary, Stokely Carmichael,<br />

Eldridge Cleaver, Guevara, etc etc) 1 .<br />

1 Alla fine del 1977 in una assemblea teorizzai che bisognava<br />

uscire dal provincialismo, che la germanizzazione era la tendenza<br />

dominante- con stato autoritario, caccia agli oppositori,<br />

sfrenato dominio delle multinazionali, assorbimento dei sin-<br />

12 settembre 07<br />

Da Ennio<br />

[…] Così come lo presenti, un personaggio come Vesper<br />

m’incuriosisce e respinge. Non riesco a capire come<br />

avvicinarlo. Rappresenta per me il lato del ’68 più frenetico<br />

e romantico che - devo riconoscere a posteriori<br />

- mi sfiorò soltanto come discorso “per sentito dire” o<br />

per immagini intraviste (sui giornali o in persone del<br />

movimento incrociate ma non frequentate). Mi viene in<br />

mente un certo S., uno studente di filosofia conosciuto<br />

tra 1966 e 1967, quando avevo ripreso alla Statale di<br />

Milano i miei studi universitari interrotti. Da lui avevo<br />

cercato di farmi spiegare un articolo di Badaloni su Althusser<br />

che trovavo incomprensibile. Ricordo di averlo<br />

poi rivisto “fatto” (ma allora nulla sapevo di droghe),<br />

dondolante in piedi e con lo sguardo smorto, davanti<br />

all’ingresso della Statale occupata. Lo incrociai settimane<br />

dopo sotto la Galleria accanto a Piazza Duomo con<br />

Allen Ginsberg (sì, proprio lui). S. mi diede un indirizzo,<br />

forse quello una comune, e un appuntamento. Mi<br />

presentai puntuale, bussai più volte alla porta indicata<br />

sul biglietto. Nessuno mi aprì. Dietro l’uscio sentivo bisbigliare<br />

persone. Forse mi scrutavano dallo spioncino<br />

e– suppongo - diffidando di uno sconosciuto, non mi<br />

aprirono. Oppure penso a D., uno che aveva organizzato<br />

agli inizi degli anni ’60 i primi scioperi operai “a gatto<br />

selvaggio”. Lo ricordo durante una riunione di studenti<br />

che, abbandonando la Statale chiusa e presidiata dalla<br />

polizia, erano dopo gli scontri confluiti al Politecnico.<br />

Lui si offrì di buttarsi da solo contro i poliziotti per<br />

provocare uno scontro. Di recente, quasi per caso, ho<br />

trovato un sito a lui dedicato: è morto nel 1996. Ho visto<br />

sue foto, letto suoi scritti, saputo qualcosa della sua<br />

tormentata giovinezza e degli scontri feroci con un padre<br />

socialmente molto in vista. E poi c’è P., col quale<br />

ho avuto sempre un rapporto/non rapporto e una comunicazione<br />

mai veramente sintonizzata: come fra due<br />

universi che sembrano in continuità ma nei fatti si svelavano<br />

distanti. Anche lui, al di là degli incontri/scontri<br />

nel contesto preciso della scuola dove insegnammo tra<br />

‘70 e ‘78 o delle lettere che ci siamo scambiati, aveva una<br />

zona di esperienza politica ed esistenziale “altra” dalla<br />

mia. So che me l’ha sempre occultata. Credo per una<br />

valutazione da parte sua d’incompatibilità politica, ma<br />

anche umana con me (una volta mi disse che io parlavo<br />

ancora «come un contadino»). Un diaframma tra noi è<br />

rimasto. Ho sentito sempre in lui un intento strumentale,<br />

come di chi collochi il rapporto con te su un piano<br />

delimitato e subordinato ad altri ben più importanti per<br />

lui. Da lì tu non devi uscire: o ci stai o si rompe. Detto<br />

questo sulle mie reazioni alla storia di Vesper e al retroterra<br />

che mi evoca, mi chiedo cosa spinge te a esplorare<br />

oggi la sua figura. Mi dici che nel ’77 avevi teorizzato che<br />

bisognasse sprovincializzarsi e “imparare il tedesco”. Io,<br />

per vari motivi, non ci sono mai riuscito. Ma - non prenderla<br />

come una provocazione - mi sentirei alleato della<br />

dacati, trasformazione della socialdemocrazia, utilizzo della<br />

manodopera straniera, lotta per la conquista di nuovi mercati<br />

e campi di investimento; che ‘bisogna imparare il tedesco’.<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 57


tua ricerca, se capissi cosa hai già imparato dalla tua<br />

esplorazione della Germania, cosa ricavi dai materiali<br />

sulla vita di Vesper, cosa e come potremmo riproporre<br />

tutto ciò su Poliscritture.<br />

15 sett 2007<br />

Da Giacomo<br />

Per un aspetto, l’idea era di utilizzare le sostanze psichedeliche<br />

per accedere a un più profondo contatto con sé<br />

stessi, la propria storia, il mondo; usarle per superare<br />

le rigidità, distruggere la corazza caratteriale, disfare<br />

quanto di disastroso famiglia, educazione, Germania<br />

avevano depositato dentro di lui («mi avete reso un<br />

maiale», dice a un certo punto); e, nello stesso tempo,<br />

viene sviluppata una tecnica del ricordo, del ripercorrere<br />

infinite volte il passato biografico- tolto alla banalità,<br />

alle identificazioni o controidentificazioni acquisite, sollecitato<br />

come da una lente dalla luce spietata, capace di<br />

focalizzare, ristrutturare, annientare.<br />

Lottare contro le ‘verdure’, gli integrati, i nazisti del<br />

mondo esterno e del mondo interno; passare dall’odio<br />

all’energia grazie all’esperienza (riprendendo a modo<br />

suo una formula di Che Guevara). (E ricordi di William<br />

Blake , quello delle «porte delle percezione»: la Strada<br />

dell’Eccesso che conduce al Palazzo della Saggezza). E<br />

muoversi intanto nella realtà delle comuni, dei piccoli<br />

e grandi gruppi in trasformazione, delle discussioni e<br />

lotte collettive, sullo sfondo di un mondo dove l’ordine<br />

imperialistico-patriarcale era ovunque in crisi. Da tutto<br />

ciò non solo il legame con le tematiche di protesta e resistenza<br />

del movimento antiautoritario, ma la tensione<br />

(allora di tanti) ad innalzare il livello di scontro, ad attaccare<br />

invece di difendersi soltanto.<br />

Il libro è così al centro di spinte laceranti. Fare i conti<br />

con il nazista dentro di sé non è così semplice, comporta<br />

una serie di rischi (Bernward Vesper ebbe all’inizio del<br />

‘71 una crisi psicotica, per esempio; e più tardi morì suicida);<br />

costruire rapporti “diversi” con compagni e compagne<br />

non è banale; e quanto alla guerra rivoluzionaria<br />

di liberazione, al “distruggi chi ti distrugge”, si sa bene<br />

quanti labirinti, sofferenze, disastrose sconfitte e a volte<br />

disastrose vittorie comporti. E poi: osare lottare, osare<br />

vincere- è stato scritto tanto tempo fa, e la cosa ha un<br />

senso e la questione resta aperta, anche se a volte una<br />

spessa nebbia oscura il campo di battaglia, stravolge le<br />

fisionomie dei contendenti e degli astanti, a volte ne modifica<br />

la natura più interna; ma la questione resta aperta<br />

appunto, comunque; e il merito di questo libro è di porla<br />

con forza, in tutta la sua complessità e il suo caos (e a<br />

volte tutto il suo orrore e il suo squallore). Così, come<br />

scrisse Heinrich Böll nel ‘77, è un libro non benefico,<br />

ma necessario. Infine messo insieme dai manoscritti e<br />

dalle note di Vesper, il libro uscì in quell’anno, l’anno di<br />

Stammheim, e trovò una grande eco e un enorme ascolto.<br />

«Testamento di una generazione», venne chiamato;<br />

in effetti tratteggia tutto il travaglio della generazione<br />

del ‘68 tedesco, il suo tentativo di fare i conti con un<br />

passato atroce e di costruire, oltre il fascismo quotidiano<br />

ed i rapporti di potere di una società autoritaria, un<br />

nuovo mondo; e testimonia pure senza dubbio la terri-<br />

bile violenza messa in campo in questo sforzo.<br />

Dopo il <strong>maggio</strong> ‘71, in cui morì Bernward Vesper, tante<br />

cose sono avvenute in Germania e altrove. Di molti<br />

eventi, emozioni, concatenazioni di quel periodo storico<br />

si è cancellato il ricordo, di altre si diffonde una versione<br />

unidimensionale e rosé- come se p.e. il ‘68 a livello<br />

mondiale sia stato solo un glorioso momento di modernizzazione<br />

e democratizzazione, o inversamente di nascita<br />

e avvento di una nuova borghesia, o di ascesa del<br />

sistema a più alti livelli di complessità ed efficienza. È<br />

tutto vero, ma c’è di più in quegli anni: un di più che va<br />

indagato e pensato- non solo per amore della verità, ma<br />

anche per aiutare a restituire al reale la sua dialettica e<br />

il suo colore, la sua sofferenza, ma anche il suo campo<br />

di possibilità. Così Die Reise può servire- una specie di<br />

esercizio di meditazione su sé stessi e sul proprio mondo:<br />

è esattamente quello che Bernward Vesper aveva in<br />

mente quando decise di dedicarsi alla sua ricerca.<br />

15 settembre 2007<br />

Da Ennio<br />

Sì, il tuo pezzo su Vesper scrosta i depositi di rimozione<br />

ammucchiatisi sul ’68, respinge le sue letture accomodanti,<br />

e, partendo da una sorta di autobiografia di un<br />

concreto militante, evita discorsi generali e generici su<br />

quegli anni. Ma il «di più» di quegli anni dev’essere pur<br />

valutato e chiarito. E la verità, allora raggiunta o intravista,<br />

andrebbe non solo riconosciuta, ma anche riproposta<br />

ad altri/e, ai giovani, ecc. Perciò chiedo: cosa c’è<br />

da portare ad esempio nella vicenda di Vesper? La sua<br />

(e d’altri) idea di «utilizzare le sostanze psichedeliche<br />

per accedere a un più profondo contatto con sé stessi, la<br />

propria storia, il mondo» è riproponibile? Quella «tecnica<br />

del ricordo, del ripercorrere infinite volte il passato<br />

biografico- tolto alla banalità, alle identificazioni o<br />

controidentificazioni acquisite» non manca di qualcosa<br />

(del contatto con gli altri, secondo me) per fruttare sia<br />

individualmente che socialmente? Tutto sta poi a vedere<br />

quale obiettivo uno persegue. Forse è vero che «la<br />

strada dell’Eccesso conduce al Palazzo della Saggezza».<br />

Ma non a “cambiare il mondo”, come si pretendeva allora<br />

(e, per me, si dovrebbe ancora pretendere). Anche<br />

«muoversi intanto nella realtà delle comuni, dei piccoli<br />

e grandi gruppi in trasformazione, delle discussioni e<br />

lotte collettive» a me pare sia stato proposito insufficiente<br />

e generico. Quanto e cosa quelle comuni mettevano…<br />

in comune e quanto, invece, si chiamavano fuori<br />

da altre trasformazioni snobbate o sottovalutate? Fare<br />

«i conti con il nazista dentro di sé» non è così semplice.<br />

Per questo – vado per approssimazioni – quel tipo di<br />

lotta dev’essere almeno contiguo ad altre lotte. Se no,<br />

si rischia di assolutizzare e interiorizzare tutto senza<br />

più scambiare davvero con gli altri/e. Troppi sono stati<br />

i cortocircuiti tra i due piani (interno ed esterno). Ed<br />

essi hanno danneggiato il lavoro su entrambi e sulle loro<br />

specifiche caratteristiche. Per cui l’«osare lottare, osare<br />

vincere» è stato più spesso un azzardo soggettivo e disperato<br />

che un atto maturo di coraggio. Mi spiego. Per<br />

me ‘coraggio’ significa una visione realistica almeno del<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 58


70% di quella che chiamiamo “realtà” e un azzardo del<br />

30%; e non viceversa. Ho in mente il Lenin delle Tesi di<br />

aprile che convince i suoi compagni titubanti a prendere<br />

il potere. Altrimenti, non solo non si vince neppure<br />

per un attimo, ma non si fa un passo avanti; e la sconfittà<br />

stronca le spinta liberatrici, anche le più elementari.<br />

Vorrei capire poi bene in che senso Böll riteneva «non<br />

benefico, ma necessario» questo libro di Vesper. È forse<br />

nel senso che intendeva Fortini quando nella poesia<br />

«Stammhein» scriveva: «Essi hanno fatto quello che<br />

dovevano / secondo gli ordini della città non visibile. /…<br />

Sono stati uccisi. / Nessuno fu più obbediente di loro.»?<br />

Posso anche arrivare a<br />

capire che in quella Germania,<br />

con quel passato,<br />

quella generazione doveva<br />

attraversare quella<br />

prova. Ma tutti i passi<br />

o i più significativi fatti<br />

da Vesper vanno iscritti<br />

in quel contesto o no?<br />

La mia impressione è<br />

che Vesper abbia vissuto<br />

poco politicamente e<br />

molto esistenzialmente<br />

gli eventi in cui fu coinvolto.<br />

E la vera “scoperta”<br />

per lui più che il mondo<br />

politico ( il movimento<br />

studentesco, etc.) in conflitto<br />

con la Germania<br />

d’allora pare sia stata<br />

quella dell’LSD, che gli<br />

apre le porte di una scrittura<br />

convulsa e di genere<br />

misto («romanzo-saggio-autobiografia»<br />

tu<br />

dici). È proprio questo<br />

suo «semplice resoconto<br />

– sempre più lungo e penosamente<br />

dettagliato»<br />

che andrebbe valutato.<br />

Quanto è delirio?<br />

Quanto corrisponde<br />

a fatti accertati? Merita<br />

davvero la definizione<br />

di «testamento<br />

di una generazione»?<br />

Sulla base di quanto tu ne scrivi, io, pur con tutta l’attenzione<br />

che porto al singolo e alle sue sofferenze, ho dei<br />

dubbi. Per essere un vero testamento, bisognerebbe –<br />

credo – che in quel «semplice resoconto» i nuclei di verità<br />

soggettiva fossero in qualche relazione abbastanza<br />

precisa con i nuclei di verità politica della Germania di<br />

allora. Altrimenti – mi azzardo a dire - credo che possa<br />

interessarti come psichiatra. È il resto che a me preme e<br />

per meglio avvicinarmi al singolo. È il divario tra quella<br />

soggettività e le altre, che fecero esperienze diverse, che<br />

va colmato. Comunque il tema è interessante. insisterò<br />

a fare l’avvocato del diavolo (o dell’angelo in questo<br />

caso). Tu lavoraci e poi lo proponiamo anche agli altri.<br />

Ornella Garbin, Sogni<br />

30 settembre 2007<br />

Da Giacomo<br />

Scusa il tempo trascorso […]. Non ho comunque smesso<br />

di pensare alle questioni poste da te, che sono quanto<br />

mai appropriate. Proverò a spiegarmi un poco. In primo<br />

luogo, dopo le morti di Stammheim facemmo una dimostrazione<br />

rabbiosissima a Parma - la più soggettivamente<br />

violenta cui io abbia mai partecipato (a parte il 12-3-<br />

77 a Roma- in cui però ero stato molto più passivo). Poi.<br />

De Il viaggio mi parlò il mio migliore amico nell’’80,<br />

quando uscì; lo presi in mano, ma lo trovai ECCESSIVA-<br />

MENTE cupo e angoscioso,<br />

e totalmente<br />

respingente. Non me<br />

ne scordai però. Molti<br />

anni dopo, occupandomi<br />

variamente di<br />

cose tedesche, cominciai<br />

a trovarne tracce<br />

molteplici in Rete.<br />

Finché quasi due<br />

anni fa lo comperai, e<br />

lentamente cominciai<br />

ad entrarci dentro -<br />

aiutato in modo decisivo<br />

infine da un libro<br />

di G.Koenen, autore<br />

di una ben nota storia<br />

del Movimento in<br />

Germania fra il ‘67 e<br />

il ‘77, e di un luttuoso<br />

«Vesper, Ensslin,<br />

Baader. Alle origini<br />

della lotta armata in<br />

Germania». Intanto<br />

c’era l’aspetto intellettuale:<br />

decifrare un<br />

testo superstratificato-caotico,<br />

mettere<br />

in rapporto le pagine<br />

e pagine di testo con<br />

una sensata serie di<br />

eventi (solo-individuali,<br />

e storici in<br />

senso stretto). Poi: ci<br />

sono pagine di un valore<br />

estremo: le scene<br />

in contemporanea sono vive, di un linguaggio diretto<br />

e forte e semplice (meglio di quello di Handke, senza<br />

la sua deformazione elegiaca). Poi, più rilevante (e qui<br />

vengo a una domanda esplicitamente posta da te): più<br />

ci entravo dentro, più Vesper mi ricordava (completamente<br />

diverso, sì) il me fra i 15 e i 35 anni, più o meno:<br />

un mix (nomadico? Io direi caotico) di padre autoritario<br />

e distante- amato/odiato, provenienza in qualche modo<br />

alto-borghese (decaduta), rovine attorno nel dopoguerra,<br />

ricerca di liberazione individuale utilizzando ogni<br />

scorciatoia immaginabile, fascinazione per l’idea di un<br />

sovvertimento TOTALE (ben al di là della percentuale<br />

di irrealismo che tu, giustamente, ritieni gestibile/utile),<br />

ricerca della libertà emotivo-sentimentale accop-<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 59


piata a uso a volte del tutto irresponsabile delle altre<br />

persone (e, in ultima analisi, di sé stessi), mantenimento<br />

non detto di tutta una serie di dipendenze decisive.<br />

Come ti ho scritto, ritengo il libro anche la cronaca di<br />

una malattia. Non mi ci sono trattenuto, perché (e probabilmente<br />

sbagliavo) mi sembrava evidente: un tale<br />

stile di comportamento e di scelte, l’uso sfrenato di sostanze,<br />

l’instabilità di rapporti, la eccessiva disarmonia<br />

interna e violenza interna (e a volte esterna: vedi p.e. la<br />

cronaca dell’attacco alla villa di Rohl, ex-marito di Ulrike<br />

Meinhof e direttore di Konkret- una rivista di sinistra<br />

estrema molto importante-, che si era distanziata<br />

dalla sinistra extraparlamentare nel ‘69- che penso tradurrò<br />

prossimamente e inserirò nel testo). La cronaca<br />

è appunto francamente agghiacciante, come p.e. erano<br />

stati agghiaccianti i comunicati sul fratello di Peci,<br />

o un messaggio di Gudrun Ensslin a Kurt Wagenbach<br />

della fine del’76, che ho letto pochi giorni fa:- come ho<br />

pure letto da un’altra parte, la lotta armata e la violenza<br />

sono spesso molto più affascinanti viste da lontano<br />

che da vicino). Vi era comunque in Vesper (e in quegli<br />

anni in senso lato) una energia estrema, che mi interessa<br />

riconsiderare. Per quanto mi riguarda, a un certo<br />

punto (inizio dell’’80, grosso modo) mi sono quasi completamente<br />

azzittito su troppi temi: un po’ perché non<br />

condividevo, o non condividevo più, i prncìpi portanti;<br />

un po’ per paura (paura della polizia, paura dello sguardo<br />

degli altri, paura), un po’ per pura angoscia. Mi ci<br />

sono voluti anni - difficili- per venirne un poco a capo.<br />

Quando ho ricominciato a occuparmi di politica in senso<br />

lato, la struttura del silenzio è stata elusa, non affrontata<br />

(il massimo di formulazione è stato del tipo: quelle<br />

cose avvenivano allora- senza dettagliare a me stesso in<br />

primo luogo di cosa esattamente parlavo-, ma adesso i<br />

tempi sono diversi, possiamo tutti insieme occuparci in<br />

modo più irenico di altro - di qui l’interesse per i Verdi<br />

p.e. È una soluzione, ma non ottimale; troppo rimane<br />

fuori). A ogni modo: occuparmi di Germania (che per<br />

una serie di motivi mi ha sempre interessato: all’origine<br />

p.e. le copie della «Illutrazione italo-germanica» bilingui<br />

degli anni dopo il ‘43 trovati nella soffitta della<br />

casa di campagna di mia madre; e la scia della Seconda<br />

guerra mondiale, con sigle e nomi che mi affascinavano:<br />

OKW, Rommel, Von Keitel, Stuka etc etc etc- tieni conto<br />

che per me bambino i tedeschi erano i perdenti assoluti,<br />

dotati comunque di una forza del tutto superiore a quella<br />

dei fascisti italiani) (mio padre era liberale, con un<br />

passato antimonarchico e non-fascista; mio nonno materno,<br />

morto suicida nel ‘44, era un medico importante<br />

e gerarca di medio livello, per quel poco che sono riuscito<br />

a capire)- occuparmi di Germania è un modo che<br />

ho trovato per fare un po’ i conti con il mio passato (e<br />

il passato di un po’ d’altri); tieni conto, per concludere,<br />

che nel ‘75 dedicai il libro di Blake ad Anna Maria Mantini,<br />

dei Nuclei Armati Proletari; che poco dopo scrissi<br />

una lunga poesia su Margherita Cagol (che certo non ho<br />

più fatto girare, ma che ancora trovo molto bella); che<br />

poi nel ‘78 scrissi ‘Ziggy Stardust’ sognando sognando<br />

sognando di essere lontano dalla semiguerracivile che<br />

infuriava attorno. Per dire che ero un po’ confuso, come<br />

tanti. Credo non fosse scontato che mi salvassi dai vari<br />

rischi (crollo mentale, licenziamento, arresti per moti-<br />

vi veri o presunti, etc). (NON HO MAI PARTECIPATO<br />

ALLA LOTTA ARMATA ).<br />

30 settembre 2007<br />

Da Giacomo<br />

Mi accorgo di non avere concluso una frase- preso da<br />

una lunghissima parentesi: mi sembrava dunque evidente<br />

che lo stile di comportamento di Vesper diventasse<br />

sempre più idiosincrasico, pericoloso, infine del<br />

tutto patologico; e una psicosi maniacal-delirante, come<br />

quella in cui entrò francamente all’inizio del ‘71, e che<br />

lo portò a mesi di ricovero psichiatrico obbligatorio,<br />

con suicidio infine il giorno prima della dimissione, è<br />

quanto di più patologico si possa immaginare; pur mettendoci<br />

dentro l’AntiEdipo e Laing etc è evidente che<br />

dal suo ‘viaggio’ lui non è riuscito a uscire in condizioni<br />

decenti e accettabili (anche se quanto vi ha scoperto e<br />

vissuto può essere estremamente significativo PER GLI<br />

ALTRI).<br />

5 aprile <strong>2008</strong><br />

Da Giacomo<br />

…ho pensato a lungo alle note che proponi di mettere:<br />

ma come si fa? Lin Piao, Mao, Klaus Croissant, Rudi<br />

Dutschke, l’affare Spiegel, la Grande Coalizione, la Stasi,<br />

gli Stukas…: è come dovere spiegare passo passo la<br />

storia di 50 anni- o una sua porzione significativa. E poi<br />

la spiegazione è sempre unilaterale e per forza parzialmente<br />

falsa, e fuorviante. È al di là delle mie capacità.<br />

Diciamo che sono un sopravvissuto (che vive ancora,<br />

sottolineo), o che bisogna studiare (come ha detto Fortini,<br />

appunto: le Chinois, ça s’apprend).<br />

Le uniche cose che mi sento in dovere di aggiungere<br />

sono bibliografiche, e ad personam. “Right on. Per<br />

Mara (e per Ulrike, NdR)” apparve sull’’Erba voglio’ nel<br />

1976; “Ziggy Stardust, i Ragni di Marte ed il rapimento<br />

di Aldo Moro” su ‘A/traverso’ all’inizio del ’79. “Poesie”<br />

di William Blake, con scelta e traduzione mia, è stato<br />

stampato dalla Newton Compton nel ’76 (e poi ristampato<br />

almeno altre due volte).<br />

E poi che, naturalmente, la Germania è per me anche<br />

Hölderlin e Brecht e Goethe e Adorno e Fassbinder e<br />

Wenders e…<br />

Poliscritture/Esodi Pag. 60


4 Storia adesso<br />

d e l p a s s a t o c h e r e s t a e d e l p r e s e n t e c h e s i f a s t o r i a<br />

