Elaborato di Laurea Triennale - Archivi di Famiglia
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA” ‐ FACOLTÀ DI FILOSOFIA<br />
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELL’EDUCAZIONE E DELLA FORMAZIONE<br />
LAUREANDA<br />
Bellucci Elisa<br />
Matricola<br />
983128<br />
ELABORATO DI LAUREA IN PEDAGOGIA GENERALE<br />
RELATORE<br />
Chiar.mo prof.<br />
Nicola Siciliani de Cumis<br />
PER UNA NUOVA EDIZIONE<br />
DI L. N. TOLSTOJ,<br />
CORRELATORE<br />
Chiar.mo prof.<br />
Furio Pesci<br />
I QUATTRO LIBRI DI LETTURA<br />
E<strong>di</strong>trice<br />
Nuova Cultura – Roma<br />
Anno Accademico<br />
2005 – 2006
Composizione grafica a cura dell’Autore
In<strong>di</strong>ce<br />
Premessa .........................................................................................................VII<br />
Introduzione.................................................................................................... IX<br />
1. La genesi dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura .......................................................... IX<br />
2. Il ruolo degli animali................................................................................. XII<br />
3. Il gioco .........................................................................................................XV<br />
4. La scienza spiegata ai ragazzi ..................................................................XV<br />
5. Le descrizioni ............................................................................................XVI<br />
6. I bambini: destinatari e protagonisti dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura.......XVIII<br />
7. Il carattere popolare dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura e le influenze<br />
del mondo classico ..................................................................................XIX<br />
8. Storia antica e moderna nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura ..............................XXI<br />
9. I sentimenti ............................................................................................. XXIII<br />
10. Scelte ideologiche ed impegno sociale nei Quattro libri <strong>di</strong> let‐<br />
tura ........................................................................................................... XXV<br />
11. I Quattro libri <strong>di</strong> lettura in Italia..........................................................XXVII<br />
12. La morte ................................................................................................. XXX<br />
13. La religione ........................................................................................... XXXI<br />
14. La pedagogia tolstojana .....................................................................XXXII<br />
15. Il furto................................................................................................XXXVII<br />
16. Attualità pedagogica in Tolstoj.....................................................XXXVIII<br />
In<strong>di</strong>ce dei testi utilizzati da Tolstoj .................................................................XLI<br />
In<strong>di</strong>ce delle tematiche ricorrenti ..................................................................XLVII<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura................................................................ 1<br />
Avvertenza ........................................................................................................ 3<br />
Primo libro <strong>di</strong> lettura........................................................................................ 5<br />
Secondo libro <strong>di</strong> lettura.................................................................................. 49<br />
Terzo libro <strong>di</strong> lettura .................................................................................... 113<br />
Quarto libro <strong>di</strong> lettura.................................................................................. 181<br />
Bibliografia e Sitografia................................................................................... 257<br />
In<strong>di</strong>ce dei nomi ................................................................................................ 259
Premessa<br />
Il seguente elaborato <strong>di</strong> laurea nasce innanzitutto dalla mia passione<br />
nei confronti <strong>di</strong> due delle opere più note della grande letteratura inter‐<br />
nazionale, <strong>di</strong> cui è autore Lev Nicolaevič Tolstoj: Guerra e pace e Anna Ka‐<br />
renina. Non sono certamente la prima a sostenere la stupefacente attuali‐<br />
tà <strong>di</strong> questi due testi, capaci <strong>di</strong> trasportare in un mondo i cui personaggi<br />
si sanno essere frutto dell’inventiva dell’autore, ma <strong>di</strong>pinti con una mae‐<br />
stria tale, da stentare a credere nella loro effettiva irrealtà.<br />
Se le vicende dei Rostov, dei Bolkoskij, degli Oblonskij e dei Karenin<br />
mi erano quin<strong>di</strong> ben note anche prima dell’inizio della carriera universi‐<br />
taria, non lo stesso posso affermare riguardo l’attività pedagogica <strong>di</strong><br />
Tolstoj.<br />
È infatti grazie agli esami <strong>di</strong> Terminologia pedagogica del prof. Nico‐<br />
la Siciliani de Cumis e <strong>di</strong> Storia della pedagogia del prof. Furio Pesci che<br />
ho potuto conoscere la scuola <strong>di</strong> «Jasnaja Poljana», in cui Tolstoj insegnò<br />
ai figli dei conta<strong>di</strong>ni della sua tenuta. La curiosità e l’interesse destati in<br />
me fin dal primo anno <strong>di</strong> corso dall’acquisizione <strong>di</strong> questa nozione, mi<br />
hanno quin<strong>di</strong> portato al non poter scegliere altro argomento all’infuori<br />
<strong>di</strong> questo per l’elaborato <strong>di</strong> laurea.<br />
Se quin<strong>di</strong> inizialmente la mia intenzione era <strong>di</strong> occuparmi esclusiva‐<br />
mente della scuola <strong>di</strong> «Jasnaja Poljana», quando il prof. Siciliani de Cu‐<br />
mis mi ha proposto <strong>di</strong> realizzare un’e<strong>di</strong>zione dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura,<br />
avendo come punto <strong>di</strong> partenza e <strong>di</strong> confronto la tesi <strong>di</strong> Elisa Medolla<br />
Realismo pedagogico e letterario nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura <strong>di</strong> Tolstoj, ne so‐<br />
no stata subito entusiasta.<br />
I Quattro libri <strong>di</strong> lettura sono certamente un testo meno conosciuto,<br />
nonostante il successo e<strong>di</strong>toriale riscosso in patria all’epoca della pubbli‐<br />
cazione, rispetto agli altri citati, ma rappresentano senz’altro una delle<br />
migliori prove a conferma del profondo amore nutrito da Tolstoj verso i<br />
bambini.<br />
Ed è proprio questo sentimento ad emergere con maggior forza nel<br />
corso della lettura; se le numerose storie contenute nel volume ad<br />
un’analisi superficiale appaiono quasi del tutto prive <strong>di</strong> un legame co‐<br />
mune, ad uno sguardo più attento non possono che rivelare un’unitarie‐<br />
tà più significativa, determinata dall’attenzione dell’autore nello sceglie‐<br />
re i brani, <strong>di</strong>sponendoli secondo il criterio della gradualità, uniti tra loro<br />
dall’impegno <strong>di</strong> Tolstoj nello scrivere un’opera che può essere conside‐<br />
rata un vero e proprio tributo all’infanzia.
VIII<br />
Premessa<br />
Tramite il lavoro <strong>di</strong> ricerca ho avuto la possibilità <strong>di</strong> approfon<strong>di</strong>re<br />
non solo quei temi, l’ascendenza popolare dell’opera tolstojana, lo<br />
sguardo attento al punto <strong>di</strong> vista dei bambini, che avevo già avuto modo<br />
<strong>di</strong> amare nella lettura dei due gran<strong>di</strong> classici <strong>di</strong> quest’autore, ma soprat‐<br />
tutto <strong>di</strong> apprendere nuovi contenuti, ed in particolare la sorprendente<br />
modernità letteraria e pedagogica non solo dell’opera in sé, ma soprat‐<br />
tutto del pensiero tolstojano in essa rappresentato, capace <strong>di</strong> sollevare<br />
problematiche ancora attuali a più <strong>di</strong> un secolo <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza.
Introduzione<br />
1. La genesi dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
L’insegnamento da parte <strong>di</strong> Lev Nicolaevič Tolstoj nella scuola <strong>di</strong> «Ja‐<br />
snaja Poljana», tra il 1859 ed il 1863 e tra il 1872 ed il 1873; lo stu<strong>di</strong>o dei<br />
problemi scolastici condotto nel suo secondo viaggio all’estero (1860‐<br />
1861), al fine <strong>di</strong> osservare la scuole popolari <strong>di</strong> Francia, Germania, Sviz‐<br />
zera, Inghilterra e Belgio; la pubblicazione della rivista «Jasnaja Poljana»<br />
e la composizione <strong>di</strong> articoli pedagogici fra il 1862 ed il 1863, costitui‐<br />
scono la premessa fondamentale alla stesura dell’Abbecedario 1 .<br />
La rivista «Jasnaja Poljana» ebbe vita dal maggio 1861 al <strong>di</strong>cembre del<br />
1862 e fu costituita da do<strong>di</strong>ci numeri in tutto. Era <strong>di</strong>visa in due fascicoli<br />
<strong>di</strong>stinti: uno portava il sottotitolo «Scuola. Rivista pedagogica» e l’altro<br />
quello <strong>di</strong> «Libretti per bambini». «Jasnaja Poljana» fu l’organo dell’espe‐<br />
rienza <strong>di</strong>dattica <strong>di</strong> Tolstoj ispirata alla “libera educazione”; caratteristico<br />
è il titolo <strong>di</strong> uno degli ultimi articoli che vi pubblicò: Chi deve imparare a<br />
scrivere: i ragazzi <strong>di</strong> campagna da noi, o noi dai ragazzi <strong>di</strong> campagna? 2 La ri‐<br />
sposta è che lo scrittore, dovendo osservare il mondo nella sua realtà,<br />
deve apprendere questa capacità dai figli dei conta<strong>di</strong>ni, che contempla‐<br />
no la vita con ingenuità, riuscendo a percepirla in un modo impossibile<br />
agli adulti.<br />
Da quest’esperienza maturerà la composizione <strong>di</strong> un libro su e per<br />
l’infanzia, l’Abbecedario, la cui prima e<strong>di</strong>zione risale al 1872. All’insuc‐<br />
cesso <strong>di</strong> questa prima e<strong>di</strong>zione, contribuirono i numerosi problemi e<strong>di</strong>‐<br />
toriali e la mancata approvazione da parte del Ministero della Pubblica<br />
istruzione dell’utilizzo come manuale scolastico, probabilmente a causa<br />
della <strong>di</strong>ffidenza da parte del governo zarista per l’attività pedagogica<br />
dello scrittore. Nel 1874 Tolstoj pre<strong>di</strong>spose quin<strong>di</strong> una nuova e<strong>di</strong>zione,<br />
anch’essa accolta poco favorevolmente da pubblico e critica. Dalla pro‐<br />
fonda rielaborazione <strong>di</strong> questo testo, nel 1875 verrà pubblicato il Nuovo<br />
Abbecedario 3 , la cui parte narrativa verrà raccolta nei Quattro libri <strong>di</strong> lettu‐<br />
1 Cfr. L. N. TOLSTOJ, Azbuka, S. Peterburg , Tip. Zamyslovskij, 1872.<br />
2 Cfr. ID., Chi deve imparare a scrivere: i ragazzi <strong>di</strong> campagna da noi o noi da i ragazzi <strong>di</strong><br />
campagna?, in ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, Torino, Einau<strong>di</strong>, 1994, pp. 265‐292.<br />
3 Cfr. ID., Novaja azbuka, Moskva, Tip. Torleckij i Terichov, 1875.
X<br />
Introduzione<br />
ra4 , con un notevole arricchimento <strong>di</strong> materiale e l’esclusione <strong>di</strong> alcuni<br />
brani, <strong>di</strong>venendo, contro ogni aspettativa, uno dei più gran<strong>di</strong> successi<br />
e<strong>di</strong>toriali dell’epoca.<br />
La rivista «Jasnaja Poljana» ha permesso <strong>di</strong> ricostruire il percorso at‐<br />
traverso cui Tolstoj ha elaborato quelle teorie educative basilari nella<br />
composizione dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura. Il contatto <strong>di</strong>retto con i figli dei<br />
conta<strong>di</strong>ni pone in <strong>di</strong>scussione certezze già acquisite ed è probabile che,<br />
proprio ripensando a questi bambini come ideali lettori, egli abbia com‐<br />
preso l’impostazione necessaria a rendere interessanti i Quattro libri <strong>di</strong><br />
lettura.<br />
Tolstoj attribuisce al popolo un profondo interesse per l’istruzione,<br />
ma l’istituzione scolastica, mortificando la personalità degli allievi, porta<br />
ad un rifiuto della scuola e ad una acquisizione confusa delle nozioni<br />
impartite. Ciò si può evitare soltanto garantendo ad ogni bambino la<br />
possibilità <strong>di</strong> esprimere liberamente se stesso, facendolo sentire parte at‐<br />
tiva del processo formativo. Espressione pratica <strong>di</strong> questa sua volontà è<br />
la struttura della scuola <strong>di</strong> «Jasnaja Poljana», nella quale non ci sono<br />
sud<strong>di</strong>visioni in classi per età e livello <strong>di</strong> preparazione, ma solo dei grup‐<br />
pi flessibili che si formano e si sciolgono in funzione dell’attività svolta.<br />
Nella lettera del 12 gennaio 1872 con la quale comunica a Aleksandra<br />
Andreevna Tolstaja l’imminente pubblicazione dell’Abbecedario, ben si<br />
esprimono le forti aspettative nutrite da Tolstoj riguardo al testo, la cui<br />
stesura ebbe inizio all’apertura della scuola <strong>di</strong> «Jasnaja Poljana»:<br />
La mia ambizione è questa: che, per il corso <strong>di</strong> due generazioni, tutti i ragaz‐<br />
zi russi, da quelli della famiglia imperiale fino a quelli dei conta<strong>di</strong>ni, siano for‐<br />
mati da questo libro e ne traggano le loro prime impressioni poetiche, cosicché<br />
io possa morire tranquillo, avendolo scritto 5 .<br />
I Quattro libri <strong>di</strong> lettura, furono quin<strong>di</strong> concepiti dal loro autore come<br />
un’opera pedagogica e <strong>di</strong>dattica <strong>di</strong> carattere universale, che avrebbe<br />
contribuito alla formazione umana e culturale <strong>di</strong> moltissimi ragazzi, do‐<br />
vendone però superare un giu<strong>di</strong>zio critico che Tolstoj, in virtù dell’e‐<br />
sperienza maturata nella scuola <strong>di</strong> «Jasnaja Poljana», prevedeva sarebbe<br />
stato particolarmente severo.<br />
4 Cfr. L. N. TOLSTOJ, Russkie knigi dlja čtenija, Moskva, Tip. Ris, 1875, (I quattro libri<br />
<strong>di</strong> lettura, cit.).<br />
5 ID., Lettere, Milano, Longanesi, 1977‐78, vol. I, p. 378.
Introduzione XI<br />
Nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura sono presenti alcuni dei testi più importanti<br />
della letteratura per l’infanzia: Esopo, Plutarco, Erodoto, due raccolte <strong>di</strong><br />
fiabe in<strong>di</strong>ane tradotte in francese, Les Avadanes e Les mille et un jours, vari<br />
scrittori russi e stranieri, tra cui Aleksandr Nicolaevič Afanasjev, i fratelli<br />
Jacob Ludwing Karl e Wilhelm Karl Grimm, Victor Hugo, Christian An‐<br />
dersen. Il valore dell’opera non è determinato dal legame con una preci‐<br />
sa teoria pedagogica, che ne avrebbe comportato il superamento nel cor‐<br />
so del tempo, al contrario, come afferma Elisa Medolla nella tesi Realismo<br />
pedagogico e letterario nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura <strong>di</strong> Tolstoj:<br />
Ciò che costituisce il valore intrinseco dell’antologia tolstoiana è l’inevitabile<br />
<strong>di</strong>segno dell’autore, che sorregge scelte ed esclusioni entrambe significative,<br />
volte a conferire un’impronta unitaria ad un’opera per comporre la quale Tol‐<br />
stoj «si sforzò <strong>di</strong> scoprire, raccogliere, esporre le verità eterne, <strong>di</strong> risvegliare<br />
l’interesse spontaneo, la fantasia, l’amore, la curiosità dei bambini e della gente<br />
semplice»; non si comprenderebbe altrimenti come una raccolta <strong>di</strong> brani <strong>di</strong> così<br />
<strong>di</strong>versa origine abbia una tale unitarietà <strong>di</strong> tono da apparire come il risultato <strong>di</strong><br />
un’unica volontà e <strong>di</strong> un’unica ispirazione 6 .<br />
Riguardo i contenuti dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura, la semplicità d’espres‐<br />
sione ne costituisce, dal punto <strong>di</strong> vista stilistico, uno dei maggiori pregi.<br />
Eppure questa stessa limpidezza è il punto <strong>di</strong> arrivo <strong>di</strong> un tragitto artistico<br />
faticoso e tormentato, lungo il quale lo scrittore ebbe come esclusivi punti <strong>di</strong> ri‐<br />
ferimento i componimenti dei propri alunni <strong>di</strong> Jasnaja Poljana 7 .<br />
Essendo un testo rivolto ai bambini, particolare rilevanza assume la<br />
cura nel graduare la scelta dei brani secondo criteri <strong>di</strong> crescente com‐<br />
plessità: nei primi due libri prevalgono favole e racconti <strong>di</strong> facile lettura,<br />
mentre negli ultimi due vengono affrontati anche argomenti complessi.<br />
Tra alcuni racconti è possibile riscontrare alcune similitu<strong>di</strong>ni; ad e‐<br />
sempio la favola Fili sottili 8 , nel Primo libro, narra <strong>di</strong> una filatrice che, ad<br />
6 E. MEDOLLA, Realismo pedagogico e letterario nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura <strong>di</strong> Tolstoj,<br />
Facoltà <strong>di</strong> Lettere e Filosofia dell’Università degli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Roma «La Sapienza», Tesi<br />
<strong>di</strong> laurea in Pedagogia, (Relatore Chiar.mo prof. Nicola Siciliani de Cumis, Correla‐<br />
tore Chiar.mo prof. Aldo Visalberghi), A.a. 1996/97, p. XIV, per la citazione interna<br />
si veda I. BERLIN, Tolstoj e l’educazione del popolo, in «Tempo presente», settembre‐<br />
ottobre 1960, p. 636.<br />
7 Ivi, p. 21.
XII<br />
Introduzione<br />
un uomo che chiedeva fili sempre più sottili, aveva presentato una scato‐<br />
la vuota, accettata con entusiasmo dall’uomo, che ne aveva or<strong>di</strong>nate<br />
molte altre. Nel Quarto libro è poi presente un celebre racconto <strong>di</strong> An‐<br />
dersen, Il vestito nuovo del re9 , il cui motivo ispiratore è apparentemente<br />
simile in quanto tutti credono <strong>di</strong> vedere ciò che non esiste. La favola <strong>di</strong><br />
Andersen è però più complessa perché, pur evitando esplicite sanzioni<br />
morali, si presenta come una forma <strong>di</strong> denuncia della falsità e del con‐<br />
formismo.<br />
2. Il ruolo degli animali<br />
In alcuni brani gli animali sono chiamati a rappresentare <strong>di</strong>fetti e pre‐<br />
gi dell’umanità, probabilmente con il fine <strong>di</strong> garantire un minor grado <strong>di</strong><br />
coinvolgimento emotivo ed in questo espe<strong>di</strong>ente è riscontrabile l’esem‐<br />
pio <strong>di</strong> Esopo e l’ammirazione nutrita da Tolstoj nei confronti del mondo<br />
greco. La trasposizione <strong>di</strong> caratteristiche umane in alcuni animali prota‐<br />
gonisti <strong>di</strong> racconti e<strong>di</strong>ficanti, risponde all’esigenza <strong>di</strong> esemplificare in<br />
pochi tratti valori come la fedeltà e l’amicizia. Tolstoj affida agli animali<br />
«il compito <strong>di</strong> rappresentare in maniera compiuta ed esaustiva senti‐<br />
menti che in questo modo acquisiscono un’universalità che va al <strong>di</strong> là<br />
dell’episo<strong>di</strong>o contingente» 10 . Nel racconto dal vero I cani dei pompieri 11 ,<br />
l’eroismo <strong>di</strong> Bob, cane dei pompieri addestrato al salvataggio dei bam‐<br />
bini intrappolati dalle fiamme, è descritto con semplicità, senza alcuna<br />
enfasi. Il rischio <strong>di</strong> assumere un tono declamatorio è scongiurato dal fi‐<br />
nale comico del racconto, nel quale Bob, dopo aver tratto in salvo una<br />
bambina, torna nella casa incen<strong>di</strong>ata, portandone fuori una bambola.<br />
Una favola caratterizzata invece totalmente dalla comicità della vi‐<br />
cenda narrata è L’orso sul carretto 12 , il cui fine è certamente quello <strong>di</strong> <strong>di</strong>‐<br />
vertire i lettori. Nel descrivere l’avventura <strong>di</strong> un orso che sale su un car‐<br />
ro incostu<strong>di</strong>to che riparte al galoppo, trainato da tre cavalli imbizzarriti,<br />
non vi è infatti nessun intento educativo, ma la semplice narrazione <strong>di</strong><br />
un evento che per la sua straor<strong>di</strong>narietà provoca lo stupore <strong>di</strong> tutti.<br />
8 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., p. 9, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea<br />
p. 11).<br />
9 Ivi, pp. 198‐199, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 194‐195).<br />
10 E. MEDOLLA, op. cit., p. 17.<br />
11 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., pp. 10‐11, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong><br />