La pseudo<br />

rivoluzione<br />

e la pseudonovità<br />

dei neocon<br />

Franco Tagliafierro<br />

Neoconservatorismo, neoconservazione, neoconservatore<br />

ecc.: sono termini pesanti, perciò ci si avvale preferibilmente<br />

di neocon con funzione di sostantivo o di<br />

aggettivo, e alcuni giornalisti, quando si riferiscono agli<br />

esponenti del neoconservatorismo americano, o alla pletora<br />

dei loro imitatori europei, formano il plurale come<br />

esige la grammatica inglese e scrivono neocons. Ormai<br />

la moda si è appropriata di tutto ciò che è neocon o che<br />

aspira a esserlo, vuole farci credere che esista ben poco<br />

di teorico e di praticabile al di fuori del marchio neocon,<br />

rende così intrinseca alle nostre esigenze umane e civili<br />

la visione neocon del mondo, che solo per un ghiribizzo<br />

da pedante si possono rievocare le circostanze in cui le<br />

parole neoconservatism e neoconservative irruppero<br />

nei media degli Stati Uniti. I responsabili morali dell’irruzione<br />

si affrettarono a spiegare che quelle parole non<br />

attestavano un semplice rinnovamento nella dinamica<br />

del conservatorismo americano, come suggeriva il prefisso<br />

neo-, ma un evento di portata molto più vasta, addirittura<br />

epocale, al punto che ritenevano legittimo parlare<br />

di Neoconservative Revolution. L’opinione pubblica<br />

non fece molto caso all’ossimoro che l’evento epocale<br />

recava in sé. Il termine “rivoluzione”, nonostante alcuni<br />

storici fallimenti della sua applicazione pratica, ha ancora<br />

un certo fascino romantico, è semanticamente duttile,<br />

perfino “trasversale”, ed è per questo che può continuare<br />

ad attribuire titoli di intraprendenza e creatività a<br />

chi ne fa la propria bandiera.<br />

All’inizio degli anni Ottanta i media inglesi si compiacquero<br />

di battezzare con il nome di “Rivoluzione conservatrice”<br />

il programma politico di Margareth Thatcher<br />

che governò dal 1979 al 1990. Ovviamente non ci fu<br />

alcuna rivoluzione, non si sovvertirono le istituzioni<br />

del Regno Unito. Il cambio della guardia nel palazzo<br />

del potere non dovrebbe essere chiamato “rivoluzione”<br />

quando il partito che assume la guida del paese ha già<br />

governato in un passato abbastanza recente e mantiene<br />

invariati il programma e l’orientamento ideologico, sia<br />

pure con qualche adattamento ai tempi... Non dovrebbe,<br />

ma, come dicevo, la parola ha il suo fascino, e per-<br />

tanto “funziona” propagandisticamente più di qualsiasi<br />

termine corrispondente a verità.<br />

Dopo quella della Thatcher ci furono altre due clamorose<br />

riconquiste del potere da parte dei conservatori: una<br />

si realizzò grazie al senatore repubblicano Ronald Reagan<br />

che diventò presidente degli Stati Uniti nel 1980,<br />

dopo la parentesi democratica di Jimmy Carter; l’altra<br />

fu quella del Partito Repubblicano, sempre degli Stati<br />

Uniti, che nelle elezioni di medio termine del 1994 ottenne<br />

la <strong>maggio</strong>ranza nella Camera dei Rappresentanti<br />

e nel Senato, dopo 40 anni di attesa nella prima e 8 anni<br />

nel secondo. Ambedue le riconquiste furono salutate<br />

come “rivoluzioni”, e poiché sia gli artefici della prima<br />

(che erano i grandi elettori di Reagan), sia gli artefici<br />

della seconda (che erano i “cervelli” del Partito Repubblicano)<br />

non volevano più essere chiamati conservatori<br />

bensì neoconservatori, sia all’una che all’altra si applicò<br />

l’etichetta di “Rivoluzione neoconservatrice”. Probabilmente<br />

Ronald Reagan si considerava un conservatore<br />

“puro e duro” e non sentiva il bisogno di farsi precedere<br />

da un neo-, però si adeguò.<br />

Ma era appropriato il termine “rivoluzione” per le due<br />

riconquiste? E soprattutto: era giustificato il prefisso<br />

neo- per i conservatori che le realizzarono?<br />

Il termine “rivoluzione” si impose entrambe le volte<br />

perché il Partito Repubblicano e i milioni di cittadini<br />

che condividevano il suo programma credevano di fare<br />

qualcosa di rivoluzionario mettendo al bando - tramite<br />

la politica di un presidente nel primo caso, e del Congresso<br />

nel secondo - il sentimento laico della vita, il femminismo,<br />

il controllo statale sull’economia, il concetto<br />

ecologico di sopravvivenza, le rivendicazioni imperniate<br />

sull’egualitarismo, e tutto quel complesso di ideologie<br />

e comportamenti sessantotteschi che in qualche modo<br />

aveva “rivoluzionato” (qui il termine è appropriato) la<br />

vita e la visione del mondo di tante persone e aveva influito<br />

anche sulle scelte politiche (una fra tutte: la ritirata<br />

dal Vietnam).<br />

Normalmente non siamo propensi a chiamare “rivoluzione”<br />

fenomeni come l’amplificazione del nazionalismo,<br />

dell’individualismo, del fondamentalismo religioso,<br />

del tradizionalismo, della discriminazione sessuale e<br />

razziale ecc. Semmai, in questi casi, dovremmo usare il<br />

termine “controrivoluzione”, riconoscendo come rivoluzionari<br />

rispetto alla tradizione statunitense il pacifismo<br />

dei “figli dei fiori”, la politica del welfare e l’estensione<br />

dei diritti civili alle minoranze emarginate. Oppure potremmo<br />

parlare di “restaurazione”, e questo è il termine<br />

che più si attaglia al ritorno dei conservatori al potere.<br />

Lo chiama restaurazione, infatti, Juan-Ramón Capella<br />

nella sua ricognizione delle fasi caratterizzanti della seconda<br />

metà del secolo scorso, anzi, considerando che si è<br />

trattato di un fenomeno con implicazioni internazionali,<br />

Poliscritture/Storia adesso Pag. 61


non esita a classificarlo come “Grande Restaurazione” 1 .<br />

Dunque, non era il caso di scomodare il termine “rivoluzione”<br />

per indicare una semplice riconquista del potere<br />

e una applicazione dei vecchi metodi di governo, sia<br />

pure con più aggressività, da parte di chi nel frattempo<br />

non aveva rinnovato radicalmente, né tanto meno “rivoluzionato”,<br />

il proprio orientamento ideologico-politico.<br />

Ma sia chiaro che la retorica del nominalismo può sempre<br />

essere tirata in ballo per giustificare l’uso improprio<br />

di un termine.<br />

Anche del prefisso neo-.<br />

Il termine neoconservative esisteva come neologismo<br />

inerte in qualche dizionario. Chi involontariamente gli<br />

diede una vitalità duratura fu Michael Harrington, che<br />

nel 1973, in un articolo su “Dissent” (rivista liberal di<br />

New York), lo usò per bollare idee e atteggiamenti di<br />

alcuni intellettuali allontanatisi dalla sinistra liberal del<br />

Partito Democratico. Vitalità duratura perché a quei<br />

transfughi il termine piacque e ne fecero la propria divisa.<br />

Però di nuovo c’è gente, a detta di Francis Fukuyama,<br />

che lo usa come insulto. La paternità del neoconservatism<br />

spetta soprattutto a Irving Kristol. Secondo lui,<br />

il neoconservatorismo è la prima variante del conservatorismo<br />

che sia pienamente conforme con il “carattere<br />

americano” (American grain) 2 , che è un carattere<br />

fortemente anticomunista, fortemente filocapitalista,<br />

fortemente antistatalista, fortemente tradizionalista e<br />

devoto al culto della proprietà privata, della famiglia e<br />

della patria. Dice questo come se la Vecchia Destra (Old<br />

Right) avesse elaborato, a suo tempo, un conservatorismo<br />

conforme al “carattere” dei tedeschi o dei francesi,<br />

o come se in precedenza il carattere degli americani fosse<br />

stato debolmente anticomunista, debolmente filocapitalista,<br />

debolmente antistatalista ecc. Dice anche che<br />

il neoconservatorismo non è un movimento ma “una<br />

‘persuasione’, che si manifesta di tanto in tanto, ma<br />

in modo discontinuo, e il cui significato profondo viene<br />

compreso solo in retrospettiva”. Tradotto in parole<br />

meno alate, il neoconservatorismo americano è una rete<br />

articolatissima di ideologi, accademici, leader sindacali,<br />

opinionisti, lobbysti, dirigenti politici, che si adattano<br />

mimeticamente ai più svariati contesti per diffondere<br />

“una ideologia di destra piuttosto raffinata, gratificante<br />

per le élite e comprensibile per le masse” 3 . Su questioni<br />

marginali possono essere in contrasto gli uni con gli altri,<br />

così come possono essere differenti le elaborazioni<br />

programmatiche dei vari think tank (“serbatoi di pensiero”)<br />

a cui fanno capo, ma ciò che conta è che tutti<br />

perseguano gli stessi scopi.<br />

1 Juan-Ramón Capella, La nuova barbarie. La globalizzazione<br />

come controrivoluzione conservatrice. Dedalo, Bari, <strong>2008</strong>,<br />

p. 151.<br />

2 Irving Kristol, The Neoconservative Persuasion, The Weekly<br />

Standard, Volume 008, 25 agosto 2003; trad. it.: Irving<br />

Kristol spiega chi sono i neocon, Il Foglio, 19 agosto 2003;<br />

cfr. Irving Kristol, Neoconservatism: The Autobiography of<br />

an Idea, The Free Press, 1995, trad. it.: Neoconservatorismo:<br />

autobiografia di un’idea, Nuove Idee, Roma, 2005.<br />

3 Mario Proto, I due imperi. Ideologie della guerra tra modello<br />

prussiano e neoconservatorismo americano, Lacaita,<br />

Manduria-Bari-Roma, 2005, p. 224.<br />

Nella seconda metà degli anni Sessanta, prima ancora<br />

di chiamarsi “neoconservatori”, i transfughi dal Partito<br />

Democratico già elaboravano delle strategie finalizzate<br />

a influire sulla opinione pubblica e sulle decisioni del<br />

governo. Le elaboravano su invito delle organizzazioni<br />

che avevano allestito i think tank, e queste erano la<br />

Rockefeller Foundation, la Hoover Institution, la Ford<br />

Foundation, la Heritage Foundation, l’American Enterprise<br />

Institute ecc., ossia entità create dalle massime corporation<br />

affinché, sotto la copertura di attività culturali<br />

e benefiche, preparassero con la dovuta lungimiranza i<br />

piani per il dominio del mondo da parte della economia<br />

americana, dominio che doveva essere conquistato provocando<br />

il crollo della Unione Sovietica e inducendo i<br />

governi dei paesi amici a non porre limiti alla libera circolazione<br />

delle merci e dei capitali. Per raggiungere più<br />

in fretta tali obiettivi David Rockefeller fondò nel 1973<br />

la Trilateral Commission, che doveva rendere più stretti<br />

i legami politici ed economici fra i tre blocchi del mondo<br />

occidentale, cioè fra Stati Uniti, Europa e Giappone, con<br />

il fine - stando alla sua storica precisazione - di “sostituire<br />

la sovranità dei popoli con una élite mondiale di tecnici<br />

e di finanzieri che governi nell’ombra” 4 . Il progetto<br />

della futura globalizzazione nacque da lì.<br />

I neocon della prima generazione non erano nati conservatori.<br />

Erano stati giovani negli anni Trenta e le loro<br />

simpatie erano andate al New Deal, al sindacalismo<br />

battagliero, in qualche caso alla rivoluzione permanente<br />

propugnata da Trotzky, o alle tesi marxiste di un<br />

suo amico, Max Shatchman. Le conversioni dagli ideali<br />

superprogressisti al superconservatorismo furono<br />

determinate dalla insoddisfazione per la politica degli<br />

anni Sessanta, giudicata troppo accondiscendente nei<br />

confronti dell’Unione Sovietica, troppo tollerante nei<br />

confronti dei ribellismi pre e post sessantotteschi e inefficiente<br />

nel Vietnam. Parallelamente alla conversione<br />

ideologica ci fu la adesione, pur con qualche differenza<br />

tra adepto e adepto, alle teorie di tre patriarchi del<br />

liberismo novecentesco: Ludwig von Mises, Friedrich<br />

von Hayek e Milton Friedman. I primi neocon liberatisi<br />

dall’influenza di Max Shatchman passarono sotto quella<br />

di Leo Strauss, un filosofo dell’autoritarismo e dell’elitismo<br />

che insegnava nell’università di Chicago e avviava<br />

gli allievi più dotati a brillare nei think tank. Furono<br />

gli straussiani e i loro seguaci quelli che insistettero affinché<br />

si inasprisse la politica antisovietica. Tra l’altro<br />

affermavano che era necessario sostenere dovunque i<br />

governi di destra, compresi i regimi dittatoriali, perché<br />

erano baluardi sicuri contro il comunismo (ricordiamoci<br />

di Pinochet in Cile e di Marcos nelle Filippine).<br />

I neocon “sono un potente partito di intellettuali” scrisse<br />

Peter Steinfels nel 1979 5 . Infatti, già allora potevano<br />

contare su centinaia di organizzazioni di simpatizzanti<br />

sparse per tutto il territorio. La prima dimostrazione<br />

della loro potenza fu l’elezione di un presidente come<br />

Ronald Reagan che garantiva l’attuazione di un pro-<br />

4 Bruno Cardeñosa, El gobierno invisibile. Think tank. Los<br />

hilos que manejan el mundo, Espejo de tinta, Madrid, 2007,<br />

p. 86.<br />

5 Peter Steinfels, I neoconservatori. Gli uomini che hanno<br />

cambiato la politica americana, Rizzoli, Milano, 1982, p. 14.<br />

Poliscritture/Storia adesso Pag. 62


gramma preparato dai “cervelli” neocon della Trilateral<br />

Commission, della Hoover Institution, dell’American<br />

Enterprise Institute e della Heritage Foundation, al fine<br />

di contrastare, con il rilancio dei “valori tradizionali”, la<br />

cultura democratica dominante fin dai tempi di Franklin<br />

Delano Roosevelt. Al centro delle “proposte” neocon<br />

c’era una politica estera più aggressiva, il massimo di<br />

libertà per le imprese e campagne di spoliticizzazione<br />

delle masse 6 . L’amministrazione Reagan (1981-89) attuò<br />

una sostanziosa riduzione delle imposte dirette, la<br />

abolizione della progressività fiscale, e applicò il principio<br />

dello “Stato minimo”, cioè limitò il controllo statale<br />

sull’economia mediante una serie di provvedimenti<br />

che rientravano nella “filosofia” della deregulation lanciata<br />

dalla Scuola Economica di Chicago nel 1970 e in<br />

parte avviata da Carter. In conformità con l’esaltazione<br />

dell’individualismo e della libera iniziativa si ridussero i<br />

fondi per il Social Welfare State, ma il disavanzo e il debito<br />

pubblico non decrebbero, perché si provvide ad aumentare<br />

le spese per gli armamenti fino a cifre record. I<br />

neocon che facevano parte dello staff di Reagan premevano,<br />

in conformità con i disegni delle corporation, per<br />

una politica più spregiudicata in difesa degli interessi<br />

degli Stati Uniti. Il rispetto di tali interessi, aldilà della<br />

realpolitik alla Kissinger e di ogni possibile appeasement,<br />

doveva essere imposto al resto del mondo anche<br />

con la forza, e gli Stati dovevano essere distinti in “amici”<br />

e “nemici”, con l’implicito avvertimento che contro i<br />

nemici ci si doveva sentire permanentemente in guerra.<br />

Inoltre era opportuno che in materia di politica estera<br />

e di armamenti l’esecutivo acquisisse <strong>maggio</strong>ri poteri,<br />

sottraendo potere al Congresso, alle leggi esistenti, e in<br />

generale al “controllo dal basso”. Si applicava, insomma,<br />

con la formula di un “unitary executive”, il Führerprinzip<br />

di Carl Schmitt rimodernato da Leo Strauss. Con<br />

l’occasione si rivitalizzarono vecchi miti come quello<br />

dell’“eccezionalismo americano”, della “frontiera”, del<br />

“destino manifesto”, e così il neoconservatorismo, trasformato<br />

mediaticamente in “reaganismo”, si affermò<br />

come ideologia di massa (non a caso Reagan fu definito<br />

il “grande comunicatore”).<br />

Il passaggio di consegne dalla prima alla seconda generazione<br />

dei neocon si ebbe tra il 1994 e il 1997. Nel<br />

’94 il candidato repubblicano Newton Gingrich presentò<br />

agli elettori il famoso “Contratto con l’America”, un<br />

programma politico totalmente liberista che consentì al<br />

Partito Repubblicano di riconquistare la <strong>maggio</strong>ranza<br />

nel Congresso, come detto sopra, e di dichiarare definitivamente<br />

attuata la “Rivoluzione neoconservatrice”.<br />

Nel ’95 William Kristol (il figlio di Irving) fondò insieme<br />

ad altri e poi diresse “The Weekly Standard” (un<br />

settimanale finanziato da Rupert Murdoch), che fin<br />

dall’inizio entrò baldanzosamente in collisione con tutto<br />

ciò che si opponesse alle concezioni neocon. Nel ’97 lo<br />

stesso Kristol, assieme a Wolfowitz, Cheney, Rumsfeld,<br />

Perle e altri, costituì il gruppo del Project for the New<br />

American Century il cui obiettivo era rendere operante<br />

a tutti gli effetti la leadership mondiale degli Stati Uniti.<br />

La seconda generazione proclamò che era arrivato il<br />

momento di consolidare il trionfo degli ideali america-<br />

6 Juan-Ramón Capella, op. cit., p. 169.<br />

ni, riconosciuto ormai dal mondo intero dopo il crollo<br />

dell’Unione Sovietica, mediante nuove dimostrazioni di<br />

forza, e in breve tempo riuscì a far accettare dalla <strong>maggio</strong>ranza<br />

dei cittadini il rifiuto di ogni ipotesi di pacificazione,<br />

dimostrando che non la pace, bensì le guerre<br />

avrebbero garantito la loro sicurezza. Ora che non c’è<br />

più il pericolo di uno scontro frontale con una potenza<br />

dotata di forze pari o quasi pari, non la guerra per reazione,<br />

come in passato, ma quella preventiva diventa il<br />

mezzo per tutelare gli interessi degli Stati Uniti. Dovunque<br />

si creino i presupposti per un conflitto tra Stati o si<br />

attui all’interno di uno Stato una politica “inaccettabile”,<br />

è dovere del governo degli Stati Uniti intervenire: dovere,<br />

non arroganza. Così si espressero, a nome dell’intero<br />

apparato neocon, William Kristol e Robert Kagan. Al<br />

fine di evitare fraintendimenti Michael Ledeen, ex eminenza<br />

grigia fluttuante per la Casa Bianca dai tempi di<br />

Reagan agli attuali, condensò il suo pensiero in questa<br />

frase: “The best democracy program ever invented is<br />

the U.S. Army” (“Il miglior programma di democrazia<br />

mai inventato è l’Esercito degli Stati Uniti”).<br />

C’è stato un crescendo nella aggressività dei neocon:<br />

durante la Guerra Fredda avevano dovuto raffreddare<br />

il proprio bellicismo dato che l’orientamento prevalente<br />

era favorevole al rispetto delle regole, ma dal crollo<br />

dell’Unione Sovietica in poi non si stancarono mai di<br />

ripetere che bisognava instaurare un “nuovo ordine<br />

mondiale” (espressione coniata dal presidente Bush<br />

Sr.) e bollarono come “paleoconservatori” e “pessimisti<br />

di professione” i conservatori liberali che ancora<br />

ritenevano doveroso rispettare le “convenienze” vigenti<br />

nell’ambito dei rapporti fra gli Stati. Nuovo ordine<br />

mondiale significa che agli Stati Uniti compete la “responsabilità”<br />

di agire militarmente, con o senza il beneplacito<br />

dell’ONU, per instaurare regimi formalmente<br />

democratici dovunque sia possibile e debellare gli “Stati<br />

canaglia”. Significa che il multilateralismo, nonostante<br />

abbia garantito per decenni un certo equilibrio internazionale,<br />

deve essere relegato fra le strategie obsolete e<br />

che oggi non è “obiettivamente” concepibile altra logica<br />

che quella dell’unilateralismo: perché oggi gli Stati Uniti<br />

sono l’unica superpotenza: the lonely superpower 7 .<br />

Irving Kristol e compagni sostengono che il neoconservatorismo<br />

è un movimento diverso dal vecchio conservatorismo<br />

americano, e quindi nuovo, perché basato<br />

sul pragmatismo e non sul liberalismo utopistico caro ai<br />

vecchi conservatori.<br />

Ma le cose stanno davvero così?<br />

La loro azione, in conformità con quanto richiesto dalle<br />

corporation, tendeva a imprimere un indirizzo imperialista<br />

più deciso alla politica degli Stati Uniti, dato che<br />

tale imperialismo sarebbe stato la protezione più idonea<br />

per il mercato finanziario globale. E bisogna dire<br />

che hanno raggiunto lo scopo, essendosi inseriti nei posti<br />

chiave dell’amministrazione ai tempi di Reagan ed<br />

essendo riusciti a mantenervisi durante la presidenza<br />

Clinton. Però bisogna dire anche che sul piano ideologico<br />

i neocon non sono stati degli innovatori, non hanno<br />

7 Samuel Huntington, The Lonely Superpower, Foreign Affairs,<br />

marzo/aprile 1999.<br />

Poliscritture/Storia adesso Pag. 63


“superato” affatto le vecchie correnti del conservatorismo<br />

americano.<br />

Vediamo qual era la situazione fino alla seconda metà<br />

degli anni Sessanta, cioè fino al formarsi del primo “serbatoio”<br />

di neocon.<br />

Gli storici distinguono fra una Vecchia Destra conservatrice<br />

anteriore, e una Vecchia Destra posteriore alla<br />

I Guerra Mondiale. La anteriore era caratterizzata da<br />

un nazionalismo esclusivo, dal culto dell’”eccezionalismo<br />

americano”, dal tradizionalismo, dal fondamentalismo<br />

religioso, nonché da un orientamento libertarian<br />

(il libertarianismo è il liberalismo classico depurato da<br />

ogni ascendenza razionalista o illuminista e proiettato<br />

verso un antistatalismo estremistico). Dopo la guerra<br />

il conservatorismo diventò l’asse portante del Partito<br />

Repubblicano e poi, dal 1921 fino al 1933, della politica<br />

di presidenti come Warren Harding, Calvin Coolidge<br />

e Herbert Hoover. Sui principi base si innestò il mito<br />

dello sviluppo economico indefinito, che la crisi del ’29<br />

provvide a demolire, però i conservatori insistettero<br />

nel loro arroccamento sui postulati del liberismo puro,<br />

quindi nel rifiuto dell’intervento statale nell’economia.<br />

Nel 1943, in piena guerra, fu fondato l’American Enterprise<br />

Institute per svolgere un’azione di contrasto<br />

al New Deal e difendere la libertà delle imprese. Nel<br />

1944, Friedrich August von Hayek pubblicò The Road<br />

to Serfdom (trad. it.: La via della schiavitù, Rusconi,<br />

1995) una requisitoria contro marxismo e socialismo e<br />

soprattutto contro la cultura liberal. Del libro si fece un<br />

riassunto che fu pubblicato nel “Reader’s Digest” e se ne<br />

vendettero milioni di copie. Hayek non ammetteva l’intervento<br />

statale neanche in una situazione catastrofica<br />

come quella generata dalla crisi del ’29: secondo lui il<br />

ruolo dello Stato deve consistere nel creare le leggi che<br />

agevolino la libera concorrenza, e basta.<br />

Illustri rappresentanti del pensiero conservatore furono<br />

Richard Weaver (1910-63), filosofo platoneggiante<br />

campione del tradizionalismo più intransigente, e Russel<br />

Kirk (1918-94), anche lui campione del tradizionalismo,<br />

oltre che dell’antiegualitarismo e dell’antiprogressismo<br />

(come risulta dalla sua opera più famosa: The<br />

Conservative Mind. From Burke to Santayana, 1953),<br />

tanto che sarà considerato il padre del neoconservatorismo<br />

culturale. Albert Nock (1870-1945) e Henry Mencken<br />

(1880-1956) furono per un trentennio la coppia<br />

libertarian più autorevole degli Stati Uniti, sostenitori<br />

dell’individualismo e dell’antistatalismo anche durante<br />

il New Deal. Grandissima diffusione ed enorme importanza<br />

per la divulgazione della visione libertarian del<br />

mondo ebbero negli anni Trenta e Quaranta i romanzi<br />

“filosofici” di Ayn Rand (alias Alyssa Rosenbaum, 1905-<br />

82), nei quali veniva esaltato l’individualismo e il diritto<br />

naturale in un’ottica anticomunista, antisocialista,<br />

antistatalista (uno di quei romanzi, We, the Living, del<br />

1936, fu tradotto anche in Italia) 8 . Più accademico ma<br />

non meno importante per la formazione di intellettuali<br />

8 Il titolo italiano è: Noi vivi, Baldini & Castoldi, Milano, 1938.<br />

Nel 1942 il regista Goffredo Alessandrini ne trasse un film in<br />

due parti intitolato: Noi vivi - Addio Kira, che doveva fungere<br />

da supporto alla propaganda antisovietica. Era in corso la<br />

Campagna di Russia.<br />

e politici conservatori fu Murray Rothbard (1926-95),<br />

un altro strenuo difensore del diritto di proprietà illimitato,<br />

di una economia del libero mercato integralmente<br />

anarchica, di un antistatalismo spinto fino al punto di<br />

accusare lo Stato di “ladrocinio” non solo quando impone<br />

tasse, ma anche quando batte moneta e gestisce<br />

la banca centrale: è considerato l’ideologo del moderno<br />

libertarianismo. Non meno significativo fu Robert Taft<br />

(1889-1953), che concorse per la nomination di candidato<br />

del Partito Repubblicano nelle primarie del 1940,<br />

del 1948 e del 1952, e che è riconosciuto come il principale<br />

ideologo del conservatorismo americano moderno:<br />

propugnava l’antistatalismo, l’individualismo, e la opposizione<br />

al welfare e al sindacalismo. Grande importanza<br />

per il pensiero conservatore ebbero le riviste “National<br />

Review” e “Modern Age”, fondate rispettivamente nel<br />

1955 e nel 1957, che contribuirono a preparare le nuove<br />

generazioni di conservatori.<br />

Una roccaforte del conservatorismo anteriore e posteriore<br />

alla II Guerra mondiale fu la Hoover Institution on<br />

War, Revolution and Peace, fondata nel 1919 da Herbert<br />

Hoover, il futuro presidente. Si impegnava in una costante<br />

propaganda per rivendicare il massimo di libertà<br />

per l’economia e il minimo di potere per lo Stato. Altrettanto<br />

faceva la Fondazione Rockefeller che era stata<br />

creata sei anni prima della Hoover, e che si era distinta<br />

per i suoi interventi filantropici come la lotta contro la<br />

tubercolosi, il tifo, la febbre gialla e la malaria (per combattere<br />

la malaria fu presente anche in Italia nel periodo<br />

fascista). Nel 1960 Frank Meyer scrisse: “Negli ultimi<br />

anni il pensiero conservatore è cresciuto e si è diffuso in<br />

America più che nell’ultimo secolo” 9 .<br />

L’anticomunismo dei vecchi conservatori non ammetteva<br />

cedimenti e fu bellicoso già prima della II Guerra<br />

Mondiale, ma ancor più dopo, quando esigeva da ogni<br />

presidente che esacerbasse gli scontri con l’Unione Sovietica<br />

o vincesse quotidianamente la Guerra fredda. Da<br />

quel tipo di anticomunismo si originò la famigerata caccia<br />

alle streghe del senatore repubblicano Joseph Mc-<br />

Carty, che tra il 1950 e il 1954 fece della “paura rossa”<br />

lo strumento della persecuzione nei confronti di ogni<br />

essere umano sospetto di filocomunismo. Negli anni<br />

kennedyani il conservatorismo non venne mai meno,<br />

anzi poté vantare nel senatore repubblicano Barry Goldwater<br />

il suo grande campione, da molti considerato il<br />

fondatore del conservatorismo moderno. Tanto fondatore<br />

non fu, perché non c’era alcun bisogno di rifondare<br />

un sistema di idee già compiutamente stabilizzato, ma<br />

propulsore lo fu senz’altro, nonostante il suo insuccesso<br />

nelle elezioni presidenziali del 1964, quando fu battuto<br />

clamorosamente da un Lyndon Johnson favorito dall’essere<br />

stato il vice del martire John Kennedy. Era un liberista<br />

estremista, proponeva una drastica limitazione del<br />

welfare, la riduzione delle imposte, la abolizione della<br />

progressività fiscale, la abrogazione delle leggi che consentivano<br />

il controllo dello Stato sulla economia: proponeva<br />

tutto ciò in nome del diritto naturale di arricchirsi<br />

9 Frank. S. Meyer, Only Four More Years to 1964, National<br />

Review, 3 dicembre 1960, cit. in Giuseppe Mammarella, Liberal<br />

e conservatori. L’America da Nixon a Bush, Laterza, Bari,<br />

2004, p. 31.<br />

Poliscritture/Storia adesso Pag. 64


o di difendersi da soli dalla povertà e dal bisogno. Era<br />

ovviamente un tradizionalista, esaltatore prima di tutto<br />

dei principi di patria e famiglia, e anticomunista viscerale,<br />

così come visceralmente era contro l’estensione dei<br />

diritti civili e contro l’emancipazione delle donne e delle<br />

minoranze di colore. L’Unione Sovietica era il suo incubo,<br />

ma lo era anche per tutti i gruppi della Vecchia Destra,<br />

i quali sollecitavano costantemente ulteriori sforzi<br />

per accrescere gli armamenti. Logicamente avevano diviso<br />

il mondo in Stati “amici” e “nemici”.<br />

In conclusione, tenendo conto di tutti i “contributi” offerti<br />

dai vari personaggi alla causa del conservatorismo<br />

prima del 1970, appare chiaro che quanto i neocon teorizzarono<br />

e affermarono in seguito non costituisce una<br />

novità né una innovazione, ma solamente un ricalco di<br />

quanto era stato teorizzato e affermato in precedenza.<br />

Pertanto la Nuova Destra neocon altro non è che una<br />

versione aggiornata della Vecchia Destra posteriore alla<br />

I Guerra mondiale, che era già di per sé antistatalista,<br />

antidirigista, antikeynesiana, antiwelfare, antimodernista,<br />

antifemminista, tradizionalista, sessuofobica e profondamente<br />

fondamentalista per tutto ciò che riguardava<br />

la patria, la famiglia e la religione. Insomma, cambiano<br />

i nomi ma la sostanza, anche se viene presentata<br />

sotto una nuova forma, rimane pressoché la stessa: ciò<br />

comincia a essere riconosciuto anche da alcuni neocon,<br />

segno che si sentono sicuri nelle posizioni conquistate. I<br />

più coscienziosi già non gradiscono più che li si chiami<br />

neocon.<br />

Dunque il neoconservatorismo non ha elaborato nulla<br />

di nuovo? Non ha nulla di nuovo da esibire nell’ambito<br />

della realtà politica americana?<br />

Sì, qualcosa ha elaborato, che però non ha nulla a che<br />

fare con il concetto di conservazione. Il nuovo che può<br />

esibire è la enunciazione di un presunto diritto degli<br />

Stati Uniti alla guerra preventiva in difesa degli interessi<br />

degli Stati Uniti o con lo scopo di prevenire ipotetiche<br />

guerre future. Nuova è anche l’enunciazione del<br />

principio secondo il quale gli Stati Uniti devono essere<br />

liberi di agire secondo la propria visione del mondo,<br />

all’occorrenza prescindendo dall’ONU e da qualsiasi<br />

convenzione internazionale, perché sono l’unica superpotenza,<br />

e ad essa spetta esercitare l’egemonia. Che è<br />

una “benevolent hegemony”, a detta di William Kristol<br />

e Robert Kagan 10 .<br />

10 William Kristol, Robert Kagan, Toward a Neo-Reaganite<br />

Foreign Policy, Foreign Affairs, luglio/agosto 1996.<br />

Poliscritture/Storia adesso Pag. 65<br />

O. Garbin, L’aquila prigioniera


O. Garbin, Piazza del convento<br />

Figure dolenti<br />

Galleria di ricordi tra racconto<br />

e riflessione<br />

Donato Salzarulo<br />

Credo si chiamasse Michele. Aveva un anno o due più di<br />

me. Si era adolescenti.<br />

Stavamo un giorno affacciati sul parapetto di piazza<br />

Convento, quella che, come la siepe leopardiana, apre<br />

allo sguardo l’ultimo orizzonte. Si stava lì a godersi il<br />

pomeriggio di sole appenninico, quasi in silenzio o raccontandosi,<br />

come spesso si faceva, donne e sogni. Un<br />

urlo ci colpì. E due secondi dopo vedemmo Michele<br />

crollare per terra e il suo corpo farsi elettrico, tremare,<br />

sbattere, sussultare. «Tenetegli la testa, tenetegli la<br />

testa» ingiunse una voce adulta proveniente dalla panchina<br />

sotto il tiglio della piazza. «Tenetegli la testa…<br />

Potrebbe farsi male». Ma noi si era paralizzati, terrorizzati.<br />

Una manciata di secondi ancora e quel corpo in<br />

preda a se stesso, alla sua crisi si calmò. Il viso pallido,<br />

funereo. All’angolo delle labbra una striscia di bava. Re-<br />

5 Zibaldone<br />

i c a n t i e r i a p e r t i d e l l a s c r i t t u r a<br />

stò per terra immobile diversi minuti con noi, intimoriti,<br />

a cercare di prestargli soccorso. Poi arrivò il padre e<br />

il fratello più grande.<br />

In seguito seppi che si trattava di crisi epilettica. In seguito,<br />

andato via da più di un decennio dal paese, seppi<br />

della morte di Michele. Non so se per epilessia o per<br />

qualche sua complicazione. Oggi mi pare che per questa<br />

malattia non si muoia e che il “mal caduco”, come popolarmente<br />

si chiamava una volta, è tenuto abbastanza<br />

sotto controllo dai farmaci.<br />

A Michele ho sempre ripensato, quando ho avuto in<br />

classe alunni epilettici, quando ho acquisito parenti dichiarati<br />

sofferenti di questo male, quando un po’ di anni<br />

fa ho letto L’idiota. Dostoevskij soffriva di epilessia e<br />

come lui il principe Myškin, eroe del romanzo.<br />

La malattia irrompe nella quotidianità, è dentro. Da ragazzi<br />

si stava in bande. A scuola terminata, bel tempo o<br />

maltempo, si andava per le strade a sfidarci, a lanciarci<br />

sassi, a bussare alle porte, a rovesciare conche d’acqua<br />

piovana raccolta dai canali, a giocare al piattello,<br />

a figurine, a salta la cavallina. Tra di noi, ai margini, si<br />

aggirava un mio omonimo. Ben più grande, però. Sui<br />

vent’anni forse. Non frequentava quelli della sua età,<br />

ma non frequentava neanche noi (come avrebbe potuto?).<br />

Ciondolava silenzioso, guardando furtivamente,<br />

orecchiando. A volte si allungava sui sedili, su un parapetto<br />

di muro, sulle scale di una loggia. Inoperoso come<br />

un buono a nulla. Parlava<br />

spesso da solo. Qualche<br />

volta qualcuno lo mandava<br />

a riempir barili alla fontana.<br />

E lo si vedeva trascinare<br />

litri d’acqua sulle spalle.<br />

Non era cattivo, ma noi lo<br />

rendevamo tale. Quando<br />

lo vedevamo aggirarsi disadattato<br />

tra l’una e l’altra<br />

età, col cranio rasato a zero,<br />

cominciavamo a prenderlo<br />

in giro, a chiamarlo col<br />

suo nomignolo, a tirargli<br />

sassi. E lui ci rincorreva, ci<br />

minacciava, ce ne diceva di<br />

tutti i colori. Un po’ paura<br />

di lui ce l’avevamo, un po’<br />

ce la procuravamo. Donato<br />

col suo pantalone di tela e<br />

la giacca scura e sdrucita<br />

faceva da spettro alla nostra<br />

fanciullezza. Un giorno<br />

non l’abbiamo visto più.<br />

«L’hanno portato ad Aver-<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 66


sa, al manicomio.» dicevano concordi le voci del paese.<br />

Quando a Torino, tra il ’67 e il ’68, tra l’occupazione di<br />

Palazzo Campana e il primo esame di pedagogia generale,<br />

ho letto alcuni libri di Laing, mi sono chiesto di cosa<br />

soffrisse il mio omonimo. Io diviso? Psicosi? Schizofrenia?<br />

Boh. Donato non mi sembrava così pericoloso da<br />

dover essere rinchiuso. Cosa era successo? Cosa aveva<br />

fatto di tanto grave? Boh. Forse avevamo voluto semplicemente<br />

togliercelo dall’anima.<br />

A legge Basaglia approvata, col decreto di chiusura dei<br />

manicomi, tornando in vacanza al paese, ho spesso sperato<br />

di rincontrare il mio sfortunato omonimo. Nulla.<br />

Una voce un giorno mi disse che aveva dei parenti in<br />

Puglia. Forse stava lì. O forse era morto.<br />

Non posso testimoniare. Non ho visto coi miei occhi.<br />

Il racconto, però, mi è stato fatto da gente fidata: mio<br />

fratello, mia sorella, mia madre, mio padre…Erano lì,<br />

erano in casa. C’erano anche zio Antonio e zia Maria. Lo<br />

facevano spesso, dopo cena. Si raccoglievano intorno al<br />

camino per chiacchierare, spettegolare, litigare. Io avevo<br />

altre esigenze ed ero a caccia di sguardi femminili<br />

nella piazza del paese. Tornando a notte fonda, ad occhi<br />

e mani vuote, come quasi sempre accadeva, mia madre<br />

che riordinava: «Figlio mio, non puoi immaginare cosa<br />

è successo stasera!...Tua zia!...La sarta!...Due uomini<br />

non riuscivano a mantenerla. Urlava come una pazza<br />

contro di me. Rossa in faccia. Invasata. Completamente<br />

invasata. Coi capelli che ognuno se ne andava per i fatti<br />

suoi. Ha avuto una crisi.»<br />

La zia sarta era una cugina di mia madre. Sposata a un<br />

calzolaio, non aveva potuto coronare il suo sogno di maternità.<br />

Ce l’aveva così con tutte le donne, soprattutto le<br />

parenti, che di figli ne avevano almeno tre e non erano<br />

certo più “intelligenti” di lei. Su questo punto la zia non<br />

transigeva. L’intelligenza ce l’aveva tutta lei e lei poteva<br />

fare ben altro che la sarta, se…Insomma, delirava un<br />

po’. E siccome sembra che torni a piovere dove già piove,<br />

la zia, oltre alla sfortuna di non avere figli, visse la<br />

tragedia di un unico fratello morto in Germania ancora<br />

giovane e in circostanze tutt’altro che chiare. Il corpo fu<br />

ritrovato in un lago e non si capì se ci finì coi suoi piedi<br />

accidentalmente o intenzionalmente. Si congetturò anche<br />

che qualcuno ce l’avesse spinto.<br />

Con la sua morte lasciò una vedova e un figlio. Come<br />

si può immaginare il pargoletto venne risucchiato dalla<br />

zia.<br />

Ecco, la malattia ha questa capacità di risucchiare. Per<br />

questo probabilmente la si teme. Quale fosse la diagnosi<br />

per la zia non so. Quasi certamente quella sera in casa<br />

nostra ebbe una crisi psicotica. Fu ricoverata in una clinica<br />

ad Avellino. In quelle camere tornò, mi pare, altre<br />

volte, quando la sofferenza e il dolore dell’esistenza l’avvolgevano<br />

in un vortice.<br />

Finché abitava nella piazza del paese, sempre, nel periodo<br />

delle vacanze, andavo a salutarla. Di lei, dei suoi<br />

occhi guardinghi e stralunati, del suo passo felpato, della<br />

sua figura bassa e fragile, non ho mai avuto paura.<br />

L’ho guardata, invece, sempre con attenzione e affetto,<br />

curiosità e gentilezza. Soprattutto dopo l’ingestione di<br />

testi psicanalitici e di “anti-psichiatria” consumatasi a<br />

partire dal movimentato anno torinese.<br />

La zia ora è morta. In famiglia ogni tanto ne parliamo.<br />

È quasi inevitabile quando vediamo il suo unico nipote,<br />

nostro parente, anche lui ormai cinquantenne e orfano<br />

ormai di tutti (padre, madre, zia), passeggiare sulla<br />

piazza del paese. Solo, non sposato e ovviamente senza<br />

figli.<br />

Ogni tanto scherzo con mio fratello e mia sorella. «Stiamo<br />

attenti – dico – in famiglia abbiamo una bella riserva<br />

di folli, sia sulla linea materna che su quella paterna».<br />

Infatti, oltre alla zia sarta, un’altra cugina di mia madre<br />

è ricorsa di tanto in tanto alle cure degli “psi”. Avevano<br />

lo stesso nome. Ma per il paese era “la rossa”. Inutile<br />

dire che penso al Verga di “rosso malpelo” e che lo stigma<br />

se lo portava già nel nomignolo. Poi abitava vicino<br />

al cimitero. Da bambini, quindi, doppia paura. Meno<br />

male che mia madre non era una grande frequentatrice<br />

di tombe e le capitava di portare un lumino sulla lapide<br />

di suo padre, morto relativamente giovane, soltanto<br />

in occasione della ricorrenza annuale. Allora ci teneva<br />

e dovevamo andare con lei. Impossibile non fermarsi a<br />

casa della zia. Nel quarto d’ora di conversazione ci tenevamo<br />

ben stretti alle sue ginocchia. Del resto era stata<br />

proprio lei a metterci in guardia sull’imprevedibilità dei<br />

comportamenti della cugina. Se devo dire quel che penso,<br />

mia madre esagerava. La zia era a mio parere innocua.<br />

Indubbiamente segnata. Nubile, forse senza amori.<br />

A disagio nella sua esistenza o nel suo stato sociale. Il<br />

paese poi sapeva essere istituzione totale. Per cui la zia,<br />

avendo avuto la madre fuori di sé per il figlio morto in<br />

Russia e altre tragedie, non poteva non essere anche lei<br />

un po’ fuori di sé. Tra le famiglie si facevano strani ragionamenti<br />

sulle eredità delle malattie. Se ti capitava di<br />

appartenere a una “famiglia di pazzi” eri messo piuttosto<br />

male. Il pregiudizio funziona sempre. Anche oggi la<br />

pressione contro la legge 180 e la richiesta di tanto in<br />

tanto sbandierata di riapertura dei manicomi si nutre<br />

più di pregiudizi che di argomenti razionalmente fondati.<br />

La follia non sta di casa soltanto tra i folli dichiarati<br />

tali. E ve ne sono di diverse specie. Quella delle zie era,<br />

tutto sommato, innocua. Quella di certi capi di stato,<br />

invece, andrebbe forse più denunciata, contenuta, bloccata.<br />

Comunque, questa era la linea materna. Sulla paterna,<br />

c’è la storia di zio Cecco, la birba di famiglia.<br />

Il giorno che doveva sposarsi mia nonna andò a ritirarlo<br />

in una cantina. Se ne era dimenticato. Il matrimonio,<br />

si dice, è la tomba dell’amore e forse mio zio non voleva<br />

cascarci. Peccato che non animasse solo sequenze di<br />

questo tipo che oggi potrebbero apparire, per certi versi,<br />

simpatiche. Nel suo corpo germogliavano aggressività<br />

varie, violenze, azioni nocive e insopportabili. Fu meno<br />

fortunato delle zie. Finì in manicomio. Ero ancora bambino<br />

quando la sua esistenza si concluse.<br />

Ammetto: la follia piace ai romantici. C’è chi sostiene<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 67


che vada a braccetto con la genialità. Può darsi. Ma<br />

quando una mattina del 1978, varcato il cancello della<br />

scuola in Viale Lombardia, mi vedo venire incontro il<br />

custode allertato: «Attento! – mi dice – in Direzione, c’è<br />

uno che pensa di essere il vero direttore», beh, in questi<br />

casi, un brivido percorre il tuo corpo e non pensi più agli<br />

aforismi, ai giudizi, alle tesi più o meno fondate. Che<br />

faccio? La scuola è tutta in allarme. Dalle aule viene un<br />

mormorio, una finta indifferenza, un tramestio di maestre<br />

che provano a tener buoni i bambini e a continuare<br />

la lezione.<br />

«Oh, buongiorno! – dico – come va?». L’uomo sulla<br />

quarantina, in giacca e cravatta, installato alla scrivania,<br />

neanche mi sente e continua a dare ordini all’applicato<br />

che gli sta di fronte. «Io sono il direttore!...Io!...Non<br />

quel coglione!. Quello è un usurpatore, in combutta col<br />

Provveditore…Questo posto è mio!...E tu stai zitto e obbedisci!..»<br />

Come si fa a non obbedire? Così io e Nino, l’applicato,<br />

cerchiamo di conservare la calma, ingiungendoci con gli<br />

occhi il sangue freddo. Presidiamo intanto le porte; che<br />

non gli venga voglia di recarsi nelle aule; che si limiti a<br />

parlare con noi. Proviamo a capire. Ma c’è poco da capire.<br />

La canzone è sempre la stessa. Quel posto di direttore<br />

è suo e il titolare glielo avrebbe soffiato.<br />

Si va avanti così per una decina di minuti. Poi arrivano<br />

due infermieri. Non appena li vede, li riconosce e si alza.<br />

Non fa resistenza. I due lo chiamano per nome, lo prendono<br />

sottobraccio e lo portano via. Successivamente veniamo<br />

a sapere che abitava nel palazzone di fronte alla<br />

scuola, che era un emigrato, che viveva solo.<br />

Scherziamo col direttore (io allora facevo il vice): «Usurpatore<br />

di posti!...». Racconta di averlo incrociato, in<br />

provveditorato, una sola volta in vita sua. «Ah, quindi,<br />

un legame c’è!...»<br />

Chissà quante volte quell’uomo s’era affacciato al balcone<br />

e aveva visto maestre e bambini entrare ed uscire.<br />

Chissà quante volte aveva immaginato di poter essere<br />

altro da quel che era, rimediando, magari, a qualche suo<br />

fallimento. Direttore per un quarto d’ora. Meglio che<br />

niente.<br />

Sessione d’esame autunnale. Mattina presto. Viaggio in<br />

una carrozza per Torino. Me la sono scelta vuota. Ho con<br />

me il pacco di libri. Ci sono capitoli da ripassare, pagine<br />

da tornare a leggere, mappe da ripercorrere, concetti da<br />

fissare. Frenetico ruminare della memoria. Ho lavoro e<br />

famiglia, politica e passioni. Studio negli intervalli. Che<br />

nessuno mi disturbi in carrozza! A nessuno venga in<br />

mente di rivolgermi domande o di accendere frammenti<br />

di conversazione! Il mio capo calato sulle pagine aperte<br />

sarebbe di per sé un segno di chiusura, di barriera. Così<br />

rannicchiato sul sedile e concentrato, sento una voce altissima<br />

provenire dal corridoio: «Ooliooo cuooore!...Si<br />

beeevee con amoooree!».<br />

La voce, mio Dio!, si avvicina. Entra, è finita!, nella carrozza.<br />

Il compagno di viaggio è una persona alta e allampanata.<br />

Sedendosi, continua a ripetere quei versi di una<br />

pubblicità dell’epoca, se non sbaglio. Ha in testa un copricapo<br />

alla Napoleone e indossa un vestito sbrindellato.<br />

Da dove sbuca questo?!...Accidenti a lui! Certe volte<br />

si è egoisti non per partito preso. Semplicemente perché<br />

qualcuno ci fa saltare, con la sua sola presenza, il nostro<br />

piccolo o grande piano. «Ooliooo cuooore!...Si beeevee<br />

con amoooree!»<br />

«Come è andata la battaglia?», gli domando, «Quanti<br />

soldati sono morti?»<br />

Non risponde. Dopo pochi minuti di silenzio e di sguardo<br />

mio ben rivolto al suo, si alza e se ne va. Ci rimango<br />

male. Ormai m’ero distratto e incuriosito. Parlare un po’<br />

con lui non mi sarebbe dispiaciuto. Avevo probabilmente<br />

commesso qualche errore. Forse lui poteva pensare di<br />

essere Napoleone, io dovevo considerarlo, invece, soltanto<br />

una persona.<br />

Ascoltare e dialogare con chi sta male e soffre non è facile.<br />

Altre figure potrei “sistemare” in questa galleria. Conosciute<br />

personalmente o raccontatemi da altri: dalla mia<br />

alunna, in prima media, affetta da autismo alla madre<br />

depressa di un collega, dall’amico che in una crisi psicotica<br />

andò in giro nudo vicino alla Croce alla maniaca<br />

che raccoglieva carte per le strade fino a rimanerne<br />

sommersa. I vigili dovettero svuotarle l’unica stanza in<br />

cui abitava, un sottano, per il rischio elevato d’incendio.<br />

Poteva restarne bruciata.<br />

Giorni fa ho chiesto ad un amico poeta se avesse un contributo<br />

da proporre per questo numero di POLISCRIT-<br />

TURE sul “disagio”. Mi ha riposto, mica tanto scherzando,<br />

che, se volevo, poteva mandarmi la sua foto.<br />

Ecco, nella galleria, potrei mettere, oltre alla sua, anche<br />

la mia foto. Non solo per l’album di famiglia al quale<br />

ho accennato. Ma perché tutti soffriamo di malinconia<br />

e stati momentaneamente depressivi. Come evitare la<br />

morte di un nostro caro o di una nostra cara? Come non<br />

pensare alla nostra? Tutti manifestiamo manie, ingorghi<br />

psichici, indifferenze, invidie, rancori, nevrosi, stati<br />

schizoidi, paranoici, psicotici. Vorrei non aver nulla a<br />

che fare con Olindo e Rosa, i due rei quasi confessi di<br />

Erba. Giuridicamente non ho nessuna responsabilità<br />

per quanto è successo. Non c’ero neanche! Se televisione<br />

e stampa non mi tempestassero con le loro immagini<br />

fredde e assenti, non saprei nulla della loro esistenza.<br />

E, tuttavia, posso credere che il “funzionamento mentale”<br />

(cognitivo, affettivo, emotivo, neuronale ) di un folle<br />

e/o di un assassino sia così diverso dal mio? Se lo è, in<br />

cosa lo è? Dove, in quale punto, in quale momento, ogni<br />

storia si ramifica e singolarizza ed ognuno diventa un<br />

“caso” a sé? Perché Abele e perché Caino?...<br />

Domande da milioni di dollari si dirà. Argomenti inesauribili,<br />

buoni ad impegnare decine e decine di esistenze.<br />

Centinaia, migliaia. Però, noi siamo fatti così. Cerchiamo<br />

il senso. Non ci basta essere presenti in questo mon-<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 68


do, respirare, percepire, nutrirsi, lavorare, riprodursi.<br />

Vogliamo chiarirci e spiegarci, afferrare e comprendere.<br />

Siamo affamati di significati. Vogliamo capire ciò che ci<br />

accomuna e ciò che ci divide, ciò che ci rende simili e ciò<br />

che ci differenzia.<br />

In fondo, anche un assassino ha una testa (magari,<br />

non ben fatta come la vorrebbe Morin), un cuore e uno<br />

sguardo (magari, di ghiaccio), una doppia circolazione<br />

sanguigna, un funzionamento digestivo, metabolico e<br />

neuronale. Anche un assassino vede, sente, percepisce,<br />

parla, immagina, sogna, pensa. Vorremmo che fosse<br />

mostro, omuncolo o ciclope proveniente da un mondo<br />

totalmente altro. Belva, ad esempio, o marziano non di<br />

Marte. L’estraneità spaventa e, nello stesso tempo, rassicura.<br />

In fondo non siamo degli Hitler, non siamo impiegati<br />

anonimi e banali della fabbrica dello sterminio.<br />

Sì, forse sì. Per certi versi, sì. Non lo siamo. Non possiamo<br />

dimenticare, però, che folli, assassini, aguzzini, sterminatori<br />

sono impastati con la stessa farina degli Abeli,<br />

appartengono alla stessa specie di homo sapiens e/o<br />

insipiens. Questo, per la biologia almeno, per le neuroscienze.<br />

La biologia molecolare ci rende astrattamente<br />

uguali, la storia concretamente ci divide, differenzia, distingue.<br />

L’un contro l’altro armati.<br />

Due anni fa, a fine marzo, visito il museo di Art Brut di<br />

Losanna. Il suo teorizzatore è Jean Dubuffet, artista e<br />

collezionista francese. Nell’anno torinese tra le mani mi<br />

era capitato un suo libretto, «Asfissiante cultura». Ma<br />

allora per me la cultura non era asfissiante e non ne ricavai<br />

granché. Ecco un altro pregiudizio: gli studenti del<br />

’68 non erano contro la cultura. Erano contro l’autoritarismo<br />

e la cultura delle classi dominanti. Erano contro<br />

la maschera della “neutralità”.<br />

A Losanna riscopro Jean Dubuffet e la sua voglia di libertà<br />

e sovversione dei valori filosofici ed estetici dominanti.<br />

La cultura si fa asfissiante quando paralizza l’immenso<br />

patrimonio di creatività e intelligenza presente<br />

in ognuno di noi, quando blocca la forza dell’esistenza,<br />

la sua irriducibile base istintuale e “selvatica”. Il bisogno<br />

di espressione è incomprimibile. E, quando viene<br />

compresso, la malattia può dilagare meglio. I tantissimi<br />

normali, per lo più, soffrono d’impotenza creativa.<br />

Quante persone, dopo aver trascorso anni ed anni sui<br />

banchi di scuola, non prendono più in mano una penna,<br />

una matita, un libro? Quante persone si fanno prendere<br />

dal panico se devono scrivere un bigliettino d’auguri?<br />

A Losanna vado con un gruppo di studentesse e alcuni<br />

docenti dell’Accademia di Brera. Accompagno Lucia, la<br />

seconda figlia. Ha finalmente deciso l’argomento della<br />

sua tesi. Si concentrerà sulla vita e sulle opere di un<br />

artista “irregolare”, uno di quelli che Dubuffet amava:<br />

Aloïse Corbaz. Ha visto alcune sue tavole nel catalogo<br />

«Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa» e ne è<br />

rimasta affascinata. È anche intenerita dalla storia<br />

d’amore di questa donna. Nata a Losanna nel 1886, a<br />

27 anni, dopo essere stata costretta dalla sorella primogenita<br />

a rompere la sua relazione con un prete spretato,<br />

si trasferisce come istitutrice in Germania, nel castello<br />

di Potsdam. Qui investe affettivamente, come si direbbe<br />

oggi, niente meno che sul principe Guglielmo II. Sogno<br />

d’amore fiabesco, ardente e impossibile.<br />

Quando per lo scoppio della prima guerra mondiale,<br />

torna a Losanna e vede il suo sogno crollare, comincia<br />

a dare segni di squilibrio, ad assumere comportamenti<br />

strani, a fare dichiarazioni visionarie e deliranti.<br />

Sostiene, ad esempio, di essere stata messa incinta da<br />

Cristo; va gridando per le strade che le stanno rubando<br />

il fidanzato. In breve, finisce in manicomio a trentadue<br />

anni e vi rimane fino alla morte. Tra quelle mura lotta<br />

per esprimersi. Comincia a disegnare, raccogliendo furtivamente<br />

carte tra le immondizie da scarabocchiare nel<br />

gabinetto, scrive pagine di una sua cosmogonia e attraverso<br />

un processo di proiezione permanente, sostituisce<br />

il mondo antico di un tempo che la nega con il suo universo<br />

immaginario, molto complesso e strutturato. Da<br />

vittima si trasforma in creatrice.<br />

Nel 1941, la dottoressa Jacqueline Porret-Forel va ad<br />

incontrarla nella saletta di stiratura del manicomio, diventata<br />

suo feudo. Ne rimane affascinata. Comincia a<br />

portarle regolarmente carta e matite colorate. L’ascolta,<br />

comprende la sua attività, raccoglie i frammenti della<br />

sua storia, ne parla e scrive.<br />

Per compilare la sua tesi, Lucia non può non studiare gli<br />

scritti di questa dottoressa. Uno per tutti, la monografia<br />

«Aloïse et le théâtre de l’univers» pubblicata dall’Edizione<br />

d’Arte Skira di Ginevra.<br />

Ma la figlia non conosce il francese. Dovrò tradurre per<br />

lei. Ecco, tra l’altro, perché sono a Losanna.<br />

«Dai, papà, perché non dici che questi argomenti piacciono<br />

anche a te!...». Edipismi? Probabile.<br />

Fatto sta che da oltre due anni finisco col leggere storie<br />

di matti diventati artisti e storie di artisti diventati<br />

matti.<br />

Buon ultimo, Adolf Wölfli.<br />

Pochi mesi fa è stato tradotto in italiano il libro di Walter<br />

Morgenthaler del 1921 centrato sulla opera di questo<br />

artista che non sapeva di esser tale. Acquistandolo<br />

(titolo:«Arte e follia in Adolf Wölfli», ALET, 2007),<br />

guardo a lungo, nel retro di copertina, la sua foto. La<br />

mano destra è alzata, con l’indice rivolto verso un suo<br />

quadro. Ha in testa un basco nero, i pantaloni tenuti su<br />

con le bretelle, rigirati fino al ginocchio. Una camicia<br />

senza colletto, bianca, a mezze maniche e dei calzettoni<br />

da contadino, di lana ruvida, ripiegati sulla caviglia. È<br />

ritratto nella cella in cui si trovava nel 1920. In primo<br />

piano, nell’angolo a sinistra dell’osservatore, la pila dei<br />

suoi quaderni. Totale: 25.000 pagine scritte fittamente,<br />

contenenti la sua autobiografia. Sulla colonna di fascicoli,<br />

in inchiostro rosso granato, il grafico ha sovrapposto<br />

un giudizio di André Breton: “L’opera di Wölfli è<br />

una delle tre o quattro più importanti del Novecento.” È<br />

possibile farsene un’idea guardando le 25 tavole poste<br />

al centro del libro.<br />

In appendice, la cartella clinica: «Ospedale psichiatrico<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 69


G. De Vincenti, Il matto di Maduria<br />

di Waldau. Numero di ricovero: 4224 D 3. NOME: Wölfli<br />

Adolf. Data di nascita: 29.02.64 [1864, ovviamente].<br />

Stato civile: celibe. Professione: contadino. Paese di origine:<br />

Schangnau. Residenza: Berna. Domicilio: Carcere<br />

giudiziario, Bühlstr. 27, Berna. Indirizzo dei familiari:<br />

Ufficio del Giudice istruttore II, Berna Marzo 1922. Nipote:<br />

Rudolf Wölfli, fochista, Bellevue Palace, Berna.<br />

DIAGNOSI PROVVISORIA: Caso in fase di analisi. DIA-<br />

GNOSI DEFINITIVA: Dementia paranoides. Ricovero:<br />

3 giugno 1895. Dimissione: 6 novembre 1930», giorno<br />

della sua morte.<br />

Oltre alle 25.000 pagine dell’autobiografia, l’opera ciclopica<br />

di Sant’Adolf, come ad un certo punto comincia<br />

a firmarsi, comprende qualcosa come 1500 illustrazioni<br />

e 1560 collage.<br />

Racconto ad un’amica di Wölfli finito in manicomio, in<br />

totale isolamento, anche per alcuni suoi tentativi, non<br />

riusciti, di pedofilia: «Non parlarne – mi fa – non parlarne.»<br />

Il conformismo sociale è una cappa di piombo che avvolge<br />

ognuno di noi, è lo smog delle nostre anime. Quante<br />

volte, girando per le classi, inibisco manifestazioni d’affetto<br />

nei confronti dei bambini per paura che possano<br />

essere equivocate o male interpretate?<br />

Sono, come dubitarne?, dalla parte delle vittime non dei<br />

pedofili, delle stuprate non degli stupratori, degli oppressi<br />

non di chi opprime, degli assassinati non degli<br />

assassini. E, tuttavia, perché non abituarsi a valutazioni<br />

differenziate, a giudizi articolati? In fondo una persona<br />

non si esaurisce in un atto, in una scelta, buona o cattiva<br />

che sia. Una volta con termine forte, teologico, si diceva<br />

“redenzione”. In giurisprudenza mi pare si dica “ravvedimento”.<br />

L’importante è non schiacciare noi stessi e i<br />

nostri simili in un’identità-prigione, in una modalità di<br />

presenza che ci sottrae qualsiasi altra possibilità. Spesso<br />

ci imprigioniamo da soli e gli altri non fanno che rafforzare<br />

le sbarre invisibili edificate col nostro stesso contributo.<br />

Nella lista dei tuoi nemici, metti il tuo nome,<br />

recita, all’incirca, un verso di Fortini.<br />

Ogni tanto mi capita sotto gli occhi la cartella clinica di<br />

mia madre. Era una cardiopatica. Avevo quattro anni<br />

quando ebbe il primo scompenso. Lei ne aveva trenta.<br />

Mi ricordo bambino confuso e scombussolato dall’andirivieni<br />

di parenti e vicini di casa che si affollavano al suo<br />

capezzale. Mi tenevo stretto all’inferriata di un balcone<br />

con dei vasi di piante grasse pungenti, piangevo spaventato<br />

e chiedevo: «Cosa avete fatto a mamma mia!...<br />

Cosa avete fatto!...».Un medico le praticò un salasso,<br />

per fortuna superò la crisi, e il ricordo sbiadì.<br />

Avevo, però, ventitrè anni quando ebbe il secondo scompenso.<br />

Ricoverata d’urgenza, fu ripresa per un soffio. In<br />

una pausa, con gli occhi appena aperti e temendo forse<br />

di doversi congedare per sempre, chiese: «Ho fatto tutto<br />

quello che dovevo fare?...Mi sono comportata bene con<br />

voi?...Sono stata una brava madre?...». La rassicurammo.<br />

«Sei stata e sei bravissima!...Devi stare ancora qui<br />

con noi. ». Riconoscimento. Bisogno d’amore. Emozioni,<br />

affetti, pensieri che s’accendono quasi certamente<br />

con neuroni e sinapsi ma che hanno senso e significano<br />

qualcosa soltanto “tra”: nelle relazioni “tra” madre,<br />

padre e figli, “tra” amici e amiche, “tra” persone. In un<br />

luogo e in un tempo, in una comunità, in una società. In<br />

breve, in un mondo.<br />

“Tra” è anche tra sé e sé, tra lo spazio interiore, una<br />

sorta di teatro che giorno dopo giorno ci cresce dentrofuori,<br />

e il campo di relazioni fuori-dentro che manteniamo<br />

aperte, facciamo stagnare o chiudiamo. Chissà poi<br />

se chiudiamo davvero! Quante relazioni ci rimangono<br />

dentro in una specie di vita fantasmatica, spettrale. Relazioni<br />

fatte d’incontri visibili, con persone in carne e<br />

ossa (e non solo con esse), nutrite di parole, pensieri,<br />

fantasie, emozioni, immaginazioni, progetti più o meno<br />

realizzabili. Storie di vite interiori e di esistenze sociali.<br />

Probabilmente essere presenti a se stesso non significa<br />

nient’altro che porsi il proprio sé davanti e chiedersi<br />

quali possibilità si hanno. Questo vuol dire forse trascendersi,<br />

oltrepassarsi. Ci sono momenti, situazioni,<br />

eventi che possono mettere in crisi questa presenza di<br />

noi a noi stessi. Quando non si vede via d’uscita, quando<br />

ci si sente in trappola, quando ci crescono dentro vortici,<br />

spirali incontrollati, voci invadenti che non si riescono<br />

a tenere a bada.<br />

Uscire fuori di sé è necessario. Se ho capito qualcosa,<br />

sono le modalità di uscita che possono diventare incontrollabili.<br />

O forse bisognerebbe dichiarare il proprio<br />

scacco fin dall’inizio. Il re è nudo, l’Io è nudo. Non è padrone<br />

in casa propria. Abbandonarsi con la propria zattera<br />

corporea agli eventi - che rappresentano il modo<br />

ora lieto ora minaccioso, ora prevedibile ora imprevedibile,<br />

attraverso cui il mondo si apre a ciascuno di noi<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 70


- e guidare-lasciarsi guidare tra derive momentanee e<br />

momentanei approdi. Tenere tra le mani il filo della<br />

propria esistenza è un lavorio quotidiano. “Mestiere di<br />

vivere” diceva Pavese.<br />

Era proverbiale. Se una donna, giovane o vecchia, mostrava<br />

un comportamento un po’ strambo: «E che sei<br />

diventata Maria la pazza?!...», si sentiva apostrofare.<br />

Abitava in una via per la Valle. La porta sempre aperta.<br />

Dovendo passare vicino, in quel punto, si diventava silenziosi<br />

e guardinghi, si buttava sospettosi l’occhio dentro,<br />

si valutava il pericolo.<br />

Maria vestiva, dicevano le voci, da zingara: gonne larghe<br />

e vivacemente colorate, camicie bianche e sbuffanti,<br />

grembiali frasche e foglie, fazzoletto in testa smeraldo,<br />

annodato sulla nuca. Questo, in un paese in cui prevaleva<br />

il nero delle vedove o il blu carbonella delle donne<br />

con mariti e figli. Se non era blu, era grigio o avana. In<br />

certe occasioni verde scuro. «Dove te ne vai così sfarzosa?!...».<br />

Lo sfarzo che le donne si rimproveravano poteva<br />

essere rappresentato da un vestito turchese o verde<br />

chiaro. Saranno pure stati anni di boom economico, ma<br />

i colori del nostro mondo erano freddi, scuri. Senza dire<br />

dei tanti papà, a volte con intere famiglie, costretti ad<br />

emigrare.<br />

Maria la pazza era imprevedibile, vociante, sbalestrata.<br />

Se la si vedeva arrivare alla fontana, col suo barile da<br />

riempire in perfetto equilibrio sul capo, le donne preferivano<br />

darle la precedenza. Per quanto possibile, la<br />

scansavano. La temevano persino gli uomini. Con qualcuno<br />

venne alle mani e portò per giorni il volto pieno di<br />

graffi.<br />

Aveva figli, e noi non si voleva essere nei loro panni;<br />

marito, e questo ci importava di meno. Anche se, ogni<br />

tanto, lo si immaginava, poveretto!, costretto a tacere<br />

e sopportare. Lui che andava quasi quotidianamente in<br />

campagna.<br />

Non ricordo se la situazione precipitò con la luce o col<br />

buio. Le voci dissero che minacciò con l’accetta marito<br />

e figli. O non minacciò soltanto. Addirittura provò ad<br />

affondarla nel corpo dei malcapitati.<br />

Raccontarono pure che se la portarono i carabinieri, a<br />

fatica. Finì dove in quegli anni finivano tutti gli strambi,<br />

i disadattati, i fuori di giro, i violenti.<br />

Di Maria non ho saputo più niente. Nessuno ha raccolto<br />

la sua storia.<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 71


Nannìne. Reliquario materno<br />

Ennio Abate<br />

Figlie, hai raggione.<br />

Nì ncoppa spiaggia<br />

vicin’o mare,<br />

nì dint’o giardine<br />

chine r’ombre addurose<br />

e soreme Assuntine;<br />

e manche dint’a stanze e liette<br />

cue mobile e mogane,<br />

ca me facette frateme Vicienze<br />

o falegname,<br />

me putive purtà<br />

a murì.<br />

O munne e ‘na vote<br />

nun ‘ngera chiù;<br />

e o cirvielle mie perse<br />

nu vereve<br />

cae palazze re ricche<br />

s’erene mangiate<br />

e spiaggie,<br />

e geranie russe<br />

ro giardine<br />

erene bruciati<br />

e re ccose e casa noste<br />

parient’e mariuole,<br />

accuncianne e arraffane,<br />

s’erene regniute e borse.<br />

Sule dint’a chella<br />

pianura mai viste,<br />

addo te n’ire fuiute,<br />

dint’a ‘na città manicomie,<br />

fatte ra fatiche e chill’e<br />

ca po’ ngi finiscene chiuse,<br />

miezz’a chilli muri<br />

e nebbie,<br />

me putive purtà.<br />

E ie là<br />

te puteve lascià<br />

sule st’ombra mia,<br />

ca mò cresce<br />

e mò se fa piccirella;<br />

ma te vene arrete<br />

t’e chiama<br />

e t’e rice:<br />

a vite ca te riett’e<br />

puortale pe vvie<br />

chiù chiene e sole,<br />

ma nun te scurdà<br />

l’ombre,<br />

l’ombre ra morte mie.<br />

Figlio, hai ragione. / Né sulla spiaggia / vicino al mare, /<br />

né nel giardino / pieno d’ombre odorose / di mia sorella<br />

Assunta; / e neppure nella stanza da letto / coi mobili<br />

di mogano, / che mi costruì mio fratello Vincenzo / il<br />

falegname, / potevi portarmi / a morire.<br />

Il mondo di una volta / non c’era più; / e la mia mente<br />

persa / non s’accorgeva / che i palazzi dei ricchi / avevano<br />

invaso / le spiagge, / [che] i rossi gerani / del giardino<br />

/erano bruciati / e [che] delle cose di casa / parenti<br />

avidi / riordinando e arraffando / s’erano riempite le<br />

borse.<br />

Soltanto in quella / pianura sconosciuta, /dove eri fuggito,<br />

/ in mezzo a una città manicomio, / costruita con<br />

la fatica di quelli / che poi ci finiscono prigionieri, / in<br />

mezzo a quei muri di nebbie, / potevi portarmi.<br />

E io là / potevo lasciarti soltanto questa mia ombra / che<br />

ora s’espande / ed ora diventa minima; / ma ti segue /<br />

ti chiama / e ti dice: / la vita che ti ho dato / portala<br />

per vie più soleggiate, / ma non dimenticare / l’ombra,<br />

/ l’ombra della mia morte.<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 72


“Ma chi è quel<br />

signore che mi sta<br />

sempre attorno?”<br />

Ornella Garbin<br />

Mia madre era “una ragazza degli anni Quaranta”, gli<br />

anni della guerra. Angela era romantica o le piaceva<br />

crederlo, alla fine della sua vita ha confessato di essere<br />

una pessimista, era vissuta facendoci credere il contrario,<br />

a nostro beneficio. È morta in casa, curata da noi<br />

familiari con tutta la tenerezza e la pazienza di cui siamo<br />

stati capaci, ma ogni tanto mi accuso di non esserlo<br />

stata abbastanza, paziente. Nel rapporto già complesso<br />

come quello fra madre e figlia, la malattia mentale (Alzheimer)<br />

senza una preparazione adeguata, può essere<br />

un elemento devastante. Tutto viene buttato all’aria, i<br />

sentimenti, la propria e l’altrui nozione d’essere, tutto<br />

ciò che si pensava di conoscere diventa caos e la fatica<br />

<strong>maggio</strong>re sta nel dover riordinare in continuazione<br />

questo caos.<br />

La malattia aveva in mia madre radici più lontane, ma<br />

vivendo con mio padre in un paese in collina, in un piccolo<br />

mondo conosciuto, la progressione era stata lenta<br />

e accettabile. Nel momento in cui le loro condizioni di<br />

vita erano diventate inaccettabili, soprattutto per l’alimentazione<br />

e l’igiene, ho dovuto prendere la decisione<br />

di farli tornare nella loro casa di città, vicino a me, che<br />

avevo la possibilità di aiutarli.( Fra l’altro anche mio padre<br />

era malato, del morbo di Parkinson).<br />

Continuo a dirmi che non c’erano altre soluzioni, le ave-<br />

vo vagliate tutte, ma questo trasferimento ha accelerato<br />

il deterioramento cognitivo di mia madre. Il cambiamento<br />

di ambiente, di abitudini, aumenta il senso di<br />

estraniamento proprio di questa malattia. La mancanza<br />

di memoria progredisce ampliando inesorabilmente il<br />

suo raggio. Ho avuto mia madre sotto gli occhi tutti i<br />

giorni e l’osservavo molto, capivo che dovevo imparare<br />

molte cose per poter affrontare le sue aggressività, (per<br />

fortuna solo verbali) e il suo spaesamento. La cosa più<br />

difficile era il dover sostituire la sua attività di casalinga,<br />

prima io da sola e poi con una badante, senza farla<br />

sentire inutile.<br />

La sua lotta quotidiana cosciente era con la perdita di<br />

memoria , inizialmente si aiutava scrivendo tutto,( amava<br />

scrivere, da ragazza racconti per riviste femminili,<br />

poi molte poesie), ho appena ritrovato grazie ad un trasloco<br />

diversi suoi quaderni e notes pieni di annotazioni<br />

giornaliere, su di una copertina c’è scritto: “Da conservare”<br />

e “Messaggio di tenerezza”e dentro, ad esempio:<br />

”Sono stata in Ospedale a Melzo per 16 giorni…il viaggio<br />

di andata mi è costato 115.000…sono tornata con Marcello,<br />

Edmondo, Ornella.- Regalato a Pia fiori di seta e<br />

saponetta fatta con petali di Fiori.- Regalato poesie a<br />

Clementino.- Lauretta Masiero avuto un figlio da Gionni<br />

Dorelli.- Oggi 9 dicembre sono caduta in piazza davanti<br />

alla Patarini per la retromarcia di una macchina.<br />

Sembrava una cosa da poco invece ho dovuto chiamare<br />

il medico e ora ho molto male speriamo che vada tutto<br />

bene..” e più avanti:” ore 10 Il Signore della macchina<br />

mi ha Soccorso con gentilezza ma mi sembrava di non<br />

avere tanto dolore. Ora invece ho dovuto chiamare il<br />

Medico. A Federica ho regalato il libretto delle mie Poesie.<br />

Tutte le poesie sono nel terzo cassetto del comò.-<br />

Bacia una bimba buona e una bimba vivace…ma non<br />

ritorna l’uomo dalla Fornace. Bacia una testa bionda e<br />

una testa nera ma non ritorna l’uomo della ferriera “ e<br />

così via, tutte le pagine sono piene della sua scrittura<br />

che pian piano andava perdendo forma , e l’insieme visualizza<br />

bene il suo stato mentale. Poi perse anche la<br />

capacità di scrivere, ripeteva ossessivamente tutto ciò<br />

che per lei era importante non dimenticare, ad esempio<br />

il nome dei suoi figli.<br />

Perfino sui rumori c’era la perdita di conoscenza,se non<br />

vedeva l’oggetto che li produceva, anche quelli più comuni,<br />

come il motore di una macchina per strada.<br />

Poi si dimenticò il nome di mio padre, e alla fine che<br />

era suo marito …ma questo fatto drammatico riuscì<br />

perfino a farci sorridere: “Ma chi è quel signore che mi<br />

sta sempre attorno ?” –detto con una punta di malizia<br />

femminile- “Ma è tuo marito, mamma…”- rispose: “Così<br />

vecchio…?! “<br />

I sui racconti, i suoi ricordi, già da tempo simili a delle<br />

registrazioni, poco a poco cominciarono a cambiare…<br />

cambiavano i personaggi, si confondevano i ruoli.<br />

Ricordi dolorosi, come la morte di un giovane nipote,<br />

si trasformavano in racconti fantastici, o così grotteschi<br />

da risultare comici.<br />

Un altro aspetto curioso della malattia, il più piacevole,<br />

è stato per mia madre lo sblocco della voce, amava mol-<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 73


to la musica e anche cantare, ma era stata da sempre<br />

considerata stonata, negli ultimi mesi invece aveva cominciato<br />

a cantare a voce chiara e ferma le canzoni della<br />

sua giovinezza ed infanzia, si ricordava perfino quelle<br />

dell’asilo…. ne fu veramente felice.<br />

Era una persona molto ordinata,per lei il senso dell’ordine,<br />

che appartiene alla sfera psichica, era diventato<br />

maniacale, come per contrastare il disordine mentale.<br />

Tutto doveva essere in fila, meglio se in numero pari e<br />

simmetrico. Richiedeva anche un ordine uditivo, una<br />

voce alla volta e non alta.<br />

Quando ho scritto per la prima volta un articolo, per<br />

una rivista medica, sulla sua malattia, mia madre era<br />

ancora viva, ora dopo sette anni dalla sua scomparsa,<br />

i contorni dell’esperienza sono cambiati, più sfumati,<br />

forse meno idealistici; allora la ringraziavo dell’esperienza<br />

di vita che mi offriva…poi però c’è stato l’ultimo<br />

terribile mese con il problema della piaga da decubito e<br />

la perdita della capacità, della sua straordinaria capacità<br />

di comunicazione, ma a dire il vero anche con la<br />

perdita del linguaggio, anche con lo scollegamento del<br />

linguaggio con la realtà, ci sono stati pochi ma importanti,<br />

preziosi momenti di comunicazione senza parole.<br />

Non posso provarlo con descrizioni esatte, ma sia io che<br />

mio fratello,e anche mio padre, abbiamo avuto dei momenti<br />

con lei di vero contatto, non siamo credenti, ma la<br />

parola più esatta forse è “fra anima e anima”.<br />

In ogni caso come scrivevo nel vecchio articolo, si trattava<br />

per me di ascolto con il cuore, credo di averlo imparato<br />

con lei e poi con mio padre, vissuto ancora cinque<br />

anni dopo di lei, gli ultimi due immobile in un letto ,<br />

anche lui senza più parole.<br />

Balletto<br />

Mario Fresa<br />

Voglio dire che mi picchiano, i miei genitori, tutti e due,<br />

proprio adesso, me l’hanno dato: proprio uno schiaffo,<br />

qui. Ci sono stati i testimoni gli scheletri degli alberi,<br />

anche il fogliame, l’albergatore ha vinto la scommessa i<br />

gesti sembrano incredibili il caffè si raffredda.<br />

Voglio dire che mi hanno picchiato, proprio qui. Dunque<br />

io, come avrete capito, ho soltanto risposto. Ho dovuto<br />

difendermi.<br />

Infatti: mio fratello abbandonò il ferito sulla spiaggia<br />

io non ho visto niente; la voce del microfono era uscita<br />

distorta e così per risposta allegramente gli lanciai la<br />

moneta e mi pentii subito, appena, cioè, la vidi ricadere<br />

sulle mani del suo amico; tra poco, dicevo, sarò io, davvero,<br />

a dover chiedere l’elemosina (e giù un altro schiaffo,<br />

ancora).<br />

Sai tagliare la mela? Mi dice l’infermiera e se la ride,<br />

come gli altri.<br />

Quando sono venuto la prima volta nel manicomio, il<br />

medico più giovane era così bravo ed era proprio così<br />

bravo che ho avuto voglia di abbracciarlo ( «Ma un po’ !<br />

Ma un po’ di contegno, su!»).<br />

Invece la prima volta (mia madre: devi infilarti presto<br />

i pantaloni) sono scappato; però è stata la prima volta<br />

che ho visto il mio paese dall’alto con le luci che tremano<br />

ecco il negozio le torri dei conquistatori la battaglia<br />

partita per la guerra il tè con poco zucchero ti prego.<br />

Mi carezzano a gara, tutti. Non è mica un brutto posto<br />

sa niente nessuno amiamoci.<br />

Ho mostrato al primario che mi fa male qui: il mio<br />

ventre è diventato (e lui sorride, sfido io!) come una<br />

polpa grande. Però nessuno mi risponde: è che i matti<br />

non li vuole nessuno, mi dice sorridente: carezzandomi,<br />

caro; la voce rotta, inquieta.<br />

Mi chiedono sempre di ricostruire, di spiegare: ma la<br />

vicenda, reclusa qui, proprio dentro, poi tormentando si<br />

restringe si fa come una mosca immensa, vieni.<br />

I racconti pigolano ancora, velocissimi, attraverso le<br />

corsìe; e poi l’affanno, l’abbracciarsi (tutti infelici, allora?);<br />

e il caldo amore interessato delle orazioni pronunciate,<br />

sudando, sottovoce.<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 74


Perché mi avete impedito quel salutare volo?<br />

Ma questo gelo: e questo ansioso muoversi «devi calmarti<br />

un poco».<br />

Pensavo di scamparla, di porre fine a questi anni innumerevoli<br />

qual è la forza che ci spinge a uscire, a colpire?<br />

Anche scendere dal letto è un incredibile sfida agli eventi:<br />

e noi, loro, nel fumare lamentoso delle notizie che già<br />

vibrano «ce la farà»;<br />

Qualche volta, la mattina, ci scortano severi uomini in<br />

divisa, aprendo le celle con violenza; la nuova compagna<br />

osserva la scena con attenzione, girando il latte che<br />

bolle: grida che si raffredda, tu ci rimarrai due anni.<br />

Ci hanno trattato bene: gli altri pazienti, e anch’io, noi<br />

siamo stati bravi, nessuno ha pianto. Lanciamo insieme<br />

la moneta nell’acqua niente da fare hai perso; ancora un<br />

po’ noi ci tocchiamo.<br />

Allora gli infermieri mi accompagnano immersi nella<br />

luce bassissima: così lo sguardo cade ovunque, ansiosamente<br />

osserva le grandi stanze i rettangoli fitti le austere<br />

proporzioni; Caronte alita, esperto, qualche parola<br />

strana al suo collega e così osservo da lontano la campagna<br />

notturna mentre spazzano violentemente agiscono<br />

insensibili raccattano batuffoli gettati con malagrazia le<br />

macchie scure sorridono sul pavimento largo; veloci poi<br />

traghettano i corpi sospirosi sulle grigie barelle seminuove.<br />

Ma voi sapete, amici, che il sonno non mi aiuta; e voi,<br />

parenti amati, lasciate pure i vostri cari bimbi qui; ve<br />

li farò trovare teneramente scuoiati e appesi ai rami di<br />

questa dolceverde pineta: parola d’onore qua la mano.<br />

Il medico inietta frasi di conforto e voi, fintifelici: «a domani»;<br />

e queste parole saranno cancellate, dimenticate<br />

presto; o finiranno in miele appiccicoso o in un terribile<br />

segreto.<br />

O. Garbin, Collage<br />

Colomba<br />

Claudia Iandolo<br />

Colomba, che aveva visto il diavolo, non sarebbe mai<br />

potuta ingrassare. Perciò se ne andava in giro vestita<br />

di nero, per una serie di lutti sempre più stretti che si<br />

erano stratificati negli ultimi trenta, trentacinque anni,<br />

con i panni che si gonfiavano, anche quando non c’era<br />

vento, e che sembravano trasportarla. Ma come non era<br />

riuscita a mettere carne su quel corpo fermo all’inizio<br />

dell’adolescenza, così non aveva più saputo sedersi. Poteva<br />

sdraiarsi e dormire, per poche, pochissime ore la<br />

notte, ma sedersi no. Colomba restava in piedi, pronta<br />

ad andare, per giri misteriosi, qualunque cosa c’era da<br />

dire o da sentire. Che avesse visto il diavolo era chiaro,<br />

e infatti chi lo vede resta così, un po’ sbandato, con<br />

un’ansia di corpo e di anima, un soffio inquieto in più<br />

che non spengono né il matrimonio né i figli. Dicevano<br />

senza malizia Chi? Ah, Colomba! E qualcuno aggiungeva<br />

come a suggellare, Quella che ha visto il diavolo.<br />

A quei tempi, quando Colomba era bambina, ed era da<br />

poco passata la grande guerra, certe cose succedevano<br />

ancora. Al lavatoio coperto, per esempio, il fantasma di<br />

una donna piangeva e si lamentava che era uno strazio,<br />

perché mentre lavava si era distratta e il figlio, figlio bastardo,<br />

di prete, era caduto in acqua ed era annegato neanche<br />

il tempo di rendersi conto. Ora, la madre lo cercava<br />

ogni notte, ma avrebbe preso chiunque al suo posto,<br />

qualunque ragazzino dopo il tramonto si fosse trovata<br />

di fronte. Oppure giù, al muraglione, dove tra i cespugli<br />

incolti e i fiori di sant’Antonio le serpi facevano l’amore,<br />

ce n’era un’altra, con una mano lunghissima, che nessuno<br />

ricordava più perché e quando avesse cominciato<br />

ad afferrare gente e a farla precipitare sul vecchio deposito<br />

di legname. Anche il ragazzino delle biglie, quello<br />

fantastico, che vinceva sempre, e avrebbe vinto tutte le<br />

biglie del mondo se fosse vissuto, era caduto un giorno<br />

senza vento, mentre forse guardava, chissà, anche<br />

lui, due vipere che facevano l’amore. Colomba sapeva<br />

come comportarsi ai crocicchi, cosa dire, velocemente,<br />

passando davanti al lavatoio e cosa fare lungo il muraglione.<br />

Sapeva molte altre cose, e molte ne faceva, per<br />

precauzione, prima di scendere dal letto e di chiudere<br />

gli occhi la sera, davanti al fuoco se fosse rimasta sola<br />

e la lingua di fiamme si fosse allungata all’improvviso<br />

in una contorsione poco naturale che era, anche questa,<br />

segno del maligno, di fronte ad un mal di testa o<br />

ad un mal di pancia senza spiegazione, se un’ombra le<br />

avesse attraversato la strada, eppure il diavolo lo vide<br />

così, in pieno giorno, come dire, in carne ed ossa, uno<br />

qualunque, pantaloni e cappellaccio, uguale a chi va in<br />

montagna a lavorare. E per questo all’inizio non ne ebbe<br />

paura, per questo, lei, col diavolo ci parlò pure, prima di<br />

capire. Il diavolo si avvicinò lentamente, come uno che<br />

ha qualcosa da fare, e che sa dove andare, ma non ha<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 75