laurea p. 12).<br />
12 Ivi, p. 63, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 62‐63).
Introduzione XIII<br />
D’impostazione <strong>di</strong>fferente è invece il commovente brano, adattamen‐<br />
to d’un episo<strong>di</strong>o del racconto inglese <strong>di</strong> Grace Greenwood Hector il le‐<br />
vriero, Il cane arrabbiato 13 . La sofferenza del padrone, costretto ad uccidere<br />
il proprio animale ammalato <strong>di</strong> rabbia, non è sintomo <strong>di</strong> debolezza, ma<br />
piuttosto <strong>di</strong> ricchezza interiore; la per<strong>di</strong>ta <strong>di</strong> Amico, esempio <strong>di</strong> fedeltà<br />
assoluto, protagonista della vita familiare, compagno <strong>di</strong> giochi per i<br />
bambini e <strong>di</strong> battute <strong>di</strong> caccia per il padrone, non può che suscitare dolo‐<br />
re e turbamento.<br />
Gli animali però non interpretano soltanto sentimenti elevati; nella<br />
favola Il topo sotto il granaio 14 , tratta da Les mille et un jours, Tolstoj con‐<br />
danna l’avi<strong>di</strong>tà e la smania <strong>di</strong> suscitare invi<strong>di</strong>a attraverso il racconto <strong>di</strong><br />
un topo che, comodamente installato sotto un granaio, dal cui pavimen‐<br />
to danneggiato cade il grano, invita i suoi compagni per esibire il suo<br />
benessere. Non potrà però raggiungere lo scopo, perché il padrone del<br />
granaio, accortosi del buco, provvederà a ripararlo.<br />
La giusta punizione per i vanitosi e tutti coloro che deridono gli altri,<br />
vantantosi delle proprie abilità, è inflitta anche alla lepre del brano Il ric‐<br />
cio e la lepre 15 , nel quale un riccio, avendo sfidato in una gara <strong>di</strong> velocità<br />
una lepre che lo aveva preso in giro per i suoi pie<strong>di</strong> storti, riuscirà a vin‐<br />
cerla tramite uno stratagemma. Il riccio chiede infatti alla moglie <strong>di</strong> porsi<br />
alla fine del percorso <strong>di</strong> gara e quando la lepre, giunta al traguardo, cor‐<br />
rerà all’altra estremità per ripetere la gara, credendola il riccio, ad aspet‐<br />
tarla ci sarà il marito. La lepre continuerà a correre da un capo all’altro<br />
del percorso, incapace <strong>di</strong> accettare la sconfitta, ma alla fine, sfinita, è co‐<br />
stretta a <strong>di</strong>chiararsi vinta.<br />
Può valere anche per i Quattro libri <strong>di</strong> lettura ciò che Vla<strong>di</strong>mir Jakovle‐<br />
vič Propp scrive a proposito degli animali nelle fiabe russe:<br />
la forza del realismo artistico è così forte da non permetterci <strong>di</strong> notare che, no‐<br />
nostante le caratteristiche degli animali vengano descritte con grande precisio‐<br />
ne, i protagonisti non agiscono quasi mai da animali e le loro azioni non corri‐<br />
spondono alla loro natura 16 .<br />
13 Ivi, pp.72‐73, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 70‐71).<br />
14 Ivi, p. 66, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 64‐65).<br />
15 Ivi, pp. 90‐91, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 88‐89).<br />
16 V. J. PROPP, La fiaba russa, Torino, Einau<strong>di</strong>, 1990, p. 350.
XIV<br />
Introduzione<br />
La forte presenza degli animali, del loro sguardo sulle vicende del<br />
mondo, non è però soltanto espressione della personificazione favolisti‐<br />
ca frequente nelle fonti classiche dello scrittore, ma<br />
Agisce e parla qui, soprattutto nelle cose da Tolstoj scritte appositamente per<br />
i Quattro libri <strong>di</strong> lettura, un soggetto allargato, un grande “noi”, che abbraccia la<br />
volpe, l’uccellino, il gatto, il cane (le storie <strong>di</strong> Bul’ka), il cavallo […], la mucca, il<br />
vitellino[…] 17 .<br />
Significativa in proposito è la leggenda in versi Volga l’eroe 18 , nella<br />
quale il protagonista acquisisce la capacità sciamanica <strong>di</strong> trasformarsi in<br />
animale, e grazie a questa, insieme alla sua compagnia, prima cattura<br />
ogni specie <strong>di</strong> pesce, poi gli animali da pelliccia nei boschi, ed infine im‐<br />
pe<strong>di</strong>sce all’imperatore turco Saltàn Bekètyč <strong>di</strong> conquistare la città <strong>di</strong><br />
Kiev.<br />
Gli animali, nella veste <strong>di</strong> prede o compagni <strong>di</strong> avventure venatorie,<br />
sono una presenza costante non solo all’interno dei Quattro libri <strong>di</strong> lettu‐<br />
ra, ma anche e soprattutto nella vita <strong>di</strong> Tolstoj. Lo scrittore non seppe<br />
mai sottrarsi al fascino della caccia, e questa sua passione si nota forte‐<br />
mente nell’economia dei brani. Tale sentimento si fa particolarmente e‐<br />
vidente nel racconto Milton e Bulka 19 . Nonostante il rapporto tra il caccia‐<br />
tore e il suo cane sia concepito da superiore ad inferiore, ciò non sminui‐<br />
sce il valore dell’animale, ma lo circoscrive all’ambito che gli è proprio.<br />
Quando Bulka viene gravemente ferito dal cinghiale, l’ufficiale non<br />
pensa a soccorrerlo, in quanto ancora impegnato nella battuta <strong>di</strong> caccia;<br />
ciò non è in<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> crudeltà o <strong>di</strong> poca considerazione per l’animale ma è<br />
piuttosto emblema dell’estremo realismo <strong>di</strong> Tolstoj, in virtù del quale<br />
non vengono attribuiti al militare atteggiamenti che non può avere, co‐<br />
sicché sia il cane che il suo padrone rivestono i ruoli che, per la mentalità<br />
dell’epoca, competono loro. Com’è nello stile dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura,<br />
l’autore non vuole in alcun modo influenzare il giu<strong>di</strong>zio del lettore, la‐<br />
sciando che siano i fatti stessi a suscitare i sentimenti. Quando Bulka, nel<br />
brano Fine <strong>di</strong> Bulka e <strong>di</strong> Milton 20 , ammalato <strong>di</strong> rabbia, scompare, il suo<br />
padrone lo cerca ovunque ma senza successo, ed anche in questa circo‐<br />
stanza la sparizione <strong>di</strong> Bulka non assume toni drammatici, ma si inqua‐<br />
17 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, Introduzione <strong>di</strong> P. C. BORI, cit., p. VIII.<br />
18 Ivi, pp. 179‐184, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 175‐179).<br />
19 Ivi, p. 156, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 152‐153).<br />
20 Ivi, pp. 162‐163, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 158‐159).
Introduzione XV<br />
dra nel normale or<strong>di</strong>ne delle cose, nel naturale avvicendarsi della vita e<br />
della morte.<br />
3. Il gioco<br />
Piuttosto singolare, è il fatto che nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura non si ac‐<br />
cenni quasi mai ai giochi dei bambini, ma, nelle rare volte in cui ciò av‐<br />
viene, spesso i loro compagni <strong>di</strong> gioco sono animali, come nel caso dei<br />
racconti Il gattino 21 ed il già citato Il cane arrabbiato 22 . Secondo Tolstoj, il<br />
gioco riveste un ruolo fondamentale nell’universo infantile, soprattutto<br />
per evitare che i bambini si annoino nell’apprendere. Tramite un’attività<br />
lu<strong>di</strong>ca i limiti della realtà oggettiva vengono infranti e la fantasia per‐<br />
mette la creazione <strong>di</strong> un mondo alternativo, improntato ad altri valori e<br />
scan<strong>di</strong>to da ritmi <strong>di</strong>fferenti. Il gioco permette una percezione profonda<br />
del reale, che consente una rappresentazione del mondo al <strong>di</strong> sopra <strong>di</strong><br />
ogni me<strong>di</strong>azione o spiegazione teorica, che rischierebbero <strong>di</strong> alterare<br />
un’autentica comprensione della vita.<br />
4. La scienza spiegata ai ragazzi<br />
I Quattro libri <strong>di</strong> lettura sono certamente espressione <strong>di</strong> quella sensibi‐<br />
lità illuministica che fa parte della complessa formazione <strong>di</strong> Tolstoj, ri‐<br />
spondendo all’intento <strong>di</strong> propagare nozioni scientifiche elementari,<br />
combattendo al contempo immagini errate e superstizioni.<br />
Fra le molte considerazioni <strong>di</strong> carattere scientifico presenti del Terzo e<br />
nel Quarto dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura, (Per quale ragione il gelo fa scoppiare<br />
gli alberi? 23 , L’umi<strong>di</strong>tà 24 , Le particelle della materia sono collegate tra loro in<br />
mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi 25 , I gas 26 , Il sole è il calore 27 ), un esempio esplicativo della vi‐<br />
sione pedagogica <strong>di</strong> Tolstoj è il brano L’aria mefitica 28 . L’autore spiega ai<br />
bambini questo concetto scientifico con parole semplici, prima tramite il<br />
racconto della morte <strong>di</strong> una coppia <strong>di</strong> fattori, caduti in un pozzo saturo<br />
21 Ivi, pp. 25‐26, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 26‐27).<br />
22 Ivi, pp. 72‐73, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 70‐71).<br />
23 Ivi, p. 129, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 126‐127).<br />
24 Ivi, pp. 130‐131, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 127‐128).<br />
25 Ivi, p. 131, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 128‐129).<br />
26 Ivi, pp. 213‐215, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 208‐210).<br />
27 Ivi, pp. 225‐227, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 220‐222).<br />
28 Ivi, pp. 193‐195, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 198‐191).
XVI<br />
Introduzione<br />
<strong>di</strong> aria mefitica; poi attraverso le necessarie delucidazioni scientifiche ed<br />
il ricorso ad un esempio storico.<br />
Lo stesso meccanismo, ma in or<strong>di</strong>ne inverso, è presente nel brano<br />
Come si fabbricano i pallono aerostatici29 , nel quale le considerazioni scienti‐<br />
fiche precedono la descrizione dell’esperienza reale.<br />
Secondo Luigi Volpicelli, tramite la <strong>di</strong>mostrazione <strong>di</strong> nozioni scienti‐<br />
fiche attraverso dati rilevabili dall’esperienza, l’insegnamento scientifico<br />
<strong>di</strong> Tolstoj, «muovendo sempre dall’osservazione, si compone <strong>di</strong> centri<br />
d’interesse, i quali consentono un insegnamento globale e, noi <strong>di</strong>remmo,<br />
inter<strong>di</strong>sciplinare» 30 . Tolstoj ha conferito atten<strong>di</strong>bilità ad uno degli attuali<br />
capisal<strong>di</strong> delle tecniche educative, il metodo dell’osservazione e della<br />
sperimentazione, rendendo la scienza<br />
costruita in classe, […] con la partecipazione viva dei ragazzi, e dunque, non<br />
definitiva nozione scientifica, ma capacità <strong>di</strong> <strong>di</strong>alogo, ulteriore sollecitazione ad<br />
osservare e a ricercare, complesso proce<strong>di</strong>mento educativo, […] piuttosto che<br />
lezione 31 .<br />
Una tematica molto presente nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura è quella dei fe‐<br />
nomeni atmosferici, che fanno spesso da sfondo alla narrazione. Un e‐<br />
sempio significativo è dato dal brano Un ragazzo racconta come, nel bosco,<br />
lo colse il temporale 32 , scritto dall’allievo Rumjancev. La prima parte del<br />
racconto, nella quale domina la paura per la violenza della tempesta, si<br />
chiude con lo svenimento del protagonista, il quale, al suo risveglio, può<br />
osservare come, passato il temporale, gli uccelli siano tornati a cantare<br />
ed il sole si scorga nuovamente tra i rami. A ricordare l’impetuosità della<br />
natura è una quercia schiantata da un fulmine, ma lo spavento è presto<br />
<strong>di</strong>menticato, ed il bambino corre a casa per riposarsi, dopo aver mangia‐<br />
to un po’ <strong>di</strong> pane.<br />
5. Le descrizioni<br />
Al fine <strong>di</strong> sod<strong>di</strong>sfare le innumerevoli curiosità dei bambini, nei Quat‐<br />
tro libri <strong>di</strong> lettura Tolstoj presenta molte descrizioni.<br />
29 Ivi, pp. 219‐221, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 214‐216).<br />
30 L. VOLPICELLI, A scuola da Tolstoj, Roma, Armando, 1977, p. 119.<br />
31 Ivi, p. 120.<br />
32 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., pp. 13‐14, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong><br />
laurea p. 15).
Introduzione XVII<br />
Particolarmente interessante è la quella degli eschimesi:<br />
Al mondo c’è una terra, dove per tre mesi soltanto fa estate, e tutto il resto<br />
dell’anno fa inverno. D’inverno le giornate sono così corte, che appena il sole<br />
s’affaccia, subito tramonta. E per tre mesi, proprio nel cuore dell’inverno, il sole<br />
non si leva affatto, e per quei tre mesi è sempre buio. In questa terra vivono de‐<br />
gli uomini: essi si chiamano Eschimesi. […] Gli Eschimesi abitano in case <strong>di</strong> ne‐<br />
ve. Essi le costruiscono così: tagliano nella neve tanti blocchi, e con questi com‐<br />
pongono la casa, come quando si monta una stufa. Al posto dei vetri incastrano<br />
nei muri lastre <strong>di</strong> ghiaccio, e al posto della porta fanno una lunga galleria sotto<br />
la neve, e per questa galleria strisciano fin dentro alla casa. Quando sopravviene<br />
l’inverno, le loro case restano seppellite interamente dalla neve, e dentro ci fa<br />
un bel caldo 33 .<br />
L’analisi <strong>di</strong> queste righe può essere effettuata<br />
operando su due <strong>di</strong>versi livelli <strong>di</strong> lettura: uno, imme<strong>di</strong>ato, che coglie l’unitarietà<br />
e la coesione del brano attraverso la poeticità e la limpidezza <strong>di</strong> uno stile asciut‐<br />
to e vivace, l’altro, <strong>di</strong> tipo analitico, volto ad in<strong>di</strong>viduare, alla base<br />
dell’informazione complessiva, un insieme <strong>di</strong> in<strong>di</strong>cazioni relative a <strong>di</strong>versi<br />
campi conoscitivi che concorrono alla definizione globale <strong>di</strong> un argomento, la<br />
vita degli esquimesi, ricco <strong>di</strong> fascino e <strong>di</strong> interesse per i bambini <strong>di</strong> ogni epoca e<br />
paese 34 .<br />
Nelle descrizioni prende corpo la tecnica tolstojana basata sulla spie‐<br />
gazione in termini semplici e facilmente comprensibili <strong>di</strong> femoneni<br />
complessi, riscontrabile anche nel brano A che scopo soffia il vento? 35 Tol‐<br />
stoj non spiega cosa sia il vento, ma, insegnando come si costruisce un<br />
aquilone, ne descrive gli effetti relativamente ad un gioco amato dai<br />
bambini, in modo da catturare l’attenzione anche dell’alunno più <strong>di</strong>strat‐<br />
to. Evitando il ricorso a delle definizioni astratte, lo scrittore ben inter‐<br />
preta il punto <strong>di</strong> vista dei bambini, rendendo la spiegazione scientifica<br />
interessante e stimolante.<br />
33 Ivi, p. 7, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 9‐10).<br />
34 E. MEDOLLA, op. cit., p. 51.<br />
35 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., pp. 77‐79, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong><br />
laurea pp. 76‐77).
XVIII<br />
Introduzione<br />
6. I bambini: destinatari e protagonisti dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Come si evince chiaramente dai Quattro libri <strong>di</strong> lettura, Tolstoj seppe<br />
sempre rispettare il punto <strong>di</strong> vista dei bambini, evitando <strong>di</strong> sovrapporvi<br />
le proprie convinzioni ed i propri giu<strong>di</strong>zi <strong>di</strong> adulto, sia nell’attività <strong>di</strong><br />
maestro, sia nella scrivere un’opera a misura del proprio pubblico <strong>di</strong> ri‐<br />
ferimento.<br />
È infatti proprio questo uno dei testi nei quali emerge più chiaramen‐<br />
te la centralità, nell’universo tolstojano, del ruolo dei bambini, rappre‐<br />
sentanti <strong>di</strong> quell’armonia e <strong>di</strong> quella semplicità d’espressione che costi‐<br />
tuirono la perenne aspirazione dello scrittore. Proprio in virtù <strong>di</strong> questo<br />
ideale, la narrazione si svolge tramite l’utilizzo <strong>di</strong> una prosa chiara e<br />
semplice, che costituiva per Tolstoj il punto <strong>di</strong> arrivo della propria arte.<br />
Numerosi sono i brani nei quali il mondo è scrutato con gli occhi dei<br />
bambini: da un bambino viene l’affermazione della verità riguardo l’ab‐<br />
bigliamento del re nel brano Il vestito nuovo del re 36 , tratto dai fratelli<br />
Grimm, e da una bambina la salvezza del prigioniero Žílin nel brano<br />
Prigioniero nel Caucaso 37 .<br />
A fornire due ulteriori esempi sono i racconti Un ragazzo racconta come<br />
avvenne che scoprí al nonno la regina delle api 38 e In che modo ammazzai la<br />
mia prima lepre 39 . Nel primo racconto un bambino narra in prima persona<br />
come sia casualmente riuscito a scoprire l’ape regina nell’arniaio del<br />
nonno. L’intento <strong>di</strong>dattico <strong>di</strong> fornire informazioni precise sulla vita delle<br />
api non compromette la poeticità del linguaggio, al contrario comporta<br />
una maggiore aderenza alla realtà ed alla quoti<strong>di</strong>anità, apprezzata, se‐<br />
condo Tolstoj, dai bambini <strong>di</strong> ogni ceto sociale.<br />
Nel secondo racconto ben si esprimono, invece, le emozioni <strong>di</strong> un ra‐<br />
gazzo durante una battuta <strong>di</strong> caccia. La vicenda è condotta con toni ra‐<br />
pi<strong>di</strong>, al fine <strong>di</strong> esprimere tutta l’impazienza del giovane nel <strong>di</strong>mostrare<br />
la propria abilità. La determinazione del ragazzo e la sua forte capacità<br />
<strong>di</strong> concentrazione durante il momento della mira, verranno premiate<br />
con l’uccisione della lepre, rappresentativa del superamento <strong>di</strong> una pro‐<br />
va importante nella vita personale <strong>di</strong> chi l’ha vissuta.<br />
36 Ivi, pp. 198‐199, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 194‐195).<br />
37 Ivi, pp. 233‐259, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 227‐252).<br />
38 Ivi, p. 18, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 18‐19).<br />
39 Ivi, pp. 35‐37, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 36‐37).
Introduzione XIX<br />
7. Il carattere popolare dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura e le influenze del<br />
mondo classico<br />
I Quattro libri <strong>di</strong> lettura rappresentano anzitutto la volontà <strong>di</strong> Tolstoj <strong>di</strong><br />
trasmettere e <strong>di</strong>ffondere fra il popolo quello che egli aveva appreso dal<br />
popolo stesso.<br />
In quest’opera si proponeva <strong>di</strong> raccogliere il meglio della produzione<br />
letteraria della tra<strong>di</strong>zione ed ovviamente le scelte dello scrittore hanno<br />
un significato ben preciso. In questo senso, stupisce, nel racconto Castigo<br />
severo 40 , il richiamo a Shylock 41 del Mercante <strong>di</strong> Venezia <strong>di</strong> William Shake‐<br />
speare, data l’estrema severità <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio a questi riservata. Le riflessio‐<br />
ni estetiche <strong>di</strong> Tolstoj erano infatti determinate dalla convinzione che le<br />
arti nel corso dei secoli fossero state snaturate dal prevalere del gusto<br />
decadente delle classi privilegiate, portando al <strong>di</strong>stacco dalla coscienza<br />
popolare, che deve invece rappresentare, per Tolstoj, il motivo ispiratore<br />
<strong>di</strong> ogni opera veramente grande:<br />
la mancata attribuzione del carattere “popolare” ad un’opera ne decretava au‐<br />
tomaticamente la condanna sul piano artistico. […] una visione del mondo,<br />
quella tolstoiana, in <strong>di</strong>chiarata controtendenza rispetto alla posizione un po’ i‐<br />
pocrita <strong>di</strong> che credeva che comunque i bambini andassero indottrinati propo‐<br />
nendo loro modelli <strong>di</strong> vita assolutamente esemplari, anche se in fondo falsi<br />
[…] 42 .<br />
Una delle maggiori preoccupazioni <strong>di</strong> Tolstoj è <strong>di</strong> salvare e riproporre<br />
la sostanza intrinseca alla sapienza popolare. Nel corso della lettura,<br />
mentre i proverbi russi illustrano le varie ammonizioni contro la pigri‐<br />
zia, l’avi<strong>di</strong>tà, la superstizione, mentre la vita tipica del villaggio russo<br />
viene descritta nella sua bellezza, ma anche nel suo squallore, si acquisi‐<br />
sce l’insegnamento fondamentale <strong>di</strong> questa sapienza: l’impossibilità <strong>di</strong><br />
una vita realmente piena se non nel viverla per gli altri. Ne sono esempi<br />
i brani Un ragazzo racconta in che modo gli passò la paura dei men<strong>di</strong>canti cie‐<br />
chi 43 , espressione del sentimento <strong>di</strong> compassione, ed ancora La zia raccon‐<br />
40 Ivi, p. 118, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea p. 116).<br />
41 Cfr. W. SHAKESPEARE, Il mercante <strong>di</strong> Venezia, Mondadori, Milano, 2000.<br />
42 E. MEDOLLA, op. cit., pp. 39‐40.<br />
43 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., p. 21 (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> lau‐<br />
rea p. 21).
XX<br />
Introduzione<br />
ta in che modo il brigante Pugaciòv le donò una monetina da <strong>di</strong>eci centesimi44 e<br />
Pietro il grande e il conta<strong>di</strong>no45 , tramite i quali il punto <strong>di</strong> osservazione del<br />
potere è quello degli oppressi.<br />
Ancor più che nei racconti, il carattere popolare della narrazione è<br />
avvertibile nelle byline, leggende in versi poste a conclusione <strong>di</strong> ogni li‐<br />
bro <strong>di</strong> lettura. Nella bylina che chiude il Primo libro <strong>di</strong> lettura, L’eroe Svia‐<br />
tagòr46 , si rivisita il mito <strong>di</strong> Atlante tramite una visione più terrena della<br />
storia e delle vicende umane e l’orgoglio del titano è rimarcato dal rico‐<br />
noscimento dei limiti delle proprie forze. Il conta<strong>di</strong>no Mikula, l’antago‐<br />
nista <strong>di</strong> Sviatagòr, rappresenta invece i valori in cui Tolstoj crede: la<br />
semplicità d’animo ed il rispetto per il lavoro duro e costante.<br />
Non mancano le notazioni minute, che umanizzano il racconto: il titano, che<br />
all’inizio, nel suo orgoglio, si considera superiore ai comuni mortali, è costretto<br />
poi a chiedere all’umile viandante <strong>di</strong> aspettarlo, dal momento che, neanche do‐<br />
po aver lanciato al galoppo il proprio cavallo, riesce a raggiungerlo; dopo aver<br />
tentato inutilmente <strong>di</strong> sollevare il sacco, Sviatagor <strong>di</strong>viene “tutto rosso in viso”:<br />
è il ri<strong>di</strong>mensionamento dell’eroe, che alla fine riesce nel suo intento, ma dopo<br />
aver faticato e sofferto; quale <strong>di</strong>stanza intercorre tra la levigatezza degli antichi<br />
eroi e la fibra tutta umana <strong>di</strong> Sviatagor, la cui forza e tenacia non è superiore a<br />
quella del conta<strong>di</strong>no Michele, che ha il grande merito, nei confronti del titano,<br />
<strong>di</strong> amare la terra madre e tutte le sue creature 47 .<br />
L’influenza <strong>di</strong> un antico mito è presente anche nella favola La biscia 48<br />
la quale narra <strong>di</strong> una ragazza che, in base ad una promessa, è costretta a<br />
sposare una biscia e a lasciare sua madre e la sua casa per vivere con il<br />
suo sposo nelle profon<strong>di</strong>tà marine; la madre però non si rassegna e con<br />
uno stratagemma riesce ad uccidere il genero. Evidenti sono i richiami al<br />
mito <strong>di</strong> Persefone, rapita da Ade e costretta a trascorrere sei mesi l’anno<br />
negli inferi. Nella conclusione della fiaba, la protagonista, addolorata<br />
per la morte del marito, trasforma i loro due figli in una ron<strong>di</strong>ne e in un<br />
usignolo e se stessa in un cuculo; anche in questa circostanza vi sono si‐<br />
gnificativi riman<strong>di</strong> al mito <strong>di</strong> Progne e Filomela, le sorelle che fecero<br />
44 Ivi, pp. 28‐30, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 29‐31).<br />
45 Ivi, p. 70, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 69‐70).<br />
46 Ivi, pp. 46‐47, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 47‐48).<br />
47 E. MEDOLLA, op. cit., p. 45.<br />
48 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., pp. 94‐96, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong><br />
laurea pp.91‐93).
Introduzione XXI<br />
mangiare al re Tereo la carni del figlio Iti, <strong>di</strong> cui erano madre e zia, ve‐<br />
nendo trasformate in ron<strong>di</strong>ne e usignolo.<br />
8. Storia antica e moderna nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Oltre ai brani ispirati ad antichi miti, sono molto presenti nei Quattro<br />
libri <strong>di</strong> lettura riduzioni <strong>di</strong> Erodoto e Plutarco riguardanti alcuni tra i più<br />
noti racconti della storia antica: La fondazione <strong>di</strong> Roma 49 , Cambise e Psam‐<br />
menite 50 , In che modo le oche salvarono Roma 51 . Queste narrazioni presenta‐<br />
no dei contenuti ancora molto attuali, in quanto riguardano temi univer‐<br />
sali, come la vendetta, la <strong>di</strong>gnità, la pietà, la crudeltà, la giustizia, la mor‐<br />
te e il potere.<br />
Nella stesura <strong>di</strong> questi brani Tolstoj aveva certamente ben presente<br />
quanto esposto nel 1862 nell’articolo La scuola <strong>di</strong> Jasnaja Poljana in novem‐<br />
bre e <strong>di</strong>cembre. Riferendosi all’insegnamento e all’appren<strong>di</strong>mento della<br />
storia dei propri alunni, affermava infatti che alcuni passi della storia an‐<br />
tica erano ricordati quasi per caso, «non perché suscitassero qualche<br />
nuova idea, ma perché erano poetici e artistici» 52 , precisando ulterior‐<br />
mente il proprio pensiero nelle pagine successive:<br />
Per insegnare la storia, è necessario prima <strong>di</strong> tutto sviluppare nel fanciullo<br />
l’interesse storico. Come fare? Ho molte volte sentito <strong>di</strong>re che per insegnare la<br />
storia, non bisogna cominciare dall’inizio, ma dalla fine, cioè non dalla storia<br />
antica, ma dalla storia contemporanea. In effetti, questa idea è molto giusta.<br />
Come spiegare a un fanciullo le origini dello Stato russo e interessarlo quan‐<br />
do non sa che cosa è lo Stato russo e, in generale, uno Stato? […] Secondo le mie<br />
osservazioni e le mie esperienze, il primo germe dell’interesse storico appare<br />
con la conoscenza della storia contemporanea, talvolta, grazie alla coscienza <strong>di</strong><br />
parteciparvi, grazie all’interesse politico, alle <strong>di</strong>scussioni, alla lettura dei giorna‐<br />
li. Per questo l’idea <strong>di</strong> iniziare dalla storia contemporanea deve venire in mente<br />
a ogni maestro che rifletta 53 .<br />
49 Ivi, pp. 166‐167, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 162‐163).<br />
50 Ivi, pp. 97‐98, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 94‐95).<br />
51 Ivi, pp. 128‐129, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 125‐126).<br />
52 ID., La scuola <strong>di</strong> Jasnaja Poljana in novembre e <strong>di</strong>cembre, in U. ZANDRINO (a cura <strong>di</strong>)<br />
La scuola <strong>di</strong> Jasnaja Poljana e altri scritti pedagogici, Bergamo, Minerva Italica, 1965, p.<br />
108.<br />
53 Ivi, pp. 111‐112.
XXII<br />
Introduzione<br />
A conferma <strong>di</strong> quanto detto anni prima, nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura Tol‐<br />
stoj inserisce anche numerosi episo<strong>di</strong> della storia russa più recente, in‐<br />
trecciando spesso, in brani già citati come Pietro il grande e il conta<strong>di</strong>no54 e<br />
La zia racconta in che modo il brigante Pugaciòv le donò una monetina da <strong>di</strong>eci<br />
centesimi55 , i destini delle persone comuni con quelli <strong>di</strong> celebri personali‐<br />
tà storiche. Proprio come in Guerra e pace, «I personaggi d’invenzione e i<br />
personaggi storici si avvicendano […] senza che si avverta uno squilibrio<br />
<strong>di</strong> toni» 56 .<br />
Esemplare è proprio il brano La zia racconta in che modo il brigante Pu‐<br />
gaciòv le donò una monetina da <strong>di</strong>eci centesimi57 . La piccola Caterina, narra<br />
che lei e sua sorella minore sono state affidate, dai genitori in fuga, alle<br />
cure della governante Anna Trofímovna, perché essi temevano, nel corso<br />
del viaggio, <strong>di</strong> essere assaliti dalla banda del sanguinario brigante Puga‐<br />
ciòv.<br />
Ciò avviene però proprio a casa delle bambine, e a Caterina viene da‐<br />
ta istruzione <strong>di</strong> <strong>di</strong>re, se interrogata, <strong>di</strong> essere la nipote della governante.<br />
Nel punto culminante della vicenda, l’incontro tra Pugaciòv e Cateri‐<br />
na, il brigante si mostra però inaspettatamente gentile, elogiando la<br />
bambina e lasciandole in dono una monetina da <strong>di</strong>eci centesimi.<br />
Immenso è il valore <strong>di</strong>dattico <strong>di</strong> questo racconto, in quanto i bambini,<br />
leggendolo, possono facilmente appassionarsi alla storia, comprendendo<br />
come non sia soltanto il resoconto <strong>di</strong> imprese compiute da eroi spesso<br />
molto lontani nel tempo, ma piuttosto lo svolgersi <strong>di</strong> vicende <strong>di</strong> cui cia‐<br />
scuno <strong>di</strong> noi, proprio come la bambina del brano, è protagonista.<br />
9. I sentimenti<br />
Fondamentale è la tematica dei sentimenti, presenti in molteplici ac‐<br />
cezioni nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura. Nei brani, dello stesso sentimento ven‐<br />
gono presi in considerazione aspetti molto <strong>di</strong>fferenti ed un esempio è il<br />
senso dell’amicizia, riscontrabile sia nel racconto dal vero Il cane arrabbia‐<br />
54 ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., p. 70, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 69‐<br />
70).<br />
55 Ivi, pp. 28‐30, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea p. 29‐31).<br />
56 ID., Tutti i romanzi, Introduzione <strong>di</strong> M. B. LUPORINI, Firenze, Sansoni E<strong>di</strong>tore,<br />
1967, p. XXV.<br />
57 ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., pp. 28‐30, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp.<br />
29‐31).
Introduzione XXIII<br />
to 58 , sia nel racconto storico Policrate <strong>di</strong> Samo 59 . Nel primo brano, uno dei<br />
più commoventi, la storia <strong>di</strong> un cagnolino gettato nella gabbia <strong>di</strong> un leo‐<br />
ne, che però, invece <strong>di</strong> sbranarlo, ne <strong>di</strong>viene amico, offre la possibilità <strong>di</strong><br />
presentare, seppur in modo anticonvenzionale, la forza e l’esclusività<br />
dell’amicizia, capace <strong>di</strong> superare qualsiasi ostacolo. Il leone non viene<br />
qui presentato, come invece accade in altri brani più tra<strong>di</strong>zionali, secon‐<br />
do lo stereotipo dell’animale feroce e violento, ma come un essere gene‐<br />
roso e leale, capace <strong>di</strong> provare e manifestare sentimenti nobili quali<br />
l’amicizia e l’affetto. Dopo la morte del cagnolino, nella sua esplosione<br />
d’ira, il leone reagisce nel modo che da lui ci si sarebbe aspettati, ma,<br />
nonostante le manifestazioni rispondano ad uno stereotipo, le motiva‐<br />
zioni <strong>di</strong> tale gesto sono del tutto <strong>di</strong>fferenti, dettate dal dolore per la per‐<br />
<strong>di</strong>ta dell’amico.<br />
Malgrado il leone, nella sua furia, sbrani un altro cagnolino, messogli<br />
nella gabbia per tentare <strong>di</strong> consolarlo, nel lettore prevale comunque il<br />
senso <strong>di</strong> solidarietà verso l’espressione <strong>di</strong> un sentimento così totalizzan‐<br />
te da portare alla morte dello stesso leone.<br />
Nella vicenda narrata nel secondo brano invece, espressione dell’ami‐<br />
cizia tra il re greco Policrate ed il re d’Egitto Amasis, sono i consigli det‐<br />
tati da quest’ultimo verso il primo. Secondo Amasis infatti, la troppa for‐<br />
tuna <strong>di</strong> Policrate non è un buon segno, consigliandogli <strong>di</strong> <strong>di</strong>sfarsi della<br />
cosa a lui più cara, in modo da permettere un avvicendamento tra fortu‐<br />
na e sfortuna, tra felicità ed infelicità. Pur seguendo il consiglio dell’<br />
amico, la fortuna <strong>di</strong> Policrate fa sì che l’oggetto <strong>di</strong> cui si è <strong>di</strong>sfatto venga<br />
ritrovato, spingendo Amasis a rompere la loro amicizia, considerando il<br />
suo destino ormai ineluttabile. Proprio come previsto da Amasis, la<br />
grande fortuna <strong>di</strong> Policrate terminerà con una grande sfortuna, venendo<br />
ucciso da un suo nemico, Oroteis.<br />
Tra i sentimenti maggiormente rappresentati all’interno dei Quattro<br />
libri <strong>di</strong> lettura vi sono sicuramente la collera e la pietà. Riguardo il primo<br />
sentimento un esempio può essere dato con la favola Il re e il falco 60 , trat‐<br />
ta dalla raccolta Les mille et un jours. Durante una battuta <strong>di</strong> caccia, un<br />
falco, rovesciando la ciotola, impe<strong>di</strong>sce al re <strong>di</strong> bere l’acqua che goccia<br />
da un greppo. Quando ciò avviene per la terza volta, il re, a<strong>di</strong>rato per<br />
l’inspiegabile comportamento del fedele compagno, lo uccide scaglian‐<br />
dolo contro una roccia, per poi scoprire dai suoi servitori che egli gli ha<br />
58 Ivi, pp. 72‐73, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 70‐71).<br />
59 Ivi, pp. 177‐179, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 173‐174).<br />
60 Ivi, p. 117, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea p. 115).
XXIV<br />
Introduzione<br />
invece salvato la vita, in quanto l’acqua della sorgente è avvelenata da<br />
un serpente. Non sembrerebbe casuale che ad un re, simbolo del potere<br />
e dell’autoritarsmo, venga affidato il compito <strong>di</strong> rappresentare i dram‐<br />
matici effetti dell’ira e della violenza, <strong>di</strong> fronte ai quali il pentimento ed<br />
il riconoscimento della de<strong>di</strong>zione del falco non possono che essere una<br />
tar<strong>di</strong>va quanto inutile presa <strong>di</strong> coscienza.<br />
Il sentimento della pietà è ben raffigurato dal racconto dal vero Il ve‐<br />
scovo e il brigante61 , rielaborazione <strong>di</strong> un episo<strong>di</strong>o tratto da I miserabili62 <strong>di</strong><br />
Hugo. È infatti quest’ emozione a spingere un vescovo ad ospitare nella<br />
sua casa un brigante inseguito dalla polizia. Nella conclusione del rac‐<br />
conto, la generosità del religioso, che continuerà a proteggere il ban<strong>di</strong>to<br />
nonostante il furto subito, spingerà l’uomo a pentirsi delle sue cattive a‐<br />
zioni e a chiedere perdono a Dio.<br />
La paura è invece il filo conduttore <strong>di</strong> alcuni brani <strong>di</strong> ispirazione eso‐<br />
piana. Nella favola La rana e il leone63 , un leone, spaventato dal graci<strong>di</strong>o<br />
<strong>di</strong> una rana, quando si rende conto <strong>di</strong> avere a che fare con un innocuo<br />
animaletto, lo schiaccia. Nella frase conclusiva pronunciata dal leone,<br />
«Se prima non avrò visto bene <strong>di</strong> che si tratta, non mi lascerò più spa‐<br />
ventare» 64 è racchiusa tutta la morale della storia, dalla quale si può trar‐<br />
re l’insegnamento che la paura dell’ignoto possa essere vinta attraverso<br />
la conoscenza.<br />
Nella favola Le lepri e le rane65 una lepre saggia invita le sue compagne<br />
a desistere dall’intento <strong>di</strong> un suici<strong>di</strong>o collettivo, avendo compreso come<br />
l’esistenza delle rane sia minacciata da un senso <strong>di</strong> paura più forte del<br />
proprio. Tale consapevolezza può preludere una più autentica cognizio‐<br />
ne <strong>di</strong> sé, nell’accettare e non nell’arrendersi al proprio destino.<br />
La favola L’asino nella pelle del leone66 è infine emblematica del senso <strong>di</strong><br />
rivincita su chi, avendo solo l’apparenza della forza, ispira paura ma<br />
viene infine smascherato e punito. Un colpo <strong>di</strong> vento permette infatti <strong>di</strong><br />
ristabilire la verità, portando via la pelle del leone che l’asino aveva usa‐<br />
to per camuffarsi e seminare il panico, scatenando la reazione della folla,<br />
che prende a bastonate il bugiardo.<br />
61 Ivi, pp. 101‐102, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 98‐100).<br />
62 Cfr. V. HUGO, I miserabili, Milano, Mondadori, 1991, L. I cap. 6, L. II capp. 3‐12.<br />
63 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., p. 20, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> lau‐<br />
rea p. 21).<br />
64 Ibidem.<br />
65 Ivi, p. 67, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 65‐66).<br />
66 Ivi, p. 52, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea p. 51).
Introduzione XXV<br />
10. Scelte ideologiche ed impegno sociale nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura, il piglio polemico presente in molti altri<br />
scritti <strong>di</strong> Tolstoj è mitigato, scelta probabilmente dovuta al profondo<br />
senso <strong>di</strong> rispetto e <strong>di</strong> equilibrio nutrito dallo scrittore verso i bambini.<br />
Ciononostante, alcune scelte ideologiche <strong>di</strong> fondo si avvertono con<br />
evidenza ed in questo senso non è certamente casuale l’assenza <strong>di</strong> brani<br />
inneggianti al patriottismo. Quest’ultimo appare infatti agli occhi <strong>di</strong> Tol‐<br />
stoj come uno strumento con cui il potere irretisce il popolo mantenen‐<br />
dolo nell’ignoranza. Centrale è quin<strong>di</strong> il problema dell’educazione, at‐<br />
traverso la quale, eliminando «tutte le barriere che si oppongono alla<br />
cultura […] e all’insegnamento» 67 , è invece possibile colmare il <strong>di</strong>vario <strong>di</strong><br />
incomprensione che <strong>di</strong>vide il popolo dai governanti.<br />
Nel racconto L’in<strong>di</strong>ano e l’inglese 68 , è inoltre riscontrabile il convinci‐<br />
mento della necessità della fratellanza tra i popoli ed una forte critica al<br />
colonialismo. Il concetto della non−violenza è espresso nel gesto dell’in‐<br />
<strong>di</strong>ano, che potendo <strong>di</strong>sporre della vita dell’inglese suo prigioniero, pri‐<br />
ma lo ospita nella propria capanna e poi lo lascia libero. Ciò ne eleva la<br />
figura morale ed evidenzia, al contrario, la meschinità dell’inglese, che<br />
ne comprenderebbe il desiderio <strong>di</strong> vendetta ma è del tutto impreparato<br />
alla propria liberazione.<br />
particolarmente significativo, nell’economia del racconto, è il fatto che la deci‐<br />
sione <strong>di</strong> liberare l’inglese non si dettata dall’acquiescenza ad una norma preco‐<br />
stituita, ma scaturisca da un percorso <strong>di</strong> sofferenza, segnato dalla per<strong>di</strong>ta del<br />
figlio; se interiorizzato e vissuto con coraggio, un grande dolore può insegnare<br />
non solo a comprendere le motivazioni altrui, ma a perdonare i torti subiti, nella<br />
prospettiva <strong>di</strong> una rigenerazione morale che coinvolga tutti gli uomini 69 .<br />
Motivo ricorrente dell’intera produzione tolstojana è la venatura an‐<br />
timilitaristica, ravvisabile nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura nel racconto intitolato<br />
Un conta<strong>di</strong>no racconta perché vuol bene al fratello maggiore 70 , in cui un gio‐<br />
vane conta<strong>di</strong>no, costretto ad abbandonare la sua sposa perché deve par‐<br />
67 ID., Appello allo Zar e ai suoi aiutanti, in I. SIBALDI (a cura <strong>di</strong>) Perché la gente si dro‐<br />
ga?: e altri saggi su società, politica e religione, Milano, Mondadori, 1988, p. 265.<br />
68 ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., p. 53, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 52‐<br />
53).<br />
69 E. MEDOLLA, op. cit., p. 55.<br />
70 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., pp. 34‐35, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong><br />
laurea p. 35).