O. Garbin, Collage<br />

fretta. Colomba era sotto un castagno, e aspettava che<br />

suo padre e gli altri venissero per mangiare. Colomba<br />

lo vide e lui vide Colomba: Sei la figlia di Antonio, disse,<br />

e non era una domanda. Colomba fece segno di sì,<br />

e non riusciva a mettere a fuoco quella faccia, che era<br />

la faccia di un forestiero, ma con qualcosa di già visto,<br />

di familiare. Il diavolo si sedette pure lui, a terra sotto<br />

il castagno e si tolse il cappello: Mettiti comoda, disse,<br />

tuo padre farà tardi. Si asciugò la fronte, proprio come<br />

fanno i contadini, con un fazzoletto uguale ai pochi che<br />

aveva suo padre e di cui tutta la famiglia era orgogliosa.<br />

Il diavolo la guardò e sembrava pensieroso, sembrava<br />

che volesse dire altro dalle parole che invece pronunciava.<br />

Poi Colomba non ricordò più niente, e non riuscì a<br />

ricordare per tutta la vita, anche quando ci pensava e si<br />

sforzava, chiudeva gli occhi e cercava di pensare ma non<br />

riuscì a dire mai quanto tempo e cosa fosse successo, nel<br />

frattempo. Quello che il diavolo le aveva detto doveva<br />

essere una cosa importante, perché le rimase un’espressione<br />

pensierosa, una vaghezza incantata, solo che lei lo<br />

aveva dimenticato.<br />

Nel sottile filo<br />

di ragnatela: zia<br />

Marsiella e altri<br />

Anna Maria Celso<br />

Per un periodo non troppo breve della mia giovinezza,<br />

ha diviso con noi la casa estiva dei nonni, zia Marsiella,<br />

Marzia in realtà era il suo bellissimo nome.<br />

Abituate ad avere la casa dei nonni paterni tutta per noi<br />

nipoti, quella nuova inquilina risultava un po’ scomoda.<br />

Non si capiva bene da dove fosse sbucata, ora che, vedova,<br />

era diventata ospite di suo fratello <strong>maggio</strong>re, nostro<br />

nonno.<br />

E poi questa zia era proprio strana: già anziana, piuttosto<br />

taciturna e con uno sguardo a tratti allucinato e<br />

a tratti perso nei suoi pensieri. E lei, che aveva perso i<br />

suoi due giovani figli nella guerra del 1915-’18, di pensieri<br />

doveva averne tanti e sicuramente tristi. La sua<br />

voce era spesso in falsetto e lei, riconoscente verso mio<br />

padre e mio zio, i suoi nipoti, che non avevano obiettato<br />

al suo arrivo, si sottoponeva volentieri alle loro richieste<br />

di recitare filastrocche o canti spesso infantili. Spesso le<br />

genuine risate di cuore che suscitava in chi l’ascoltava,<br />

avevano un suono amaro e facevano crescere in me un<br />

senso di inquietudine: non capivo o forse intuivo il filo<br />

sottile che divideva la compassione dalla bonaria presa<br />

in giro. Ai miei occhi di ragazzina, Zia Marsiella non sapevo<br />

come e dove collocarla. Le dovevo rispetto, questo<br />

era l’insegnamento dei miei, ma mi faceva anche un po’<br />

paura, soprattutto quando la ritrovavo addormentata<br />

sul pavimento nelle calde giornate di agosto o quando<br />

scoppiava a piangere improvvisamente. E lei lo aveva<br />

capito, tanto che a volte si divertiva ad assumere il ruolo<br />

attivo della zia un po’ matta che faceva spaventare me e<br />

i miei cugini con piccole ed ingenue grida.<br />

Sentivo che dovevo volerle bene, ma non era facile.<br />

E poi un anno con quei bianchi capelli tagliati a caschetto<br />

e tenuti fermi da un cerchietto, per essere più ordinata,<br />

il suo aspetto assunse ancora di più la forma della<br />

sofferenza e del disagio psichico. La morte precoce dei<br />

figli e poi del marito aveva fatto saltare il suo equilibrio<br />

ma, ho scoperto più tardi, forse lei era nata già con le<br />

sue difficoltà mentali, in seguito esasperate ed era andata<br />

in moglie a più di un marito, forse perché costituiva<br />

comunque un peso ed una responsabilità troppo grande<br />

per i suoi. Quello che più mi è rimasto dentro di lei era il<br />

suo bisogno di essere amata e come si fosse affidata con<br />

totale dedizione a chi l’aveva accolta in casa e le dava un<br />

tetto sotto cui stare e un piatto caldo da mangiare. Ma<br />

chi l’aveva amata veramente?<br />

Come è diverso ora il mio sguardo su di lei! Il suo ricordo<br />

suscita in me grande tenerezza e rimpianto di non<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 76


averla conosciuta abbastanza ed aver scoperto, al di là<br />

delle apparenze, la sua anima bella, quella nascosta dalle<br />

sofferenze e dal suo disagio. Forse adesso sarei capace<br />

di stabilire con lei una relazione autentica e perciò salvifica.<br />

Ma forse questo hanno fatto, ciascuno a modo loro,<br />

gli adulti che si sono presi cura di lei. Senza il legame<br />

con i suoi cari o con quelli che lei riteneva tali, si sarebbe<br />

persa del tutto.<br />

Ma non è proprio il rapporto con le persone ciò di cui<br />

abbiamo bisogno tutti, ciò che ci conferma o disconferma<br />

di fronte agli altri? Il contatto affettivo costante ci<br />

nutre e ci alimenta, permettendoci di costruirci nella<br />

nostra identità e personalità.<br />

Nel mio master sul disagio nascosto in classe il focus<br />

è stato ripetutamente messo sugli aspetti affettivi del<br />

processo di apprendimento. Lì si parlava di quel disagio<br />

sottile e spesso celato che con occhi sempre più esperti,<br />

se vigili, si riesce a scorgere nei nostri alunni. Non è la<br />

difficoltà certificata di chi è autistico, epilettico o psicotico,<br />

piuttosto quella sofferenza di chi è sempre un po’ al<br />

margine, border-line, mai completamente adeguato, che<br />

comunque comunica ripetutamente la grande difficoltà<br />

di imparare e la sua incapacità a vivere nel gruppo.<br />

La strettissima interdipendenza che esiste tra imparare<br />

ed insegnare trova, in alcuni autori di ispirazione psicoanalitica<br />

come Bion, la sua centralità nella fatica e nello<br />

sforzo di mettere in gioco energie e capacità di sostenere<br />

il dolore e la sofferenza mentale che da questo processo<br />

si genera. Tanto per l’alunno che per l’insegnante.<br />

Ad una prima lettura dolore e sofferenza mentale mi<br />

sono sembrate espressioni eccessive da attribuire all’apprendimento<br />

ma poi, man mano che proseguivo nello<br />

studio, mi sono ritrovata ad annotare, al margine del<br />

testo, il nome di qualche mio scolaro: Luca, Antonino,<br />

per esempio, ormai alle scuole medie.<br />

Sì, Antonino aveva proprio un mal di pancia da piangere<br />

davanti ad alcuni concetti per lui troppo impegnativi<br />

da afferrare; e quando Luca partiva per la tangente e si<br />

faceva prendere dalla sua ansia e senso di impotenza di<br />

fronte ai simboli scuri e oscuri della matematica, potevo<br />

percepire e toccare il suo dolore.<br />

Mi trascinava con lui nel suo vortice e non sempre riuscivo<br />

a contenere tutta la sua emotività dirompente ed<br />

esplosiva. Mi serviva un grandissimo sforzo per controllare<br />

la mia frustrazione, perché non si accumulasse alla<br />

sua, e diventasse conferma della sua incapacità.<br />

Dove avevo sbagliato? Come era possibile che in quinta<br />

elementare ancora non fosse sicuro delle quattro operazioni<br />

di base sulle quali avevamo lavorato fino allo<br />

sfinimento?<br />

Imparare significa concedersi di tollerare la frustrazione,<br />

le ansie e i problemi che nascono dall’incontro con il<br />

nuovo, con l’ignoto, con ciò che ancora non ci appartiene<br />

e comprendere che è possibile sostenere emotivamente<br />

questo carico: bisogna attraversare uno spazio indefinito<br />

che ci separa dal sapere. Ma Luca aveva energie per<br />

poter compiere questo salto nel buio? I suoi si erano separati,<br />

e in malo modo, quando lui aveva 7 anni.<br />

Ricordo che il giorno in cui me lo disse, disastrosa mattinata<br />

di matematica, alla mia domanda se avesse riposato<br />

bene, mi rispose candidamente che aveva aspettato<br />

di salutare suo padre che andava via di casa.<br />

-Perché, sai maestra, pare che abbia un’ altra!<br />

Poi suo padre andò a vivere, con la nuova compagna e la<br />

nuova figlia, prima a Roma e poi a Cagliari e Luca si ritrovò<br />

a viaggiare da solo sugli aerei, quasi ogni 15 giorni,<br />

accompagnato solo dalle hostess.<br />

Poteva avere risorse ed energie da riversare nella scuola<br />

o doveva essere sempre all’erta per tollerare lo sfascio<br />

della sua famiglia e capire quale fosse ora il suo posto?<br />

Quando riuscivo a tenere tutto nella mia mente, a tenere<br />

presente tutta la storia di questo ragazzino e a rielaborare<br />

i miei sensi di fallimento e tutte le sue sensazioni<br />

di inadeguatezza, le cose andavano decisamente meglio<br />

per tutti.<br />

Coglievo fino in fondo il senso da attribuire all’espressione<br />

promuovere la funzione psicoanalitica della<br />

mente dell’insegnante: si chiede a me, come ad ogni<br />

altro docente, la disponibilità a considerare il bambino<br />

non solo tutto testa, ma nella sua integralità con emozioni<br />

e sentimenti per ascoltarlo, accogliere, tutte le sue<br />

istanze, riconoscerle ed essere in grado di aiutarlo ad<br />

ordinarle.<br />

I temi legati all’aspetto disciplinare e didattico spesso<br />

diventano marginali rispetto allo sviluppo relazionale,<br />

affettivo ed emotivo degli alunni. I tanti Non sono capace<br />

e Non lo so fare, in alunni perfettamente normali,<br />

sono il segno di questa inquietudine un po’ diffusa, legata<br />

alla paura di stare da soli, quasi sospesi nel vuoto,<br />

in una fase ancora di non conoscenza.<br />

- Maestra, ho finito, cosa faccio? chiedono ripetutamente<br />

gli alunni in una smania di dover agire, ma in modo<br />

esecutivo, solo se qualcuno detta le regole del gioco.<br />

Tutto sùbito ed ora e le cadute diventano sempre più<br />

frequenti.<br />

Le mamme buone, che aiutano i figli a sostenere lo sforzo<br />

di crescere e di diventare gradualmente autonomi e<br />

capaci di scelte responsabili, sono oggi sostituite da madri<br />

troppo buone, che eliminano in partenza anche l’ipotesi<br />

di un ostacolo per il proprio figlio e ,in quella grande<br />

palestra di scambi sociali e culturali che è la scuola, i<br />

ragazzi si sentono spesso persi e senza riferimenti.<br />

Mi viene in mente Alessia, forte e scontrosa bimbetta<br />

di seconda elementare. Ai primi no sentiti, reagiva addirittura<br />

voltando le spalle a noi maestre e aprendo i<br />

suoi quadernetti personali che teneva nello zaino. E poi,<br />

più avanti, sempre spavalda, copiava perfettamente dai<br />

compagni per non ammettere a sé stessa e alle maestre<br />

le sue grandi difficoltà. Ci è voluto un anno e mezzo per<br />

farle sentire che le sue maestre erano lì accanto a lei,<br />

poteva fidarsi e aprirsi alle conoscenze, non sarebbe stata<br />

sola, gli esiti non sarebbero stati solo negativi, lei le<br />

capacità le ha da mettere in gioco!<br />

Penso ora a Marco, ma anche ad Andrea o a Mattia.<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 77


Quanta confusione nella loro mente e spesso nel loro<br />

animo!<br />

Nelle giornate in cui sono incontenibili e scombinano<br />

la classe, dovrei essere capace di fermarmi e ribaltare<br />

la situazione con un’attività in grado di scaricare tutta<br />

quella tensione.<br />

Delle volte mi sembrano burattini mossi da fili invisibili.<br />

-Ma perché fai così? Te ne rendi conto?<br />

Dai loro occhi sbarrati e dispiaciuti, capisco che ho sbagliato<br />

le domande.<br />

Sono io che devo aiutarli a capire di più tutta quella agitazione<br />

emotiva che li governa, a dare una interpretazione<br />

e insieme a loro trovare le strade di uscita.<br />

Allora li rassicuro, dico che sto chiedendo qualcosa che<br />

è loro nota, che sono certa che l’hanno capita, devono<br />

solo tirare fuori la conoscenza. Basterà avvicinarmi di<br />

più e annuire, magari sedendomi accanto, suggerire una<br />

piccola cosa, dare loro fiducia, far capire che possono<br />

procedere da soli e che comunque la maestra è lì come<br />

loro sostegno.<br />

Ho attivato e valorizzato, in maniera assolutamente<br />

controcorrente, la capacità di pensare.<br />

Allora nei loro occhi, con le mille gratificazioni, si intravede<br />

un sorriso: bene questa giornata è andata, un<br />

pochino di più sono cresciuti nella fiducia e stima di sé.<br />

Ma quanta fatica e so che non sarà sempre così facile!<br />

È per questo che si esce stremati dalle classi, noi e gli<br />

alunni?<br />

Perché dicono che il lavoro dell’insegnante è comodo e<br />

leggero?<br />

Non importa: vedere poi che gradualmente i ragazzi<br />

imparano a pensare, ad essere critici, ad avere opinioni<br />

personali, a fidarsi e a diventare affidabili, ad essere<br />

attenti ai compagni è un’emozione che vale la pena di<br />

vivere, soprattutto se, con un pizzico di presunzione, ci<br />

si ritiene un po’ artefici di questo prodigio.<br />

Pochi giorni fa un’amica, con la quale ho un fitto scambio<br />

di libri, mi ha proposto la lettura di Lunatica di<br />

Alessandra Arachi.<br />

Sai- mi ha detto- per me che lavoro con i matti, questo<br />

è un libro interessante.<br />

Roberta è un’insegnante di una scuola speciale di Milano<br />

e si occupa di persone affette da patologie mentali<br />

medio-gravi. È vero, il romanzo si legge in poche ore e<br />

l’autrice, giornalista del Corriere della Sera, racconta in<br />

forma accattivante, della sua esperienza di malata affetta<br />

da disturbo bipolare.<br />

Malattia strana questa che attacca l‘umore e riduce la<br />

persona in completa balìa di stati di grande euforia ed<br />

eccitazione e poi di profonda depressione. È un momento,<br />

e la mente fa clic e non si recupera più.<br />

Difficilissima da diagnosticare, ancora poco conosciuta,<br />

ha come epilogo, per 15% dei suoi malati, il suicidio.<br />

Leggo con avidità il libro e più mi inoltro nella lettura<br />

più ritrovo la narrazione di un’altra amica che più volte<br />

mi ha confidato con amarezza della malattia di sua cognata,<br />

senza mai però definirla. Quando nel testo trovo,<br />

tra le varie terapie, il ricorso all’assunzione del litio, un<br />

sale stabilizzatore dell’umore che modula la trasmissione<br />

dei segnali tra le cellule cerebrali e all’interno delle<br />

cellule stess., ho la conferma che si tratta dello stesso<br />

disturbo.<br />

Quando Teresa sta male e riesce ad accorgersene, deve<br />

iniziare a prendere il litio. Se arriva in tempo evita l’acuirsi<br />

dei sintomi, l’altalena tra gli alti e i bassi e il recupero<br />

è più veloce.<br />

Vado subito alla fine del libro, dove cerco di trovare le<br />

cause di questo fenomeno.<br />

È a carico del sistema nervoso centrale e pare si tratti di<br />

un disturbo dell’energia vitale che non riesce ad essere<br />

controllata dai sistemi regolatori di cui dispone il nostro<br />

cervello ed altera perciò il nostro equilibrio psichico. Se<br />

tutti gli organismi viventi sono sensibili ai cambiamenti<br />

dell’ambiente prodotti dall’ orbita della terra intorno al<br />

sole, della luna intorno alla terra, alle variazione di luce<br />

e di calore, ai campi elettromagnetici, non fa eccezione<br />

il cervello umano. I ritmi di vita frenetici, l’uso e abuso<br />

di droghe e di sostanze stupefacenti, la riduzione delle<br />

ore di sonno, eventi drammatici o traumatici diventano<br />

elementi scatenanti in personalità più fragili o dotati di<br />

sistemi regolatori meno efficienti.<br />

Dio mio, ma allora siamo tutti a rischio!? È solo un sottilissimo<br />

filo di ragnatela quello che segna il confine tra<br />

la normalità e la possibile malattia mentale!?<br />

Forse mi sto autosuggestionando…o forse no.<br />

Certo è che Alessandra è potuta guarire, o meglio tenere<br />

sotto controllo la sua malattia anche grazie alla<br />

presenza e sostegno continuo della sua famiglia, di chi<br />

l’ha saputa seguire ed accompagnare nel suo percorso<br />

di risalita. Anche il medico della clinica psichiatrica che<br />

ha finalmente diagnosticato la malattia e che la sta curando<br />

con una terapia farmacologia appropriata lo sa e<br />

nei momenti più cupi, quelli nei quali il paziente deve<br />

essere attivo e dare il suo consenso alle cure, non esita<br />

ad abbracciarla e tenerla in braccio con la tenerezza d<br />

un padre.<br />

Il rischio di poter perdere improvvisamente la propria<br />

integrità di uomo, il controllo sulla propria mente e su<br />

di sé, fa veramente paura e pensare che nessuno forse è<br />

immune da questo pericolo spinge a guardare gli altri<br />

con occhi diversi.<br />

Con <strong>maggio</strong>r generosità e magnanimità, ma soprattutto<br />

e sempre con grande amore e compassione, come<br />

condivisione della condizione degli altri perché insieme<br />

è possibile, non eliminare il dolore e la sofferenza, ma<br />

rendere più tollerabile e dignitosa ogni condizione umana.<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 78


Scrittura come<br />

terapia del dolore<br />

Sonia Scarpante<br />

Depressione. Una parola che si teme, che fa molta paura.<br />

Un cancro della mente a cui non sappiamo dare<br />

confini, limiti. Il volto del depresso lo leggi nel vuoto<br />

di relazioni che non tendono alla speranza, al futuro, al<br />

cambiamento. Il volto del depresso langue in un deserto<br />

di emozioni che il cuore tende a nascondere, sopraffatti<br />

come siamo da una vita irrefrenabile. Un moto perpetuo<br />

che inabissa la nostra condizione interiore perché la<br />

società nega il diverso, il depresso, la persona melanconica.<br />

Mentre la vita si svolge su quel confine labile dove<br />

l’amarezza si alterna alla serenità, la sofferenza alla giocosità,<br />

la rabbia alla calma. Molti associano la depressione<br />

alla malattia, alla pazzia, a ciò che rende l’uomo<br />

passivo, privo di coraggio e di volontà. Spesso subentra<br />

ad un sentimento a cui facilmente ci accostiamo nel<br />

percorso vitale: la noia. Quel non senso del vivere quotidiano<br />

che viene enfatizzato da ruoli resi scarni da un’<br />

abitudine che vuole mancare di progettualità, di estro<br />

e di creatività. Ruoli obsoleti che osserviamo in conoscenti<br />

smarriti, in educatori persi in un’illusione caotica<br />

che non ha tempi per fermarsi sui tempi dell’anima.<br />

Ruoli consumati in professionisti evanescenti come si<br />

avverte nelle figure di medici, politici, professionisti<br />

rinchiusi nel loro super-ego. E la distanza aumenta<br />

incontrovertibile senza prevedere una cura che possa<br />

riparare a quei danni che la mente sottende. E la relazione<br />

in una società sempre più tecnica perde sempre<br />

più di valore, il rapporto medico-paziente, il rapporto<br />

educatore-studente, il rapporto politico-cittadino sconfinano<br />

nei meandri della incapacità dialettica e dell’insostenibilità<br />

empatica. Tutto diviene moto allucinante.<br />

È il ritmo frenetico della vita che ci ingabbia in una via<br />

senza soluzione? E come possiamo intervenire per incanalare<br />

verso la speranza quelle forze che la depressione<br />

emana per tentare di sanare un percorso che rischia di<br />

sprofondarci nell’abisso? Come porgere aiuto a quelle<br />

persone, a quei volti scarni senza rimanere intrappolati<br />

in un delirio di onnipotenza salvifico che può mettere a<br />

rischio la nostra vulnerabilità? La nostra vita dipende<br />

sempre da quel sottile equilibrio in cui barcameniamo<br />

le nostre esistenze : quel perdersi per poi ritrovarsi con<br />

il coraggio di sentirsi unici ed insostituibili in un tragitto<br />

che non ci vuole vinti. È quell’essere, poi, disponibili ad<br />

affrontare le “ miserie” dell’altro imparando a tutelare<br />

la nostra parte sana che viene costruita giorno per giorno,<br />

e che va necessariamente rinvigorita ed impreziosita.<br />

In questo lavoro non facile , gioco-forza esige che<br />

sia essenziale imparare ad amare prima se stessi. Nella<br />

logica di questo divenire per amarsi si deve intendere lo<br />

stato della ricerca interiore, dell’approfondimento finalizzato<br />

a porre in luce la propria autenticità, quell’inte-<br />

riorità creativa che spesso rappresenta l’antitesi ad uno<br />

stato del mondo che ci sommerge nei suoi valori avulsi:<br />

il potere, il dio-denaro, la carriera atrofica. L’arte, il lato<br />

creativo, il sogno appartengono ad una sfera più intima<br />

che, solitamente, siamo soliti temere perché esprimere<br />

l’interiorità cruda nella sua nudità ci mette a rischio, ci<br />

espone, ci rende più soli. Solitudine intesa come trasparenza<br />

del sé attraverso quei segni della mente che ha<br />

bisogno di ispirazione, fiducia, passione, per espandere<br />

le proprie possibilità. Nell’alternanza di questa vita che<br />

tenderebbe a renderci mediocri a quell’altra che, invece,<br />

ci spinge ad essere più coraggiosi e vitali, si intesse quella<br />

trama che sta a noi forgiare giorno per giorno.<br />

Il bagaglio culturale di chi accompagna il nostro percorso<br />

formativo può ingabbiare queste energie o, altrimenti,<br />

sostenere questa ricerca finalizzata alla tutela di una<br />

speranza comune. Il nostro bagaglio culturale deriva<br />

da chi cammina con noi accompagnandoci negli anni<br />

e spesso anche solo la funzione di un educatore aperto<br />

alla vita promuove comportamenti attivi e positivi; spesso<br />

anche un legame affettivo felice può definire quella<br />

maglia di riflessioni e di valori che l’anima ha bisogno<br />

di reperire per darsi un senso profondo. L’educatore<br />

in tal senso può reperire la sua funzione volta alla cura<br />

dell’altro, non rinunciando al vincolo di una sua professionalità<br />

affidataria, ma qualificando la sua capacità<br />

propedeutica in quella direzione dove l’impeto assume<br />

la forma della passione fiduciaria. Fiducia nel paziente<br />

che traslata dal medico diviene fulcro in una prospettiva<br />

futura di guarigione e di speranza verso la salute salvifica.<br />

Un senso è dato reperire in queste direzioni se come<br />

individui crediamo nelle nostre possibilità, nelle nostre<br />

capacità di iniziativa volte alla conoscenza interiore e<br />

alla sua tutela.<br />

Pensando al mio bagaglio culturale desidero valermi<br />

della forte testimonianza di una cara persona con cui<br />

sono cresciuta: lei ha segnato i miei pensieri oltre le mie<br />

possibilità obbligandomi ad un confronto dove lei emergeva<br />

come parte lesa ed io come parte salvata. Sono la<br />

nipote a cui la cultura, la conoscenza ha dato <strong>maggio</strong>ri<br />

possibilità per imparare a sondare qualcosa che la mente<br />

difficilmente riesce a identificare nel suo significato.<br />

La narrazione come forma di conoscenza della realtà e<br />

costruzione di significati ci insegna ad affrontare l’incerto,<br />

il non conosciuto. La forte valenza formativa della<br />

narrazione consente al soggetto di riflettere sui vissuti<br />

cognitivi e affettivi. Credo di aver desunto la semplicità<br />

dell’arte di raccontarsi e di dire attraverso le emozioni<br />

proprio da quella nonna che, mi dicono, avesse da<br />

giovane il dono dello scrivere con fluidità, la scioltezza<br />

dell’espressione in lettere che nascondeva anche a se<br />

stessa. Era riuscita a dare poche svolte nella sua vita,<br />

ma quelle che era riuscita a realizzare scaturivano da<br />

quell’indole originaria che, ponendosi magistralmente<br />

in contatto con l’arte e la creatività interiore, analizzava<br />

i moti dell’anima, mediava gli intenti, cesellava, intrepida<br />

anche nel chiedere giustizia. Un esempio della sua<br />

meritoria capacità mi venne raccontato da adulta. La<br />

figlia, mia zia, era solo una bimba e si ricorda la madre<br />

mentre chiedeva, tramite lettera, alle autorità ecclesia-<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 79


stiche un aiuto per le ristrettezze economiche che pesavano<br />

prepotentemente sulla famiglia e per la mancanza<br />

di un lavoro che non permetteva al marito di rispondere<br />

alle necessità primarie di sussistenza. La zia mi raccontò<br />

che quelle parole furono talmente profonde e dirette<br />

che a distanza di pochi giorni alcuni delegati della curia<br />

bussarono alla loro porta.<br />

La nonna non assecondò questo suo spirito indomito,<br />

troppo presa dall’educazione dei tre figli, dal ruolo di<br />

madre e moglie, poco consapevole del dono ricevuto.<br />

E credo fortemente, oggi, che quel moto dell’anima<br />

avrebbe potuto risollevarla, rinvigorirla, se coltivato nei<br />

suoi risvolti più autentici; solo se avesse avuto la possibilità<br />

di esercitare quella sua peculiarità che, forse, intravide<br />

appena. Quella scrittura poteva divenire la sua<br />

forza.<br />

Io, questo percorso, sono riuscita ad affrontarlo perché<br />

la forte esperienza della malattia di 9 anni fa mi ha dato<br />

la spinta iniziale. Lo scrivere di sé nasce da una domanda<br />

della mente. Chi sente di aver vissuto qualcosa che<br />

deve essere raccontato, attraverso la scrittura riesce a<br />

riconciliarsi con eventi dolorosi, traendone emozioni<br />

di pace, mitigando la propria soggettività, per aprire la<br />

mente ad altri orizzonti.<br />

Credo che la nonna non sia stata in grado di riconciliarsi<br />

con se stessa perché la strada che aveva reso inaccessibile<br />

e non conforme alla sua natura emozionale non<br />

le permetteva di mettere a fuoco il suo lato creativo.<br />

Certamente la scrittura come arte curativa e strumento<br />

terapeutico, per cultura, non aveva spazio fra i suoi pensieri.<br />

Mentre nei miei sì: l’esperienza della sofferenza mi<br />

ha permesso di esprimere la mia interiorità, mitigando<br />

quel conformismo di vita a cui siamo legati tutti per difesa,<br />

arricchendo quegli iter formativi già resi obsoleti<br />

dalla omologazione imperante. Due generazioni di distanza<br />

hanno permesso questa riconciliazione.<br />

Come scrive spesso Duccio Demetrio nei suoi libri (e la<br />

mia sottolineatura, accompagnandosi al suo dire, diventa<br />

sempre più verità): “ Raccontando ci riempiamo<br />

di cose e di senso”.<br />

Mia nonna ha sofferto e non è riuscita a dare spessore<br />

alla sua sofferenza: ha introiettato il suo dolore massificandolo<br />

nel tempo come una pietra tombale. Mentre<br />

io ho fatto un percorso diverso: ho voluto recuperare<br />

l’esperienza del dolore per consentirmi l’opportunità di<br />

dare nuove risposte alle domande che mi sono posta nel<br />

momento in cui ho deciso di vivere appieno la mia vita.<br />

È stata una ricerca personale del mio senso che passava<br />

prima attraverso la ricerca del senso della malattia per<br />

arrivare a cogliere quello dell’intera esistenza. Se alla<br />

sofferenza, alla malattia, si riesce a dare un senso, allora<br />

tutto può diventare più accettabile; assume un ruolo, un<br />

significato.<br />

La conoscenza di noi stessi è sempre mediata dal racconto<br />

autobiografico, poiché il testo che creiamo ci rispecchia<br />

e ci invita a reinterpretarci.<br />

“Mi sto aiutando”, scrivevo, per sottolineare l’importanza<br />

del tragitto interiore, che se tutelato, può aprire<br />

nuovi varchi alla conoscenza terapeutica.<br />

Il mio incontro con il tumore alla mammella è stato<br />

dirompente. Venivo da un periodo difficile e sofferto.<br />

La crisi matrimoniale mi ha messo a dura prova e non<br />

ho avuto forze per contrastarla. Le mie autodifese si<br />

sono isterilite e ho immagazzinato eccessivo dolore per<br />

poter uscire indenne da una situazione che psicologicamente<br />

non mi dava tregua. Solo oggi riesco a descrivere<br />

quei giorni di sofferenza, perché voglio aiutarmi<br />

per superare quel dolore. Credo che il male si possa attenuare<br />

solo parlandone, cercando di esternare quelle<br />

emozioni forti che si sono attaccate addosso e da cui<br />

ci possiamo salvare, se lo vogliamo in un cammino di<br />

speranza. Se dovessi confrontarmi con una donna che<br />

è passata o che attraversa simili vie, credo che le consiglierei<br />

di trascrivere, con parole dettate dal cuore, la<br />

sua esperienza, il dolore, l’angoscia che ha provato in<br />

quei momenti. Penso che la migliore terapia risieda in<br />

quelle parole, in quel vissuto esternato.<br />

Le parole descrivono, trasformano, creano emozioni,<br />

indagano, evocano, colpiscono e fanno bene, parlano di<br />

se stesse, eccitano il pensiero. Chiunque abbia tenuto<br />

un diario, in cui esprime i propri pensieri più profondi<br />

circa un’esperienza di sofferenza, sostiene che il tempo<br />

e lo sforzo ad esso dedicati, sono stati ampiamente ricompensati<br />

dai benefici ottenuti nella propria salute.<br />

Come scrive Isabelle Allende nella sua autobiografia “<br />

Paula”: «La mia vita si fa nel narrarla e la mia memoria<br />

si fissa con la scrittura; ciò che non riverso in parole<br />

sulla carta lo cancella il tempo. Ma il racconto mi aveva<br />

preso e non potei più fermarmi, altre voci parlavano attraverso<br />

di me, scrivevo in trance, con la sensazione di<br />

andar dipanando un gomitolo di lana, e con la stessa urgenza<br />

con cui scrivo adesso. Alla fine dell’anno si erano<br />

accumulate 500 pagine in una borsa di tela e capii che<br />

non era più una lettera; allora annunciai timidamente<br />

alla famiglia che avevo scritto un libro. Quel libro mi<br />

salvò la vita. La scrittura è una lunga introspezione, è un<br />

viaggio verso le caverne più oscure della coscienza, una<br />

lenta meditazione».<br />

Questo ascoltarsi interiore, dando vita al processo che ci<br />

ha costruiti come donne ed uomini, non può che sollecitare,<br />

anche, una <strong>maggio</strong>re cultura dell’ascolto<br />

che diviene, oggi, sempre più necessaria e<br />

meritoria. Educati come siamo alla cultura<br />

dell’applauso non sappiamo neanche dove<br />

sta di casa la cultura dell’ascolto. Scrive<br />

Umberto Galimberti: «Distribuiamo<br />

farmaci per contenere la depressione,<br />

ma mezz’ora di tempo<br />

per ascoltare il silenzio del<br />

depresso non lo troviamo<br />

mai. Con i farmaci, utili<br />

senz’altro, interveniamosull’organi-<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 80


smo, sul meccanismo biochimico, ma la parola strozzata<br />

dal silenzio e resa inespressiva da un volto che sembra<br />

di pietra, chi trova il tempo, la voglia, la pazienza, la disposizione<br />

per ascoltarla? Tale è la nostra cultura».<br />

E ancora: «Non si può parlare neppure di disperazione,<br />

perché l’anima del depresso non è più solcata dai residui<br />

della speranza. Bisogna avere il coraggio di vivere<br />

fino in fondo anche l’insignificanza dell’esistenza per<br />

essere all’altezza di un dialogo con il depresso. E solo<br />

muovendosi intorno a questa verità, che è poi la verità<br />

che tutti gli uomini si affannano a non voler sentire, può<br />

aprirsi una comunicazione. Comunicazione rischiosa,<br />

non perché ci può trascinare nella depressione, ma perché<br />

può tradire la nostra insincerità. Il depresso, infatti,<br />

è sensibile al volto che smentisce la parola, e il suo silenzio<br />

smaschera la finzione e l’inconsistenza. Per questo i<br />

volti dei depressi sono rigidi e pietrificati».<br />

Si può spezzare questo cerchio tragico e perfetto? Sì,<br />

se siamo capaci di ritrovare l’essenza dell’uomo che<br />

Holderlin indica là dove dice: «Noi siamo un<br />

colloquio». Il colloquio è fatto di parole, ma le<br />

parole non si dicono solo, si ascoltano anche.<br />

Ascoltare non è prestare l’orecchio,<br />

è farsi condurre dalla parola dell’altro<br />

là dove la parola conduce. Se poi,<br />

invece della parola, c’è il silenzio<br />

dell’altro, allora ci si fa guidare<br />

da quel silenzio. Nel<br />

luogo indicato da quel<br />

silenzio è dato reperire,<br />

per chi ha uno<br />

sguardo forte e<br />

osa guardare<br />

in faccia il<br />

dolore,<br />

la verità<br />

avvertita dal nostro cuore e sepolta<br />

dalle nostre parole. Questa verità,<br />

che si annuncia nel volto di pietra<br />

del depresso, tace per non<br />

confondersi con tutte le altre<br />

parole.<br />

La depressione<br />

chiede<br />

ascolto.<br />

Poliscritture/Zibaldone Pag. 81


6 Letture d’autore<br />

i n c o n t r i e c o n f r o n t i c o n g l i a u t o r i c h e c i p a r l a n o<br />