XXVI<br />
Introduzione<br />
tire per il servizio militare, viene sostituito dal fratello maggiore. Ed è<br />
proprio il sentimento <strong>di</strong> profonda solidarietà tra i due fratelli a rappre‐<br />
sentare l’accusa verso l’apparato militare, che corrompe gli istinti mi‐<br />
gliori dei giovani, preparandoli all’omici<strong>di</strong>o sistematico.<br />
Nel racconto non vengono denunciati gli artefici e i promotori delle guerre,<br />
né ci si poteva aspettare tanto da un testo per ragazzi, ma la tristezza dei due<br />
giovani, l’angoscia che attanaglia la madre, sono già <strong>di</strong> per sé una denuncia <strong>di</strong><br />
responsabilità che, seppur lontane, non appaiono per questo meno gravi 71 .<br />
Nell’articolo L’istruzione pubblica 72 , apparso sul primo numero della<br />
rivista «Jasnaja Poljana» Tolstoj sostiene che l’insegnamento popolare<br />
debba svincolarsi dal controllo del potere politico, tornando ad afferma‐<br />
re con forza il convincimento della capacità del popolo <strong>di</strong> istruirsi, al <strong>di</strong><br />
là <strong>di</strong> ogni tentativo <strong>di</strong> indottrinamento dall’alto. Lo scrittore considera<br />
del resto con forte <strong>di</strong>ffidenza la scienza ufficiale, accusandola <strong>di</strong> pesare<br />
«sul collo del popolo reso schiavo» 73 , convinto invece che la vera scienza<br />
consista nell’impegno concreto a migliorare le con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> vita del po‐<br />
polo. La scienza per Tolstoj consiste in qualsiasi conoscenza in grado <strong>di</strong><br />
fornire soluzioni concrete ai problemi che affligono la vita degli uomini,<br />
condannando ogni presunta superiorità dell’attività intellettuale sul la‐<br />
voro fisico. Nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura tali considerazioni si esprimono<br />
con particolare ironia nella favola Il figlio istruito 74 , nella quale il figlio <strong>di</strong><br />
un conta<strong>di</strong>no si rifiuta <strong>di</strong> prendere il rastrello per aiutare suo padre a<br />
falciare il fieno, affermando <strong>di</strong> aver stu<strong>di</strong>ato le scienze e <strong>di</strong> aver <strong>di</strong>menti‐<br />
cato i vocaboli agricoli pronunciati dal genitore. La pigrizia del ragazzo<br />
viene però punita con un comico espe<strong>di</strong>ente, quando, inciampando sul<br />
rastrello, viene colpito in testa proprio dall’oggetto simbolo <strong>di</strong> quel<br />
mondo conta<strong>di</strong>no che egli non considera più alla sua altezza.<br />
La decisa affermazione del buon senso sulle vane parole <strong>di</strong> intellet‐<br />
tuali che hanno perso il contatto con la realtà, <strong>di</strong> «gente che vive – ille‐<br />
galmente, delittuosamente – una vita oziosa e corrotta» 75 , è il motivo<br />
71 E. MEDOLLA, op. cit., pp. 56‐57.<br />
72 Cfr. L. N. TOLSTOJ, L’istruzione pubblica, in G. SANTOMAURO (a cura <strong>di</strong>) Scritti pe‐<br />
dagogici, Bari, Adriatica, 1972, p. 37.<br />
73 ID., Sulla scienza, in I. SIBALDI (a cura <strong>di</strong>) Perché la gente si droga?: e altri saggi su<br />
società, politica e religione, cit., p. 713.<br />
74 ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., p. 26, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea p. 27).<br />
75 ID., Sulla scienza, in I. SIBALDI (a cura <strong>di</strong>) Perché la gente si droga?: e altri saggi su<br />
società, politica e religione, cit., p. 713.
Introduzione XXVII<br />
conduttore del racconto dal vero intitolato In che modo un conta<strong>di</strong>no tolse<br />
via un macigno 76 . Diversi ingegneri propongono soluzioni complicate e<br />
<strong>di</strong>spen<strong>di</strong>ose per rimuovere un grande masso <strong>di</strong> pietra che intralcia lo<br />
spiazzo <strong>di</strong> un paese; mentre si vagliano varie ipotesi, un conta<strong>di</strong>no si<br />
impegna a risolvere il problema <strong>di</strong>etro ricompensa <strong>di</strong> sole cinquecento<br />
lire. Il conta<strong>di</strong>no illustra la sua idea, spiegando l’intenzione <strong>di</strong> scavare<br />
un fosso in cui far rotolare il masso, spianando poi il terreno. Ad impre‐<br />
sa riuscita al conta<strong>di</strong>no viene consegnato il denaro pattuito ed altre cin‐<br />
quecento lire come ricompensa per la sua ingegnosità. La figura del con‐<br />
ta<strong>di</strong>no è emblematica <strong>di</strong> un modo <strong>di</strong> affrontare i problemi semplice e <strong>di</strong>‐<br />
retto, privo <strong>di</strong> superflue complicazioni e non è certamente casuale<br />
l’assenza quasi totale, nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura, dei ceti privilegiati, i cui<br />
valori non erano evidentemente vicini alla mentalità dello scrittore.<br />
11. I Quattro libri <strong>di</strong> lettura in Italia<br />
Riguardo la fortuna critica dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura in Italia,<br />
La risonanza dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura in ambito letterario e pedagogico,<br />
considerevole già negli anni successivi alla pubblicazione, non s’è attenuata nel<br />
tempo, il che, oltre ad essere in<strong>di</strong>ce della vitalità dell’opera, <strong>di</strong>mostra come, oc‐<br />
cupandosi <strong>di</strong> letteratura per ragazzi, Tolstoj abbia convogliato l’attenzione della<br />
critica su un genere che erroneamente e contro il parere stesso dello scrittore, si<br />
sarebbe portati a considerare “minore” 77 .<br />
Tra le critiche negative «che circondarono l’opera fin dal suo appari‐<br />
re» 78 , particolarmente aspra fu quella espressa da Tommaso Carletti:<br />
Tolstoj è dominato dall’idea fissa che si deve scrivere per il popolo e quin<strong>di</strong><br />
adattarsi alla sua intelligenza e ai suoi gusti, dottrina democratica quanto si<br />
vuole, ma non altrettanto artistica. Perciò le novelle, i racconti, le parabole, […]<br />
rispondono al sentimento fantastico del popolo, e sono piene <strong>di</strong> puerilità, <strong>di</strong> so‐<br />
prannaturale, qualche cosa tra le novelle delle Mille e una notte e le favole che<br />
le balie o le nonne sogliono raccontare a veglia 79 .<br />
76 ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., p. 58, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea p. 57).<br />
77 E. MEDOLLA, op. cit., p. 65.<br />
78 Ibidem.<br />
79 T. CARLETTI, Dottrine filosofiche, religiose e sociali del conte L. Tolstoi, in «Rassegna<br />
nazionale», 16/02/1893, p. 649.
XXVIII<br />
Simili atteggiamenti<br />
Introduzione<br />
Denunciano la miopia <strong>di</strong> certa critica passatista, impegnata a coltivare il<br />
rimpianto <strong>di</strong> antichi fasti, <strong>di</strong>menticando però che al fondo della letteratura an‐<br />
che più elevata, sempre che sia autentica, è possibile rintracciare elementi ri‐<br />
conducibili ad un’origine o quanto meno ad un’ispirazione “popolare”, così<br />
come è stato per la poesia epica o per la lirica, fin dai primor<strong>di</strong> 80 .<br />
Se l’acre<strong>di</strong>ne dei toni <strong>di</strong> Carletti appare un caso alquanto isolato, non<br />
la stessa cosa si può affermare riguardo la considerazione nutrita nei<br />
confronti della scuola <strong>di</strong> «Jasnaja Poljana» da molti stu<strong>di</strong>osi. Un esempio<br />
è l’opinione espressa da Aurelio Stoppoloni 81 , il quale, «pur riconoscen‐<br />
do i meriti della scuola <strong>di</strong> «Jasnaja Poljana», ne ravvisa la sostanziale ca‐<br />
rica utopica» 82 .<br />
Stoppoloni ed altri stu<strong>di</strong>osi considerano infatti la scuola <strong>di</strong> «Jasnaja<br />
Poljana» come<br />
un “capriccio” del grande scrittore; eppure tutti i documenti relativi<br />
all’esperienza pedagogica <strong>di</strong> Tolstoj (la rivista, i componimenti, i ricor<strong>di</strong> degli<br />
allievi, le testimonianze dei familiari) confermano l’assoluta priorità, per lo<br />
scrittore, <strong>di</strong> tutto ciò che gravita intorno alla scuola, organizzazione della <strong>di</strong>dat‐<br />
tica, scelta degli insegnanti e dei testi e così via 83 .<br />
Una stu<strong>di</strong>osa che <strong>di</strong>mostra invece <strong>di</strong> aver ben compreso i motivi <strong>di</strong><br />
fondo della pedagogia tolstojana è Emilia Santamaria, la quale afferma:<br />
«l’esperienza del Tolstoj vale più della teoria, e se la scuola <strong>di</strong> Jasnaja<br />
Poljana non influirà molto sull’educazione del carattere, ci darà certo<br />
fanciulli dall’intelligenza aperta e vivace, e fisicamente sani» 84 . A susci‐<br />
tare le riserve della Santamaria è il carattere “negativo” del metodo edu‐<br />
cativo tolstojano, riconducibile <strong>di</strong>rettamente a Jean−Jacques Rosseau, che<br />
essa considera uno degli errori «del pedagogista russo […] ma d’altra<br />
parte […] se non sempre esso porta a buoni risultati, ciò si deve alle ar<strong>di</strong>‐<br />
te teorie del maestro, che lo conducono ad eccedere anche nel buono» 85 .<br />
80 E. MEDOLLA, op. cit., pp. 65‐66.<br />
81 Cfr. A. STOPPOLONI, La scuola <strong>di</strong> Jasnaja Poljana, in «Rivista d’Italia», Roma, fasc.<br />
1, 1903.<br />
82 E. MEDOLLA, op.cit., p. 66.<br />
83 Ibidem.<br />
84 E. SANTAMARIA, Le idee pedagogiche <strong>di</strong> Tolstoi, Bari, Laterza, 1904, p. 83.<br />
85 Ibidem.
Introduzione XXIX<br />
Se la Santamaria ravvisa nei libri <strong>di</strong> lettura adottati ai suoi tempi dalle<br />
scuole elementari un «evidente sforzo <strong>di</strong> far notare la morale del raccon‐<br />
to, e <strong>di</strong> persuadere i lettori a seguire l’esempio che vien loro mostrato» 86 ,<br />
certamente l’antologia <strong>di</strong> Tolstoj doveva apparire fortemente innovativa,<br />
conferendo <strong>di</strong>gnità alle sottovalutate opere <strong>di</strong> letteratura per ragazzi.<br />
Volpicelli de<strong>di</strong>ca il quarto capitolo del libro A scuola da Tolstoj ai Quat‐<br />
tro libri <strong>di</strong> lettura, analizzandone la nascita e le motivazioni <strong>di</strong> fondo.<br />
Animati da un “respiro epico” che viene ad essere l’elemento <strong>di</strong> raccordo<br />
dell’opera, i brani scientifici così come quelli narrativi si ispirano a principi che<br />
evidentemente ne costituiscono l’essenza più profonda; «il realismo, l’obiettivi‐<br />
tà, questo <strong>di</strong>staccato rappresentar le cose quali sono e per quel che sono. È il<br />
punto in cui or<strong>di</strong>ne estetico e or<strong>di</strong>ne morale confluiscono» 87 .<br />
Nell’analisi <strong>di</strong> Volpicelli <strong>di</strong> alcuni brani dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura, par‐<br />
ticolare risalto viene dato al realismo tolstojano, capace <strong>di</strong> riprodurre si‐<br />
tuazioni ed avvenimenti senza falsarne l’autentico significato.<br />
Volpicelli spende poi parole <strong>di</strong> apprezzamento per la <strong>di</strong>sposizione<br />
dei brani realizzata da Tolstoj, la quale, ispirandosi al criterio della gra‐<br />
dualità, si basa sulle effettive capacità <strong>di</strong> comprensione dei ragazzi.<br />
12. La morte<br />
Una tematica molto presente all’interno dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura è<br />
quella della morte, «ricondotta all’ambito <strong>di</strong> situazioni che, evitando o‐<br />
gni ostentazione del dolore, rappresentano con sobrietà la sofferenza ed<br />
il rimpianto della vita» 88 . Due esempi in tal senso in<strong>di</strong>cativi sono due<br />
brani in cui lo scrittore descrive con semplicità la morte <strong>di</strong> un passerotto<br />
e <strong>di</strong> un antico salice. Nel primo racconto, intitolato La zia racconta d’un<br />
passerotto agevolino che aveva da bambina, e che si chiamava Vispetto 89 , una<br />
ni<strong>di</strong>ata <strong>di</strong> passerotti rimasti orfani della madre viene allevata amore‐<br />
volmente da alcune sorelle. Dopo la morte <strong>di</strong> quattro dei cinque passe‐<br />
rotti l’ultimo uccellino, chiamato Vispetto per l’allegria del carattere, <strong>di</strong>‐<br />
86 Ivi, p. 85.<br />
87 E. MEDOLLA, op. cit., p. 77, per la citazione interna si veda L. VOLPICELLI, A scuo‐<br />
la da Tolstoj, cit., p. 114.<br />
88 Ivi, p. 83.<br />
89 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., pp. 67‐69, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong><br />
laurea pp. 66‐68).
XXX<br />
Introduzione<br />
viene il beniamino della famiglia, fino a quando, ammalatosi improvvi‐<br />
samente, muore, addolorando profondamente le bambine. Nonostante il<br />
soggetto certamente triste del racconto, il tema della morte è trattato con<br />
estrema delicatezza ed al lettore l’immagine più viva del brano rimane<br />
sicuramente quella del passerotto gioioso ed esuberante.<br />
Più amara è invece la vicenda narrata nel secondo racconto, Il salcio90 ,<br />
in cui un vecchio salice, dopo aver allietato i passanti con la vista dei<br />
suoi fiori ed offertogli riparo dal sole in estate, viene bruciato da un<br />
gruppo <strong>di</strong> ragazzi ed insultato da una cornacchia. Nella sopportazione<br />
ed umiltà dell’albero <strong>di</strong> fronte le offese è sicuramente ravvisabile il prin‐<br />
cipio della non–violenza. La morte dell’albero, decretata dall’uomo e<br />
non dal destino come nel caso <strong>di</strong> Vispetto, appare perciò più ingiusta e<br />
crudele ed è quin<strong>di</strong> destinata ad impressionare maggiormente il lettore.<br />
Probabilmente non è quin<strong>di</strong><br />
casuale che i due brani siano separati l’uno dall’altro da poche pagine e che la<br />
vicenda del salice, la più amara, preceda, quasi a lasciare un margine <strong>di</strong> speran‐<br />
za, la storia <strong>di</strong> Givic 91 , in cui le lacrime e il dolore, apertamente manifestati, sono<br />
un conforto per le sorelle e un tributo d’amore per l’uccellino; nessun rimpianto<br />
addolcisce invece la morte dell’albero, che solo è vissuto e solo è morto ed per‐<br />
ciò stesso simbolo <strong>di</strong> solitu<strong>di</strong>ne e <strong>di</strong> pacata, rassegnata fierezza <strong>di</strong>nanzi un desi‐<br />
derio oscuro e indecifrabile […] 92 .<br />
Tolstoj riesce a presentare ai bambini una realtà così <strong>di</strong>fficile da com‐<br />
prendere ed accettare con luci<strong>di</strong>tà ed attenzione, attraverso il riferimento<br />
ad episo<strong>di</strong> riconducibili ad esperienze quoti<strong>di</strong>ane.<br />
13. La religione<br />
Un altro elemento importante è quello della religione. Negli anni suc‐<br />
cessivi alla sua conversione al Vangelo, Tolstoj si de<strong>di</strong>cò appassionata‐<br />
mente alla critica e alla rifondazione della teologia dogmatica e della sto‐<br />
ria delle dottrine religiose. La dottrina cristiana, da lui definita “cristia‐<br />
no–ecclesiastica”, era a suo avviso colpevole <strong>di</strong> aver snaturato e occulta‐<br />
to per secoli l’autentica dottrina <strong>di</strong> Cristo, sviandone l’attenzione tramite<br />
precetti e superstizioni del tutto estranee all’inten<strong>di</strong>mento dei Vangeli. Il<br />
90 Ivi, pp. 64‐66, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 63‐64).<br />
91 Il vivace.<br />
92 E. MEDOLLA, op. cit., p. 85.
Introduzione XXXI<br />
cristianesimo tolstojano si fonda invece su una rigorosa lettura dei soli<br />
Vangeli e della Prima epistola <strong>di</strong> Giovanni a loro integrazione; in base a<br />
questi testi si esprime la convinzione che Dio si manifesti nella vita stes‐<br />
sa, o piuttosto che la vita <strong>di</strong> ogni singolo in<strong>di</strong>viduo sia la manifestazione<br />
esteriore <strong>di</strong> Dio. Tolstoj, negando tutti i dogmi concernenti la trinità e la<br />
<strong>di</strong>vinità <strong>di</strong> Cristo, considerati ulteriori superflui supplementi all’auten‐<br />
tico messaggio cristiano, non considera come figlio <strong>di</strong> Dio il solo Gesù,<br />
ma bensì l’uomo stesso, l’autentico “io” <strong>di</strong> ciascun uomo, <strong>di</strong> cui il Gesù<br />
dei Vangeli ne è piena rappresentazione. Adempiere alla volontà <strong>di</strong>vina,<br />
così come Gesù insegna a fare nei suoi comandamenti, costituisce dun‐<br />
que per l’uomo l’attività più naturale e scoprire la via <strong>di</strong> questa obbe‐<br />
<strong>di</strong>enza costituisce la rivelazione della propria vera volontà e natura.<br />
Riconsiderando il cristianesimo tramite l’ausilio dell’etica e della filo‐<br />
sofia, secondo Tolstoj la morale autenticamente cristiana non ha bisogno<br />
dei puntelli della filosofia, destinati a frantumarsi nello scontro con la<br />
realtà. Riven<strong>di</strong>cando quin<strong>di</strong> l’in<strong>di</strong>pendenza dell’etica cristiana rispetto<br />
alla filosofia, la riconduce alla comprensione imme<strong>di</strong>ata delle anime<br />
semplici, restituendole la forza originaria, perduta nel corso dei secoli.<br />
Un esempio dell’espressione del sentimento cristiano all’interno dei<br />
Quattro libri <strong>di</strong> lettura, è il brano Dio vede la verità ma non ha fretta <strong>di</strong> <strong>di</strong>rla 93 .<br />
Il giovane mercante Ivàn Dmítrevič Aksiònov è accusato, sebbene in‐<br />
nocente, <strong>di</strong> omici<strong>di</strong>o e viene condannato ai lavori forzati in Siberia. Tra‐<br />
scorsi ventisei anni, nel corso dei quali non ha più rivisto la moglie e i<br />
figli, ed ormai rassegnato al proprio destino, incontra in carcere il vero<br />
assassino, Makàr Semiònov. Seppur inizialmente me<strong>di</strong>ti vendetta, non<br />
appena se ne presenta l’occasione, desiste, riconoscendosi <strong>di</strong> fronte a Dio<br />
colpevole dei sentimenti <strong>di</strong> rabbia e rancore provati ed inducendo così il<br />
responsabile al pentimento ed alla confessione. Il mercante non potrà<br />
però giovare del conseguente or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> liberazione, che giungerà dopo<br />
la sua morte.<br />
Il racconto suscita<br />
una forte impressione <strong>di</strong> straniamento, dovuta non solo all’eccezionalità del fat‐<br />
to narrato ma soprattutto al paradosso finale per cui l’innocente si <strong>di</strong>chiara più<br />
colpevole <strong>di</strong>nanzi a Dio dell’assassino; in questa <strong>di</strong>sposizione<br />
all’autoumiliazione, da intendersi al tempo stesso come affermazione del sog‐<br />
getto etico sulla propria debolezza <strong>di</strong> essere finito, si misura tutta la grandezza<br />
93 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., pp. 167‐175, (cfr. in questo elaborato<br />
<strong>di</strong> laurea pp. 163‐171).