Raccontami un altro<br />

mattino *<br />

Marcella Corsi<br />

Il freddo stringeva la città. Ma nella piazza orlata di luci<br />

al neon i giovani, passata la statua, voltavano e tornavano,<br />

sorridendo a quelli che andavano in giù. La madre preparava<br />

gulash o frittelle di patate per la cena. La sera il padre<br />

portava a casa il giornale, piegato in modo che si vedeva solo<br />

il titolo CORTINE DI FUMO PER PROTEGGERE LA CITTA’.<br />

«Forse la guerra non scoppierà subito». In piazza S. Venceslao<br />

nera di gente i cannoni sono lunghi come i tronchi degli alberi<br />

caduti. Oltre il Giardino delle rose, vuoto d’uccelli,<br />

le campane della chiesa mi rimbombano nello stomaco.<br />

«Non la voglio portare… Proverò giusto per una volta».<br />

Per la strada un’altra stella mi viene incontro. È un ragazzo<br />

che abita dall’altra parte della strada. Mi piace ma<br />

lui non mi degna mai d’attenzione. Oggi mi fa un gran sorriso<br />

e un cenno del capo… Vicino alla fermata del tram<br />

un’altra stella: saliamo sull’ultima vettura. Perché non abbiamo<br />

il permesso di entrare nella prima e nella seconda. Solo<br />

nella terza. La vettura è piena di stelle. Parlano e ridono<br />

e leggono il giornale come qualunque altro giorno. E<br />

penso: non si sono mai viste tante stelle di giorno. E di notte<br />

nessuno le può vedere – non abbiamo il permesso<br />

di girare per strada dopo il tramonto. Cambio le stelle.<br />

Dalla camicetta al maglione al cappotto. E poi ancora…<br />

Più stelle da portare e sempre di meno a portarle. Mi domando<br />

dove è finito il tempo e dov’è finita tutta la gente che conoscevo.<br />

Una volta alla settimana, e talora più spesso, una processione<br />

riempiva le strade della città. La luce del mattino<br />

avvolgeva l’oro battuto delle torri, ma le strade infossate erano<br />

buie. Camminavano per le strade con i bagagli numerati<br />

per la partenza definitiva. Non sapevano dove stavano andando<br />

né quando sarebbero tornati. Non capivano perché dovessero<br />

lasciare una città dove c’era abbastanza posto per loro.<br />

Tutta di pietra azzurrina, la città scorreva davanti ai loro occhi.<br />

Dietro le imposte chiuse la gente stirava le braccia, la bocca<br />

aperta in uno sbadiglio… gli uomini sollevavano appena<br />

la tapparella e guardavano giù in strada. Poi la lasciavano<br />

ricadere e si allontanavano dalla finestra. La processione<br />

Poliscritture/Letture d'autore Pag. 82


seguitava a camminare. Prima di entrare nella stazione<br />

i prescelti giravano ancora una volta gli occhi scuri sulla città.<br />

Coglievano attraverso un velo di lacrime l’ultimo scintillio<br />

delle torri. Sentivano aprire le prime serrande… Era come se<br />

la città si svegliasse solo allora. Quelli dietro le finestre alzavano<br />

le tapparelle. La città era più chiara adesso nella luce brillante<br />

del mattino. Era un giorno come qualunque altro, ora che<br />

la gente in marcia se n’era andata.<br />

Qui ci sono le cimici. Arrivano ogni notte in una lunga fila.<br />

Le aspetto e loro vengono. Abito in una fortezza<br />

e quella è una pattuglia di soldati. Mi pizzicano tutto<br />

il corpo con cento morsi. Ogni mattina seguo nel loggiato<br />

le altre donne con le coperte. Lì le battiamo per scuoterle via.<br />

Le cimici cadono al piano di sotto, sulle coperte che vengono<br />

arieggiate lì – e noi riceviamo altre cimici dal piano di sopra.<br />

«Se non faccio quello che fanno loro sono libera. Loro<br />

fingono di fare una vita normale, qui. E ogni settimana mille<br />

sono spediti chissà dove e ne arrivano altri mille…Non è<br />

una vita normale e non intendo fingere che lo sia. Con Ivan<br />

non voglio farlo. Non qui. Non ho più niente da perdere.<br />

Ma questo l’ho ancora». Durante la sosta ci stendiamo<br />

su uno dei tavoli ed Eva si addormenta… è distesa dritta<br />

sul tavolo ed è così che vive: dritta. In tutte le strade contorte<br />

di questa cittadella, Eva segue una linea bianca… l’ha tracciata<br />

lei così dritta e non riesco a immaginare nulla che possa<br />

farla deviare. Nemmeno un pezzo di pane. Eva si sveglia,<br />

ammicca verso di me e dice: «Sai una cosa? Lo amo.<br />

Ci sposeremo quando sarà finita».<br />

La sera aspettiamo mio padre. Di ritorno dalla selezione.<br />

Prima nel pomeriggio abbiamo visto Eva tornare<br />

dalla selezione; ci ha salutate con la mano da lontano<br />

e ho capito che era finita a destra. Ora aspettiamo mio padre.<br />

La mamma è sempre in piedi. Io mi sono seduta da un pezzo.<br />

Da quando se n’è andata Eva. Sono molto stanca –<br />

da quando se n’è andata Eva. «Non ti vuoi sedere, mamma?»<br />

«No. grazie. Lo vedo prima se sto in piedi». Ora la vedo<br />

sussultare. Mi alzo. Lo vedo che viene verso di noi…<br />

come uno che non ha fretta e non ha dove andare.<br />

«Da che parte sei andato?» Mio padre solleva un piede<br />

sulla caviglia, a testa china; poi col tallone smuove il terriccio.<br />

Lo pareggia col piede, guardando per terra. Alza la testa,<br />

stringe le labbra. «Ah…» come se l’avesse scordato.<br />

«A sinistra… sono andato a sinistra».<br />

* Zdena Berger, Raccontami un altro mattino,<br />

Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007<br />

[annusato per via di Fusini su «La Repubblica», letto d’un fiato.<br />

Ma perché una traduzione dall’inglese? Che sia stato scritto<br />

in inglese? Si spiegherebbe la scrittura così semplice…<br />

L’autrice, nata a Praga, vive negli U.S.A. da molto tempo.]<br />

Poliscritture/Letture d'autore Pag. 83


Appunti su<br />

Verbale di<br />

Michele Ranchetti<br />

Ennio Abate<br />

Ora già tutto è diventato breve:<br />

la luce, il passo e lo stesso mio corpo<br />

e breve è il tempo e breve la distanza<br />

tra me e la fine se anche la durata<br />

della vita è immensa<br />

(Ranchetti, Verbale, pag. 23)<br />

Michele Ranchetti (1925-<strong>2008</strong>), studioso di storia della<br />

Chiesa, di Wittgenstein, Heidegger e Freud, saggista,<br />

poeta, traduttore di Celan e Rilke, è morto il 2 febbraio.<br />

L’avevo intervistato nel 2005 per «Poliscritture» (Cfr.<br />

n. zero, <strong>maggio</strong> 2005 o su www.<strong>poliscritture</strong>.it) su Non<br />

c’è più religione (Garzanti 2003), libro in cui svolgeva<br />

un discorso drastico e spietato su quello che più tardi<br />

avrebbe chiamato «il disagio nella civiltà cristiana»<br />

(Cfr. il numero monografico de «L’ospite ingrato», 2,<br />

2006, da lui curato). Con questi appunti sull’immagine<br />

che mi sono costruita di lui e la poesia del suo Verbale<br />

(Garzanti 2001) qui lo ricordo 1 .<br />

1.<br />

Ranchetti, uomo cresciuto interamente nell’epoca del<br />

Libro, espone in Verbale una verità quasi insopportabile.<br />

Ci cozzo contro quando leggo versi come questi:<br />

«Tu vivi, viviamo, nell’altro<br />

lato del foglio che riceve il senso<br />

dal suo contrario e quando tu lo vedi<br />

è tardi per la vita, hai compiuto<br />

tutto il tragitto, sei al di là<br />

di te stesso, sei te stesso morto». 2<br />

Tale verità egli la coglie in quei «momenti di un giro a<br />

vuoto mentale» 3 permessi solo dalla poesia e non è «trasmettibile,<br />

né convertibile in una forma diversa (filosofica,<br />

religiosa, estetica)». 4 Non può dunque essere “narrata”<br />

o “spiegata” (il che comporterebbe una distensione<br />

temporale decisa ad arbitrio). Per lui può essere fissata<br />

soltanto in «momenti (frammenti)» 5 . E perciò Verbale<br />

non è il rendiconto di uno scienziato: quella verità, rimuginata<br />

dentro per una vita intera e tutta interiore, ha<br />

1 Questi miei appunti su Verbale sono visibili in una stesura<br />

più ampia su www.<strong>poliscritture</strong>.it : (Cerca: Ranchetti> L’ombra<br />

in poesia).<br />

2 M. Ranchetti, Verbale, pag. 96, Garzanti, Milano 2001<br />

3 M. Ranchetti, La mente musicale, pag. 7, Garzanti, Milano<br />

1988<br />

4 Verbale, pag. 133.<br />

5 Verbale, pag. 133.<br />

solo in superficie tratti oggettivi; va sentita; a descriverla<br />

sfugge o appare ovvia, banale.<br />

2.<br />

So cosa incontrerò in questa raccolta: nube (ombra),<br />

malattia, morte dell’animale (dell’uomo). Vado incontro<br />

a una scarnificazione del mondo, alla sua assenza.<br />

Lo spirituale esclude il secolare:<br />

Il gioco è fermo: il mondo<br />

se il bambino delira: exivi<br />

da saeculo dove corrisponde<br />

alla mia morte solo la mia morte<br />

il vuoto nelle reti fra chi vive<br />

e chi precipita. 6<br />

In poesia - e in maniera ancora più decisa che nei suoi<br />

scritti in prosa - la storia, la politica, l’industria, la lotta<br />

di classe, la “realtà” (ciò che ha occupato - ancora occupa<br />

- la mia mente e logora i nostri corpi) - sono abolite.<br />

Qui Ranchetti volge ancora più decisamente le spalle a<br />

quotidianità, cronaca e storia. Da lui, che ha continuato<br />

attivamente a pensare e ad agire nell’habitat del pensiero<br />

religioso cattolico, noi che ci siamo voluti adulti e<br />

moderni, rimaniamo separati.<br />

3.<br />

Ranchetti è rimasto “cattolico”, dunque? Credo di sì. Ma<br />

con un cattolico che, scrivendo Praevalebunt 7 o Intellettuali<br />

e Chiesa cattolica: tesi (ora in Non c’è più religione<br />

8 ), ha svelato il nichilismo del«cattolicesimo di questi<br />

inizi del terzo millennio», 9 atei, agnostici o non credenti<br />

possono, se non intendersi, confrontarsi al di fuori dai<br />

mille equivoci presenti nei discorsi su “ritorno della religione”,<br />

“ateismo devoto”, “teocon”.<br />

4.<br />

Per la sua “nostalgia di cristianesimo”, Ranchetti sta su<br />

un altro piano rispetto a un Fortini o a un Ernst Bloch,<br />

che, prospettando un possibile e reciproco inveramento<br />

utopico sia del dramma religioso che di quello mondano,<br />

hanno avuto il merito ai miei occhi di spingersi più<br />

di lui verso un possibile punto di confluenza tra cristianesimo<br />

antico e marxismo moderno. La sua a-mondanità<br />

è così netta che, al confronto, la religiosità di un Bloch<br />

o di un Fortini non possono apparire che “teatrali”, il<br />

che – credo – spieghi la sua disattenzione al primo e le<br />

sue rimarcate riserve nei confronti del secondo. Non c’è<br />

posto in Ranchetti per la contraddizione nella storia. Il<br />

dramma in lui resta solo religioso. E perciò, coerentemente,<br />

anche in poesia egli respinge una «poetica [che<br />

non abbia] carattere di esperienza particolare», com’è<br />

quella fortiniana, fino a trovarla «risultato di un esercizio<br />

di ragione, sia pur di ragione poetica» che preclude<br />

«quelle cadute verticali nell’immaginazione poetica (e<br />

6 Verbale, pag. 55.<br />

7 Cfr. La rivista del manifesto, n. 10 ottobre 2000.<br />

8 M. Ranchetti, Non c’è più religione, Garzanti, Milano 2003.<br />

9 M. Ranchetti, Non c’è più religione, pag. 14, Garzanti, Milano<br />

2003.<br />

Poliscritture/Letture d'autore Pag. 84


sia pure un Grand Hotel Abgrund)» che per lui sono<br />

l’essenziale in poesia. 1 Quando la spinta poetica si affaccia<br />

nella mente di Ranchetti, il dramma storico, da lui<br />

pur indagato sul versante della storia della Chiesa, è del<br />

tutto accantonato e vanificato: «l’assenza / si introduce<br />

ed è l’essenza – egli scrive - e la luce è «luce del morto<br />

in te, luce / luce perpetua del compito, luce / precipua<br />

d’ombra, contro luce». 2<br />

5 .<br />

Nella Postfazione Ranchetti parla di figure che hanno<br />

agito nella sua esperienza e con le quali ha stabilito<br />

«un’alleanza affettiva e teoretica» 3 . Sono le fonti del<br />

suo sentire: familiari, amici, conoscenti (le allusioni più<br />

chiare paiono quelle riferibili ai genitori, ai figli) già fattisi<br />

però pensiero. E quindi sapere i nomi di alcuni suoi<br />

reali interlocutori– come aveva lui stesso precisato nella<br />

precedente raccolta, La mente musicale - non aggiunge<br />

molto di più a quanto i versi passano.<br />

6.<br />

Per chi verbalizza Ranchetti? Sento nella sua poesia<br />

l’assenza del noi, diciamo pure del fantasma che tanto<br />

ha agitato fra Otto e Novecento almeno la parte dei<br />

poeti e degli intellettuali che mi sono scelto come riferimento.<br />

Ranchetti era estraneo ad ogni retorica del<br />

noi o della “fraternità”. Quindi mancano in questi versi<br />

l’intento didattico, la volontà di colloquio, la fiducia nel<br />

cercare assieme agli altri. Manca pure la spinta a persuadere<br />

qualcuno della verità che egli vuole, scrivendo,<br />

salvare dalla distruzione del tempo. Non dico che c’è solipsismo<br />

nella sua scrittura, ma, soprattutto nella poesia,<br />

una solitudine vissuta in modi estremi nel pensiero<br />

e nel linguaggio.<br />

7.<br />

In poesia, Ranchetti abbrevia:<br />

Vivo in una cassa<br />

da vivo: morto<br />

sarò risorto. 4<br />

In modo rigorosamente intellettuale l’ansioso suo percorso<br />

di vita (termine da lui svalutato, se non dileggiato)<br />

e d’esperienza (termine non assente dal suo lessico<br />

ma accompagnato da una forte consapevolezza del «limite»,<br />

e cioè della morte incombente come sua conclusione)<br />

viene contratto e accorciato. 5 Sappiamo che esso<br />

è stato lungo e multiforme, ma, in coerenza con il princìpio<br />

religioso della sua poesia, egli riassume la vicenda<br />

(«le origini / i parenti modesti, la severa / pratica di<br />

pietà religiosa e civile» 6 ) nel nulla, nella morte, in quella<br />

1 M. Ranchetti, Scritti diversi II, pag. 236, Edizioni di storia e<br />

letteratura, Roma 1999.<br />

2 Verbale, pag. 98.<br />

3 Verbale, pag. 133.<br />

4 Verbale, pag. 60.<br />

5 Verbale, pag. 39: : «Non si può immaginare / come del lungo<br />

itinerario resti / solo la fine».<br />

6 Verbale, pag.39.<br />

che Mengaldo chiama «”metafisica”» 7 . L’antivitalismo<br />

di Ranchetti si coglie in questi versi:<br />

8.<br />

Sottrae, erode, distrugge<br />

per una<br />

ragione di morte, per un<br />

assillo che ostenta<br />

d’essere priva mentre altri vivono<br />

come immortali nel nulla<br />

di cui lei, lei sola, è consapevole.<br />

Cerca di persuadere tutti<br />

qui e ora a morire<br />

senza perdere tempo ancora a vivere.<br />

Spettro immortale domini il presente<br />

con la tua cenere fragile tra gli arti<br />

dell’esistente e distruggi il presente<br />

perché lo escludi dal principio, dal prima<br />

del tuo vivere assente.<br />

In questo «percorso conoscitivo, fissato in punti di illuminazione<br />

e di ombra» a me pare che Ranchetti si sia<br />

misurato soprattutto con le ombre, con «i punti morti di<br />

luce», fiducioso che, connettendosi tra loro, essi diano<br />

luogo (non dice: possono o potrebbero…) a «momenti<br />

(frammenti) di chiarezza». Di ombra, di oscurità (del<br />

linguaggio stesso), sin dalla prima lettura delle sue poesie<br />

ne ho trovata tanta. E mi sono chiesto quanto ciò<br />

fosse dovuto a mia ignoranza o al distanziamento dal<br />

mondo cristiano-cattolico-borghese di Ranchetti. Ma è<br />

davvero più “intelligibile” oggi questa sua poesia a un<br />

cattolico o a un cristiano? Tanta ombra non sarà dovuta<br />

al suo sporgersi (ricorro a Giudici 8 ) «nell’aldilà di ogni<br />

oltranza dell’esserci» che l’ha portato in Non c’è più<br />

religione? alla stessa negazione o messa in dubbio del<br />

pensare religiosamente? Chi afferma, comunque, che<br />

Ranchetti rientrerebbe interamente in «quella grande<br />

tradizione mistica (che ebbe, da noi, in Clemente Rebora<br />

il suo estremo grande testimone)» mi pare che<br />

addolcisca l’intero suo percorso. 9 Davvero l’”oscurità”<br />

ranchettiana è apparentabile a una «laica noche oscura»,<br />

come hanno scritto in occasione della sua morte<br />

vari commentatori?<br />

9.<br />

Non sono in grado di intendere la qualità di quest’ombra<br />

ranchettina (e – lo ammetto – della stessa oscurità<br />

per me di tanti suoi versi). Eppure da questa difficoltà<br />

non ho tratto alcun sentimento di rifiuto nei confronti di<br />

7 P.V. Mengaldo, Op. cit. pag. 433.<br />

8 Verbale, seconda di copertina.<br />

9 Ancora Giudici nel risvolto di copertina di Verbale. Secondo<br />

me, il percorso di Rebora è inverso a quello di Ranchetti,<br />

tant’è vero che per il primo si conclude con il sacerdozio,<br />

mentre Ranchetti nella Prefazione di Non c’è più religione<br />

arriva a questa conclusione sicuramente antitetica: «Di fronte<br />

a queste autorità religiose e civili l’unica virtù che può forse<br />

recuperare un senso religioso alla vita, se mai un senso religioso<br />

fosse necessario, e non è affatto detto, è la disobbedienza<br />

“cieca e assoluta” perinde ac cadaver. Letteralmente. Forse il<br />

resto verrà da sé» (pag. 14).<br />

Poliscritture/Letture d'autore Pag. 85


questa poesia. Anzi, proprio perché tanto ostica (sicuramente<br />

più dei suoi Scritti diversi 1 ), mi spinge a fissare<br />

con precisione i miei «non capisco» (i miei “limiti”).<br />

10.<br />

Ranchetti, a differenza di tanti poeti che in poesia vogliono<br />

metterci la vita, ci mette la morte. Non è il primo.<br />

Dante da vivo ha immaginato un viaggio di purificazione<br />

e di rinascita (alla vita, a una vita ancora umana, ma<br />

più consapevole del divino) nel mondo dei morti. Ma<br />

quello di Ranchetti non è un viaggio. Non c’è «tragitto»<br />

né «progetto»:<br />

«Potestas interpretandi»: ciascun uomo<br />

io prima della fine ho ancora il compito<br />

almeno di capire<br />

la perdita del senso.<br />

Qui, perduto il carattere<br />

del qualsiasi progetto, riconosco<br />

solo l’assenza di un tragitto»: fine<br />

uguale a fine perenne riconquista<br />

grado a grado il suo corso<br />

e corrisponde al mirabile. 2<br />

La sua mi pare un’operazione più drastica anche di quella<br />

che fece Leopardi. Nel poeta di Recanati, il sentimento<br />

di morte e la disperazione lasciavano intravedere la<br />

vita (che spettava magari agli altri più che a lui). Qui no.<br />

Il “piacere della vita”, ogni piacere, è negato. Ranchetti<br />

non si finge morto (come ad es. fa Giudici in una nota<br />

poesia). Non pensa da morto la vita, come fa Leopardi.<br />

Nella vita sta da «sasso», da «albero». 3 Mi pare che egli<br />

pensi da morto la morte. Ci dà una poesia mortificata,<br />

rinsecchita, scheletrica (come lo sono le immagini di<br />

corpi umani e di animali – specie alcuni gallinacei - che<br />

egli fissò in disegni tanto vicini al primo Paul Klee 4 ). Avrà<br />

accolto – come dicono - quasi solo Rebora, ma sottoponendo<br />

la sua lezione a un’ulteriore depurazione (delle<br />

immagini ad es.). La sua distanza dai modi poetici più<br />

consueti è enorme: dove un poeta di solito mette un’immagine,<br />

Ranchetti mette un pensiero. E non credo si sia<br />

mai occupato di poetica o di tecniche poetiche. La biografia,<br />

la sociologia, almeno nel suo caso, aiutano fino<br />

ad un certo punto. Sì, è un borghese, è un cattolico, ma<br />

ciò non spiega questo tipo di poesia. E davvero queste<br />

sono ancora poesie? La domanda non è provocatoria,<br />

perché qui la letteratura viene cancellata. Egli le volta<br />

le spalle, guarda altrove, neppure “l’attraversa”, come<br />

si dice. Si tratta, invece, di una stenografia dell’anima<br />

che delira e, per afferrarne il codice (se si ha la tenacia<br />

o la fiducia di poterlo afferrare...), bisognerebbe rifare<br />

tutto il «percorso conoscitivo» che l’autore afferma di<br />

aver abbreviato e «fissato in punti di illuminazione e di<br />

ombra».<br />

Vincenti<br />

1 M. Ranchetti, Scritti diversi, Edizioni di storia e letteratura,<br />

G.De di<br />

Roma 1999.<br />

2 Verbale, pag. 30.<br />

3 Verbale, pag. 91.<br />

dell’uomo<br />

4 Cfr. M. Ranchetti, Scritti in figure, Edizioni di storia e letteratura,<br />

Roma 2002. L’ombra<br />

Poliscritture/Letture d'autore Pag. 86


Mondi che<br />

finiscono<br />

Massimo Cappitti<br />

In un breve scritto intitolato Furore in Svezia Ernesto<br />

De Martino si chiede perché, inaspettatamente, i giovani<br />

svedesi diano vita - «senza premeditazione e senza<br />

organizzazione senza capo e senza scopo» 1 - a manifestazioni<br />

caratterizzate da un inesplicabile «furore distruttivo».<br />

Questi episodi di violenza, infatti, non sono<br />

diretti in particolare contro qualcuno o qualcosa. Non<br />

esistono un piano o un progetto entro cui si inscrivono,<br />

né sono finalizzati al raggiungimento di un obiettivo,<br />

qualsivoglia sia la sua natura. Sembrano, piuttosto,<br />

rispondere a un «richiamo misterioso» come se quei<br />

giovani ubbidissero ad una religione le cui regole fossero<br />

note solo a loro e che, per consolidarsi, richiedesse<br />

epifanie così clamorose.<br />

Vi è, nel prodursi di questi atti, una gratuità radicale e<br />

assoluta, determinata a restare tale, senza la ricerca di<br />

mediazioni o di istanze destinate a rappresentarla. In<br />

effetti «questi ribelli senza causa non si propongono rapina<br />

o vendetta nel senso comune di queste parole: sono<br />

mossi da un impulso di annientamento delle persone e<br />

delle cose». 2 Li anima, cioè, il desiderio di «ridurre in<br />

cenere il mondo», ovvero di trascinare la realtà apparentemente<br />

ordinata e consolidata nel nulla da cui proviene.<br />

Eppure, come cercherò di mostrare, credo che non solo<br />

di questo si tratti, ovvero di una esplosione di cieca e<br />

immotivata violenza, come sembra sostenere De Martino.<br />

Ritengo, infatti, che, di quegli eventi, De Martino<br />

evidenzi soltanto il carattere distruttivo, trascurando,<br />

invece, il fatto che quelle manifestazioni, al di là delle<br />

intenzioni di chi vi prende parte, determinano, anche,<br />

una rottura nell’ordine dominante, portandone così alla<br />

luce, insieme alla sua infondatezza, la sua revocabilità.<br />

Svelano, in tal modo, seppure in maniera inconsapevole<br />

e confusa, la fragilità e la contingenza del fondamento<br />

su cui la realtà si regge e dal quale trae la pretesa di vigere<br />

e di valere, come se, inamovibile, essa potesse, immune<br />

dagli «strappi del tempo», durare per sempre.<br />

Il reale, allora, in quegli istanti di furore, appare, finalmente,<br />

come effettivamente è: una costruzione di senso<br />

labile e infondata perché si affaccia sull’abisso da cui,<br />

con fatica, ha preso forma, pronta a rientrarvi perché<br />

preda del potere corrosivo che sempre la insidia. 3<br />

1 E. De Martino, Furore in Svezia, in Furore simbolo valore,<br />

Feltrinelli, Milano 2002, p. 167. De Martino si riferisce, in particolare,<br />

a un episodio di violenza urbana avvenuta la sera di<br />

capodanno del 1956 a Stoccolma.<br />

2 Ivi, p. 168.<br />

3 Riprendo, a questo proposito, le intuizioni di Castoriadis a<br />

L’ordine dei significati, pertanto, appare rovesciabile e<br />

le concrezioni di senso – salde solo all’apparenza – perdono<br />

la loro presa, cosicché i possibili inespressi e latenti<br />

nelle pieghe della storia tornano, leibnizianamente, a<br />

rivendicare il loro diritto ad esistere. Si produce, così,<br />

una sospensione nel corso ordinario del tempo grazie<br />

alla quale nuove forme potrebbero affermarsi.<br />

Allora, le manifestazioni di violenza parossistica e gratuita<br />

rivelano, seppure in modo contraddittorio, insieme<br />

all’infondata pretesa dell’esistente a porsi come unico<br />

e definitivo, altre prospettive capaci di scardinarne<br />

l’univocità. All’improvviso, accostati, appaiono, l’uno<br />

accanto all’altro, il vecchio mondo destinato a morire e<br />

il nuovo ancora di là da venire.<br />

La «potenza di eversione», però, altrettanto repentinamente<br />

come è sorta, si esaurisce e declina senza che<br />

da essa nascano legami significativi: la sua opera resta<br />

incompiuta. «Le bande temporanee si sciolgono così<br />

come si sono formate, senza lasciare traccia di rapporti<br />

oltre la scarica distruttiva». 4<br />

Tutto, allora, si ricompone come se nulla fosse accaduto,<br />

come se fosse impossibile a quegli eventi di raccogliersi<br />

e precisarsi in un’esperienza. In questa enigmatica<br />

repentinità – di formazione prima, poi di disgregazione<br />

– risiedono, contemporaneamente, la forza e la<br />

«vulnerabilità» della massa, l’ebbrezza dello slancio e<br />

del superamento dei limiti e, insieme, la stanca e rassegnata<br />

caduta, accompagnata dal presentimento della<br />

fine imminente che non tollera ulteriori differimenti,<br />

perché gerarchie e ruoli devono essere ripristinati e le<br />

differenze ribadite. Cose, persone, rapporti, istituzioni<br />

riacquistano i loro profili rassicuranti e l’ordine, che finalmente<br />

sembrava capovolto, riprende la sua abituale<br />

configurazione.<br />

Nel momento della «scarica» - quando, cioè, la massa,<br />

come scrive Canetti, davvero esiste perché i suoi componenti<br />

«si liberano dalle loro differenze e si sentono<br />

uguali» 5 - proprio nel punto più alto della sua potenza,<br />

inizia il suo declino. Rimangono, allora, solo «l’angosciata<br />

esplosione di puro furore distruttivo» 6 e la forza<br />

di negazione esercitata a caso.<br />

De Martino, però, sembra non considerare il valore liberatorio<br />

di questa esperienza, intravisto, invece, da<br />

Canetti. Non solo, quindi, un furore estremo ma anche<br />

«l’attacco a tutti i confini» e la distruzione del potere<br />

vincolante delle immagini, espressione di gerarchie prive,<br />

ormai, di ogni legittimità. Se la «rigidità» granitica<br />

di quelle immagini rappresentava il contrassegno della<br />

loro «permanenza» e stabilità, ora, invece, «travolte»,<br />

cui rinvio per un approfondimento di questo tema. Tra i libri<br />

di Castoriadis si vedano L’immaginario capovolto, Elèuthera,<br />

Milano 1987; L’istituzione immaginaria della società, Bollati<br />

Boringhieri, Torino 1995; L’enigma del soggetto, Dedalo, Bari<br />

1998; Finestra sul caos, Elèuthera, Milano 2007. Cfr. anche i<br />

libri di Mario Pezzella, Narcisismo e società dello spettacolo,<br />

Manifestolibri, Roma 1996; Il volto di Marilyn. L’esperienza<br />

del mito nella modernità, Manifestolibri, Roma 1999.<br />

4 E. De Martino, Furore in Svezia, cit., p. 168.<br />

5 E. Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981, p. 21.<br />

6 E. De Martino, Furore in Svezia, cit., p. 168.<br />

Poliscritture/Letture d'autore Pag. 87


«giacciono in rovina». 1<br />

De Martino scorge in quella violenza giovanile soprattutto<br />

l’emergere dell’angoscioso sentimento di «essere<br />

afferrati dalla violenza del non umano», 2 l’attrazione<br />

per il caos magmatico che soggiace ad ogni costruzione.<br />

I giovani di Stoccolma, nel momento in cui accettano di<br />

spegnere «il lume della coscienza vigilante» e di «annientare»<br />

tutto ciò che «testimonia a favore dell’umanità<br />

e della storia», sembrano ispirati più dalla freudiana<br />

pulsione di morte che dallo spinoziano desiderio di<br />

vita. Risuona, pertanto, nella loro «abdicazione» alla<br />

«persona», intesa come «centro di decisione e di scelta<br />

secondo valori», 3 il cupo fascino dell’indistinto e la «nostalgia<br />

del nulla».<br />

Gli eventi svedesi, dunque, mettono in scena la fine del<br />

mondo, la possibilità che questi, senza remissione, rovini<br />

definitivamente. Balena, in quel momento, il «rischio<br />

radicale» - che mina ogni cultura, destinandola alla morte<br />

- «di non poter iniziare nessun mondo possibile», 4 di<br />

non intravedere un «oltre» capace di ricomporre i frantumi<br />

in una nuova formazione di senso.<br />

De Martino distingue, a questo proposito, tra l’esperienza<br />

della fine di “un” mondo, «esperienza salutare, connessa<br />

alla storicità della condizione umana», 5 segnata<br />

da passaggi temporali – le età della vita, ad esempio – e<br />

la fine “del” mondo, possibilità mortale per una cultura<br />

o un individuo quando non includa «un progetto di<br />

vita» in grado di «mediare una lotta contro la morte».<br />

Allora «l’energia morale che sopravvive alle catastrofi<br />

dei suoi mondi» 6 si inaridisce, chiudendo culture e singoli<br />

nella loro incomunicabile privatezza.<br />

Se De Martino è inquietato dalla rinuncia all’esercizio<br />

critico della ragione, dall’immediatezza che, di là da<br />

ogni forma, si manifesta deflagrando, tuttavia sa bene<br />

che eventi simili hanno, da sempre, accompagnato nelle<br />

società il delicato – perché potenzialmente letale – passaggio<br />

dal caos al cosmo.<br />

Nelle culture tradizionali, però, la sovversione dei valori<br />

condivisi veniva, attraverso il rito e il mito, imbrigliata e<br />

incanalata in forme riconoscibili che ne impedissero lo<br />

scatenamento incontrollabile. Il rito, facendo coincidere<br />

«aspetti di distribuzione e di annientamento dell’ordine<br />

sociale vigente» e «l’opposto momento della reintegrazione<br />

dell’ordine e del ripristino dei valori sociali e<br />

morali», 7 permette di attribuire un sembiante rassicurante<br />

all’«inatteso» che minaccia di fluidificare i confini<br />

e rendere indeterminate le appartenenze e le identità.<br />

Non solo, nel momento in cui il rito consentiva di asse-<br />

1 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 23. Scrive Canetti: «Sono<br />