XXXII<br />
Introduzione<br />
e la profon<strong>di</strong>tà dello “scandalo” cristiano, considerato nella sua irriducibilità<br />
alla convenzione, al fariseismo, alle lusinghe del mondo94 .<br />
14. La pedagogia tolstojana<br />
Riguardo la pratica educativa, Tolstoj è fortemente critico verso i trat‐<br />
tati <strong>di</strong> pedagogia, particolare, questo, in comune con Anton Sëmenovič<br />
Makarenko, il quale, dalle pagine del Poema pedagogico, afferma:<br />
I primi mesi della nostra colonia furono per me e per i miei compagni non<br />
solo mesi <strong>di</strong> <strong>di</strong>sperazione e <strong>di</strong> sforzi infruttuosi: furono anche i mesi della ricer‐<br />
ca della verità. In tutta la mia vita non ho mai letto tanti libri <strong>di</strong> pedagogia come<br />
l’inverno del 1920. […] Per me il principale risultato <strong>di</strong> quelle letture fu la cer‐<br />
tezza, <strong>di</strong>venuta chissà perché ad un tratto salda e fondata, <strong>di</strong> non avere in mano<br />
alcuna scienza e alcuna teoria, e che una teoria bisognava se mai trarla da tutta<br />
la somma dei fenomeni reali che accadevano sotto i miei occhi. Inizialmente non<br />
tanto capii, quanto mi accorsi che quello che mi occorreva non erano formule<br />
libresche, che non trovavano applicazione nella realtà, ma un’analisi imme<strong>di</strong>ata<br />
ed un’azione <strong>di</strong>retta 95 .<br />
Nell’attività scolastica, Tolstoj rileva l’incapacità del maestro <strong>di</strong> com‐<br />
prendere l’effettivo grado <strong>di</strong> sviluppo intellettivo dei propri allievi, co‐<br />
stringendoli a lezioni mortificanti per la propria intelligenza. Ciò è do‐<br />
vuto ad una sorta <strong>di</strong> aristocratico <strong>di</strong>sprezzo degli insegnanti nei confron‐<br />
ti degli alunni, considerati alla stregua <strong>di</strong> selvaggi da indottrinare.<br />
Una posizione del genere, supponente e sconcertante nella sua ari<strong>di</strong>tà, deno‐<br />
ta unicamente l’intolleranza <strong>di</strong> che è convinto <strong>di</strong> possedere l’infallibilità peda‐<br />
gogica; con l’onestà e l’umiltà <strong>di</strong> chi è veramente grande Tolstoj ammette che<br />
non possiamo sapere «ciò che è necessario alle generazioni future, anche se sen‐<br />
tiamo il dovere e cerchiamo <strong>di</strong> coglierne i bisogni; […] e non possiamo accusare<br />
il popolo, che respinge il nostro tipo d’istruzione, ma dobbiamo accusare noi<br />
stessi d’ignoranza e <strong>di</strong> superbia, se preten<strong>di</strong>amo d’imporre al popolo l’istru‐<br />
zione che vogliamo» 96 .<br />
94 E. MEDOLLA, op. cit., p. 87.<br />
95 A. S. MAKARENKO, Poema pedagogico, Mosca, Raduga, 1985, p. 16.<br />
96 E. MEDOLLA, op. cit., p. 94, per la citazione interna si veda L. N. TOLSTOJ,<br />
L’istruzione pubblica in G. SANTOMAURO (a cura <strong>di</strong>) Scritti pedagogici, cit., p. 53.
Introduzione XXXIII<br />
Non esistendo alcun piano <strong>di</strong>dattico precostituito cui dover ispirare<br />
la propria azione pedagogica, il pensiero educativo risulta calibrato sulle<br />
esigenze dei ragazzi, quali emergevano nel confronto quoti<strong>di</strong>ano tra ma‐<br />
estro e allievi nella scuola <strong>di</strong> «Jasnaja Poljana», e la cui caratteristica fon‐<br />
damentale è data dal delicato equilibrio tra il rispetto delle esigenze dei<br />
bambini e la necessità <strong>di</strong> garantire loro una guida costante ma non auto‐<br />
ritaria.<br />
Per Tolstoj la scommessa pedagogica più stimolante consiste nel rico‐<br />
noscimento dei meto<strong>di</strong> <strong>di</strong> autoeducazione del popolo, e la scuola <strong>di</strong> «Ja‐<br />
snaja Poljana», che si propone inizialmente come mezzo per realizzare<br />
tale progetto, nei risultati va al <strong>di</strong> là della semplice attuazione <strong>di</strong> tecni‐<br />
che educative, portando ad una complessa analisi <strong>di</strong> tematiche, ricondu‐<br />
cibili alla morale ed alla critica sociale.<br />
Lo scrittore è particolarmente attento ai contenuti dell’esperienza e‐<br />
ducativa, alla cui formulazione contribuiscono i bambini e nel corso del‐<br />
la quale il maestro deve cercare <strong>di</strong> comprendere il mondo infantile, pre‐<br />
parandosi ad un confronto con realtà spesso in contrasto rispetto alla<br />
scala <strong>di</strong> valori degli adulti.<br />
Nel già citato articolo Chi deve imparare a scrivere: i ragazzi <strong>di</strong> campagna<br />
da noi, o noi dai ragazzi <strong>di</strong> campagna? 97 , Tolstoj descrive la genesi del rac‐<br />
conto <strong>di</strong> due alunni, Fed’ka e Sëmka, intitolato Vita della famiglia d’un sol‐<br />
dato 98 , apparso nel fascicolo <strong>di</strong> settembre della stessa rivista e poi inserito<br />
nel Terzo libro <strong>di</strong> lettura. Lo scrittore appare estremamente commosso ed<br />
emozionato nel narrare come, dopo numerosi ed infruttuosi tentativi, sia<br />
casualmente riuscito a far comprendere ai suoi alunni il fascino dell’arte<br />
dello scrivere, «la bellezza dell’esprimere la vita in parole» 99 .<br />
Tolstoj si assume la responsabilità riguardo a «qualche banalità <strong>di</strong> sti‐<br />
le nella parte introduttiva, nella descrizione delle persone e dell’abita‐<br />
zione» 100 in quanto «mentre questo capitolo veniva scritto, non mi sono<br />
saputo trattenere dal dare a Fed’ka dei suggerimenti e dall’esporgli in<br />
che modo avrei scritto io» 101 . Man mano che l’influenza <strong>di</strong> Tolstoj <strong>di</strong>mi‐<br />
nuisce il racconto trova il giusto approccio, cresce in qualità, ed è a<br />
97 L. N. TOLSTOJ, Chi deve imparare a scrivere: i ragazzi <strong>di</strong> campagna da noi o noi dai<br />
ragazzi <strong>di</strong> campagna?, in ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., pp. 265‐292.<br />
98 ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., pp. 142‐147, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea<br />
pp. 139‐144).<br />
99 ID., Chi deve imparare a scrivere: i ragazzi <strong>di</strong> campagna da noi o noi dai ragazzi <strong>di</strong><br />
campagna?, in ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., p. 266.<br />
100 Ivi, p. 278.<br />
101 Ibidem.
XXXIV<br />
Introduzione<br />
Fed’ka che viene attribuito il merito <strong>di</strong> aver saputo rendere in poche pa‐<br />
role le lamentele della madre o i rapporti tra la famiglia e la sorella mag‐<br />
giore. Particolarmente elogiata da Tolstoj è la narrazione della notte nel‐<br />
la quale Fedor si sveglia per il pianto della madre ed apprende la morte<br />
del fratellino da poco nato:<br />
non c’è una parola che si possa togliere, non c’è una parola che si possa mutare<br />
o aggiungere. Cinque righe in tutto: e in queste cinque righe si prospetta in pie‐<br />
no al lettore il quadro <strong>di</strong> quella triste nottata, e insieme il quadro che <strong>di</strong> essa s’è<br />
impresso nell’immaginazione d’un ragazzetto <strong>di</strong> sei o sett’anni 102 .<br />
Del resto, come afferma lo stesso Tolstoj poche pagine prima, «Ogni<br />
parola artistica, appartenga a Goethe o a Fed’ka, appunto in questo si <strong>di</strong>‐<br />
stingue dalla parola non artistica, nel potere che ha <strong>di</strong> evocare<br />
un’innumerevole quantità d’idee, <strong>di</strong> immagini, <strong>di</strong> spiegazioni» 103 .<br />
Rifacendosi all’assunto rousseauiano secondo il quale “l’uomo nasce<br />
perfetto”, Tolstoj afferma:<br />
Quando un bambino sano viene al mondo, esso sod<strong>di</strong>sfa completamente<br />
quelle istanze d’armonia incon<strong>di</strong>zionata, sotto i rispetti del vero, del bello e del<br />
bene, che sono insite in noi; esso è vicino alle creature senz’anima, alle piante,<br />
alle bestie: è vicino, insomma, alla natura, che costantemente rappresenta ai no‐<br />
stri occhi quella verità, quella bellezza e quel bene che cerchiamo e desideria‐<br />
mo 104 .<br />
Gli educatori però perdono <strong>di</strong> vista che l’età infantile è il prototipo<br />
dell’armonia, assumendo lo sviluppo del bambino come scopo. Secondo<br />
Tolstoj, invece, «L’ideale ci sta alle spalle, e non già davanti» 105 . Occorre<br />
quin<strong>di</strong> ricomporre quell’equilibrio originario «che è stato compromesso<br />
dalla stratificazione <strong>di</strong> credenze passivamente accolte come opinione<br />
comune […]» 106 , da un’educazione che, se scorretta, «corrompe, non cor‐<br />
regge gli uomini» 107 .<br />
Ciò che occorre realmente ad un bambino<br />
102 Ivi, p. 279.<br />
103 Ivi, p. 271.<br />
104 Ivi, p. 290.<br />
105 Ivi, p. 291.<br />
106 E. MEDOLLA, op. cit., p. 99.<br />
107 L. N. TOLSTOJ, Chi deve imparare a scrivere: i ragazzi <strong>di</strong> campagna da noi o noi dai<br />
ragazzi <strong>di</strong> campagna?, in ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit., p. 291.
Introduzione XXXV<br />
non è altro che del materiale per completarsi in modo armonico e in tutte le <strong>di</strong>‐<br />
rezioni. Non appena io gli ho dato piena libertà, non appena ho cessato d’im‐<br />
partirgli i miei insegnamenti, egli ha scritto un brano poetico <strong>di</strong> cui non esisteva<br />
ancora l’uguale nella letteratura russa. E quin<strong>di</strong>, secondo la mia convinzione,<br />
noi non dobbiamo insegnare a scrivere e a comporre, specialmente quando si<br />
tratti <strong>di</strong> composizione poetica, ai bambini in genere, e in particolare ai bambini<br />
dei conta<strong>di</strong>ni. Tutt’al più, possiamo insegnar loro il modo più conveniente <strong>di</strong><br />
affrontare la composizione 108 .<br />
Successivamente Tolstoj in<strong>di</strong>ca i proce<strong>di</strong>menti da lui utilizzati per<br />
raggiungere questo risultato:<br />
1) Proporre una scelta <strong>di</strong> temi estremamente ampia e varia, senza escogitarli<br />
a bella posta e su misura per i bambini, bensì ricorrendo a temi della massima<br />
serietà e tali che interessino lo stesso insegnante.<br />
2) Dare a leggere ai ragazzi composizioni <strong>di</strong> ragazzi, e soltanto composizioni<br />
<strong>di</strong> ragazzi proporre loro come modello, giacché le composizioni dei ragazzi so‐<br />
no sempre più veritiere, più belle e più morali <strong>di</strong> quelle degli adulti.<br />
3) (Di particolare importanza). Mai, mentre si tiene d’occhio il lavoro <strong>di</strong><br />
composizione dei ragazzi, si facciano agli allievi appunti circa la pulizia dei<br />
quaderni, o la calligrafia, o l’ortografia; né si facciano appunti, soprattutto, sulla<br />
costruzione delle proposizioni e sulla logica.<br />
4) Siccome, per il comporre, la <strong>di</strong>fficoltà risiede non già nella vastità o nel<br />
contenuto del tema che si assegna, ma nella sua artisticità, ne consegue che la<br />
gradualità dei temi dovrà riferirsi non alla vastità, non al contenuto, non alla<br />
lingua, ma al meccanismo del comporre, meccanismo che consiste in primo<br />
luogo nello scegliere una, e una sola, fra le tante idee e immagini che si affollano<br />
alla mente; in secondo luogo, nello scegliere per essa le parole adatte a configu‐<br />
rarla; in terzo luogo, nel tenerla ben presente e nel trovare il posto giusto in cui<br />
collocarla; in quarto luogo, nel ricordarsi <strong>di</strong> ciò che già si è scritto, e quin<strong>di</strong> non<br />
fare ripetizioni, non lasciarsi sfuggire nulla, ricollegare quel che segue a quel<br />
che precede; in quinto luogo, finalmente, nel riuscire a far sì che, pensando e<br />
scrivendo nello stesso tempo, una cosa non sia d’ostacolo all’altra. Per ottenere<br />
questo, io mi sono regolato così: alcuni <strong>di</strong> questi lati del lavoro, in un primo<br />
tempo, li ho presi su <strong>di</strong> me, e poi gradualmente li ho affidati tutti alle cure degli<br />
stessi ragazzi. Da principio, sceglievo io per essi, <strong>di</strong> tra la folla delle idee e delle<br />
immagini, quelle che a me parevano le migliori, e le tenevo ben a mente, e in<strong>di</strong>‐<br />
cavo il posto giusto per collocarle, e confrontavo <strong>di</strong> continuo quanto già s’era<br />
108 Ibidem.
XXXVI<br />
Introduzione<br />
scritto, trattenendoli così dal ripetersi, ed eseguivo <strong>di</strong> mano mia l’operazione <strong>di</strong><br />
scrivere, lasciando a loro soltanto il compito <strong>di</strong> configurare le immagini e le idee<br />
in parole; poi affidavo a loro soli anche la scelta; poi anche il confronto col già<br />
scritto; finché da ultimo – com’è avvenuto nella composizione della Vita della<br />
moglie d’un soldato – i ragazzi non si assumevano <strong>di</strong>rettamente l’operazione<br />
stessa <strong>di</strong> scrivere109 .<br />
Fed’ka è autore <strong>di</strong> un altro racconto, Un ragazzo racconta d’una volta<br />
che non lo portarono in città 110 , il quale tratta <strong>di</strong> un viaggio mancato, vissu‐<br />
to in sogno da un ragazzo deluso dal padre che non ha voluto condurlo<br />
in città. La versione apparsa nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura è stata mo<strong>di</strong>ficata<br />
da Tolstoj, agendo in senso contrario rispetto al racconto Vita della fami‐<br />
glia d’un soldato 111 , conferendo all’originale componimento scolastico <strong>di</strong><br />
Fed’ka, una maggiore complessità.<br />
Tolstoj, anticipando posizioni della scienza pedagogica moderna, non<br />
considerava la scuola l’unico veicolo <strong>di</strong> trasmissione culturale, in quanto<br />
«Dovunque il popolo forma la parte principale della propria istruzione<br />
non nella scuola, ma nella vita» 112 , anteponendole quin<strong>di</strong> quelle forme <strong>di</strong><br />
educazione in<strong>di</strong>retta che si realizzano tramite occasioni <strong>di</strong> incontro con<br />
altre persone. Per questo motivo nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura le informazio‐<br />
ni sono fornite inserendole in contesti e situazioni quoti<strong>di</strong>ane, in cui i<br />
bambini possono facilmente riconoscersi. In molti brani vengono infatti<br />
fornite spiegazioni <strong>di</strong> temi anche molto articolati in tono naturale e an‐<br />
tiaccademico; come ad esempio nei racconti Lo zio racconta in che modo<br />
imparò ad andare a cavallo 113 e Il vecchio nonno e il nipotino 114 , nei quali il ri‐<br />
spetto per gli animali e per le persone anziane non viene appreso per via<br />
teorica, ma tramite esperienze che segnano il destino <strong>di</strong> coloro che le<br />
hanno vissute. Nel primo racconto, un bambino frusta un vecchio caval‐<br />
lo che si rifiuta <strong>di</strong> cavalcare, ma l’in<strong>di</strong>fferenza iniziale, segno <strong>di</strong> un’egoi‐<br />
stica volontà infantile, si tramuta in compassione quando il precettore<br />
<strong>di</strong>rige l’attenzione dell’allievo proprio verso l’anzianità dell’animale.<br />
109 Ivi, pp. 291‐292.<br />
110 ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit. p. 11, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea p. 13).<br />
111 Ivi, pp. 142‐147, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 139‐144).<br />
112 L. N. TOLSTOJ, in http://www.ecologiasociale.org/pg/qualescuola.html, (Con‐<br />
sultato il giorno 08/10/2006).<br />
113 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit, pp. 88‐90, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong><br />
laurea pp. 86‐88).<br />
114 Ivi, p. 15, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea pp. 16‐17).
Introduzione XXXVII<br />
Nel secondo brano invece, una coppia <strong>di</strong> sposi, stanchi <strong>di</strong> accu<strong>di</strong>re<br />
durante i pasti il padre <strong>di</strong> lui, decidono <strong>di</strong> dargli da mangiare nel ma‐<br />
stello delle rigovernature ma, quando notano il loro figlio intento a co‐<br />
struire un altro mastello per quando loro saranno anziani, comprendono<br />
l’ingratitu<strong>di</strong>ne e l’offesa arrecate al vecchio, e ricominciano ad assisterlo<br />
con premura.<br />
15. Il furto<br />
Frequente all’interno dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura è la tematica del furto,<br />
problematica della quale Tolstoj ebbe esperienza <strong>di</strong>retta nella scuola <strong>di</strong><br />
«Jasnaja Poljana». La crudele condanna inflitta dagli alunni ad un loro<br />
compagno, colpevole <strong>di</strong> aver rubato prima un libro e poi del denaro, e<br />
per questo costretto a portare un cartello con la scritta “ladro”, è per Tol‐<br />
stoj in<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> come il desiderio <strong>di</strong> imitare il mondo degli adulti porti i<br />
bambini ad uno stravolgimento del loro essere, della loro naturale ten‐<br />
denza al bene. La reazione degli allievi, la gioia malvagia con la quale<br />
assistono alla punizione da loro stabilita, comportano un’ulteriore presa<br />
<strong>di</strong> coscienza da parte dello scrittore dell’impossibilità <strong>di</strong> preservare i ra‐<br />
gazzi dalle molteplici influenze cui sono sottoposti. Ciò comunque non<br />
comporta una rinuncia al valore della libertà come principio pedagogico,<br />
in quanto l’unione tra tale ideale e l’educazione, costituisce l’unica alter‐<br />
nativa all’autoritarismo.<br />
Convinto della profonda ingiustizia <strong>di</strong> ogni punizione lesiva della <strong>di</strong>‐<br />
gnità umana, e consapevole <strong>di</strong> come questa precluda un’autentica com‐<br />
prensione della realtà infantile, Tolstoj, <strong>di</strong> fronte all’imbarazzo e alla sof‐<br />
ferenza del ragazzo, decide <strong>di</strong> togliere il cartello e lascia lo studente libe‐<br />
ro <strong>di</strong> andare dove preferisce. Lo scrittore intuisce infatti come il furto, in<br />
un ragazzo, non sia la manifestazione <strong>di</strong> un animo corrotto, ma piuttosto<br />
il segnale <strong>di</strong> un <strong>di</strong>sagio spesso molto <strong>di</strong>fficile da comprendere. Tolstoj<br />
non si sente in <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> infliggere al giovane un così vergognoso casti‐<br />
go, dubitando dell’efficacia pedagogica <strong>di</strong> questo espe<strong>di</strong>ente contro l’in‐<br />
clinazione al furto, convinto che invece lo incoraggi.<br />
Nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura, uno dei brani nei quali è presente la temati‐<br />
ca del furto è Il corpettino 115 , nel quale un conta<strong>di</strong>no, <strong>di</strong>venuto un ricco<br />
commerciante, rinuncia a denunciare il ladro che gli ha sottratto il dena‐<br />
115 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, cit. p. 54, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> lau‐<br />
rea pp. 53‐54).
XXXVIII<br />
Introduzione<br />
ro, ricordando che questi, suo compagno nell’entrata in commercio, gli<br />
aveva, molti anni prima, prestato l’abito nuziale.<br />
Un’altra favola a trattare questo argomento è Il conta<strong>di</strong>no e i cocome‐<br />
ri116 , in cui un conta<strong>di</strong>no, recatosi in un orto per rubare dei cocomeri, è<br />
talmente entusiasta dell’impresa che sta per compiere da lasciarsi trasci‐<br />
nare dalla fantasia, immaginando ad alta voce i sostanziosi guadagni che<br />
quel furto gli consentirà. Nella conclusione, saranno proprio le sue grida<br />
ad allertare l’attenzione dei guar<strong>di</strong>ani dell’orto, che lo puniranno pic‐<br />
chiandolo con un bastone.<br />
16. Attualità pedagogica in Tolstoj<br />
Nella realizzazione del principio secondo il quale la riflessione, <strong>di</strong>‐<br />
nanzi ad una situazione problematica contingente, in<strong>di</strong>rizza il compor‐<br />
tamento, è ravvisabile un punto <strong>di</strong> contatto con la teoria gnoseologica <strong>di</strong><br />
John Dewey, ad ulteriore conferma «dell’in<strong>di</strong>pendenza <strong>di</strong> Tolstoj rispet‐<br />
to agli schemi educativi del suo tempo» 117 .<br />
Le analogie tra Tolstoj e Dewey, seppur manifestandosi in<strong>di</strong>rettamen‐<br />
te, appaiono evidenti soprattutto nell’adesione da parte <strong>di</strong> entrambi ad<br />
un modello d’indagine i cui capisal<strong>di</strong> sono l’esperienza e la percezione<br />
unitaria della realtà e ad una critica della <strong>di</strong>cotomia tra scienza e senso<br />
comune.<br />
La ricomposizione <strong>di</strong> tale frattura per Dewey è risolvibile sul piano<br />
logico con una riappropriazione da parte della scienza dei meto<strong>di</strong> del<br />
senso comune; posizione analoga a quella <strong>di</strong> Tolstoj, il quale ha più volte<br />
riven<strong>di</strong>cato la priorità dell’esperienza su ogni forma <strong>di</strong> dogmatismo, ri‐<br />
conoscendo come compito esclusivo della scienza la soluzione dei pro‐<br />
blemi sociali.<br />
Vicine alle convinzioni tolstojane, secondo le quali la sensibilità e<br />
l’esperienza <strong>di</strong>retta si antepongono spesso all’indagine scientifica, ap‐<br />
paiono le parole <strong>di</strong> Ovide Decroly:<br />
negli esercizi in cui il fanciullo può sod<strong>di</strong>sfare il suo bisogno <strong>di</strong> conoscere, la<br />
sua curiosità riguardo ad esseri, oggetti, fatti, quando esegue <strong>di</strong>segni, lavori<br />
manuali in rapporto con gli esercizi d’osservazione e <strong>di</strong> associazione nel tempo<br />
e nello spazio, non vi è dubbio che egli avrà molteplici occasioni stimolanti in<br />
rapporto agli interessi che si collegano a queste tendenze; queste stesse occasio‐<br />
116 Ivi, p. 14, (cfr. in questo elaborato <strong>di</strong> laurea p. 16).<br />
117 Ivi, p. 106.
Introduzione XXXIX<br />
ni si ritrovano in tutte una serie <strong>di</strong> altre occupazioni scolastiche, particolarmen‐<br />
te nelle ricreazioni, nelle passeggiate, nelle escursioni […] 118 .<br />
Numerosi sono poi i punti <strong>di</strong> contatto con la posizione tolstojana<br />
nell’affermazione <strong>di</strong> come la scuola debbe assolvere il proprio compito,<br />
regolandosi con il bambino<br />
facendo ricorso in un primo tempo all’osservazione <strong>di</strong>retta ed aiutandolo a ri‐<br />
conoscere i processi vitali che in lui si svolgono; guidando poi alla comprensio‐<br />
ne dei fenomeni del suo ambiente imme<strong>di</strong>ato e, infine, alla comprensione dei<br />
fenomeni a lui più lontani nel tempo e nello spazio […] 119 .<br />
Contrario ai proce<strong>di</strong>menti analitici, colpevoli <strong>di</strong> sviare l’attenzione<br />
dalla comprensione unitaria del fenomeno verso concetti e parole ancora<br />
inacessibili ai bambini, Tolstoj sostiene che, se l’alunno<br />
intende o legge una parola incomprensibile in una frase che capisce, un’altra<br />
volta, in un’altra frase, comincerà a rappresentarsi vagamente il nuovo concetto<br />
e sentirà, infine, per caso, la necessità <strong>di</strong> usare quella parola, e una volta usata,<br />
questa parola e il suo concetto <strong>di</strong>venteranno sua proprietà 120 .<br />
Tolstoj riconosce così una gradualità interna allo sviluppo del pensie‐<br />
ro e la possibilità <strong>di</strong> ricostruirne le tappe, sconsigliando però ogni forza‐<br />
tura.<br />
Queste stesse parole vengono ricordate da Lev Semënovič Vygotskij,<br />
che a Tolstoj riconosce il merito <strong>di</strong> essersi reso conto<br />
più chiaramente della maggior parte degli educatori, dell’impossibilità <strong>di</strong> tra‐<br />
sferire semplicemente un concetto dal maestro all’allievo […]. Ciò <strong>di</strong> cui il bam‐<br />
bino ha bisogno, <strong>di</strong>ce Tolstoj, è l’opportunità <strong>di</strong> imparare nuovi concetti e nuo‐<br />
ve parole dal contesto linguistico generale 121 .<br />
118 O. DECROLY, La funzione <strong>di</strong> globalizzazione e l’insegnamento, Firenze, La Nuova<br />
Italia, 1962, p. 49 sgg.<br />
119 ID., Una scuola per la vita attraverso la vita, Torino, Loescher, 1963, p. 12.<br />
120 L. N. TOLSTOJ, La scuola <strong>di</strong> Jasnaja Poljana e altri scritti pedagogici, cit., p. 81.<br />
121 L. S. VYGOTSKIJ, Pensiero e linguaggio, Firenze, Giunti Barbera, 1966, pp. 108‐<br />
109.
XL<br />
Introduzione<br />
Le stesse considerazioni vengono espresse anche da Jean Piaget in un<br />
saggio del 1966:<br />
lo sviluppo mentale del bambino appare globalmente come una successione <strong>di</strong><br />
tre gran<strong>di</strong> costruzioni <strong>di</strong> cui ciascuna prolunga la precedente, ricostruendola<br />
dapprima su un nuovo piano per poi in seguito superarla sempre più ampia‐<br />
mente 122 .<br />
Nel mondo attuale, nel quale la civiltà conta<strong>di</strong>na, così come viene de‐<br />
scritta da Tolstoj, è tramontata, la modernità dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
consiste nella capacità dei brani <strong>di</strong> suscitare emozione e curiosità, ed è<br />
certamente segno della genialità del suo autore se un’opera così datata<br />
riesce ancora a parlare al cuore dei bambini.<br />
122 J. PIAGET, La psicologia del bambino, Torino, Einau<strong>di</strong>, 1966, p. 130.
In<strong>di</strong>ce dei testi utilizzati da L. N. Tolstoj ∗<br />
Primo libro <strong>di</strong> lettura........................................................................................... 5<br />
La formica e la colomba (Favola).................................................................... 7<br />
Il cieco e il sordo ( Racconto dal vero) ........................................................... 7<br />
La tartaruga e l’aquila (Favola)....................................................................... 7<br />
Il trovatello (Racconto dal vero) ..................................................................... 8<br />
La testa e la coda del serpente (Favola)......................................................... 8<br />
La pietra (Racconto dal vero).......................................................................... 9<br />
Gli Eschimesi (Descrizione)............................................................................. 9<br />
La puzzola (Favola) ........................................................................................ 10<br />
La zia racconta in che modo imparò a cucire (Racconto).......................... 10<br />
Fili sottili (Favola)........................................................................................... 11<br />
La velocità fa la forza (Racconto dal vero) .................................................. 11<br />
Il leone e il topolino (Favola)......................................................................... 12<br />
I cani dei pompieri (Racconto dal vero) ...................................................... 12<br />
La scimmia (Favola) ....................................................................................... 13<br />
Un ragazzo racconta d’una volta che non lo portarono in città<br />
(Racconto) ........................................................................................................ 13<br />
Il bugiardo (Favola)........................................................................................ 14<br />
Come fu aggiustata una casa a Parigi (Racconto dal vero)....................... 14<br />
L’asino e il cavallo (Favola)........................................................................... 14<br />
Un ragazzo racconta come, nel bosco, lo colse il temporale (Rac‐<br />
conto dal vero) ................................................................................................ 15<br />
La cornacchia e i piccioni (Favola) ............................................................... 15<br />
Il conta<strong>di</strong>no e i cocomeri (Favola) ................................................................ 16<br />
La massaia e la gallina (Favola) .................................................................... 16<br />
Il vecchio nonno e il nipotino (Favola) ........................................................ 16<br />
La spartizione dell’ere<strong>di</strong>tà (Favola) ............................................................. 17<br />
Dove va a finire l’acqua del mare (Considerazioni) .................................. 17<br />
Il leone, l’orso, la volpe (Favola)................................................................... 18<br />
Un ragazzo racconta come avvenne che scoprí al nonno la re‐<br />
gina delle api (Racconto) ............................................................................... 18<br />
Il cane, il gallo e la volpe (Favola) ................................................................ 19<br />
Il mare (Descrizione) ...................................................................................... 19<br />
∗ Si è ritenuto necessario inserire in appen<strong>di</strong>ce all’introduzione l’in<strong>di</strong>ce dei testi<br />
che compongono i Quattro libri <strong>di</strong> lettura, per confermare il debito nei confronti del‐<br />
l’e<strong>di</strong>zione Einau<strong>di</strong> del 1994, a cura <strong>di</strong> P. C. BORI, con la traduzione <strong>di</strong> A. VILLA, stabi‐<br />
lendo un’ulteriore continuità tra il presente elaborato <strong>di</strong> laurea e la suddetta e<strong>di</strong>zio‐<br />
ne.
XLII<br />
In<strong>di</strong>ce dei testi<br />
Il cavallo e il mozzo <strong>di</strong> stalla (Favola) ..........................................................20<br />
L’incen<strong>di</strong>o (Racconto) .....................................................................................20<br />
La rana e il leone (Favola) ..............................................................................21<br />
L’elefante (Racconto dal vero) .......................................................................21<br />
La scimmia e i piselli (Favola) .......................................................................22<br />
Un ragazzo racconta in che modo gli passò la paura dei me<strong>di</strong>‐<br />
canti ciechi (Racconto) ....................................................................................22<br />
La vacca gattaiola (Favola).............................................................................22<br />
L’imperatrice cinese Si–ling–ci (Racconto dal vero)...................................23<br />
La cicala e le formiche (Favola) .....................................................................23<br />
La ragazza−topolino (Leggenda)...................................................................23<br />
La gallina dalle uova d’oro (Favola).............................................................24<br />
Filo <strong>di</strong> lino (Leggenda)....................................................................................24<br />
Il lupo e la vecchia (Favola) ...........................................................................26<br />
Il gattino (Racconto dal vero) ........................................................................26<br />
Il figlio istruito (Favola)..................................................................................27<br />
In che modo gli abitanti <strong>di</strong> Buchàra impararono ad allevare i<br />
bachi da seta (Racconto dal vero)..................................................................28<br />
Il conta<strong>di</strong>no e la cavalla (Favola)...................................................................28<br />
La zia racconta in che modo il brigante Emiliano Pugaciòv le<br />
donò una monetina da <strong>di</strong>eci centesimi (Racconto).....................................29<br />
Il visir Abdul (Leggenda) ...............................................................................31<br />
In che modo un ladro si tradí (Racconto dal vero) .....................................31<br />
Il carico (Favola) ..............................................................................................32<br />
Il nocciolo (Racconto dal vero) ......................................................................32<br />
I due mercanti (Favola)...................................................................................33<br />
I cani del San Gottardo (Descrizione)...........................................................34<br />
Un conta<strong>di</strong>no racconta perché vuol bene al fratello maggiore<br />
(Racconto).........................................................................................................35<br />
In che modo ammazzai la mia prima lepre (Racconto d’un si‐<br />
gnore) ................................................................................................................36<br />
Mignolino (Leggenda) ....................................................................................37<br />
Lo sciocco (Leggenda in versi).......................................................................40<br />
L’eroe Svjatagòr (Leggenda in versi)............................................................47<br />
Secondo libro <strong>di</strong> lettura ......................................................................................49<br />
La bambina e i funghi (Racconto dal vero)..................................................51<br />
L’asino nella pelle del leone (Favola) ...........................................................51<br />
La rugiada sull’erba (Descrizione)................................................................52<br />
La gallina e la ron<strong>di</strong>ne (Favola).....................................................................52<br />
L’In<strong>di</strong>ano e l’Inglese (Racconto dal vero) ....................................................52<br />
Il cervo e il cerbiatto (Favola).........................................................................53<br />
Il corpettino (Racconto dal vero)...................................................................53
In<strong>di</strong>ce dei testi XLIII<br />
La volpe e l’uva (Favola) ............................................................................... 54<br />
La fortuna (Racconto dal vero) ..................................................................... 54<br />
Le operaie e il gallo (Favola) ......................................................................... 54<br />
La macchina che gira da sola (Racconto dal vero) ..................................... 55<br />
Il pescatore e il pesciolino (Favola) .............................................................. 56<br />
Il tatto e la vista (Considerazioni) ................................................................ 56<br />
La volpe e il caprone (Favola)....................................................................... 57<br />
In che modo un conta<strong>di</strong>no tolse via un macigno (Racconto dal<br />
vero).................................................................................................................. 57<br />
Il cane e la sua ombra (Favola) ..................................................................... 58<br />
Sciat e Don (Leggenda russa)........................................................................ 58<br />
La gru e la cicogna (Favola)........................................................................... 59<br />
Sudoma (Leggenda russa)............................................................................. 59<br />
Il vignaiolo e i figli (Favola) .......................................................................... 60<br />
Il gufo e la lepre (Favola)............................................................................... 60<br />
Il lupo e la gru (Favola ................................................................................... 60<br />
L’aquila (Racconto dal vero) ......................................................................... 61<br />
L’oca e la luna (Favola) .................................................................................. 62<br />
L’orso sul carretto (Favola)............................................................................ 62<br />
Il lupo nel polverone (Favola)....................................................................... 63<br />
Il salcio (Racconto dal vero) .......................................................................... 63<br />
Il topo sotto il granaio (Favola)..................................................................... 64<br />
In che modo i lupi danno lezione ai loro figli (Racconto)......................... 65<br />
Le lepri e le rane (Favola) .............................................................................. 65<br />
La zia racconta d’un passerotto agevolino che aveva da bambi‐<br />
na, e che si chiamava Vispetto (Racconto) .................................................. 66<br />
Tre panini e una ciambella (Favola)............................................................. 68<br />
Mille monete d’oro (Racconto dal vero)...................................................... 68<br />
Pietro il Grande e il conta<strong>di</strong>no (Racconto dal vero)................................... 69<br />
Il cane arrabbiato (Racconto dal vero) ......................................................... 70<br />
I due cavalli (Favola)...................................................................................... 71<br />
Il leone e il cagnolino (Racconto dal vero) .................................................. 72<br />
L’ere<strong>di</strong>tà pareggiata (Favola) ........................................................................ 73<br />
I tre ladri (Racconto dal vero) ....................................................................... 74<br />
Il padre e i figli (Favola)................................................................................. 75<br />
Come si forma il vento? (Considerazioni)................................................... 75<br />
A che scopo soffia il vento? (Considerazioni) ............................................ 76<br />
Le pere più buone <strong>di</strong> tutte (Favola).............................................................. 77<br />
Volga e Vasusa (Leggenda russa)................................................................. 78<br />
Il vitello sul ghiaccio (Favola) ....................................................................... 79<br />
La principessa dai capelli d’oro (Leggenda)............................................... 79<br />
Il falco e il gallo (Favola)................................................................................ 81<br />
Il calore (Considerazioni) .............................................................................. 81
XLIV<br />
In<strong>di</strong>ce dei testi<br />
Gli sciacalli e l’elefante (Favola) ....................................................................83<br />
Magnete (Descrizione)....................................................................................84<br />
L’airone, i pesci e il gambero (Favola)..........................................................85<br />
Lo zio racconta in che modo imparò ad andare a cavallo (Rac‐<br />
conto).................................................................................................................86<br />
Il riccio e la lepre..............................................................................................88<br />
I due fratelli (Leggenda).................................................................................89<br />
Lo spirito delle acque e la perla (Favola) .....................................................91<br />
La biscia (Leggenda) .......................................................................................91<br />
Il passero e le ron<strong>di</strong>ni (Racconto)..................................................................93<br />
Cambise e Psammenite (Racconto storico) ..................................................94<br />
Il pescecane (Racconto)...................................................................................95<br />
Perché le finestre s’appannano e cade la guazza? (Considera‐<br />
zioni)..................................................................................................................97<br />
Il vescovo e il brigante (Racconto dal vero).................................................98<br />
Jermàk (Racconto <strong>di</strong> storia russa)................................................................100<br />
Suchmàn (Leggenda russa)..........................................................................107<br />
Terzo libro <strong>di</strong> lettura ........................................................................................113<br />
Il re e il falco (Favola)....................................................................................115<br />
La volpe (Favola) ...........................................................................................115<br />
Castigo severo (Leggenda)...........................................................................116<br />
L’asino selvatico e quello domestico (Favola)...........................................116<br />
La lepre e il segugio (Favola).......................................................................116<br />
Il cervo (Favola) .............................................................................................117<br />
Le lepri (Descrizione)....................................................................................117<br />
Il cane e il lupo (Favola) ...............................................................................118<br />
I fratelli del re (Leggenda)............................................................................118<br />
Il cieco e il latte (Favola) ...............................................................................119<br />
La lepre della steppa (Descrizione).............................................................119<br />
Il lupo e l’arco (Leggenda russa).................................................................121<br />
In che modo il conta<strong>di</strong>no seppe spartire l’oca (Leggenda)......................121<br />