i forti suoni di vita di una creatura nuova, le grida di un neonato.<br />

La facilità con cui si suscitano li rende ancora più graditi;<br />

tutti si uniscono nel grido, e il fracasso è l’applauso delle<br />

cose». ( p. 23)<br />

2 E. De Martino, Furore in Svezia, cit., p. 169.<br />

3 Ibidem.<br />

4 E. De Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino 2002, p.<br />

630.<br />

5 Ibidem.<br />

6 Ivi, p. 631.<br />

7 E. De Martino, Furore in Svezia, cit., p. 170.<br />

gnare un senso all’«angoscia della storia», alla frattura<br />

che ne interrompeva lo svolgimento lineare, contribuiva<br />

a trasformare le tendenze distruttive in strumenti di<br />

rinnovamento dell’esistenza e di una «nuova fondazione<br />

simbolica». Come scrive Balandier, il rito «fa di ciò<br />

che provoca conflitto, lacerazione sociale e decadimento<br />

individuale un fattore di ricostruzione e di coesione». 8<br />

Garantisce, quindi, la rielaborazione collettiva del culto<br />

e, contemporaneamente, la possibilità di sperimentare,<br />

nel momento stesso in cui viene meno un mondo, un<br />

nuovo inizio.<br />

Quell’antica modalità religiosa, tuttavia, è scomparsa<br />

e con essa le narrazioni capaci di fornire un orizzonte<br />

allo sfaldamento delle forme e di «offrire una risoluzione<br />

culturale all’impulso di distruzione». 9 Appare, però,<br />

sterile – nonché equivoca e pericolosa come ogni «gergo<br />

dell’autenticità» che indichi nell’origine immutabile,<br />

nel tempo prima dei tempi, la pienezza del senso poi<br />

perduta negli smarrimenti della storia – ogni nostalgia<br />

per un mondo ormai tramontato.<br />

D’altra parte, la «democrazia laica», secondo De Martino,<br />

non ha ancora trovato narrazioni sostitutive altrettanto<br />

efficaci di quelle tradizionali, sebbene paia profilarsi<br />

un «nuovo umanesimo» che, da un lato, potrebbe<br />

restituire alle vite una nuova chance di raccogliersi in<br />

unità dotate di senso e, dall’altro, portare a compimento<br />

«un piano di controllo e di risoluzione culturale della<br />

vita istintiva» 10 che consenta ai mondi di finire senza che<br />

il mondo finisca.<br />

Posizione fragile perché inscritta ancora in una concezione<br />

progressiva della storia, fondata sulla convinzione<br />

che i nuovi valori umani si affermino irresistibilmente<br />

grazie alla loro ragionevolezza riconoscibile, nel tempo,<br />

da tutti.<br />

Resta la lucidità profetica di De Martino che ha saputo<br />

cogliere i segni della possibile catastrofe del mondo –<br />

della sua fine definitiva e immedicabile – presagio del<br />

furioso attacco capitalistico condotto in questi anni al<br />

vivente.<br />

8 G. Balandier, Il disordine. Elogio del movimento, Dedalo,<br />

Bari 1991, p. 49.<br />

9 E. De Martino, Furore in Svezia, cit., p. 171. Scrive De Martino:<br />

«Furore e impulso distruttivo erano dunque, attraverso<br />

la iniziazione stimolati a esplodere, ma al tempo stesso ricevevano<br />

uno schema mitico e cerimoniale che li trasformava<br />

in simboli della possessione da parte di un nume, in visibili<br />

testimonianze di una nuova esistenza, e nell’acquisto di un<br />

ruolo sociale definito nel quadro di un rinnovamento totale<br />

della comunità nel suo complesso». (p.172)<br />

10 E. De Martino, Furore in Svezia, cit., p. 174. Scrive De Martino:<br />

«Si è verificata una crisi delle credenze tradizionali, ma<br />

gli individui non trovano ancora nella società i modi adatti per<br />

partecipare attivamente alla esperienza morale che alimenta<br />

la democrazia laica, e per sentirsi protagonisti del suo destino».<br />

(p. 174) Poco sopra si legge: «È da tempo che una cupa<br />

invidia del nulla, una sinistra tentazione da crepuscolo degli<br />

dei, dilaga nel mondo moderno come una forza che non trova<br />

adeguati modelli di risoluzione culturale, e che non si disciplina<br />

in un alveo di deflusso e di arginamento socialmente accettabile<br />

e moralmente conciliabile con la coscienza dei valori<br />

umani faticosamente conquistata nel corso della millenaria<br />

storia dell’Occidente». (p. 173)<br />

Poliscritture/Letture d'autore Pag. 88


I giovani di Vidari<br />

Rimangono inevase, per il pensiero critico, alcune questioni<br />

fondamentali che riguardano, ad esempio, la ridefinizione<br />

del rapporto tra democrazia e capitalismo<br />

o il profilarsi della democrazia autoritaria come forma<br />

di governo della società attraverso la produzione, come<br />

scrive Marx, di stati di eccezione. Altresì resta aperta la<br />

domanda come possa il novum «sorgere dall’ordine e a<br />

sfuggire ai vincoli che questo impone». 1 Domanda tanto<br />

più urgente quanto più insistenti i diversi poteri fanno<br />

sentire le loro voci. Allora, diventa tanto più necessario<br />

riabilitare il pensiero e la pratica del conflitto contro il<br />

pensiero dell’ordine e del disciplinamento, poco importa<br />

se imposto con la forza o attraverso il «totalitarismo<br />

morbido» e il potere seduttivo e ipnotico delle merci nel<br />

mondo ridotto ormai, come ha sottolineato Anders, a<br />

pura «esposizione pubblicitaria». Occorre, intanto, - e<br />

non è poco - «produrre una diversa descrizione del mondo<br />

nella quale la considerazione del movimento e delle<br />

sue fluttuazioni prevalga su quella delle strutture, delle<br />

organizzazioni, delle permanenze». 2 Si tratta, infine, di<br />

salvaguardare, del reale, quella felice e feconda ambivalenza<br />

irriducibile ad ogni formalizzazione definitiva, ad<br />

ogni identità costrittiva, a ogni rigida “naturalizzazione”<br />

che condanni l’umano a un destino di soggezione irriscattabile<br />

e insuperabile.<br />

1 G. Balandier, Il disordine, cit., p. 19.<br />

2 Ivi, p. 18.<br />


Storia della<br />

rivista «Fogli di<br />

informazione»<br />

Premessa<br />

7 Sulla giostra delle riviste<br />

Paolo Tranchina<br />

con la collaborazione di<br />

Maria Pia Teodori<br />

La rivista «Fogli di Informazione» nasce a Milano,<br />

nel 1969, figlia della contestazione e delle lotte<br />

antistituzionali, dall’incontro cioè tra il “Collettivo di<br />

intervento nelle istituzioni”, e l’équipe dell’ospedale<br />

psichiatrico di Gorizia, allora diretto da Agostino<br />

Pirella.<br />

Dopo circa un anno di incontri, il gruppo, alla fine del<br />

1970, inizia la pubblicazione di un bollettino ciclostilato.<br />

Ne seguiranno 13 numeri, fino al settembre 1972, quando<br />

esce il primo fascicolo a stampa, il N° 01, firmato da<br />

Vittorio Gregotti e Luca Petrella.<br />

È la prima serie stampata, con la copertina marrone, di<br />

carta da pacchi, e il numero grosso, in alto a destra, che<br />

dura nove anni, fino al N° 70 nel 1980.<br />

Ad essa seguono, dall’anno dopo la morte di Franco<br />

Basaglia, altri 116 numeri, fino al N° 205. È la seconda<br />

serie stampata, con il bordo superiore colorato e il<br />

labirinto in prima pagina, la grafica è di Giovanni<br />

Troni.<br />

Nel 1984 comincia la collana dei «Fogli di Informazione»,<br />

che da allora ha stampato 35 libri. La grafica è di<br />

Giovanni Anceschi.<br />

L’editore è stato, fino al 2006, il Centro di<br />

Documentazione di Pistoia. Il nuovo editore è la DBA<br />

di Firenze, una associazione informatica no-profit. La<br />

nuova grafica è di Luca Marzi che ha elegantemente<br />

integrato le precedenti copertine.<br />

La nascita dei «Fogli di Informazione»: Milano,<br />

Zurigo<br />

Verso la fine dell’estate del 1969 frequentavo il secondo<br />

anno dell’Istituto Carl Gustav Jung di Zurigo, e dividevo<br />

il mio tempo tra la Svizzera e Milano, dove avevo<br />

cominciato a lavorare come analista privato e militavo in<br />

Lotta Continua. A ripensarci erano veramente formidabili<br />

quegli anni, come ha scritto Mario Capanna, sembrava<br />

praticamente che non ci fosse quasi bisogno di dormire,<br />

e che ognuno di noi fosse indispensabile, almeno in due<br />

o tre posti, sempre, contemporaneamente.<br />

p e r c a p i r e c h i s’a l l o n t a n a e c h i s’a c c o s t a<br />

Con Zurigo avevo scelto di andare direttamente alle<br />

fonti di un sapere che mi affascinava, la psicologia<br />

analitica, lavorando con un gruppo di docenti molti dei<br />

quali erano stati diretti allievi di Carl Gustav Jung. Gli<br />

analisti dell’Istituto erano estremamente colti e attenti<br />

allo sviluppo di ogni singolo allievo, portando avanti<br />

una cultura capace di spaziare oltre il provincialismo, il<br />

bigottismo nostrani, approfondendo sistematicamente<br />

l’ermeneutica simbolica e tenendo insieme l’universale<br />

e il particolare. Per questo è con profonda riconoscenza<br />

che ricordo Adolfo Guggenbuhel-Craig, Marie Louise<br />

Von Franz, Dieter Baumann, Dora Kalff, per non citare<br />

che alcuni dei docenti che hanno preceduto il successivo<br />

lavoro con Norman Elrod.<br />

A Milano vivevo in una comune in cui c’era anche<br />

Mario Mariani, da poco entrato alla televisione come<br />

regista. L’atmosfera della casa era ricca e stimolante:<br />

politica, cinema, cultura, psicanalisi, e anche psichiatria<br />

alternativa, ovviamente. Avevo infatti letto “Che cos’è<br />

la psichiatria ?”, edito nel 1967 dall’Amministrazione<br />

Provinciale di Parma, curato da Franco Basaglia.<br />

“Quando ho finito a Zurigo, è con questi qui che voglio<br />

lavorare”, avevo pensato, per cui seguivo con attenzione<br />

l’evolversi delle esperienze alternative italiane.<br />

Frequentavo anche il Centro di Piazza Sant’Ambrogio,<br />

dove Pierfrancesco Galli portava avanti il suo discorso<br />

antiaccademico di rottura con il monopolio della cultura<br />

analitica delle società di psicoanalisi. Era un ambiente<br />

ricco e stimolante, frequentato da giovani psichiatri e<br />

psicoterapeuti che il giovedì confluivano al Centro da<br />

tutto il Nord Italia per lavorare con Silvia Montefoschi,<br />

Enzo Codignola, Emanuele Gualandri, Giambattista<br />

Muraro, Giampaolo Lai, Berta Neumann, per fare<br />

l’analisi di gruppo con Enzo Morrone, seguire i seminari<br />

di Gaetano Benedetti e Joannes Cremerius.<br />

In quella sede, avevo organizzato un gruppetto di<br />

giovani operatori appassionati che si riuniva cercando<br />

uno sbocco operativo alla loro voglia di cambiare il<br />

mondo.<br />

Frequentavamo anche la casa di Giorgio Galli, dove<br />

confluivano intellettuali di diversa matrice e dove la<br />

psicoanalisi e la psicologia analitica incontravano la<br />

politica, la letteratura, la sociologia, la storia, sotto lo<br />

sguardo attento, ospitale, della padrona di casa: Anna<br />

Guerrieri. Eravamo poi in contatto, tra gli altri, con<br />

Tito Perlini, Mario Spinella, che aveva da poco fondato<br />

“Utopia”, Aldo Rovatti, giovani filosofi che facevano<br />

capo ad “Aut Aut”.<br />

Londra, Edimburgo<br />

Agli inizi di settembre del 1969, Mario Mariani ritorna dal<br />

Festival del Cinema di Venezia, con una notizia bomba.<br />

Ha conosciuto Franco Basaglia, hanno discusso a lungo<br />

di psichiatria e informazione, psichiatria e politica, di<br />

prospettive di comunicazione a largo raggio. Sembra<br />

che finora Basaglia abbia avuto una certa diffidenza<br />

rispetto ai media per la loro capacità di distorcere ogni<br />

messaggio. Con Mario però si sono piaciuti, per cui alla<br />

fine lo ha invitato a fare un film con lui sulle esperienze<br />

Poliscritture/Sulla giostra delle riviste Pag. 90


antipsichiatriche inglesi. Si deve infatti recare a<br />

Edimburgo per un congresso di psichiatria sociale, in<br />

cui verrà festeggiato Maxwell Jones, uno dei fondatori<br />

della comunità terapeutica, che lascia l’Inghilterra per<br />

tornare negli USA, il suo paese d’origine. Sulla via di<br />

Edimburgo, ed eventualmente anche al ritorno, Basaglia<br />

si fermerà a Londra, per riprendere le esperienze di<br />

Laing, Cooper, Kingsley Hall, il loro network.<br />

Mario mi offre di accompagnarlo nel viaggio come<br />

interprete e parte per Londra con una équipe della TV.<br />

Due giorni dopo lo raggiungo. A Londra avevamo una<br />

base operativa da una signora che conosceva bene sia<br />

la situazione italiana che quella inglese. È stato lì che<br />

ho conosciuto Franco Basaglia, che scherzava in dialetto<br />

veneto sulla leadership, sul potere, sui miti, con un gusto<br />

infantile e arguto, prendendomi e prendendosi in giro.<br />

Da allora sono cominciate due settimane frenetiche.<br />

A Londra abbiamo intervistato il network del gruppo<br />

di Laing e Cooper: Sidney Briskin, Leon Redler, Roy<br />

Battersby, persone molto colte, appassionate, che<br />

credevano in quello che facevano. L’impressione<br />

era quella di un gruppo estremamente capace,<br />

critico, differenziato, che sapeva prendere in carico<br />

efficacemente la follia, anche se aveva problemi di<br />

inserimento nelle strutture pubbliche.<br />

Ronald Laing era una persona dall’intenso fascino e un<br />

profondo carisma. Con la sua sciarpa nera intorno al collo,<br />

gli occhi penetranti, una gestualità e una mimica allusive,<br />

ricordava un noto ritratto di Dickens giovane, i capelli<br />

lunghi ordinati. Nel suo interloquire, costruiva tesi su<br />

tesi, antitesi, fino a giungere a domande inequivocabili.<br />

Altre volte, invece, continuava ad aprire nuove frasi<br />

dipendenti fino a perderne il senso, la consequenzialità<br />

possibile, per ritrovarli poi, all’improvviso, da un<br />

dettaglio che sembrava dimenticato, con un “Ah, ah”<br />

liberatorio e arguto: l’intuizione, il nuovo punto di<br />

coscienza critica raggiunto, di cui lo stesso Laing gioiva,<br />

sembrando piacevolmente sorpreso.<br />

Il suo studio era arredato con una semplicità che<br />

generava fiducia, un gusto che ispirava confidenza. Con<br />

lui, come con gli altri, Franco non lesinava domande,<br />

approfondimenti, specificazioni, anche se nel rapporto<br />

non cercava lo scontro. Si sentiva che stavano dalla<br />

stessa parte della barricata.<br />

Al gruppo si era aggiunto Angel Fiasche, uno<br />

psicoanalista argentino e le verifiche con Franco si<br />

facevano sempre più raffinate, profonde, con Franco<br />

che puntava sempre dritto, intransigente, all’aspetto<br />

sociale, collettivo, istituzionale, che cercava di cogliere il<br />

senso politico delle esperienze, il loro valore collettivo,<br />

le ideologie implicite o esplicite che le caratterizzavano.<br />

David Cooper ci ha ricevuto in una stanza estremamente<br />

confortevole, in cui ci si sentiva subito a proprio agio.<br />

La stanza, odorosa di incenso, aveva le pareti dorate<br />

e il pavimento, coperto di tappeti, era cosparso di<br />

cuscini di diversa forma e colore, con una delicata luce<br />

soffusa. Le risposte di Cooper erano precise, articolate,<br />

consequenziali. Non c’erano lacune nella sua costruzione<br />

del discorso, partiva da un punto e arrivava ad un altro,<br />

su tragitti logici, razionali.<br />

Per entrare a Kingsley Hall, la prima casa famiglia della<br />

storia, credo, abbiamo chiesto, non solo formalmente, il<br />

permesso agli ospiti.<br />

In fondo a una stanza, non molto illuminata, una<br />

bellissima ragazza alta, con lunghe trecce curate,<br />

accudiva con dolcezza un bambino. Tutta la<br />

situazione era molto semplice, modesta, al limite<br />

della povertà, ma non era mai sciatta. Abbiamo<br />

anche incontrato Mary Barnes, una donna dagli<br />

occhi sfavillanti, il volto forte, risoluto, che<br />

ha fatto per noi un bellissimo quadro. Un sole<br />

coloratissimo, a rilievo, giallo, rosso e arancione<br />

si stagliava nell’azzurro chiaro del cielo sopra<br />

l’azzurro carico, profondo, del mare.<br />

Nonostante l’aspetto modesto, si respirava a<br />

Kingsley Hall un intenso senso di tranquillità, di<br />

accettazione, come di un posto dove si può stare<br />

in pace, ritrovare la pace con se stessi. Proprio un<br />

luogo “dove andare a ritrovare se stessi, in caso<br />

di bisogno”, come ci aveva detto Cooper. Solo la<br />

casa di Dora Kalff, l’inventrice della terapia della<br />

sabbia, a Zollikon, vicino a Zurigo, mi ha dato un<br />

simile vissuto di accettazione.<br />

Anche Franco era stato colpito dall’esperienza e<br />

discuteva animatamente delle sue possibilità di<br />

diffusione, di utilizzazione pratica. Riportava,<br />

infatti, ogni proposta terapeutica all’interno di<br />

tematiche istituzionali, politiche. La passione che<br />

ci metteva, il fatto di avere alle spalle l’esperienza<br />

di superamento del manicomio, tutto il ribollire<br />

di tematiche politiche, antistituzionali, di quegli<br />

anni in Italia, davano al suo discorso uno spessore<br />

critico, una incidenza concreta, che spesso<br />

mancavano ad altri. Per sentire meglio il polso<br />

della gente ha voluto anche che facessimo delle<br />

interviste agli hippies che bivaccavano a Piccadilly<br />

Circus, ad altre persone che frequentavano<br />

quell’ombelico del mondo. Microfono in mano,<br />

seguiti passo passo dalla telecamera, lui faceva<br />

le domande e io le traducevo: “Crede che la<br />

psichiatria abbia qualcosa di sociale?”. “Ci sono<br />

rapporti tra psichiatria e politica?”. “Cosa è la<br />

follia?”. “Cosa è la normalità?”.<br />

A Edimburgo, al congresso di psichiatra sociale<br />

abbiamo trovato Franco molto in forma, abbiamo<br />

fatto molte interviste, a Jurgen Ruesch, ad<br />

americani, inglesi, non sembravano molto<br />

consapevoli dei rapporti tra psichiatria e<br />

politica, o almeno non quanto Franco che, però,<br />

non infieriva. Con Maxwell Jones è stato molto<br />

affettuoso, deferente, mi sembra proprio che lo<br />

considerasse un padre positivo, e anche Maxwell<br />

Jones gli parlava con affettuoso rispetto. Non a<br />

caso, infatti, Franco aveva voluto che uno dei suoi<br />

primi collaboratori di Gorizia, Lucio Schittar,<br />

facesse una lunga esperienza in Scozia.<br />

Evidentemente Franco lo apprezzava molto,<br />

sentiva che la sua esperienza era stata molto<br />

importante per la deistituzionalizzazione in Italia,<br />

anche se insisteva, nella critica, sulla necessità<br />

di recupero di forza lavoro, dopo la guerra, che<br />

aveva determinato quelle esperienze di apertura e<br />

sul pericolo che si trasformassero in gabbie d’oro,<br />

se non si procedeva a creare strutture territoriali<br />

diffuse.<br />

L’atmosfera del Dingleton Hospital, l’ospedale<br />

psichiatrico di Maxwell Jones a Melrose, in Scozia,<br />

a pochi chilometri da Edimburgo, era interessante<br />

e aperta al confronto. Oltre che sulla messa<br />

in questione delle gerarchie istituzionali, per<br />

creare una terapeuticità orizzontale, nel dibattito<br />

Poliscritture/Sulla giostra delle riviste Pag. 91


sull’apprendimento sociale si metteva molto<br />

l’accento sul problema emozionale, fondamentale<br />

per i nuovi rapporti terapeutici.<br />

Su questi aspetti Maxwell Jones aveva giocato<br />

molto e un episodio successivo conferma la<br />

centralità della dimensione affettiva nei processi<br />

di apprendimento sociale. Qualche anno più tardi,<br />

nel 1976, ero con Agostino Pirella a Palo Alto,<br />

negli USA, al Mental Research Institute, per una<br />

verifica della situazione italiana e la presentazione<br />

dei primi risultati delle esperienze del Soteria<br />

Project, con Alma Menn e Loren Mosher. C’era<br />

anche Maxwell Jones, molto vivace e in forma.<br />

Come è noto, il progetto Soteria, ripreso in<br />

Europa da Luc Ciompi a Berna, si articola sulla<br />

gestione delle crisi di giovani psicotici in piccole<br />

comunità residenziali con personale addestrato di<br />

non profes sionisti. A Palo Alto, in una riunione<br />

a cui partecipava anche Jones, gli operatori del<br />

Soteria Project hanno illustrato la loro pratica,<br />

arricchendola con la proiezione di diapositive.<br />

Parlando dell’orario di lavoro hanno riferito che<br />

consisteva in 48 ore consecutive, seguite dai<br />

cinque giornate di libertà. Jones si è meravigliato<br />

di questi turni e ha chiesto come potevano<br />

gli operatori metabolizzare collettivamen te le<br />

emozioni di particolari momenti, come potevano<br />

cioè mantenere una continuità affettiva, oltre che<br />

relazionale, se tutto il gruppo si rivedeva solo<br />

dopo cinque giorni. Gli operatori hanno glissato<br />

sull’argomento e Maxwell Jones dopo aver ribadito<br />

altre due volte la necessità di tempi minimi entro<br />

cui elaborare emozioni e comunicazioni, senza<br />

razionalizzarle, non ricevendo il debito ascolto se<br />

n’era andato.<br />

Ripensandoci, il tema dell’affettività è sempre<br />

stato centrale nel pensiero di Basaglia, nelle<br />

sue pratiche, nella sua capacità di coinvolgere,<br />

indignarsi, impli carsi in prima persona.<br />

A Melrose, in Scozia, comunque, avevamo avuto<br />

modo di visitare e di filmare anche alcune case<br />

famiglia fuori dall’Ospedale di Dingleton. Alcune<br />

simpatiche vecchiette erano state molto contente<br />

di mostrarci le loro casette linde e ordinate,<br />

offrendoci gentilmente il tè, per nulla intimorite<br />

dall’armamentario delle riprese. A differenza<br />

di Kinsgley Hall, che era promossa dal gruppo<br />

privato della Philadelphia Association, questa<br />

case famiglia erano una emanazione dell’ospedale,<br />

e le signore che le abitavano, il frutto di intensi<br />

processi di riabilitazione della lungodegenza.<br />

Ero veramente felice di essere andato in<br />

Inghilterra. Avevo visto in prima persona alcune<br />

delle esperienze più avanzate nel nostro campo,<br />

alle quali, pur criticamente, le nostre esperienze<br />

si rifanno, godendo della irripetibile opportunità<br />

della costante critica radicale di Franco Basaglia,<br />

arricchita anche della dialettica del sistematico<br />

confronto psicanalitico con Angel Fiasche. Cosa<br />

potevo sperare di più?<br />

La notte prima di lasciare Londra ho fatto un<br />

sogno.<br />

Ero in una specie di cattedrale gotica dalle volte<br />

altissime e sottili, soffuse di una luce verde.<br />

Davanti all’altare mi inginocchiavo e Franco<br />

Basaglia con una spada, mi investiva cavaliere<br />

toccandomi, con la punta, le spalle e la testa.<br />

Per il rapporto con i media, però, purtroppo,<br />

Basaglia non aveva avuto ragione. Non solo il film<br />

di Mario Mariani non è mai stato programmato<br />

in televisione, ma negli archivi della Rai-TV se<br />

ne sono perse addirittura le tracce. Tutto ciò<br />

che resta, oltre alle interviste pubblicate sulla<br />

“Maggioranza Deviante” 1 , è un metro e mezzo di<br />

pellicola da 16 millimetri della ripresa di una mia<br />

intervista a Ronald Laing. L’avevo tenuta come<br />

souvenir, prendendola durante il montaggio della<br />

pellicola.<br />

Gorizia<br />

Tornato a Milano il rito di iniziazione londinese<br />

ha cominciato a sortire i suoi inevitabili effetti.<br />

Ho rafforzato il gruppo di riflessione critica tra<br />

psichiatri e analisti disponibili. Con Guido Medri<br />

e altri abbiamo contestato, cosa non semplice,<br />

Pierfrancesco Galli per certi aspetti della sua<br />

gestione del Centro di Piazza Sant’Ambrogio, ho<br />

cominciato la mia lunga marcia nelle istituzioni al<br />

Reparto Rigola del manicomio di Mombello.<br />

A dicembre ero a Gorizia, due settimane di full<br />

immersion nelle dinamiche coinvolgenti e inaspettate<br />

di quell’ospedale, diretto allora da Agostino<br />

Pirella. Altri membri dell’équipe goriziana erano<br />

Domenico Casagrande, Vincenzo Pastore, Vieri<br />

Marzi, Nicoletta Goldschmidt, Ernesto Venturini.<br />

Non è stato difficile innamorarmi di Gorizia,<br />

cogliere la novità assoluta del suo messaggio<br />

antistituzionale, partecipando quotidianamente a<br />

situazioni, atteggia menti, risposte che rovesciavano<br />

punti di vista consolidati, paradigmi di rapporto<br />

apparentemente intoccabili, il tutto alimentato<br />

dalla presenza stimolante, ricca dei pazienti, dalla<br />

attenzione critica, riflessiva, continua dell’équipe,<br />

le interazioni tra volontari, il giudizio analitico,<br />

articolato, di Agostino Pirella. Ho avuto modo di<br />

apprezzare la calma e la profonda saggezza della<br />

signora che dirigeva l’assemblea generale e che<br />

mandava avanti una piccola trattoria all’interno<br />

dell’ospedale, cosa che mi ha poi dato, quando<br />

lavoravo ad Arezzo, lo spunto per mettere su la<br />

tavola calda sul Colle del Pionta 2 .<br />

Mi sono lasciato trasportare nella realtà di<br />

Grado, da Dosolina, una vecchia pescivendola<br />

che conosceva tutti. Mi aveva scelto durante<br />

un’assemblea nel reparto di Casagrande, con altre<br />

pazienti eravamo andati a trovare le sue amiche,<br />

la sua famiglia. Viaggiando, avevo scoperto il<br />

significato della frasca appesa lungo le strade.<br />

Erano mescite di vino. La cosa che mi aveva più<br />

colpito era stata però la capacità di gestione<br />

dell’équipe, l’acutezza nel decodificare la follia<br />

rispondendole senza colludere coi suoi aspetti<br />

regressivi, lo spessore dell’impegno terapeutico.<br />

In particolare, mi aveva impres sionato la gestione<br />

1 Vedi: Franco Basaglia, Franca Ongaro Basaglia, Paolo Tranchina,<br />

Mario Mariani : L’impossi bile strategia, in: F. Basaglia,<br />

F. Ongaro Basaglia : La <strong>maggio</strong>ranza deviante: l’ideologia del<br />

controllo sociale totale, Einaudi, Torino, 1971, pag. 103-129.<br />

2 Vedi P. Tranchina: La tavola calda, un momento antistituzionale<br />

di coinvolgimento collettivo, «Fogli di Informazione»,<br />

N° 14 , 1974 p. 215-220<br />

Poliscritture/Sulla giostra delle riviste Pag. 92


di una giovane paziente: Bruna M.. La ragazza,<br />

che era stata dimessa, doveva iniziare il giorno<br />

dopo un lavoro a Trieste. Sin dalla mattina si era<br />

presentata in ospedale cominciando una serie di<br />

provocazioni, atti di rottura. Al l’azienda agricola<br />

aveva tirato una pala a Vieri Marzi, senza colpirlo,<br />

vicino alla portineria aveva tirato un flacone di<br />

medicine contro Vincenzo Pastore che era finito<br />

contro le vetrate. Prima di sera, entrata nella<br />

direzione di Pirella, aveva stracciato alcune lettere<br />

del suo tavolo. Il problema era di resistere alle sue<br />

provocazioni cercando di mitigare la sua ansia,<br />

senza colludere con la sua distruttività. Pensavo<br />

al setting, agli orari rigidi, e li confrontavo<br />

con la disponi bilità di tutta una istituzione di<br />

continuare a gestire la crisi, senza reprimere,<br />

fino a che non si trovava una soluzione adeguata.<br />

Durante la riunione con i volontari che, a Gorizia<br />

aveva luogo tutte le sere, Bruna si era presentata,<br />

sempre in crisi, dicendo che voleva essere seguita<br />

da Pirella.<br />

Pirella le aveva risposto con fermezza che poteva<br />

scegliere chiunque volesse nell’équipe, ma non lui.<br />

La sera tardi, infatti, ho visto Bruna che andava a<br />

dormire con una volontaria nello stesso albergo<br />

dove risiedevo, e, in seguito, ho saputo che le cose<br />

a Trieste erano andate bene.<br />

Oltre all’insieme dell’ospedale e dell’équipe, è<br />

stata specialmente la figura di Agostino che mi<br />

ha colpito, le sue capacità dialettiche, la ricchezza<br />

della sua cultura, l’incisività che lo portava<br />

immancabilmente alla radice delle contraddizioni.<br />

In particolare, mi aveva affascinato la sua<br />

coscienza politica, l’estrema raffinatezza delle<br />

sue analisi istituzionali, in grado di collegare il<br />

particolare al generale, e poi quel suo modo di<br />

pensare che, per ogni problema, lo portava prima<br />

a generalizzare, allineando situazioni, aspetti<br />

simili, per poi raggiungere improvvisamente la<br />

conclusione, confermando o contraddicendo,<br />

in modo indiscutibile, le tesi iniziali. Della sua<br />

disponibilità, della sua sensibilità empatica<br />

rispetto alle psicosi, avrei fatto esperienza ad<br />

Arezzo, nel lavoro di deistituzionalizzazione. Ad<br />

Arezzo la porta del suo studio era sempre aperta, il<br />

suo atteggiamento sempre disponibile all’ascolto.<br />

Anche se sapeva perfettamente come metterti di<br />

fronte alle tue responsabilità. Alcune volte veniva<br />

in un reparto in crisi e con la verifica rovesciava<br />

totalmente la situazione. Altre volte ci diceva:<br />

“Andate a discutere con gli infermieri finché non<br />

trovate qualcosa”.<br />

Prima di lasciare Gorizia, nel gennaio 1970, con<br />

Pirella abbiamo cercato qualcosa da fare insieme,<br />

per dare corpo ai nostri discorsi: un ponte tra<br />

Milano e Gorizia che continuasse, allargandolo,<br />

il nostro incontro, il rapporto affettivo,<br />

culturale, politico, che si era instaurato tra noi.<br />

I membri dell’equipe di Gorizia sarebbero venuti<br />

mensilmente alla Casa della Cultura di Milano,<br />

presentando la loro esperienza e discutendone<br />

collettivamente. Il gruppo informale di psichiatri,<br />

psicoterapeuti, volontari che avevo organizzato<br />

al Centro di Piazza S.Ambrogio, aveva finalmente<br />

trovato le persone giuste e stava accingendosi a<br />

diventare, trasformandosi profondamente, “Il<br />

Collettivo di Intervento nelle Istituzioni”.<br />

II Collettivo di Intervento nelle Istituzioni di<br />

Milano e i «Fogli di Informazione» ciclostilati<br />

Le prime riunioni con i goriziani, nel 1970, che<br />

purtroppo non abbiamo registrato, sono state<br />

molto ricche, entusiasmanti. C’erano psicanalisti<br />

svizzeri, psichiatri, scrittori, operatori del<br />

Centro Nord, studenti, volontari. Tra gli altri<br />

ricordo lo psicanalista Bernard Rotschild, di<br />

Zurigo, lo scrittore Ottiero Ottieri. Il centro di<br />

discussione era Gorizia e le pratiche alternative, la<br />

deistituzionalizzazione, ma il discorso si allargava<br />

sul disagio psichico nei suoi rapporti col sociale,<br />

i rapporti tra tecnica e politica, psicanalisi e<br />

istituzioni.<br />

Dalla fine del 1970 abbiamo cominciato a<br />

registrare le riunioni formalizzandole. Abbiamo<br />

iniziato a raccogliere l’elenco degli indirizzi<br />

dei partecipanti. Sono così nati i «Fogli di<br />

Informazione» ciclostilati, tredici numeri per circa<br />

300 pagine. In ogni fascicolo, insieme al resoconto<br />

dell’ultima riunione, mettevamo uno o due articoli<br />

che costituivano l’argomento di discussione per la<br />

riunione successiva, di cui si indicava data e luogo.<br />

Sfogliando quelle pagine emerge una enorme<br />

ricchezza: la psichiatria in Vietnam, le carceri in<br />

Usa, la repressione in Sudamerica, si affiancano<br />

ad accesi dibattiti sulla situazione psichiatrica di<br />

Torino, Milano, Udine, Gorizia, Arezzo, Firenze,<br />

Napoli, ai nuclei essenziali della deistituzionalizzazione,<br />

della lotta contro l’esclusione, dibattiti<br />

sui centri di riabilitazione per gli handicappati,<br />

riflessioni sulla scuola media a tempo pieno, le<br />

classi differen ziali, l’educazione antiautoritaria,<br />

interventi contro i licenziamenti al carcere minorile<br />

Beccaria di Milano, riflessioni sull’uso alternativo<br />

della psicoanalisi nella scuola, verifica del lavoro<br />

dell’analista nelle istituzioni psichiatriche, i<br />

prodromi delle dimissioni dell’equipe di Gorizia<br />

per l’impossibilità di allargare l’esperienza sul<br />

territorio, il ruolo dei partiti, del sindacato.<br />

Ripercorrendo queste pagine ciclostilate sono stato<br />

sorpreso dalla loro pregnanza narrativa, dalla forza<br />

della critica, gli abbozzi di teorie, la freschezza<br />

delle nostre passioni. A volte traspare anche<br />

una certa ingenuità, cortocircuiti tra speranze<br />

e pratiche, semplificazioni, ma senza quella<br />

passione i manicomi continuerebbero a dettare<br />

legge, a fare scempio di identità, sofferenze, non<br />

avremmo mai scritto “Manicomio ultimo atto” 1 .<br />

Eravamo ossessionati dai rapporti tra tecnica<br />

e politica, dalla paura che le nostre battaglie<br />

fossero riassorbite dal sistema, che fossero<br />

inutile riformismo. E come continuità, sostanza,<br />

c’era tutta una cultura alternativa che faticava<br />

ad affermarsi e cercava alleanze, riconoscimenti,<br />

i fondamenti teorici della propria identità. La<br />

riflessione sul potere in rapporto all’operatività<br />

possibile investiva sia i tecnici che occupavano i<br />

massimi livelli delle gerarchie psichiatriche, sia<br />

specialisti isolati e controcorrente, sia i volontari<br />

che operavano come potevano, dove potevano,<br />

con minimi livelli di potere.<br />

1 Vedi P. Tranchina, M. P. Teodori: Manicomio Ultimo Atto:<br />

bilanci, rischi, prospettive della chiusura definitiva degli<br />

ospedali psichiatrici in Italia, Editrice Centro di Documentazione,<br />

Pistoia 1996<br />

Poliscritture/Sulla giostra delle riviste Pag. 93


In quegli anni, infatti, il gruppo di volontari che<br />

lavorava a Mombello, nome corrente che si dava<br />

all’OP Antonini di Limbiate, e in altri ospedali,<br />

si era molto rafforzato. A Mombello con una<br />

psichiatra che ci appoggiava, Zenaide Malavasi,<br />

cercavamo, tra l’altro, di opporci alle lobotomie,<br />

convincendo i parenti a non firmare il consenso<br />

scritto che era indispensabile perché si potesse<br />

fare l’interven to. Sostenevamo poi il lavoro di<br />

apertura che con fatica il dr. Orsi portava avanti<br />

nel suo reparto.<br />

Al gruppo dei volontari di Mombello partecipava<br />

anche Cristina Lanni, compagna di Vittorio<br />

Gregotti. Spesso ci riunivamo a casa loro. È stato<br />

quindi naturale, quando abbiamo deciso di fare<br />

i «Fogli di Informazione» stampati, chiedere a<br />

Gregotti di disegnarci la copertina.<br />

Anche in campo analitico, non<br />

mancavano fermenti. Francesco<br />

Ruffini, compa gno di Silvia<br />

Montefoschi, discutendo con i<br />

suoi pazienti privati, era giunto<br />

alla conclusione che l’analisi<br />

non bastava, per cui aveva<br />

favorito la creazione di un<br />

piccolo centro dove i pazienti<br />

potevano incontrarsi tra di loro.<br />

Nei seminari di casistica, con<br />

Emanuele Gualandri, oltre che gli<br />

aspetti psicodinamici cercavamo<br />

di decifrare le componenti che<br />

potevano collegare struttura e<br />

sovrastruttura. Enzo Morpurgo<br />

aveva organizzato un ambulatorio<br />

psicanalitico gratuito nel<br />

quartiere di Niguarda. Pierfrance<br />

sco Galli e membri del<br />

PSIUP avevano lavorato a una<br />

ricerca per cercare di cogliere<br />

le motivazioni psicodinamiche<br />

profonde del qualunquismo.<br />

Nel 1970, dopo l’VIlI congresso<br />

internazionale di psicoterapia<br />

- in cui i goriziani hanno avuto<br />

un ruolo importante 1 e anche io,<br />

presentato da Sergio Piro, ero intervenuto 2 - il<br />

Centro di Piazza S. Ambrogio aveva cessato la sua<br />

attività. Pierfrancesco Galli, infatti, aveva deciso<br />

di trasferirsi a Bologna. Coordinandoci, in dodici,<br />

Guido Medri, Mariella Loriga, Ciro Elia, Teresa<br />

Corsi e altri 3 , abbiamo fondato il Centro Studi di<br />

Psicologia Clinica e di Psicoterapia di via Alberto<br />

Da Giussano, di cui sono stato presidente dal 1970<br />

al 1972. Il Centro era veramente, in quegli anni,<br />

un momento di riflessione alta e interdisciplinare.<br />

Oltre a Benedetti, Cremerius, Morrone anche<br />

Mauro Rostagno ci ha fatto dei seminari, e<br />

1 Vedi: Relazione del gruppo dell’Ospedale Psichiatrico di<br />

Gorizia, in: Pierfrancesco. Galli (a cura): Psicoterapia e<br />

scienze umane: Atti dell ‘ VIlI congresso internazionale di<br />

psicoterapia, Feltrinelli, Milano 1973 p. 161-184<br />

2 Vedi: P. Tranchina: Il potere in psicoterapia. «Fogli di Informazione»<br />

N° 7, 1973, p.247-252<br />

3 Gli altri membri erano: Marina Saviotti, Almachiara Dusi,<br />

Lilia D’Alfonso, Alfonso D’Alfonso, Giuseppe Miccolis, Annamaria<br />

Fabbrichesi. Cecilia Morosini.<br />

sistematicamente abbiamo approfondito la nostra<br />

cultura politica, facendo tesoro delle capacità<br />

di Mario Spinella 4 . Nel 1987 il Centro di Via<br />

Giussano si è trasformato in Associazione di<br />

Studi Psicanalitici, e attualmente, come scuola<br />

riconosciuta di psicoterapia, continua una intensa<br />

attività di formazione.<br />

Intanto, nell’estate del 1971, Pirella si era<br />

spostato da Gorizia all’Ospedale psichiatrico di<br />

Arezzo, Basaglia era andato a dirigere l’ospedale<br />

psichiatrico di Trieste. I dibattiti del Collettivo<br />

di Intervento nelle Istituzioni, sempre estremamente<br />

vivaci, critici, si aprivano su orizzonti<br />

pratico-teorici nuovi, raccoglievano nuove sfide<br />

antistituzionali. Anche il numero di partecipanti<br />

si allargava, si differenziava, nuovi operatori<br />

come Gianfranco Pittini, Arcadio Erlicher, Fausto<br />

Matteini, Veniero Galvagni. Agostino Contini si<br />

affiancavano ai goriziani, ai primi frequentatori<br />

come Giampaolo Guelfi, sempre particolarmente<br />

attivo, Enrico Pascal di Torino, Ponte di Genova,<br />

Simone Wender e Allegri di Pavia, Sergio Piro di<br />

Napoli, Alberto Parrini di Firenze, Milly Fumagalli<br />

e Dinni Cesoni, di Milano.<br />

Con alcuni di loro, Guelfi, Parrini, Piro, ecc., ci<br />

eravamo anche scontrati vivace mente con Diego<br />

Napolitani e il suo gruppo, contestando duramente<br />

le pretese egemoniche della psicoanalisi, e<br />

obbligandolo a diffondere a tutti i partecipanti<br />

al I seminario su ‘’psichiatria comunitaria e<br />

socioterapia” una nostra relazione “ analisi<br />

sociopolitica delle istituzioni”, discutendola in<br />

una apposita riunione. Dato, però, che Napolitani,<br />

molto democraticamente, non l’ha pubblicata<br />

negli atti del seminario, l’abbiamo pubblicata<br />

4 Vedi, per esempio l’interessante dibattito con Mario Spinella,<br />

Norman Elrod, Giovanni Jervis, ecc. sul problema della<br />

soggettività, rispetto alla classe in Marx. In: A A VV: Resoconto<br />

dell’ultima riunione, Milano 7 ottobre 1972, «Fogli di<br />

Informazione» N: 2 , p.44-62 1972<br />

Poliscritture/Sulla giostra delle riviste Pag. 94<br />

O. Garbin, Ritratto di Basaglia


noi insieme ad altri documenti che criticano gli<br />

interventi di Fornari, Pagliarani, Perruzzotti,<br />

Resnik, Shiller, Charmet, ecc.<br />

Mi sembra quindi chiaro che il “Collettivo<br />

di Intervento nelle Istituzioni”, nonostante<br />

l’organizzazione “debole”, informale, era dotato<br />

di grande capacità di coinvolgimento, alleanze,<br />

incisività critica e operativa sugli obbiettivi che<br />

sceglieva di darsi e che perseguiva con efficacia.<br />

Come molti gruppi a quei tempi, era estremamente<br />

curioso, radicale, dotato di grande mobilità, e<br />

spirito di inventiva. Solo adesso, riflettendoci, mi<br />

sembra di cogliere questa sua estrema plasticità,<br />

questa capacità di lottare su tanti fronti aggregando<br />

interessi, ideali, affettività, e disaggregandosi,<br />

appena necessario, per ricostituire nuovi campi<br />

d’azione. Era proprio questa, credo, la nostra<br />

forza, questo “noi” collettivo estremamente<br />

sensibile e attento, etico, intransigente ma<br />

plastico, che, nonostante tutto, sembra continuare<br />

a trasmetterci energia, voglia di fare, se dopo<br />

quasi 40 anni siamo ancora qui a rifletterci.<br />

Nell’estate del 1972, Giuliano Capecchi del Centro<br />

di Documentazione di Pistoia ci ha proposto di<br />

stampare il bollettino fino allora ciclostilato, dato<br />

che la domanda era aumentata.<br />

I «Fogli di Informazione» stampati<br />

Dal 1972 a oggi abbiamo stampato 186 numeri.<br />

In essi tra l’altro abbiamo discusso delle nuove<br />

facoltà di psicologia a Roma (n. 16), dei soggiorni<br />

estivi a Trieste (n.23-34) e a Firenze (n.35-36),<br />

della situazione psichiatrica di Napoli (n.25-26)<br />

e di Ferrara (n.27-28), di tossicodipendenze a<br />

Verona (n.30), di sessualità e condizione operaia<br />

a Terni (n.31-32), di servizi territoriali a Reggio<br />

Emilia (n.33-34) e a Settimo Torinese (n.35-<br />

36), di superamento dell’ospedale psichiatrico a<br />

Volterra (n.39-40), dei rapporti tra psichiatria e<br />

terremoto a Gemona (Udine), (n.41-42).<br />

Il loro contributo di documentazione, riflessione<br />

critica, ricerca, è davanti agli occhi di tutti.<br />

Numero dopo numero i Fogli hanno puntualmente<br />

verificato l’applicazione della legge 180, i suoi<br />

successi, i suoi ritardi, denunciando prontamente<br />

ogni tentativo di snaturamento dei suoi contenuti<br />

fondamentali e battendosi attivamente contro<br />

tutti i tentativi di controriforma.<br />

Linee fondamentali della rivista<br />

Possiamo così riassumere le linee fondamentali<br />

della rivista:<br />

I) Documentazione meticolosa delle pratiche nella<br />

loro complessità.<br />

2)Confronto sistematico con le tecniche, psicoana<br />

lisi, terapia familiare, psi co far maci.<br />

3) Collegamento continuo tra istituzioni e società,<br />

tecnica e politica.<br />

4) Critica della scientificità degli strumenti e delle<br />

istituzioni in rapporto alle deleghe, ai processi di<br />

e sclu sione.<br />

5) Attenzione alla quotidianità, alla convivenza,<br />

al gruppo, al fare collettivo, alla critica all’er go te-<br />

ra pia e quindi valorizzazione del lavoro e im pre sa<br />

sociale, (19) autoaiuto e reti sociali.<br />

6) Rigoroso, intransigente, atteggiamento etico<br />

che ha sempre cercato di porre al centro, col<br />

massimo rispetto, la dignità degli psichiatrizzati,<br />

degli esclusi, la loro soggettività.<br />

7) Tentativo di approfondire sistematicamente i<br />

processi di riproduzione della normalità insieme<br />

a quelli della devianza, della follia.<br />

8) Attraverso atteggiamenti di empatia allargata,<br />

l’identificazione con gli oppres si, la cultura dei<br />

Fogli si è incentrata sul paradigma dell’ultimo.<br />

In questo senso, particolarmente importanti sono<br />

stati i libri della collana dei Fogli.<br />

Fondamentale è stata anche, negli anni, la<br />

collaborazione con Norman Elrod e il suo gruppo<br />

di Zurigo-Kreuzlinghen 1 . Importante anche il<br />

la vo ro del gruppo di Psicoterapia Concreta di<br />

Firenze che ha fatto corsi e incontri, riflettendo in<br />

particolare sul concetto di inconscio istituzionale,<br />

un ponte lanciato tra psicanalisi e pratiche di<br />

deistituzionalizzazione.<br />

Come si può notare, i rapporti tra il movimento<br />

e la psicoanalisi sono ben più ricchi e articolati<br />

di quan to a volte non appaia. E ben lontani da<br />

semplici negazioni, dettate a volte dall’urgenza<br />

del fare 2 .<br />

In questa sede non posso passare sotto silenzio<br />

l’enorme sforzo della redazione del “Portolano<br />

di psicologia”, realizzato insieme a Enrico<br />

Salvi, Maria Pia Teodori, Sandra Rogialli 3 che<br />

ha sintetizzato in un volume la totalità delle<br />

tematiche essenziali delle pratiche alternative<br />

(130 autori, 111 articoli) arricchen dole con quanto<br />

di più importante, vivo ha visto la luce in<br />

campo psichiatrico, psicoterapico, psicologico,<br />

psicanalitico.<br />

II CD ROM dei “Fogli”<br />

Per il convegno di Trieste del 1998 “Franco<br />

Basaglia: la comunità possibile” (20-24 Ottobre),<br />

abbiamo realizzato un CD rom che costituisce una<br />

banca dati consultabile in linea, una volta inserita<br />

nel computer. Sono quasi 2000 articoli, quasi tutti<br />

con l’abstract italiano, molti con abstract anche<br />

in inglese, tutti con le parole chiave (descrittori<br />

<strong>maggio</strong>ri e minori, indicatori). Ho caricato anche i<br />

«Fogli di Informazione» Ciclostilati e il “Portolano”,<br />

e il mio libro di Supervisioni: Un sagittario venuto<br />

1 Per la collaborazione con Norman Elrod e il suo gruppo,<br />

l’Istituto di psicoanalisi di Zurigo Kreuzlingen, Vedi: Fogli di<br />

informazione № 107 ( gennaio 1985)<br />

2 Il gruppo di Psicoterapia Concreta, attivo a Firenze dal 1990,<br />

di cui faccio parte insieme a Vieri Marzi, Mario Santini, Annibale<br />

Fanali, Maria Pia Teodori, Sandra Rogialli, Enrico Salvi,<br />

Maridana Corrente, Sandro Ricci, Alfredo Lo Cigno, Cesare<br />

Bindioli, attraverso momenti di riflessione e seminari di formazione,<br />

lavora a una ricerca approfondita sul problema delle<br />

psicosi, la loro terapia, riflettendo in particolare sul concetto<br />

di “inconscio istituzionale”, un ponte tra inconscio individuale<br />

freudiano e inconscio collettivo junghiano.<br />

3 P. Tranchina, E. Salvi, M.P. Teodori, S. Rogialli, Portolano<br />

di psicologia: esperienze prospettive convergenze di una professione<br />

giovane, Editrice Centro di Documentazione, Pistoia,<br />

1994<br />

Poliscritture/Sulla giostra delle riviste Pag. 95


Ritratto di Costantinopoli<br />

male, Editrice Centro di Documentazione Pistoia,<br />

1997, e qualche altro libro 1 .<br />

Da sottolineare anche il fatto che il CD contiene<br />

un thesaurus di termini controllati e rappresenta,<br />

credo, la prima esperienza informatizzata nel<br />

nostro campo.<br />

Ultimi sviluppi<br />

Nel 2006 si conclusa la lunga collaborazione con il Centro<br />

di Documentazione di Pistoia. Il nuovo editore è la DBA<br />

di Firenze, una struttura informatica no-profit, che, tra<br />

le altre cose, ha distribuito ISIS, il sistema informatico<br />

gratuito dell’Unesco, ai paesi in via di sviluppo.<br />

POSTSCRIPTO<br />

Ritengo utile concludere questo intervento con<br />

il postscripto al testo di Serrano e Pini, scritto in<br />

collaborazione con Maria Pia Teodori.<br />

A pochi mesi dal trentennale della legge 180, che i<br />

Fogli d’Informazione celebreranno con un numero<br />

speciale: 180 XXX Anno, al quale stiamo lavorando<br />

intensamente, questo testo rappresenta un momento<br />

alto di maturità e di sintesi del movimento che dalla<br />

chiusura dei manicomi ha investito il territorio con<br />

interventi sempre più efficaci e partecipati, dalla<br />

istituzione negata alle istituzioni inventate. Protagonisti<br />

12 utenti che, addestrati all’eccellenza dall’Università,<br />

intervistano mille persone lavorando sullo stigma e,<br />

approfondendolo, ne minano i lineamenti, ne intaccano<br />

lo spessore, la coriacea immutabilità normativa, insieme<br />

alla propria sofferenza psichica.<br />

Firenze 7 marzo <strong>2008</strong><br />

1 Per le supervisioni vedi anche: Paolo Tranchina: Forme di<br />

Vita, supervisione, psicoterapia, lavoro di equipe, Editrice<br />

Centro di Documentazione, Pistoia 2002<br />

INDIRIZZI<br />

Direzione: Paolo Tranchina,<br />

Viale don Minzioni 29, 59129 Firenze tel. 055570842<br />

e-mail: tranteo@cosmos.it<br />

Editore: DBA Associazione, Via Santucci 1 50127 Firenze<br />

tel. (39) 055435777 fax 0554376833 e-mail: fogli@dba.<br />

it<br />

Poliscritture/Sulla giostra delle riviste Pag. 96


Ripensando<br />

alla concezione<br />

borghese della<br />

convivenza<br />

fra i popoli<br />

in margine al “caso armeno”<br />

Giulio Toffoli<br />

…Non è mai un documento della cultura senza essere insieme<br />

un documento della barbarie. E come non è esente<br />

da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo<br />

di trasmissione per cui è passato dall’uno all’altro. Il materialista<br />

storico, quindi, prende le distanze da esso nella<br />

misura del possibile. Egli considera suo compito spazzolare<br />

la storia contropelo» (W. Benjamin, Sul concetto di<br />

storia, VII, Einaudi, Torino, 1997, pag. 31)<br />

Fra le testimonianze della millenaria storia anatolica,<br />

che dimostrano come quella regione sia stata terra di<br />

8 Riprese<br />

t e m i d a n o n p e r d e r e d i v i s t a<br />

continue migrazioni, di inesausti conflitti e di sovrapposizioni<br />

di culture, certo meritano particolare menzione<br />

quelle costituite dalle rovine della città di Ani, la capitale<br />

dell’antico regno armeno che fra il IX e il X secolo d.C.<br />

ebbe il controllo di una fetta significativa dell’Anatolia<br />

orientale 1 . Le grandi dinastie dei Bagratuni, degli Artzrouni,<br />

dei Kamsarakan, dei Siouni dominarono, in diversi<br />

periodi, l’Armenia feudale. Si è trattato di un’egemonia,<br />

che si è estesa su un territorio che dalla catena<br />

del Caucaso scende fin nella parte profonda dell’altopiano<br />

anatolico, caratterizzata da una costante labilità dei<br />

confini. Quella degli Armeni è stata una storia di continui<br />

scontri che si sono declinati nelle più diverse forme:<br />

ostilità familiari e tribali, conflitti sociali ed economici,<br />

contrapposizioni tra fondamentalismi religiosi e infine<br />

soprattutto conflitti razziali. Un coacervo di scontri di<br />

potere che non ha trovato una soluzione, se non molto<br />

parziale, per tutta la fase del plurisecolare dominio ottomano.<br />

Il caso della famiglia dei Bagratuni, anzi, può essere<br />

considerato esemplare di questa storia davvero particolarmente<br />

intricata, visto che questa possente famiglia<br />

della nobiltà caucasica, ed è solo un esempio fra i<br />

vari possibili, era divisa in due rami, con estesi domini<br />

feudali, uno di discendenza armena e uno di discendenza<br />

georgiana, che in momenti diversi hanno governato<br />

sullo stesso territorio contendendosi la leadership delle<br />

stesse genti, degli stessi villaggi, degli stessi pascoli, de-<br />

1 In generale per la storia armena dall’antichità alla realtà<br />

contemporanea risulta utile la silloge curata da Gerard Dedeyan,<br />

Histoire des Armeniens, Privat, Paris, 1982 e Claire Mouradian,<br />

De Staline à Gorbatchev. Histoire d’une rèpublique<br />

soviétique: l’Arménie, Editions Ramsay, Paris, 1990.<br />

Poliscritture/Riprese Pag. 97


gli stessi commerci.<br />

Parlare della questione armena ci pare possa in questa<br />

prospettiva, se non si assume un forte distacco critico,<br />

diventare la premessa per avvilupparsi in un ginepraio<br />

difficilmente districabile. Il rispetto dovuto alla complessità<br />

della storia, all’analisi attenta e critica delle<br />

fonti, capace di liberarci da qualsiasi forma di pregiudizio,<br />

è l’unica strada per poter affrontare questa tematica<br />

senza trasformare, ancora una volta, la storia da disciplina<br />

che cerca faticosamente di individuare e difendere<br />

un suo statuto di scientificità in una tragica ideologia al<br />

servizio delle peggiori cause.<br />

Nella zona caucasica il rischio che la storia sia manipolata<br />

per interessi che potremmo definire, in modo eufemistico,<br />

di parte, ci appare particolarmente evidente.<br />

Non è possibile infatti dimenticarsi del tragico riemergere<br />

dopo il 1989 delle più imbarazzanti tendenze nazionaliste,<br />

di un nazionalismo sciovinista che ha visto<br />

contrapporsi, contendendosi lo stesso territorio, spesso<br />

a suon di obsolete citazioni medievali, i diversi nazionalismi,<br />

in un crescendo che si è espresso attraverso guerre<br />

interregionali, guerre civili e guerriglie più o meno<br />

sanguinose e criminali.<br />

Sul finire del XX secolo la storiografia occidentale, parallelamente<br />

al tracollo del mondo sovietico, ha ripreso<br />

la sua attività ideologica trasformandosi, almeno in<br />

alcune sue frange, in una potente lobby impegnata a<br />

fornire patenti di verità, in un modo che non è granché<br />

diverso da quello che, nel tardo XIX secolo, la storiografia<br />

positivistica utilizzava per stabilire ciò che era civile<br />

e ciò che non lo era. Questa frangia della storiografia si è<br />

ritagliata uno spazio particolarmente importante, almeno<br />

dal punto di vista della sua visibilità di fronte all’opinione<br />

pubblica, dando vita a un’originalissima ricerca<br />

fondata sulla individuazione di una specie di «hit parade»<br />

dei massacri e dei genocidi, che senza andare tanto<br />

per il sottile, basandosi su una risoluzione dell’ONU del<br />

1948, ha iniziato a operare in modo retroattivo, secondo<br />

una strana metodologia di verità che trova, si afferma,<br />

nella stessa civiltà occidentale il suo parametro di indiscutibile<br />

certezza. 1<br />

L’intervento di Ottavio Rossani, «La Turchia di fronte<br />

alla “questione armena”» 2 , ci pare impostato proprio secondo<br />

un modello di tipo ampiamente apodittico che ha<br />

la premessa in questa «scienza del massacro». Cerchiamo<br />

di vedere perché.<br />

1 Un esempio di tale tendenza ci pare rappresentato dall’attività<br />

svolta recentemente da Marcello Flores con il suo Tutta la<br />

violenza di un secolo, Feltrinelli, 2005 e il successivo Il genocidio<br />

degli Armeni, Il Mulino 2006 che si rifanno complessivamente<br />

al dibattito, che ci pare ampiamente ideologico, sul<br />

XX secolo come secolo del male, più o meno assoluto. Su problema<br />

più generale della creazione di una logica della «contabilità<br />

del terrore» si veda il lavoro di Domenico Losurdo, Il<br />

peccato originale del Novecento, Laterza, 1998, cui rinviamo<br />

come riferimento complessivo sull’intero problema della ricostruzione<br />

storica basata su una selettività ideologica che potremmo<br />

definire eufemisticamente «conservatrice».<br />

2 Facciamo esplicitamente riferimento al saggio presente nel<br />

Numero 3 della rivista «Poliscritture», novembre 2007. Le citazioni<br />

in corsivo sono tratte dall’articolo di Rossani.<br />

Partiamo dal primo tragico dato, quello dei numeri.<br />

Una strana moda si è consolidata dopo l’89 e tende ad<br />

affrontare le tragedie del XX secolo secondo una logica<br />

quantitativa. Verrebbe da dire, se non risultasse forse<br />

un poco blasfemo: chi più ne ha più ne metta!<br />

Sappiamo che la burocrazia ottomana non era certamente<br />

fra le più capaci di realizzare un censimento obbiettivo<br />

della popolazione dell’impero. Comunque secondo<br />

i dati della Sublime Porta, che non si capisce perché<br />

dovrebbero essere pregiudizialmente considerati falsi,<br />

la popolazione armena dell’impero doveva, intorno al<br />

1914, assommare a circa 1,2 milioni di sudditi. I dati del<br />

patriarcato armeno parlavano invece di 2,1 milioni di<br />

Armeni presenti all’interno dei confini dell’impero. Già<br />

qui si evince la difficoltà di un’analisi oggettiva su quale<br />

delle due valutazioni fosse quella esatta 3 .<br />

Non ci addentreremo neppure nell’analisi tecnica delle<br />

diverse vicende, delle violenze contro la popolazione<br />

armena e riconosciamo senza ombra di dubbio che<br />

qualsiasi sia stata la cifra ben poco conta il numero, si è<br />

trattato sempre di una tragedia inaccettabile, un massacro<br />

come tanti innescati dalla guerra, anzi dalle guerre<br />

imperialistiche. Aggiungiamo solo che non vorremmo<br />

che l’enfatizzazione di parte delle cifre (1,5 milioni o<br />

addirittura 2 milioni di morti) non sia altro che un’amplificazione<br />

ideologica che vuole nascondere il vero problema,<br />

ovvero quello di individuare quali siano state le<br />

cause di questa come di altre tragedie che segnarono il<br />

tramonto dell’impero ottomano e che non si possono<br />

semplicemente risolvere parlando di una «geopolitica<br />

dell’Ottocento ormai inattuale». Per inciso forse può essere<br />

interessante ricordare che uno storico del valore di<br />

A. Toynbee fu costretto ad ammettere che il Libro blu,<br />

da lui preparato per conto del governo inglese e che raccoglieva<br />

le denunce delle violenze turche, altro non era<br />

che «propaganda di guerra»” 4 .<br />

Non di meno ci lascia perplessi sentir parlare per la realtà<br />

dell’impero ottomano all’inizio del XX secolo di minoranze<br />

che «si proiettavano verso l’indipendenza nazionale»<br />

e ci chiediamo se è vero che «si proiettavano»<br />

o se, più esattamente, erano «proiettate» da una serie<br />

di rivolte fomentate da vari soggetti con una politica<br />

imperialistico-coloniale, quali erano allora Inghilterra,<br />

Francia, Russia, Italia e Austria-Ungheria, con la finalità<br />

ben chiara di dividersi le spoglie dell’impero.<br />

Alcuni movimenti nazionalisti presenti nelle varie regioni<br />

del medio oriente trovarono sostegno nell’attività<br />

diplomatica delle potenze straniere; altri movimenti<br />

vennero fomentati ad arte rispondendo così alle esigenze<br />

strategiche delle nazioni europee che ambivano<br />

alle spoglie della Sublime Porta. Ciò ovviamente generò<br />

azioni di rivolta che trovarono voce soprattutto nelle<br />

ali più radicali, ad esempio fra gruppi di Armeni che si<br />

3 Per il problema demografico si veda: Gerard Dedeyan (a cura<br />

di), Histoire des Armeniens, cit., pag. 492/493. Merita però<br />

di ricordare che nelle varie provincie orientali dell’impero gli<br />

Armeni rimanevano ovunque una, più o meno ampia, minoranza.<br />

4 Cfr. Robert Mantran (a cura di), Storia dell’impero ottomano,<br />

Argo Editrice, Lecce, 1999, pag. 671.<br />

Poliscritture/Riprese Pag. 98


ifacevano a logiche di crociata anti-islamica 1 . Vennero<br />

avviate azioni di lotta armata (tutti sapevano che le<br />

armi circolavano fra i gruppi di combattenti armeni,<br />

provenendo dal confine russo) che si svilupparono diventando<br />

azioni di vero e proprio terrorismo, che era<br />

combattuto dal governo centrale di Istanbul con grande<br />

violenza.<br />

Ma tali affermazioni corrono il rischio di rimanere su un<br />

terreno di palese vaghezza.<br />

Forse il più prosaico ritorno alla storia, con l’individuazione<br />

di alcune date, può essere utile per farci uscire da<br />

quella indeterminazione in cui, per dirla con un «vecchio»<br />

grande maestro, si corre il rischio di trovarsi nella<br />

«notte in cui tutte le vacche sono nere».<br />

Mentre attraverso la cosiddetta «rivoluzione» del 1908<br />

il mondo turco era alla ricerca di una nuova identità<br />

politica di tipo più «democratico», proprio attraverso<br />

l’azione riformatrice di quei militari che furono il<br />

nucleo del movimento dei Giovani Turchi 1 da cui, ben<br />

diversamente da chi ne sottolinea in modo unilaterale<br />

le presunte nefandezze, emersero leader come Enver<br />

Bey, Gemal Pascià, Mehemed Cavid, Mehemed Talt e<br />

lo stesso Mustafa Kemal, senza i quali non vi sarebbe<br />

stata una Turchia moderna, l’Occidente avviava una serie<br />

di azioni che puntavano alla dissoluzione del mondo<br />

ottomano 2 . Si tratta di interventi che andavano dalla<br />

decisione unilaterale dell’Impero d’Austria-Ungheria di<br />

incamerarsi la Bosnia Erzegovina nel 1908, alla guerra<br />

di aggressione italiana in Libia del 1911-12, all’esplosione<br />

delle guerre balcaniche del 1912-13.<br />

Ci chiediamo: si può parlare allora di «processo di disfacimento»<br />

per l’impero ottomano o piuttosto sarebbe<br />

più onesto dire che si trattava di un disegno di smem-<br />

1 Varrebbe la pena analizzare il problema della presenza all’interno<br />

del mondo politico e culturale armeno, all’inizio del XX<br />

secolo, di due anime quella nazionalista e quella classista marxista<br />

in lotta fra di loro. Anche qui, come nel resto dell’Europa,<br />

lo scoppio della Grande Guerra elimina la contraddizione<br />

dando spazio a forme di acceso nazionalismo, reso ovviamente<br />

ancora più tragico dalla peculiarità della condizione della<br />

popolazione armena. Sul problema della guerriglia armena si<br />

legga Guenther Lewy, Il massacro degli armeni. Un genocidio<br />

controverso, Einaudi, 2006, pag. 39 e segg..<br />

2 La «rivoluzione» dei Giovani Turchi è tematica storica degna<br />

di ben altra considerazione, rinviamo in generale a: A.M.<br />

Porciatti, Dall’impero ottomano alla nuova Turchia, Alinea<br />

Editrice, Firenze,1997. Si aggiunga, per meglio comprendere<br />

la complessità dei giochi che si svolsero in quella tragica estate<br />

del 1914, quanto scritto da Stanford J. Shaw: «In realtà, la<br />

<strong>maggio</strong>r parte degli ottomani, e quasi tutti i Giovani Turchi,<br />