La zanzara e il leone (Favola) ......................................................................122<br />
Gli alberi <strong>di</strong> melo (Racconto) .......................................................................123<br />
Il cavallo e i suoi padroni (Favola)..............................................................124<br />
Le cimici (Racconto) ......................................................................................124<br />
Il vecchio e la morte (Favola).......................................................................125<br />
In che modo le oche salvarono Roma (Considerazioni) ..........................125<br />
Per quale ragione il gelo fa scoppiare gli alberi? (Favola).......................126<br />
L’umi<strong>di</strong>tà (Considerazioni)..........................................................................127<br />
Le particelle della materia sono collegate tra loro in modo <strong>di</strong>‐<br />
versi (Considerazioni)...................................................................................128<br />
Il leone e la volpe (Favola) ...........................................................................129
In<strong>di</strong>ce dei testi XLV<br />
Il giu<strong>di</strong>ce giusto (Leggenda) ....................................................................... 129<br />
Il cervo e la vigna (Favola) .......................................................................... 132<br />
Il figlio del re e i suoi compagni (Favola).................................................. 132<br />
La piccola cornacchia (Favola).................................................................... 135<br />
In che modo io imparai ad andare a cavallo (Racconto d’un si‐<br />
gnore) ............................................................................................................. 136<br />
L’accetta e la sega (Favola) .......................................................................... 138<br />
Vita della famiglia d’un soldato (Racconto d’un conta<strong>di</strong>no).................. 139<br />
Il gatto e i sorci (Favola)............................................................................... 144<br />
Il ghiaccio, l’acqua e il vapore (Considerazioni) ...................................... 144<br />
La quaglia e i suoi pulcini (Favola) ............................................................ 147<br />
Bulka (Racconto d’un ufficiale)................................................................... 147<br />
Bulka e cinghiale (Racconto) ....................................................................... 148<br />
I fagiani (Descrizione) ................................................................................. 151<br />
Milton e Bulka (Racconto) ........................................................................... 152<br />
La tartaruga (Racconto) ............................................................................... 153<br />
Bulka e il lupo (Racconto)............................................................................ 154<br />
Cosa accadde a Bulka a Piatigòrsk (Racconto) ......................................... 156<br />
Fine <strong>di</strong> Bulka e <strong>di</strong> Milton (Racconto) ......................................................... 158<br />
Gli uccelli e la rete (Favola) ......................................................................... 159<br />
L’olfatto (Considerazioni) ........................................................................... 160<br />
I cani e il cuoco (Favola) .............................................................................. 161<br />
La fondazione <strong>di</strong> Roma (Racconto storico) ............................................... 162<br />
Dio vede la verità, ma non ha fretta <strong>di</strong> <strong>di</strong>rla (Racconto) ......................... 163<br />
I cristalli (Considerazioni) ........................................................................... 171<br />
Il lupo e la capra (Favola) ............................................................................ 173<br />
Policrate <strong>di</strong> Samo (Racconto storico).......................................................... 173<br />
Volgà l’eroe (Leggenda in versi)................................................................. 175<br />
Quarto libro <strong>di</strong> lettura..................................................................................... 181<br />
Il re e la camicia (Leggenda)........................................................................ 183<br />
Il giunco e l’olivo (Favola)........................................................................... 183<br />
Il lupo e il conta<strong>di</strong>no (Leggenda) ............................................................... 184<br />
I due compagni (Favola).............................................................................. 186<br />
Il salto (Racconto dal vero).......................................................................... 186<br />
La quercia e il nocciolo (Favola) ................................................................. 188<br />
L’aria mefitica (Racconto dal vero) ............................................................ 189<br />
L’aria mefitica (Considerazioni) ................................................................. 191<br />
Il lupo e l’agnello (Favola)........................................................................... 192<br />
Il peso specifico (Racconto storico) ............................................................ 192<br />
Il leone, il lupo e la volpe (Favola) ............................................................. 193<br />
Il vestito nuovo del re (Leggenda) ............................................................. 194<br />
La coda della volpe (Favola) ....................................................................... 195
XLVI<br />
In<strong>di</strong>ce dei testi<br />
I bachi da seta (Racconto).............................................................................195<br />
Il re e gli elefanti (Favola).............................................................................199<br />
A caccia d’orsi (Racconto d’un cacciatore).................................................200<br />
La chioccia e i pulcini (Favola) ....................................................................207<br />
I gas (Considerazioni)...................................................................................208<br />
Il leone, l’asino e la volpe (Favola)..............................................................210<br />
Il vecchio pioppo (Racconto) .......................................................................211<br />
Il marasco selvatico (Racconto) ...................................................................212<br />
In che modo camminano gli alberi (Racconto)..........................................213<br />
Il re delle quaglie e la sua femmina (Favola).............................................214<br />
Come si fabbricano i palloni aerostatici (Considerazione)......................214<br />
Racconto d’un aeronauta (Racconto)..........................................................216<br />
La vacca e il caprone (Leggenda) ................................................................218<br />
Il cornacchione e i cornacchini (Favola) .....................................................219<br />
Il sole è il calore (Considerazioni)...............................................................220<br />
Di dove viene il male a questo mondo (Favola)........................................222<br />
Il galvanismo (Considerazioni) ...................................................................224<br />
Il conta<strong>di</strong>no e lo spirito del fiume (Favola)................................................226<br />
Il corvo e la volpe (Favola)...........................................................................227<br />
Prigioniero del Caucaso (Racconto d’un ufficiale) ...................................227<br />
Mikùluscka Seljanínovič (Leggenda in versi)............................................253
Abbandono, 69, 142, 211<br />
Aci<strong>di</strong>, 225<br />
Acqua, XXIV, XLI, XLV, 8, 15, 17, 23,<br />
55‐56, 58, 62, 66, 69, 74‐75, 77, 82,<br />
91 sgg., 108, 115, 124 sgg., 139<br />
sgg., 159, 171 sgg., 188 sgg., 208<br />
sgg., 215, 220 sgg., 231 sgg.<br />
Alberi, XV, XLIV, XLIV, 15, 23, 28, 37,<br />
77, 117, 123, 126, 151, 195, 209, 211,<br />
213, 220‐221, 231, 251<br />
Allevare, XLII, 8, 28, 195, 220<br />
Alunni, XI, XXI, XXXIII‐XXXIV,<br />
XXXVII<br />
Amicizia, XII, XXII, XXIII, 154, 166,<br />
173<br />
Amore, VII, XI, XXIX, XXX, 170, 222‐<br />
223, 229<br />
Anima, XXXV, 99, 168, 170, 217, 243<br />
Animali (vari), V, XII, XX, XXXVII,<br />
154, 160, 193, 208‐209, 221, 225<br />
Apparato militare, XXVI<br />
Apparenza, XXV<br />
Aria, XV, XLV, 7, 11, 54, 68, 76, 83, 95,<br />
97‐98, 115, 127‐128, 145 sgg., 158,<br />
172, 174, 189 sgg., 203, 208 sgg.,<br />
242, 247<br />
Autoeducazione (del popolo), XXXIII<br />
Autoritarismo, XXXVII<br />
Avi<strong>di</strong>tà, XIII, XX<br />
Azoto, 209<br />
Ballare, 13, 142<br />
Bambini, V sgg., XXII, XXV, XXI,<br />
XXXIII sgg., 12, 20‐21, 26‐27, 29‐<br />
30, 32‐33, 37 sgg., 70, 120, 147, 162,<br />
165‐166, 168, 232<br />
Belgio, IX<br />
In<strong>di</strong>ce delle tematiche ricorrenti<br />
Bene, XXIV, XXVI, XXXV, XXXVII,<br />
XLII, 11‐12, 21, 25, 35, 38‐39, 41<br />
sgg., 52, 59‐60, 67, 71, 83 sgg., 101,<br />
116, 123 sgg., 132 sgg., 148, 160<br />
sgg., 173, 186, 194, 211, 222, 224,<br />
236<br />
Beneficio, 184 sgg.<br />
Benessere, XIII<br />
Bisogno, XXXIX‐XL, 11, 33, 55, 69,<br />
100, 119, 132, 146, 158, 160, 204,<br />
221, 225, 238<br />
Brigante, XX, XXII, XXIV, XLII, XLIV<br />
29, 98 sgg., 164<br />
Byline, XX<br />
Caccia, XIV, XVIII, XXIII, 12, 70, 115,<br />
121, 148‐149, 150 sgg., 200<br />
Calamita, 84‐85, 226<br />
Calore, XV, XLIII, XLVI, 81 sgg., 98,<br />
145 sgg., 172, 220, sgg.<br />
Cantare, XVI, 19, 23, 141‐142, 217, 244<br />
Carattere popolare, V, XIX‐XX<br />
Carità, 71, 129, 246, 249<br />
Ceti privilegiati, XXVII<br />
Cibo, 136, 149, 196, 203, 221<br />
Cinesi, 23, 28<br />
Civiltà conta<strong>di</strong>na, XL<br />
Colonialismo, XXV<br />
Collera (ve<strong>di</strong> Rabbia), XXIII, 34, 115,<br />
139, 162, 188, 192, 210, 235, 245<br />
Comicità, XII<br />
Complessità, XI, XXXVI<br />
Compassione (ve<strong>di</strong> Pietà), XIX,<br />
XXXVII, 8, 22, 53, 73, 87‐88, 95,<br />
132, 184, 212<br />
Condanna (ve<strong>di</strong> Condannato), XIII,<br />
XIX, XXXVII
XLVIII<br />
In<strong>di</strong>ce delle tematiche ricorrenti<br />
Condannato (ve<strong>di</strong> Condanna), 166, Dolore (ve<strong>di</strong> Sofferenza), XIII, XXIII,<br />
167<br />
XXVI, XXX, 68, 73, 95, 159, 166,<br />
Conformismo, XII<br />
Conoscenza, XXI, XXIV, XXVI<br />
207<br />
Conta<strong>di</strong>ni, VII, IX‐X, XXXV, 14, 64‐65, Educazione, IX, XXV, XXIX, XXXV,<br />
69‐70, 82, 86, 117, 120, 138 sgg.,<br />
XXXVII‐XXXVIII<br />
190, 200, 204‐205, 213‐214, 227, 253 Egiziani, 94<br />
sgg.<br />
Elettricità, 224 sgg.<br />
Contatto, X, XXVII, XXXVIII‐XXXIX, Etica, XXXI, XXXV<br />
85, 226<br />
Esperienza, IX‐X, XVI, XXVIII‐XXIX,<br />
Contentezza (ve<strong>di</strong> Felicità), 13<br />
Convento, 34<br />
XXXIII, XXXVII sgg.<br />
Coraggio, XXVI, 28, 66, 101, 105, 175, Falsità, XII<br />
202<br />
Fame, 62, 68, 99, 121, 133‐134, 222‐<br />
Cosacchi, 29‐30, 101 sgg., 152, 252<br />
223, 228<br />
Coscienza, XXI, XXIV, XXXVII, 184<br />
<strong>Famiglia</strong>, X, XXX, XXXIV, XXXVI,<br />
‐ popolare, XIX<br />
XLV, 69, 139, 142‐143, 163‐164, 166<br />
Covoni, 20, 256<br />
Fantasia, XI, XV, XXXVIII<br />
Cristianesimo, XXXI<br />
Fatica, 61, 71, 75, 86‐87, 105, 184, 201,<br />
Critica sociale, XXXV<br />
240, 244, 246<br />
Crudeltà, XIV, XXI<br />
Fedeltà, XII‐XIII<br />
Cultura, XXV<br />
Felicità (ve<strong>di</strong> Contentezza), XXIII, 89‐<br />
Curiosità, VII, XI, XVI, XXXIX‐XL<br />
90, 173<br />
Festa, 23, 90, 101, 126, 136, 147, 189,<br />
Debito, 69, 235<br />
231<br />
Debolezza, XIII, XXXII, 136<br />
Filosofia, XXXI<br />
De<strong>di</strong>zione, XXIV<br />
Folla, XXV, XXXVI, 103, 130, 134‐135,<br />
Denaro, XXVII, XXXVII‐XXXVIII, 35,<br />
190, 216<br />
38, 53, 56, 68, 122, 130‐131, 133‐ Fortuna, XXIII, XXVII, XLIII, 54, 74,<br />
134, 165<br />
90, 115, 132‐133, 173, 175, 206, 217,<br />
Destino, XXIII‐XXIV, XXX, XXXII,<br />
238<br />
XXXVII, 174, 212, 250, 252<br />
Forza, VII, XIII, XX, XXIII, XXV‐XXVI,<br />
Diavolo, 101, 246<br />
XXXI, XLI, 8, 11, 25, 27, 47‐48, 56,<br />
Dignità, XXI, XXIX, XXXVII<br />
58, 65, 76, 81, 85, 87, 89, 96, 102,<br />
Dio, XXIV, XXXI, XLV, 18‐19, 22, 31,<br />
107, 115, 117, 122, 126, 133‐134,<br />
40 sgg., 69, 100, 104‐105, 117‐118,<br />
137, 157‐158, 165 sgg., 195, 206,<br />
133 sgg., 140, 143, 163, 166, 169‐<br />
208, 223, 232, 246, 248, 250<br />
170, 183, 195, 228, 237, 239, 244, Francia, IX<br />
246, 252 sgg.<br />
Fratellanza, XXV<br />
Disonore, 101<br />
Fumo, 12, 15, 20, 64, 96, 153, 204‐205,
231, 241, 252<br />
Fuoco, 12, 14, 16, 20‐21, 29, 64, 140,<br />
156, 208‐209, 214‐215, 220‐221, 239,<br />
246<br />
Furbizia, 37, 125, 144<br />
Furto (ve<strong>di</strong> Rubare), VI, XXIV,<br />
XXXVII‐XXXVIII, 99<br />
Galli, 125‐126<br />
Gas, XV, XLVI, 208 sgg., 214‐215, 217<br />
Generosità, XXIV<br />
Germania, IX<br />
Ghiaccio, XVII, XLIII, XLV, 9, 13, 78‐<br />
79, 82, 126‐127, 144 sgg., 172, 220<br />
Giappone, 8<br />
Giocare (ve<strong>di</strong> Gioco), 10, 26‐27, 47, 68,<br />
120<br />
Gioco (ve<strong>di</strong> Giocare), V, XV, XVII<br />
Giu<strong>di</strong>zio, XIV, XIX<br />
‐ critico, X<br />
Giustizia, XXI, 59, 130, 218<br />
Governo zarista, IX<br />
Gradualità, VII, XXIX, XXXVI, XL<br />
Guerra,VII, XXII, 52, 122, 132, 154,<br />
177, 191, 228<br />
Gusto, XIX, 28, 118, 160<br />
Idea, XXI‐XXII, XXVII‐XVIII, 55, 57,<br />
64, 121, 156, 246, 248<br />
Ideale, XVIII, XXXV, XXXVII<br />
Idrogeno, 214<br />
Ignoranza, XXV, XXXIII<br />
Impazienza, XVIII<br />
Incen<strong>di</strong>o, XLII, 20<br />
Infanzia, VIII sgg.<br />
Infelicità, XXIII, 173<br />
Ingannare, 153, 195<br />
Ingegnosità, XXVIII<br />
Inghilterra, IX<br />
Ingiustizia, XXXVII<br />
In<strong>di</strong>ce delle tematiche ricorrenti XLIX<br />
Innocente, XXXII, 59, 135, 165, 167<br />
Intelligenza, XXVIII‐XXIX, 29, 192<br />
Interesse, VII, X‐IX, XVI‐XVII<br />
‐ politico, XXI<br />
‐ storico, XXI<br />
Invi<strong>di</strong>a, XIII, 162<br />
Insegnamento, IX, XIX, XXI, XXIV<br />
sgg.<br />
‐ globale, XVI<br />
‐ scientifico, XVI<br />
Ironia, XXVII<br />
Istinto, 213<br />
Istituzione scolastica, X<br />
Istruzione, IX‐X, XXII, XXVI, XXXIII,<br />
XXXVII, 55, 257<br />
Italia, VII, XXVIII, 34, 257<br />
Jasnaja Poljana<br />
‐ rivista, IX‐X, XXVI<br />
‐ scuola, VII, IX‐X, XXI,<br />
XXVIII‐XXIX, XXXIII, XXXVII<br />
Lavoro, VIII, XX, XXVI, 54, 60‐61, 102,<br />
124, 133 sgg., 169, 192, 198, 212,<br />
237<br />
Lavori<br />
‐ forzati, XXXII, 166‐167<br />
‐ manuali, XXXIX<br />
Letteratura, XXVIII<br />
‐ internazionale, VI<br />
‐ per l’infanzia, X<br />
‐ per ragazzi, XXVII, XXIX<br />
‐ russa, XXXV<br />
Libertà, XXXV, XXXVII, 29, 31<br />
Libri, XXIX, XXXII, 55<br />
Limiti della realtà oggettiva, XV, XX<br />
Lirica, XXVIII<br />
Litigare (ve<strong>di</strong> Litigio), 8, 78, 200<br />
Litigio (ve<strong>di</strong> Litigare), 132
L<br />
In<strong>di</strong>ce delle tematiche ricorrenti<br />
Malanimo, 223<br />
241<br />
Malato, 67‐68, 129, 156, 193<br />
Non– violenza, XXV, XXX<br />
Male, XLVI, 15‐16, 20, 29‐30, 35, 62,<br />
69, 87, 90‐91, 99, 101, 105, 115, 123‐ Olfatto, XLV, 160‐161<br />
124, 129, 135, 138, 144, 166, 192 Omici<strong>di</strong>o, XXVI, XXXII<br />
sgg., 197, 205, 218, 222‐223, 229, Onore, 23<br />
236, 239, 245, 250<br />
Orco, 38 sgg.<br />
Mare, XLI, 9, 17, 58, 62, 77 sgg., 85, 91, Or<strong>di</strong>ne, XIV, XVI, 100, 109, 148, 157,<br />
95‐96, 108, 132, 173 sgg., 188, 217,<br />
171<br />
219<br />
‐ <strong>di</strong> liberazione, XXXII<br />
Matrimonio (ve<strong>di</strong> Sposalizio), 44<br />
‐ estetico, XXIX<br />
Metodo<br />
‐ morale, XXIX<br />
‐ educativo tolstojano, XXIX Orgoglio, XX<br />
‐ della sperimentazione, XVI Oro, XLII‐XLIII, 24, 39‐40, 68‐69, 74,<br />
‐ dell’osservazione, XVI<br />
79‐80, 107, 118, 130, 174, 179, 192‐<br />
Militare, XIV, XXVI<br />
193, 226‐227, 250<br />
Miracolo, 104, 203<br />
Mito, XX‐XXI<br />
Ossigeno, 208 sgg.<br />
Mondo, VII, IX, XIII, XVII sgg., Pace, VII<br />
XXXII, XXXIV, XLVI, 9, 17, 19, 24, Patriottismo, XXV<br />
70, 89‐90, 103, 105, 132 sgg., 142, Paura (ve<strong>di</strong> Spavento), XVI, XIX,<br />
186, 222‐223<br />
XXIV‐XXV, XLII, 12, 18, 22, 30, 53,<br />
‐ alternativo, XV<br />
66, 74, 78, 90, 117‐118, 134, 137‐<br />
‐ attuale, XL<br />
138, 151‐152, 155, 160, 163‐164, 174<br />
‐ classico, V, XIX<br />
sgg., 194, 207, 214, 216, 222‐223,<br />
‐ conta<strong>di</strong>no, XXVI<br />
235, 245, 248‐249<br />
‐ degi adulti, XXXVII<br />
Pazzia, 165<br />
‐ greco, XII<br />
Pedagogia, VII, XXXII<br />
‐ infantile, XXXIII<br />
‐ tolstojana, VI, XI, XXIX,<br />
Morale, XXIV sgg., XXIX‐XXXI<br />
XXXII<br />
Morte, V, XIV‐XV, XX‐XXI, XXIII, Perdono, XXIV, 88, 53, 170<br />
XXX, XXXII, XXXIV, XLIV, 35, 71, Piangere (ve<strong>di</strong> Pianto), 8, 10, 13, 17,<br />
94‐95, 99, 104, 121, 125, 132, 134,<br />
20‐21, 26, 33, 35, 37‐38, 68, 73‐74,<br />
169, 211, 224‐225<br />
91, 94‐95, 99, 104, 120, 136 sgg.,<br />
Movimento, 51, 76, 147, 203, 220 sgg.<br />
142, 144, 170, 187, 212, 223, 226‐<br />
227, 250‐251<br />
Natura, XIII, XVI, XXXI, XXXIV, 81, Pianto (ve<strong>di</strong> Piangere), XXXIV, 95,<br />
127, 220<br />
140, 142<br />
Neve, XVII, 9, 34, 82, 117, 119‐120, Pietà (ve<strong>di</strong> Compassione), XXI, XXIII‐<br />
123, 156, 166, 172, 200 sgg., 220,<br />
XXIV, 9, 99, 166, 184, 223, 226
Pigrizia, XIX, XXVII<br />
Pioggia, 77, 104, 127, 220, 238, 248<br />
Poesia epica, XXVIII<br />
Poeticità, XVII‐XVIII<br />
Popolo, X, XIX, XXV‐XXVI, XXXIII,<br />
XXXVII, 23, 31, 59, 83, 102, 162‐<br />
163, 168, 244<br />
Potere, XX‐XXI, XXIV sgg., XXXIV<br />
Povero, 9, 33‐34, 37, 46, 68‐69, 90, 121‐<br />
122, 183<br />
Prigioniero, XVIII, XXV, XLVI, 52, 95,<br />
106, 227<br />
Promessa, XX, 137<br />
Prospettiva, XXVI, 3<br />
Pubblico, IX, XVIII<br />
Punizione, XIII, XXXVII<br />
Quoti<strong>di</strong>anità, XVIII<br />
Rabbia (ve<strong>di</strong> Collera), XIII, XIV,<br />
XXXII, 54, 156, 159, 187, 223<br />
Realismo, VII, XI, XIV, XXXIX, 257<br />
‐ artistico, XIII<br />
‐ tolstojano, XXIX<br />
Regole, 248<br />
Religione, V, XXXI<br />
Ricchezza interiore, XIII<br />
Ricco, XXXVIII, 9, 33‐34, 68‐69, 73, 90,<br />
95, 122, 132, 173, 183, 236<br />
Ricordo, 10, 29, 126, 139, 142, 202<br />
Rimpianto, XXVIII, XXX<br />
Roma, XXI, XLIV‐XLV, 125‐126, 162‐<br />
163<br />
Romani, 125‐126<br />
Rubare (ve<strong>di</strong> Furto), XXXVIII, 7, 15,<br />
99, 101<br />
Rumore, 18, 32, 51, 157, 160, 170, 203,<br />
205, 216, 242 sgg., 251<br />
Russia, 40 sgg., 58, 78, 101, 106‐107,<br />
156‐157, 175, 177<br />
In<strong>di</strong>ce delle tematiche ricorrenti LI<br />
Sapienza popolare, XIX<br />
Scienza, XI, XV‐XVI, XXXII, XXXVIII‐<br />
XXXIX, 258<br />
‐ pedagogica, XXXVI<br />
‐ ufficiale, XXVI<br />
Sconfitta, XIII<br />
Scuola, X, XXVIII, XXXVI, XXXIX<br />
Scuole popolari, IX<br />
Semplicità<br />
‐ d’espressione, XI, XVIII, XII,<br />
XXX<br />
‐ d’animo, XX<br />
Sensibilità, XXXIX<br />
‐ illuministica, XV<br />
Senso comune, XXXVIII‐XXXIX<br />
Servizio militare, XXVI<br />
Sentimenti, V, XII sgg., XXIII, XXXII<br />
Sfortuna, XXIII, 175<br />
Siberia, XXXII, 53, 103, 105, 166‐167<br />
Silenzio, 107, 120, 130, 135, 137, 174,<br />
188, 203, 205, 236, 242, 244, 249,<br />
251<br />
Sogno, XXXVI, 13, 136, 139, 163‐164,<br />
174<br />
Sofferenza (ve<strong>di</strong> Dolore), XIII, XXVI,<br />
XXX, XXXVIII<br />
Solidarietà, XXIII, XXVI<br />
Spavento (ve<strong>di</strong> Paura), XVI, 103, 187‐<br />
188, 205, 223, 245<br />
Spirito, XLIV, XLVI, 91, 215, 226‐227<br />
Sposalizio (ve<strong>di</strong> Matrimonio), 54, 118,<br />
141<br />
Stratagemma, XV, XX<br />
Storia, V, XX, XXI, XXXII, XXIII,<br />
XXIV, XXX<br />
‐ antica, VI<br />
‐ delle dottrine religiose, XXXI<br />
‐ moderna, VI<br />
‐ russa, XXII, XLIV, 100<br />
Stu<strong>di</strong>o, 175
LII<br />
In<strong>di</strong>ce delle tematiche ricorrenti<br />
‐ dei problemi scolastici, IX<br />
Velocità, XIII, XLI, 11, 96<br />
Stupore, XII<br />
Vendetta, XXI, XXV, XXXII, 169<br />
Suici<strong>di</strong>o, XXIV<br />
Vento, XVII, XXV, XLIII, 17, 19, 24,<br />
Superstizione, XIX<br />
27, 41, 51, 55, 63, 75 sgg., 82‐83, 95,<br />
Soldato (ve<strong>di</strong> Militare), XXXIV,<br />
183, 201, 216‐217, 220‐221<br />
XXXVI, XLV, 35, 139, 142, 166, Vergogna, 17, 115, 138<br />
170, 234, 236<br />
Verità, XI, XVIII, XXV, XXXI‐XXXII,<br />
Svizzera, IX, 34<br />
XXXV, XLV, 47, 53, 89, 110, 129,<br />
131, 163, 166, 170, 185, 219<br />
Tartari, 100 sgg., 227 sgg., 233, 237 Viaggio, IX, XXII, XXXVI, 29, 33, 85,<br />
sgg.<br />
106, 132, 164, 167, 228<br />
Tatto, 56, 160<br />
Violenza, XVI, XXIV<br />
Teologia dogmatica, XXXI<br />
Vista, 150, 155‐156, 160, 162, 178, 188,<br />
Teoria<br />
201, 204‐205, 215‐216, 229<br />
‐ pedagogica, XI<br />
Vita, IX, XIV‐XV, XVII sgg., XXIV‐<br />
‐ gnoseologica, XXXVIII<br />
XXV, XXVI, XXX sgg., XLV, 35, 38,<br />
Teorie educative, X<br />
53‐54, 65‐66, 73, 80, 85, 90‐91, 115‐<br />
116, 112‐123, 139‐140, 142, 159,<br />
U<strong>di</strong>to, 160<br />
166, 173, 178, 191, 202, 204, 211,<br />
Umi<strong>di</strong>tà, XV, XLIV, 126‐127<br />
222‐223, 230, 247‐248, 257<br />
Umiltà, XXX, XXXIII<br />
‐ familiare, XIII<br />
Vapori acquei, 209<br />
Vecchiaia (ve<strong>di</strong> Vecchio), 95, 129, 168,<br />
219<br />
Volontà, X‐XI, XIX, XXXI, XXXVII, 81,<br />
118, 132<br />
Vecchio (ve<strong>di</strong> Vecchiaia), XXX,<br />
XXXVII, XLII, XLIV, XLVI, 16‐17,<br />
24, 45, 52, 58, 60, 65, 69, 83, 85‐86,<br />
96, 99, 103, 120, 125, 139, 155‐156,<br />
158, 160, 167, 169‐170, 179, 185,<br />
190, 193‐194, 211, 213, 219‐220,<br />
239, 247‐248
Lev Nicolaevič Tolstoj<br />
I quattro libri <strong>di</strong> lettura
Avvertenza<br />
Fra le numerose e<strong>di</strong>zioni italiane dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura, per il testo se‐<br />
guente si è deciso <strong>di</strong> utilizzare l’e<strong>di</strong>zione Einau<strong>di</strong> del 1994, a cura <strong>di</strong> Pier Cesare<br />
Bori, con la traduzione <strong>di</strong> Agostino Villa. Tale scelta è motivata non solo<br />
dall’esigenza <strong>di</strong> avvalersi <strong>di</strong> un’e<strong>di</strong>zione il più possibile vicina nel tempo, ma<br />
soprattutto dall’autorità dei curatori, garanzia della qualità della pubblicazione<br />
presa in considerazione. Nel rispetto <strong>di</strong> tale autorità, si è deciso <strong>di</strong> non mo<strong>di</strong>fi‐<br />
carne le <strong>di</strong>mensioni e<strong>di</strong>toriali e grafiche, anche nella prospettiva <strong>di</strong> ulteriori ri‐<br />
scontri dal testo russo.