simpatizzavano per le democrazie liberali dell’Intesa, sulle<br />

quali contavano per essere aiutati nei loro programmi di riforma.<br />

La <strong>maggio</strong>ranza preferiva tener fuori del tutto l’impero<br />

da una guerra in cui si confrontavano ambizioni e interessi<br />

quasi solo europei. Quando però l’odiata Russia si schierò con<br />

l’Intesa e l’Inghilterra confiscò due corazzate ottomane…l’ammirazione<br />

per il genio militare prussiano… e la direzione del<br />

ministro della guerra Enver Bey permise(ro) a quest’ultimo…<br />

di firmare un accordo segreto con la Germania, che trascinò<br />

gli ottomani… nella guerra appena iniziata». S.J.Shaw, La rivoluzione<br />

turca e il crollo dell’impero ottomano, in La storia<br />

I Grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, vol.<br />

9, L’Età Contemporanea, 4 – Dal primo al secondo dopoguerra,<br />

UTET, 1986, pag. 143/144.<br />

bramento che aveva come naturale esito finale proprio<br />

la scomparsa del mondo turcoottomano come entità<br />

statale autonoma?<br />

Siamo inoltre proprio convinti che vi fu un preciso<br />

disegno politico militare che coordinò lo sterminio<br />

degli Armeni? Come non tenere conto piuttosto dello<br />

stato di grande difficoltà militare e di disorganizzazione<br />

che l’impero stava vivendo in quel momento e che<br />

l’autenticità dei documenti secondo i quali il governo<br />

dei Giovani Turchi avrebbe ordinato nella primavera del<br />

1915 lo sterminio sistematico degli Armeni è da molti<br />

studiosi giudicata per lo meno dubbia?<br />

Inoltre come dimenticare che dalla Russia venivano<br />

precisi inviti alla ribellione? Lo zar Nicola II non aveva<br />

perduto il suo tempo e il 17 settembre 1914 aveva<br />

indirizzato ai suoi sudditi armeni un appello che era<br />

palesemente diretto anche ai loro «confratelli» d’oltre<br />

confine: «Armeni, i popoli di tutta la grande Russia si<br />

sono levati al mio comando. Armeni dopo cinque secoli<br />

di giogo tirannico, durante i quali voi e i vostri fratelli<br />

avete subito e alcuni ancora subiscono i più abominevoli<br />

oltraggi, l’ora della libertà è infine suonata per voi…» 3 .<br />

Proprio in quel momento nella zona del confine<br />

caucasico le armate dello zar, dopo il tragico inverno<br />

del 1914 che aveva visto le truppe turche sbaragliate<br />

dai russi e annientate dalla disorganizzazione interna<br />

alle forze armate del Sultano 4 , stavano avanzando,<br />

trascinando sulla loro scia una serie di battaglioni<br />

costituiti da volontari armeni dell’intero Caucaso 5 . In<br />

tale frangente decine di migliaia, anzi più probabilmente<br />

alcune centinaia di migliaia di mussulmani, ma anche di<br />

cristiani non armeni, se non ebbero la fortuna di trovare<br />

salvezza nella fuga, furono sterminati senza pietà.<br />

L’avanzata russa continuò per parte dell’anno successivo,<br />

il 1916, portando all’occupazione temporanea, fino allo<br />

sbandamento delle truppe russe sul finire dell’inverno<br />

1916-17, di un largo territorio nell’Anatolia centrale fino<br />

a Trabzon e Erzincan. Le popolazioni mussulmane di<br />

3 A.Debidour, Histoire diplomatique de l’Europe. Depuis le<br />

congrès de Berlin jusqu’à nos jours, II Vers la Grande Guerra<br />

(1904-1916), Librairie Félix Alcan, Paris, 1918, pag. 274 .<br />

4 Questo aspetto meriterebbe un’analisi più approfondita, che<br />

facesse i conti con la mentalità dei ceti dominanti dell’epoca.<br />

Una disfatta militare che comporta l’occupazione di una parte<br />

significativa di un territorio nazionale e viene vissuta come<br />

un’azione cui contribuisce o può contribuire una quinta colonna<br />

interna può generare reazioni, più o meno violente, sia<br />

pure eticamente difficili da giustificare? Si pensi per esempio<br />

alle parole usate, nel momento dell’ingresso degli USA nel<br />

primo conflitto mondiale, da una personalità di spicco come<br />

l’ex presidente Theodor Roosevelt: «…non c’è posto per una<br />

doppia lealtà; colui che dice di professarla «è necessariamente<br />

un traditore nei confronti per lo meno di un paese» ed è<br />

«da abbattere senza pietà»», Domenico Losurdo, Il peccato<br />

originale del Novecento, cit., pag. 38. Certo militarmente la<br />

campagna caucasica dei Turchi fu a dir poco tragica, vide la<br />

distruzione del IX e dell’XI corpo d’armata, generando il timore<br />

di un tracollo militare complessivo del fronte orientale e<br />

lo spettro di una rivolta alle spalle delle popolazioni armene.<br />

Palesemente l’argomento rimane aperto e non è nostro fine<br />

risolverlo in queste poche righe. Fra l’altro si veda anche Robert<br />

Mantran (a cura di), Storia dell’impero ottomano, cit.<br />

pag. 668.<br />

5 Questo tema presenta un certo interesse per ciò che riguarda<br />

il contributo delle unità di volontari armeni per il successo<br />

della offensiva d’inverno scatenata dai Russi. Il problema<br />

è trattato da Guenther Lewy, Il massacro degli armeni. Un<br />

genocidio controverso, cit., pag. 129/140.<br />

Poliscritture/Riprese Pag. 99


quelle contrade in quei mesi pagarono un pesante tributo<br />

di sangue di cui troppo spesso nessuno si ricorda. È certo<br />

infatti che i censimenti del dopoguerra mostrarono in<br />

modo irrefutabile che proprio in quei mesi, fine 1914inizio<br />

1917, non solo le popolazioni armene ma anche<br />

le altre genti anatoliche, insomma le masse dei ceti<br />

popolari, contadini e urbani, delle varie etnie, furono<br />

vittime di violenze, in cui certo ebbero la loro parte le<br />

tragiche misure repressive turche ma anche le vendette<br />

su larga scala operate dalle truppe armeno-russe 1 .<br />

Rossani aggiunge che «per molti decenni del genocidio<br />

degli Armeni nessuno parlò», ma è poi vero 2 ? Ci sembra<br />

impressionante, leggendo queste parole, come venga<br />

falsificato il processo storico e schiacciato il problema<br />

della drammatica realtà vissuta da quell’intera regione<br />

in quella frenetica fase storica. Come dimenticare che<br />

nel 1917 i rivoluzionari russi smascherarono i giochi<br />

delle diplomazie occidentali e fecero conoscere al<br />

mondo ciò che le cosiddette «potenze democratiche»<br />

avevano deciso di fare dell’intera Anatolia e più in<br />

generale del Medio Oriente? Forse merita di essere<br />

rammentato che accordi segreti del <strong>maggio</strong> 1916 (si noti<br />

la data!) avevano diviso l’impero fra Inghilterra, Francia<br />

e Russia e la zona di Erzurum, Trabzon, Van e Bitlis,<br />

insomma la zona cosiddetta armena, era stata ceduta,<br />

senza nessun particolare patema morale, a Nicola il<br />

Sanguinario. In seguito l’opera di smantellamento<br />

sistematico dell’impero ottomano era continuata a<br />

livello diplomatico con un’ulteriore divisione che cedeva<br />

una fetta meridionale dell’Anatolia persino all’Italia e si<br />

era conclusa con la famosa dichiarazione di Balfour del<br />

novembre 1917, che apriva la strada a un quasi secolare<br />

contenzioso arabo-ebraico e a una breve, ma non meno<br />

tragica, guerra greco-turca del primo dopoguerra 3 .<br />

Nel contempo l’Office of War Propaganda, segretamente<br />

installato dal Foreign Office britannico a Wellington<br />

House, sul Buckingham Gate di Londra si impegnò<br />

con grande solerzia, nel tentativo di dare un senso a<br />

una guerra che vedeva l’opinione pubblica sempre<br />

più scontenta e delusa, a raccogliere notizie per<br />

propagandare l’immagine, accanto alla barbarie tedesca,<br />

della barbarie turca 4 . Tale propaganda ebbe come esito<br />

l’arresto nel 1918 di ben 120 fra politici e intellettuali<br />

1 Si legga, ad esempio, Robert Mantran (a cura di), Storia<br />

dell’impero ottomano, cit., pag. 670.<br />

2 Cfr. O. Rossani, cit, pag. 48. Inutile sottolineare che la tragedia<br />

armena fu ben conosciuta, si ricordi solo la pubblicazione<br />

dell’opera di Franz Werfel, I quaranta giorni del Mussa Dagh,<br />

1933 che ebbe vasta risonanza mondiale. Per un approfondimento<br />

su questo tema, con una articolata bibliografia, si rinvia<br />

al testo completo presente sul sito della rivista.<br />

3 In tale prospettiva meriterebbe forse di essere ricordata anche<br />

la guerra turco-greca del 1919-22, con il suo tragico fardello<br />

di massacri, stimolata dal disegno politico delle forze<br />

dell’Intesa. In questo caso la storiografia dominante ha cercato<br />

di sorvolare sull’argomento, solo i Greci se ne ricordano, forse<br />

perché viene messo in forse il facile schema della «logica del<br />

terrore». Fu infatti l’azione delle nazioni vincitrici dell’Intesa<br />

a stimolare i Greci alla guerra e poi li abbandonarono al loro<br />

destino. Rimane il dubbio: la costa ionica dell’Egeo è «storicamente»<br />

greca o turca? I Greci hanno diritti a ritornare in possesso<br />

di quelle terre? Ci chiediamo però se ciò non inneschi<br />

un meccanismo che annienta lo stesso paradigma nazionale<br />

dando via a un contenzioso infinito.<br />

4 Su questo tema si può approfondire il discorso con la lettura<br />

di Robert Mantran (a cura di), Storia dell’impero ottomano,<br />

cit., pag. 680 e segg. e Guenther Lewy, Il massacro degli armeni.<br />

Un genocidio controverso, cit.<br />

turchi di primo piano, internati a Malta e liberati dopo<br />

il 1922 senza che si fosse arrivati a nessuna imputazione<br />

formale 5 . Il tentativo di smembrare la Turchia venne<br />

bloccato dalla lotta dei Turchi di Mustafa Kemal, che<br />

riuscirono ad espellere dal territorio dell’Anatolia gli<br />

invasori europei.<br />

D’altronde solo la cecità «revisionista» oggi tanto di<br />

moda può parlare del popolo armeno come di un popolo<br />

senza patria. Infatti dopo il 1918 gli Armeni hanno avuto<br />

non solo una patria ma anche un luogo dove è stata difesa<br />

la peculiarità culturale e linguistica della loro tradizione.<br />

Per quel che ci è dato sapere proprio la tanto deprecata<br />

Armenia Sovietica aveva creato, per conservare il ricordo<br />

della civiltà e della storia armena, una grande biblioteca<br />

dove sono stati custoditi i più preziosi capolavori della<br />

arte della miniatura e della cultura di quel popolo.<br />

È forse qui che si vede la differenza con l’enfasi della<br />

nuova Armenia e il suo impressionante e, ci si consenta,<br />

«retorico» braciere! Quel fuoco è paradossalmente<br />

mantenuto vivo, fra l’altro, da una legione di storici<br />

statunitensi, francesi e armeni, contro cui ben poco<br />

possono le argomentazioni degli storici turchi che<br />

debbono essere «stolte» di principio, oppure di color<br />

che hanno intenzione di indagare questa tragedia con la<br />

<strong>maggio</strong>r obiettività possibile 6 .<br />

Oggi tutto è organizzato affinché all’opinione pubblica<br />

mondiale venga rammentato non tanto il dramma<br />

dei popoli coinvolti nella criminale assurdità di una<br />

guerra imperialistica per la spartizione del mondo ma<br />

l’esistenza di un Olocausto Armeno. Tale impostazione<br />

favorisce lo spostamento del paradigma storico dalla<br />

responsabilità delle borghesie imperialiste occidentali<br />

al presunto primitivismo culturale e civile islamico. In<br />

questo modo il revisionismo storico si trasforma in un<br />

giustificazionismo etico e in uno strumento politico.<br />

Fin qui le cosiddette problematiche storiche; ora<br />

passiamo al versante «politico» che ci permettiamo<br />

di credere sia quello che sta alle fondamenta di tanto<br />

interesse storico revisionista.<br />

Cosa chiede il governo della moderna Repubblica<br />

«borghese» dell’Armenia? Che la Repubblica nazionalista<br />

della Turchia prenda le distanze dal paese dell’epoca del<br />

5 Tale opera di internamento e il tentativo di creare un tribunale<br />

internazionale tipo «Norimberga» ci pare un segnale<br />

esemplare. Una tale azione non venne effettuata infatti nei<br />

confronti del sovrani di Germania o Austria-Ungheria, per i<br />

quali vennero fatte deboli pressioni diplomatiche per sottoporli<br />

a processo, subito bloccate da una specie di solidarietà<br />

conservatrice fra le forze della reazione borghese europea.<br />

Contro la Turchia, in quanto realtà nazionale extraeuropea,<br />

che era evidentemente in una condizione gerarchica inferiore,<br />

era lecito agire con quella violenza che non si poteva usare con<br />

Guglielmo II o Carlo I.<br />

6 Ovviamente ciò non vuol dire schierarsi dalla parte di coloro<br />

che difendono l’odierna legislazione turca che tende a difendere<br />

dogmaticamente il primato dell’etnia turca. Su questo<br />

tema, che sottolinea come la repressione contro le minoranze<br />

etniche si unisca a un più ampio discorso di intolleranza<br />

politica nei confronti di chi si fa portavoce di una superiore<br />

speranza di costruzione di una società più giusta, si vedano gli<br />

articoli pubblicati sul numero di Alias, l’inserto de il Manifesto,<br />

di sabato 26 gennaio <strong>2008</strong> sotto il titolo di «Siamo tutti<br />

Hrant, siamo tutti armeni Un’altra Europa è nata a Istanbul,<br />

il 19 gennaio scorso. Rifondata dal basso, dai 10 mila turchi<br />

scesi in piazza per ricordare il giornalista di origini armene<br />

Hrant Dink, ucciso un anno fa da un fanatico nazionalista, e<br />

per abrogare gli articoli liberticidi e anticomunisti del codice<br />

penale e della costituzione…».<br />

Poliscritture/Riprese Pag. 100


genocidio 1 , che «il popolo turco chieda scusa al popolo<br />

armeno»! Ma chi chiederà scusa ai turchi?<br />

Forse più semplicemente, come cittadini di questa<br />

strana realtà, con la sua traballante legittimità, che è<br />

l’Europa delle borghesie di questi primi decenni del<br />

XXI secolo, ci possiamo chiedere cosa voglia dire questo<br />

continuo «chiedere scusa», questa moda del pentitismo<br />

a tutti i livelli?<br />

Si risarcisce in questo modo qualcuno o qualche cosa?<br />

In più, in questa paradossale Europa, in cui facciamo<br />

sempre più fatica a riconoscerci, cosa vuol dire che la<br />

Francia ha votato una legge secondo la quale negare il<br />

genocidio armeno è reato? Nessuno di noi discuterà mai<br />

che una violenza di qualsiasi tipologia sia sanzionata 2 ,<br />

ma ci chiediamo: come si comporteranno le istituzioni<br />

francesi di fronte ai vari «genocidi» degli Algerini, dei<br />

Marocchini, delle genti del Sahara, delle popolazioni<br />

della Cocincina, dei Vietnamiti, di fronte alle infinite<br />

violenze e gli infiniti stupri che hanno caratterizzato<br />

la storia della Francia coloniale dalla seconda metà<br />

del XIX secolo in poi? A quando delle leggi che<br />

riconosceranno quelle violenze, le trasformeranno in<br />

reato e condanneranno coloro che hanno fatto della<br />

Francia uno spietato strumento di inciviltà per oltre un<br />

secolo?<br />

Domande che rimangono inevase, ma la questione<br />

armena pare essere ora di gran moda…<br />

Esiste infatti una borghesia internazionale, una<br />

diaspora armena, una lobby estremamente potente che<br />

fa sentire il proprio peso. Questi esponenti sono quelli<br />

che ci informano, ci dice Rossani, che «i Turchi non<br />

cambieranno mai »(?) e che saranno il «il cavallo di Troia<br />

dal quale usciranno i mussulmani che conquisteranno<br />

il continente» (ovvero l’Europa n.d.r.). Di fronte a<br />

«tanta preveggenza» ci viene da chiederci: ma questi<br />

«sapienti» non sanno che abbiamo già in Europa, se<br />

questo fosse il problema, almeno due enclave islamiche,<br />

l’Albania e il Kosovo, che se non sono già entrate in<br />

Europa, nel dissennato disegno che si sta apprestando,<br />

ci entreranno prima o dopo?<br />

È davvero triste, ci si conceda la povertà del dire, che<br />

all’inizio del XXI secolo si chieda, ben sappiamo con<br />

quali mezzi, la «conversione» (si noti il termine!)<br />

di qualcuno alla democrazia. Ma da quale pulpito?<br />

Proprio mentre questi primi anni del nuovo secolo sono<br />

insanguinati da chi ha deciso, costi quel che costi, di farsi<br />

piazzista della democrazia, non sarebbe forse il caso di<br />

iniziare a ragionare in modo più onesto e rispettoso<br />

delle diversità, riconoscendo le colpe del nuovo tipo<br />

di neocolonialismo, dello sfruttamento del terzo e del<br />

1 Rimane un dubbio che ci appare difficile da risolvere: se il<br />

regime kemalista e poi la realtà politica turca successiva sono<br />

oggettivamente ben distanti dal sultanato ottomano (c’è di<br />

mezzo la caduta di un impero universalista!) come può il nuovo<br />

regime assumersi le colpe di un sistema politico precedente,<br />

totalmente diverso sia dal punto di vista istituzionale che<br />

culturale?<br />

2 Ci sia consentito un’ulteriore dubbio sulla liceità che le istituzioni<br />

politiche possano intervenire d’autorità nelle polemiche<br />

culturali. La falsità di una teoria, il fatto di essere più o<br />

meno aberrante, dovrebbe emergere dai dati obbiettivi e divenire<br />

parte dell’acquisizione di coscienza dell’opinione pubblica<br />

senza bisogno di censure. L’azione censoria ci pare faccia<br />

emergere, nonostante tutto, un pericoloso clima di caccia alle<br />

streghe che pone chi afferma di aver ragione, o ha ragione tout<br />

court, su una posizione non dissimile da chi ha palesemente<br />

torto.<br />

quarto mondo, della creazione di sempre <strong>maggio</strong>ri e<br />

tragiche diseguaglianze che hanno favorito una reazione<br />

che forse, certo l’argomento meriterebbe ben altro<br />

approfondimento, trova delle sue giustificazioni.<br />

A questo livello però il problema si fa più intricato: è<br />

ancora una volta il tragico gioco delle diplomazie che<br />

vede gli USA, l’Europa, la Russia e, in prospettiva, le<br />

emergenti potenze orientali confrontarsi per controllare<br />

una regione, il Medio Oriente, che rimane strategica e<br />

dove grandi masse vivono in condizioni di incredibile<br />

povertà mentre producono le materie prime che<br />

consentono all’Occidente opulento di mettere in mostra<br />

il proprio arrogante sfarzo.<br />

La creazione di «commissioni miste di conciliazione» 3<br />

appare in tale prospettiva davvero un prodotto originale<br />

di questi anni, di una volontà di riscrivere la storia<br />

secondo la nuova glossa che crede di aver esorcizzato lo<br />

spettro dell’«Ottobre» e di essere tornata a rivitalizzare,<br />

quasi nulla fosse successo nel XX secolo, ideali ormai<br />

consunti, anche se potenzialmente ancora portatori di<br />

violenza e morte, come quello di patria.<br />

Ci si dirà: ma i diritti umani? Non ci rimane di fronte alla<br />

pelosa pietas di tante «anime belle» che rimandare alle<br />

parole che Edoarda Masi scriveva due decenni fa con<br />

ineguagliabile efficacia e preveggenza: «A mascherare<br />

le contraddizioni e le diversità, la socialdemocrazia<br />

propone messaggi unificanti. Il più universale è l’appello<br />

alla tutela dei diritti umani... È la base elementare del<br />

civismo e della buona educazione. È uno degli strumenti<br />

più potenti di esorcismo e di anestesia». Settant’anni<br />

di guerre ininterrotte, rivoluzioni e controrivoluzioni,<br />

aggiungeva la Masi, hanno creato una situazione<br />

di disillusione, con una caduta della tensione etica,<br />

quasi un timore per l’azione politica, tanto da: «far<br />

scompare la differenza fra combattenti consapevoli e<br />

innocenti sacrificati, e tutti si vedono accomunati nella<br />

condizione di vittime. Sono sentimenti che implicano<br />

comprensione… Ma implicano una diminuzione della<br />

dignità umana e si accompagnano all’assunzione di<br />

una coscienza di servi. Si lascia ad altri l’onere di fare la<br />

Storia e si chiede di vivere indisturbati la propria piccola<br />

storia personale… si favorisce la polarizzazione verso un<br />

popolo di pecore contrapposto, e soggetto, a un potere<br />

esercitato da professionisti e identificato con la violenza<br />

in ogni sua forma… Quelli che esercitano la violenza<br />

come potere vogliono sotto di sé pecore con coscienza<br />

di vittime, e per mezzo dei loro pubblicitari diffondono<br />

l’etica umanitaria che dice a occhi chiusi «abbasso la<br />

violenza» e non vuole sapere altro.» 4<br />

Non è forse il caso di modificare la nostra prospettiva<br />

e volgerci ancora una volta verso il domani guardando,<br />

come ci diceva Benjamin, il passato, anche il passato<br />

prossimo, facendo un’opera di «spazzolatura<br />

contropelo»? Allora potremo vedere come, all’interno<br />

del disegno di riorganizzazione dello sfruttamento del<br />

mondo da parte dei diversi imperialismi, le borghesie<br />

e i ceti militari, sia caucasici che anatolici, pur con<br />

modalità diverse, puntano tutti all’affermazione delle<br />

3 Cfr. O. Rossani, cit, pag. 49, che ci parla della costituzione di<br />

una «Commissione di riconciliazione turco/armena» composta<br />

da una ventina di intellettuali di entrambe le parti. Sarebbe<br />

forse il caso di domandarsi se gli «intellettuali» abbiano ancora<br />

questa funzione maieutica e se la democrazia abbia bisogno<br />

di delegare all’intellettuale funzioni di questo tipo.<br />

4 E. Masi, Il libro da nascondere, Marietti, Casale Monferrato,<br />

1985, pag. 73/74.<br />

Poliscritture/Riprese Pag. 101


loro egemonie locali, dei loro privilegi e, all’interno delle<br />

diverse realtà statali, alla conferma di una stabilizzazione<br />

sociale ed economica fondata su una precisa gerarchia,<br />

che ha la finalità di conservare vantaggi e benefici a<br />

favore delle lobby di potere locali e reprimere con<br />

ogni mezzo qualsiasi forma di protesta di coloro che<br />

non partecipano al banchetto della storia e debbono<br />

accontentarsi delle briciole.<br />

È più che mai necessario, in questa situazione di grave<br />

regressione storica e intellettuale, liberarsi dall’ideologia<br />

borghese e dai suoi paradigmi falsamente umanitari<br />

e di ritornare a porre con forza all’ordine del giorno<br />

l’indicazione che Bertolt Brecht pose ai partecipanti<br />

al I Congresso internazionale degli scrittori in difesa<br />

della cultura del 1935: “…Personalmente non credo alla<br />

brutalità per la brutalità. Bisogna proteggere l’umanità<br />

dall’accusa di essere per la brutalità indipendentemente<br />

dal fatto che essa sia un buon affare. È una spiritosa<br />

Ritratto di Costantinopoli<br />

distorsione quella del mio amico F. quando afferma<br />

che la volgarità vien prima dell’interesse personale.<br />

La brutalità non viene dalla brutalità ma dagli affari<br />

che senza di essa non si possono fare…Non parliamo<br />

soltanto per la cultura! Si abbia pietà della cultura ma<br />

prima di tutto si abbia pietà degli uomini!... Compagni,<br />

parliamo dei rapporti di proprietà!”. 1<br />

1 Si legga il fondamentale intervento di B. Brecht riportato nel<br />

volume di F. Fortini, La verifica dei poteri, il Saggiatore, 1965,<br />

pag. 176.<br />

Poliscritture/Riprese Pag. 102


9 Giochi di specchi<br />

s g u a r d i e c o r r e z i o n i<br />

C’è un sito che vi attende:<br />

www.<strong>poliscritture</strong>.it<br />

“Poliscritture” ha da tempo attivato un sito che si propone come “laboratorio” della rivista e nello stesso<br />

tempo come spazio per la pubblicazione e la discussione di scritti e di opinioni. In questa puntata di “Giochi<br />

di specchi” vi offriamo un indice ragionato di quello che, in questo momento, sul sito si può trovare,<br />

invitandovi a visitarlo.<br />

Tanto per cominciare, naturalmente, sul sito trovate tutti i numeri arretrati della rivista, scaricabili in formato<br />

pdf.<br />

Questa è la home page al 21-4-<strong>2008</strong>:<br />

Sulla colonna di destra c’è un articolo che resta in<br />

evidenza per un po’ di tempo. Ora è:<br />

Poliscritture/Giochi di specchi Pag. 103


Se esaminate la colonna di sinistra ci trovate:<br />

Se cliccate su:<br />

• POLISCRITTURE Rivista<br />

trovate gli articoli pubblicati nelle varie rubriche.<br />

1. Editoriali<br />

2. Samizdat<br />

3. LATITUDINI<br />

4. Esodi<br />

5. Storia adesso<br />

6. Zibaldone<br />

7. Letture d’autore<br />

8. Sulla giostra delle riviste<br />

Se andate alla colonna di centro:<br />

Poliscritture/Giochi di specchi Pag. 104


Cliccando su:<br />

COSA C'E' DI NUOVO<br />

trovate ad es:<br />

940. Dialogare, criticare, polemizzare<br />

e cliccando su questo titolo potete scegliere di leggere, ad es.:<br />

________________________________________<br />

Milano da bere e Milano dabbene<br />

dicembre 2005 di Ennio Abate<br />

che comincia così:<br />

Le passioni di Milano: undici pagine con foto grandi, raffinate e inconsuete, sei articoli e due interviste (la<br />

prima allo storico dell’arte Giovanni Agosti; la seconda - fatta nel 2003 - al compianto Giovanni Raboni).<br />

Tema: il confronto tra ieri e oggi, tra «una certa Milano» di una volta e la «Milano da vomitare piuttosto<br />

che da bere» di oggi.<br />

Ed ecco, sempre dall’home page, altri<br />

articoli in evidenza:<br />

Poliscritture/Giochi di specchi Pag. 105


Provate a cliccare su:<br />

• Dieci poesie<br />

di Vincenzo Loriga<br />

e leggerete:<br />

Passione<br />

Ascolta te stesso che mangi.<br />

Ascolta le fauci che cantano,<br />

allegre, la loro canzone.<br />

Le viscere stanno in silenzio,<br />

raccolte: son pronte al lavoro.<br />

Goditi la linda parete,<br />

le sedie in vacanza, la tavola<br />

appena imbandita.<br />

Verifica se la materia<br />

sia fredda più di un rimorso.<br />

Se andate invece su:<br />

• 29 foto negli ospedali psichiatrici<br />

attorno al 1968<br />

di Carla Cerati<br />

trovate questa immagine solo apparentemente<br />

d’altri tempi:<br />

Se infine, per non farla lunga, volete collaborare con noi, ritornate nella colonna di sinistra in basso e cliccando<br />

su :<br />

PER CONTATTI<br />

<strong>poliscritture</strong>@gmail.com<br />

potete scriverci, darci suggerimenti, criticarci, farci sapere in quali specchi vi ritrovate<br />

di solito e magari anche abbonarvi ( 3 numeri 10 euro) spedendo per il momento a<br />

Ennio Abate (Poliscritture), via Pirandello 6 -20093 Cologno Monzese (Milano).<br />

Ciao<br />

La redazione di POLISCRITTURE<br />

Poliscritture/Giochi di specchi Pag. 106


I collaboratori del numero 4<br />

Pietro Andujar. Psicoanalista non medico, socio fondatore de “La Ginestra. Associazione di cultura psicoanalitica” e per molti anni redattore della rivista<br />

omonima. Si occupa di terapia psicoanalitica delle psicosi e di psicopatologie contemporanee. Collabora con Christopher Bollas nell’E.S.G.U.T. European<br />

Study Group of Unconscious Thought, ha contatti con gruppi Freudiani e Lacaniani a Parigi (Société de Psychanalyse Freudienne e “Insistance”) e con<br />

l’American Academy of Psychoanalysis And Dynamic Psychiatry in U.S.A. È anche collaboratore stabile del “Gruppo sulla costruzione del caso clinico”,<br />

presso l’ex O.P. “Paolo Pini” di Milano.<br />

Giorgio Bedoni. Psichiatra e psicoterapeuta, lavora presso l’Azienda Ospedaliera di Melegnano, è docente al corso di perfezionamento in teoria e pratica<br />

della terapeutica artistica, Accademia di Belle Arti di Brera e presso il Centro di formazione nelle arti terapie “La linea dell’arco” di Lecco.<br />

Ferrucio Brugnaro. È nato a Mestre nel 1936 e vive a Spinea (Venezia). Operaio a Porto Marghera dai primi anni Cinquanta, ha partecipato attivamente<br />

alle lotte del movimento operaio. È stato uno dei primi in Italia a diffondere la poesia ciclostilata in forma di volantino. Ha pubblicato diversi libri ora tradotti<br />

in inglese, spagnolo, francese. Sue poesie sono apparse e appaiono frequentemente anche in molte riviste letterarie internazionali.<br />

Massimo Cappitti. Insegnante. Fa parte del Comitato del Centro Studi Franco Fortini di Siena. Collabora a diverse riviste ed è nella redazione de «La<br />

società degli individui».<br />

Anna Cascella Luciani (Roma 1941). Poeta, ha pubblicato: Le voglie in Nuovi Poeti Italiani 1, Einaudi, 1980; Tesoro da nulla, Scheiwiller All’insegna<br />

del pesce d’oro, 1990 (premio “Laura Nobile”, premio Mondello opera prima); Piccoli campi, Stamperia dell’Arancio, 1996 (premio Sandro Penna, premio<br />

“Procida, Isola d’Arturo-Elsa Morante”); i semplici, Il Bulino, 2002. Tra gli scritti di critica: I colori di Gatsby-Lettura di Fitzgerald, Lithos, 1995.<br />

Anna Maria Celso. Nata a Milano, abita a Cologno Monzese e insegna in una scuola elementare. Laureata in Pedagogia, ha conseguito in seguito un master<br />

su “La gestione educativa del disagio nascosto in classe”. S’interessa di disagio e disabilità scolastiche e ha svolto attività di consulenza pedagogica, di<br />

formazione per docenti e vari corsi di aggiornamento professionale. Ama la danza, il teatro, la lettura.<br />

Carla Cerati. Nata a Bergamo, è fotografa dal 1960. I suoi temi vanno dal teatro, al ritratto, al reportage sul paesaggio urbano e le più varie figure sociali<br />

(giovani, intellettuali, emarginati). È anche narratrice, finalista al Premio Strega nel 1973 con Un amore fraterno e autrice di numerosi romanzi, tradotti in<br />

diverse lingue.<br />

Fabio Ciriachi. È nato e vive a Roma. Ha pubblicato le raccolte di poesia L’arte di chiamare con un filo di voce (Empirìa, 1999) e Il giardino urbano<br />

(Empirìa, 2003), il volume di racconti Azzurro-cielo e verde-pistacchio, (Edimond, <strong>2008</strong>). Ha tradotto dal francese l’opera di David Mus Qu’alors on ne se<br />

souviendra plus de la mer Rouge (RagageEmpiria, 2005). Ha collaborato come recensore alle pagine culturali de “la Repubblica” e “il manifesto”, collabora<br />

a quelle de “l’Unità”. Una seconda raccolta di racconti, L’eroe del giorno, è in corso di pubblicazione per l’editore Gaffi.<br />

Giacomo Conserva. Nato a Parma nel 1948, lì ancora vive. È stato nel ’68, nel ’77, e così via. È medico nel Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (SPDC)<br />

di Parma, una figlia di 32 e uno di 3 anni. Nel ’75 tradusse per la Newton Compton William Blake, tuttora ristampato. Ha fatto molti viaggi e scritto molte<br />

poesie, diverse apparse qua e là nel lento corso degli anni. Nel ’91 pure un piccolo libro, Derive Metropolitane, per «A/traverso».<br />

Michele Ferrara degli Uberti. È nato a Roma nel 1971. Sue poesie sono uscite su varie riviste e antologie. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: I<br />

richiami della luna nuova, Fermenti, 1998; Il compagno invisibile, Liberi Editore, 2004; L’amato viaggio, il ritorno, Liberi Editore, 2006.<br />

Mario Fresa (Salerno, 1973). È autore di due raccolte poetiche, di un libro di aforismi e di un volume di prose. Ha collaborato e collabora a varie riviste,<br />

nazionali e internazionali. Cura per le edizioni di Nuova Frontiera una collana di poesia.<br />

Carla Girardi. Psicologa psicoterapeuta, docente e formatore della Scuola di formazione psicoanalitica “Il Ruolo Terapeutico” di Milano. È redattrice<br />

dell’omonima rivista. Dal 1988 opera presso il CPS di Cologno Monzese e dal 2004 svolge attività di supervisione e di riflessione con il Libero Atelier di<br />

Atiività Espressive di Cologno Monzese.<br />

Claudia Iandolo. Nata a Milano nel 1961, laureata in lettere classiche, insegna italiano e latino nei licei. Ha pubblicato per il teatro Rossa luna di Novembre<br />

e altri ( Grafic Way, Avellino 1995), per la poesia Aegre (Elio Sellino Editore, Avellino 2004), saggistica per il Centro di Ricerca Guido Dorso di Avellino,<br />

i romanzi Il paese bianco di Isidora vecchia (Mephite, Avellino 2005), Qualcuno Distratto (Palomar, Bari 2007). È apparsa sulle riviste L’Indice, L’Area di<br />

Broca, Zeta, Interpretare e Gradiva ed è presente nell’antologia Ti bacio in bocca- antologia di poesia erotica al femminile (Edizioni LietoColle).<br />

Vincenzo Loriga. Psicoanalista e scrittore. Ha pubblicato un volume di saggi, L’angelo e l’animale (Raffaello Cortina, 1990), uno di racconti, L’igrone<br />

(Zone Editrice, 2002), e tre libri di poesia: Materia (Rebellato, 1958), Regina degli inganni (con prefazione di Cesare Viviani, Crocetti 1985) e Sulla punta<br />

delle dita (Book Editore 2004)<br />

Giorgio Mannacio. È nato in Calabria nel 1932 ma è sempre vissuto a Milano. Sue poesie sono uscite su “Il Verri”, “Il Caffè”, “L’Almanacco dello Specchio”,<br />

“Alphabeta” e altre riviste. Ha pubblicato cinque libri di poesie. L’ultimo è Visita agli antenati (Ed.Philobiblion, 1996).<br />

Marina Massenz. Terapista della neuropsicomotricità dell’età evolutiva e formatrice, è docente presso l’Università Statale di Milano per il Corso di Laurea<br />

di Educatore Professionale. Dirige la rivista “Psicomotricità” e lavora in ambito terapeutico ed educativo-preventivo con i bambini. Ha pubblicato quattro<br />

libri e molti articoli sul suo lavoro. È autrice di un libro di poesie, Nomadi viandanti filanti (Amadeus, 1995). Altre sue poesie e prose sono apparse su diverse<br />

riviste, fra cui “QUI - Appunti dal presente”, “Il Monte Analogo” e “Poliscritture”.<br />

Sonia Scarpante. Nata a Milano nel 1958, laureata in Architettura. Si interessa di etica, salute e ambiente. In particolare è fiduciaria dell’associazione<br />

“Attive come prima” che si occupa di terapie di gruppo per malati oncologici ed è volontaria all’Istituto Europeo di Oncologia. Una sua testimonianze su tali<br />

temi ha avuto la prefazione di Umberto Veronesi. Ha scritto due raccolte di poesia: Tracce e Le dimensioni perdute, quest’ultima con prefazione di padre<br />

Bartolomeo Sorge. Collabora a riviste culturali milanesi e fa parte del gruppo teatrale “Le Griots”.<br />

Franco Tagliafierro (Teramo 1941). Risiede a Milano ma da qualche anno soggiorna per lunghi periodi a Madrid. Ha pubblicato due romanzi storici: Il<br />

capocomico (1991) e Strategia per una guerra corta (1999).<br />

Maria Pia Teodori. Psicologa, psicoterapeuta, ha lavorato a Pesaro e a All’ U.S.L.28 di Grosseto, occupandosi in particolare di strutture intermedie. Redattrice<br />

della rivista “Fogli di informazione”. Attualmente è direttore di unità operativa asl 10 di Firenze.<br />

Alessandro Teruzzi. Vive a Cologno Monzese, dove, dopo aver partecipato ai fatti di Genova durante il G8 del 2001, ha fondato nel 2002 assieme ad altri<br />

un collettivo politico. È stato presente anche ai diversi Social Forum europei e, da ultimo, alle proteste a Heiligendamm (Rostock) durante il G8 del giugno<br />

2007. Laureatosi nel frattempo in ingegneria informatica al Politecnico di Milano, coltiva la speranza di tornare in Brasile tra i ragazzi di strada per portare<br />

avanti un sogno di cambiamento e di giustizia.<br />

Giulio Toffoli. Docente in un liceo a Brescia e storico. È autore di Giacomo Matteotti. Una tragedia di ieri, una lezione per il domani (Rezzato, 2004).<br />

Laura Tonani. Pittrice e docente all’Accademia di Belle Arti di Brera dal 1985. Da anni opera come artista terapista in riabilitazione psichiatrica e dal 1999<br />

è coordinatrice del Libero Atelier di Attività Espressive di Cologno Monzese. Si occupa anche di formazione nelle arti terapie ed écoordinatrice,con Tiziana<br />

Tacconi, del corso biennale di Perfezionamento in Teoria e Pratica della Terapeutica Artistica dell’Accademia di Brera, Milano.<br />

Paolo Tranchina. Psicologo analista, specializzato all’istituto jung di Zurigo, ha lavorato a Milano, Arezzo, Prato, Torino, Firenze. Ha insegnato psicoterapia<br />

alla Clinica psichiatrica dell’università di Verona.Dirige la trivista “Fogli di Informazione”.Presidente della Società Italiana di psicoterapia concreta. Autore<br />

di Norma e Antinorma (1978), Il segreto delle pallottole d’argento (1984), Psicanalista senza muri (1989), La rinascita delle dee (1991). Si occupa di<br />

formazione e supervisione nei servizi pubblici.

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