Primo libro <strong>di</strong> lettura
La formica e la colomba 123 .<br />
(Favola).<br />
Una formica s’inoltrò sulla sponda d’un fiumicello: aveva voglia <strong>di</strong><br />
bere. Un’onda la investì, e per poco non la fece annegare. Passava una<br />
colomba, portando nel becco un ramoscello: vide la formica che annega‐<br />
va, e le lanciò il ramoscello nell’acqua. La formica si mise a cavallo del<br />
ramoscello, e così fu salva.<br />
Più tar<strong>di</strong> un cacciatore tese la rete per prendere quella colomba, e sta‐<br />
va già sul punto <strong>di</strong> fargliela richiudere sopra. La formica, avvicinandosi<br />
al cacciatore, gli morse una gamba; il cacciatore sussultò e si fece sfuggi‐<br />
re dalle mani la rete.<br />
La colomba frullò in aria e volò lontano.<br />
Il cieco e il sordo.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Un cieco e un sordo andarono in un campo a rubare i piselli. Il sordo<br />
<strong>di</strong>sse al cieco: – Tu tieni ben dritte le orecchie, e dì a me tutto quello che<br />
senti; io baderò a guardare, e ti <strong>di</strong>rò tutto quello che vedo.<br />
Così entrarono in quella piantagione <strong>di</strong> piselli, e ci si accoccolarono in<br />
mezzo. Il cieco tastò i piselli e <strong>di</strong>sse: – Che bei baccelli pieni! – Il sordo<br />
rispose: – Che cosa, i carabinieri? – Il cieco inciampo’ in un fossetto, e<br />
cadde. – Che c’è? – domandò il sordo. Il cieco rispose: – C’è un fosso! – Il<br />
sordo <strong>di</strong>sse: – Ci vengono addosso? – e via a gambe levate. E il cieco,<br />
<strong>di</strong>etro.<br />
La tartaruga e l’aquila.<br />
(Favola).<br />
La tartaruga chiese all’aquila che le insegnasse a volare. L’aquila la<br />
sconsigliò, <strong>di</strong>cendo che non era roba per lei: ma la tartaruga insisteva.<br />
Allora l’aquila la prese fra gli artigli, la sollevò in aria, e poi la lasciò.<br />
La tartaruga cadde giù fra le pietre, e si fracassò in cento pezzi.<br />
123 Le <strong>di</strong>stinzioni che seguono ai titoli sono <strong>di</strong> Tolstoj.
8<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il trovatello.<br />
(Racconto dal vero).<br />
C’era una donna povera, che aveva una figlia <strong>di</strong> nome Marietta. Ma‐<br />
rietta, una mattina, uscì da casa per prendere l’acqua, e vide per terra, <strong>di</strong><br />
fuori alla porta, un involto <strong>di</strong> stracci. Marietta posò la secchia e svoltolò<br />
gli stracci. Mentre toccava quegli stracci, sentì che ne usciva una voce:<br />
uà! uà! uà!<br />
Marietta ci si chinò sopra, e vide che c’era un bambino piccolo picco‐<br />
lo, rosso rosso. Il bambino gridava forte: uà! uà! Marietta se lo prese fra<br />
le braccia, lo portò dentro casa, e si mise a dargli, con un cucchiaino, un<br />
po’ <strong>di</strong> latte.<br />
La madre le <strong>di</strong>sse: — E che m’hai portato in casa? — Marietta rispose:<br />
— Un bambino piccino: l’ho trovato qua davanti alla porta! — La<br />
madre <strong>di</strong>sse: — Siamo già tanto poveri, non possiamo mica allevare an‐<br />
che un bambino: andrò a denunciarlo alle autorità, che se lo prendano<br />
loro.<br />
Marietta si mise a piangere, e <strong>di</strong>sse: — Mammina, lui mangerà tanto<br />
poco, lascia che stia con noi! Guarda com’è carino con queste manine<br />
rosse, tutte grinzose, e con questi <strong>di</strong>tini!<br />
La madre lo guardò meglio, e sentì compassione. Decise che il bam‐<br />
bino sarebbe rimasto in casa loro.<br />
E Marietta gli dava da mangiare e gli cambiava le fasce, e gli cantava<br />
le canzoncine quando doveva dormire.<br />
La testa e la coda del serpente.<br />
(Favola).<br />
La coda del serpente si mise a litigare con la testa, a chi delle due toc‐<br />
casse andare innanzi per prima. La testa <strong>di</strong>ceva: — Tu non puoi andare<br />
innanzi per prima: non hai occhi e non hai orecchie! — La coda <strong>di</strong>ceva:<br />
— In compenso, però, la forza sta in me: sono io che ti muovo; se mi<br />
viene il capriccio <strong>di</strong> arrotolarmi intorno a un albero, tu non ti sposti più!<br />
Disse la testa: — Dunque, <strong>di</strong>vi<strong>di</strong>amoci!<br />
E la coda si staccò dalla testa, e incominciò a strisciare in avanti. Ma,<br />
appena si fu scostata dalla testa, s’imbatté in un crepaccio, e là dentro<br />
sprofondò.
Primo libro <strong>di</strong> lettura 9<br />
La pietra.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Un povero giunse alla casa d’un ricco, e si mise a chiedere<br />
l’elemosina. Il ricco non gli <strong>di</strong>ede nulla, e gli <strong>di</strong>sse: — Và via! — Ma il<br />
povero non se ne andava. Allora il ricco s’infuriò, raccolse una pietra e la<br />
gettò addosso al povero. Il povero raccolse la pietra, la mise nella bisac‐<br />
cia e <strong>di</strong>sse: — Porterò questa pietra fino a tanto che non venga anche per<br />
me il momento <strong>di</strong> gettarla addosso a lui.<br />
E quel momento venne. Il ricco commise una mala azione; gli fu tolto<br />
tutto ciò che possedeva, e fu condotto in prigione. Mentre lo conduceva‐<br />
no in prigione, il povero gli s’avvicinò, cavò fuori dalla bisaccia la pietra,<br />
e fece per tirarla: poi rifletté, lasciò cadere la pietra, e <strong>di</strong>sse: — Inutilmen‐<br />
te ho portato per tanto tempo questa pietra: quando era ricco e potente,<br />
io lo temevo; ma ora, mi fa pietà.<br />
Gli Eschimesi.<br />
(Descrizione).<br />
Al mondo c’è una terra, dove per tre mesi soltanto fa estate, e tutto il<br />
resto dell’anno fa inverno. D’inverno le giornate sono così corte, che ap‐<br />
pena il sole s’affaccia, subito tramonta. E per tre mesi, proprio nel cuore<br />
dell’inverno, il sole non si leva affatto, e per quei tre mesi è sempre buio.<br />
In questa terra vivono degli uomini: essi si chiamano Eschimesi. Que‐<br />
sti uomini parlano una lingua loro, non capiscono altre lingue, e non si<br />
recano mai fuori della loro terra. Di statura gli Eschimesi sono poco alti,<br />
ma la testa l’hanno molto grossa. Hanno il corpo non bianco, ma marro‐<br />
ne, i capelli neri e ruvi<strong>di</strong>. Hanno nasi sottili, zigomi larghi, occhi piccoli‐<br />
ni. Gli Eschimesi abitano in case <strong>di</strong> neve. Essi le costruiscono così: ta‐<br />
gliano nella neve tanti blocchi, e con questi compongono la casa, come<br />
quando si monta una stufa. Al posto dei vetri incastrano nei muri lastre<br />
<strong>di</strong> ghiaccio, e al posto della porta fanno una lunga galleria sotto la neve,<br />
e per questa galleria strisciano fin dentro alla casa. Quando sopravviene<br />
l’inverno, le loro case restano seppellite interamente dalla neve, e dentro<br />
ci fa un bel caldo. Si cibano, questi Eschimesi, <strong>di</strong> cervi, <strong>di</strong> lupi, d’orsi<br />
bianchi. Prendono il pesce dal mare con bastoni forniti d’uncini e con re‐<br />
ti. La selvaggina la uccidono con frecce e con lance. Gli Eschimesi man‐<br />
giano, come le bestie, la carne cruda. Essi non hanno né lino né canapa,
10<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
da farci camicie e corde, e nemmeno la lana, da farci le stoffe: le corde se<br />
le fanno coi nervi delle bestie, e i vestiti con le pelli.<br />
Accostano insieme due pelli col pelo all’indentro, ci fanno i buchi con<br />
una lisca <strong>di</strong> pesce, e le cuciono coi nervi. In questo modo fanno camicie,<br />
calzoni e stivali. Non conoscono nemmeno il ferro. Per fare le lance e le<br />
frecce adoperano gli ossi. Preferiscono a ogni altra cosa mangiare il gras‐<br />
so delle bestie e dei pesci. Donne e uomini vanno vestiti nello stesso<br />
modo; le donne, però, portano certi stivaloni larghissimi. Nei larghi<br />
gambali <strong>di</strong> questi stivaloni esse infilano i figliolini da latte, e così li por‐<br />
tano.<br />
Nel cuore dell’inverno gli Eschimesi hanno tre mesi <strong>di</strong> buio. Ma<br />
quando viene l’estate, il sole non ci tramonta mai, e non fa mai notte.<br />
La puzzola.<br />
(Favola).<br />
Una puzzola s’intrufolò nella bottega d’un calderaio, e si mise a lecca‐<br />
re una lima. Dalla lingua cominciò a uscire il sangue, ma la puzzola si<br />
rallegrò: seguitò a leccare, credendo che fosse il ferro a far sangue. Così<br />
si rovinò tutta la lingua.<br />
La zia racconta come imparò a cucire.<br />
(Racconto).<br />
Quando io avevo sei anni, pregai la mamma che mi facesse cucire. Lei<br />
mi <strong>di</strong>sse: — Tu sei piccola ancora, ti pungeresti le <strong>di</strong>ta e nient’altro —;<br />
ma io insistevo sempre. Allora la mamma tirò fuori dal baule una pez‐<br />
zetta rossa, e me la <strong>di</strong>ede; poi infilò nell’ago un filo rosso, e mi fece ve‐<br />
dere come dovevo tenerlo. Io mi misi a cucire, ma non riuscivo a fare i<br />
punti uguali: un punto mi veniva troppo grande, un altro m’andava a<br />
finire proprio all’orlo, e sbucava dall’altra parte. Poi mi punsi un <strong>di</strong>to, e<br />
cercavo <strong>di</strong> non piangere, ma la mamma mi domandò: — Che hai? — e<br />
così io non potei più frenarmi, e scoppiai a piangere. Allora la mamma<br />
mi mandò a giocare.<br />
Quando andai a letto, sempre negli occhi mi ballavano quei punti:<br />
stavo sempre a pensare in che modo potevo imparar presto a cucire, e<br />
mi pareva tanto <strong>di</strong>fficile, che non avrei imparato mai. E invece, ora che<br />
sono <strong>di</strong>ventata grande, non mi ricordo neppure come imparai a cucire: e
Primo libro <strong>di</strong> lettura 11<br />
quando insegno a cucire alla mia figliolina, mi meraviglio che non sap‐<br />
pia tenere l’ago.<br />
Fili sottili.<br />
(Favola).<br />
Un tale or<strong>di</strong>nò a una filatrice fili sottili. La filatrice filò i fili sottili, ma<br />
l’uomo <strong>di</strong>sse che quei fili non andavano bene, e che lui aveva bisogno <strong>di</strong><br />
fili straor<strong>di</strong>nariamente sottili. La filatrice <strong>di</strong>sse: — Se questi non ti sem‐<br />
brano sottili, eccone qui degli altri, — e gli faceva segno a mezz’aria.<br />
Quello <strong>di</strong>sse che non vedeva nulla. La filatrice <strong>di</strong>sse: — Appunto non<br />
li ve<strong>di</strong>, perché sono straor<strong>di</strong>nariamente sottili: nemmeno io riesco a ve‐<br />
derli.<br />
Lo sciocco fu tutto contento, e or<strong>di</strong>nò altri fili così; e intanto comperò<br />
quelli a suon <strong>di</strong> moneta.<br />
La velocità fa la forza.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Una volta un treno avanzava a grande velocità sulla strada ferrata. E<br />
proprio sulla strada ferrata, a un passaggio a livello, stava fermo un ca‐<br />
vallo attaccato a un carro pesante. Il conta<strong>di</strong>no non riusciva a smuovere<br />
il carro, perché una ruota <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro era saltata via. Il capotreno gridò al<br />
macchinista: — Frena! — ma il macchinista non gli <strong>di</strong>ede retta. Egli ave‐<br />
va compreso che il conta<strong>di</strong>no non poteva né spostare in avanti il cavallo<br />
col carro, né farlo rigirare in<strong>di</strong>etro, e che la macchina, così <strong>di</strong> colpo, non<br />
si poteva fermare. Quin<strong>di</strong> non cercò <strong>di</strong> fermarla, ma anzi lanciò la mac‐<br />
china alla massima velocità, e a tutto vapore s’avventò sul carro. Il con‐<br />
ta<strong>di</strong>no, <strong>di</strong> corsa, s’era scostato dal carro, e la macchina fece schizzar via<br />
dai binari carro e cavallo come una scheggia: ma essa non ne fu scossa, e<br />
seguitò a correre oltre.<br />
Allora il macchinista <strong>di</strong>sse al capotreno: — Ora noi abbiamo ammaz‐<br />
zato soltanto un cavallo, e abbiamo fracassato un carretto: ma se avessi<br />
dato retta a te, ci saremmo ammazzati anche noi, e avremmo massacrato<br />
tutti i passeggeri. A grande velocità, abbiamo fatto schizzar via il carro e<br />
non abbiamo risentito l’urto; ma a piccola velocità, saremmo stati noi a<br />
schizzar fuori dai binari.
12<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il leone e il topolino.<br />
(Favola).<br />
Il leone dormiva. Un topolino gli corse su per il corpo. Quello si sve‐<br />
gliò e lo acchiappo’. Il topolino cominciò a pregare che lo lasciasse; <strong>di</strong>ce‐<br />
va: — Se tu mi lasci, vedrai che io ti farò del bene —. Il leone si mise a<br />
ridere, a sentire che il topolino prometteva <strong>di</strong> fargli del bene; e lo lasciò<br />
andare.<br />
Più tar<strong>di</strong>, certi cacciatori acchiapparono il leone, e lo legarono con<br />
una fune a un albero. Il topolino udì il leone che ruggiva, accorse, rosicò<br />
la fune torno torno, e <strong>di</strong>sse: — Ti ricor<strong>di</strong>? Tu ridevi, non credevi che io<br />
potessi farti del bene; ma ora lo ve<strong>di</strong>: anche da un topolino si può riceve‐<br />
re del bene.<br />
I cani dei pompieri.<br />
(Racconto dal vero).<br />
In città, quando scoppiano gl’incen<strong>di</strong>, vi sono spesso dei bambini che<br />
rimangono dentro le case, e non si riesce a tirarli in salvo, perché essi,<br />
dalla paura, stanno rimpiattati zitti zitti, e tra il fumo non si riesce a <strong>di</strong>‐<br />
stinguerli. Per questo, a Londra, ammaestrano apposta certi cani. Questi<br />
cani stanno sempre coi pompieri, e quando va a fuoco una casa, subito i<br />
pompieri mandano i cani a scovare i bambini. Uno <strong>di</strong> questi cani, a Lon‐<br />
dra, salvò do<strong>di</strong>ci bambini: aveva nome Bob.<br />
Un giorno, una casa aveva preso fuoco, e quando i pompieri arriva‐<br />
rono là, corse fuori incontro a loro una donna. Essa piangeva e <strong>di</strong>ceva<br />
che in casa c’era rimasta una bambinetta <strong>di</strong> due anni. I pompieri manda‐<br />
rono Bob. Bob corse su per le scale e sparì tra il fumo. Cinque minuti<br />
dopo, Bob sbucava fuori dalla casa, e fra i denti reggeva la bambinetta<br />
per la camicina. La madre si slanciò sulla figlia, e piangeva dalla gioia<br />
che la figlia era viva. I pompieri si misero a carezzare il cane e ad osser‐<br />
varlo, se aveva qualche scottatura: ma Bob si <strong>di</strong>vincolò, come per tornare<br />
dentro la casa. I pompieri pensarono che nella casa ci fosse ancora qual‐<br />
che persona, e lo lasciarono andare.<br />
Il cane corse dentro la casa e, un momento dopo, scappo’ fuori con<br />
una cosa fra i denti. Quando la gente vide che cosa aveva portato, tutti<br />
scoppiarono a ridere: aveva portato una grossa bambola.
Primo libro <strong>di</strong> lettura 13<br />
La scimmia.<br />
(Favola).<br />
Un uomo andò al bosco, abbatté un albero e si preparò a segarlo. Sol‐<br />
levò un capo dell’albero su un ceppo, ci si mise a cavalcioni, e cominciò<br />
a segare. Poi conficcò una zeppa nel punto dov’era arrivato con la sega,<br />
e riprese a segare più innanzi. Segò un buon tratto, cavò fuori la zeppa, e<br />
la collocò ancora più innanzi.<br />
Una scimmia, dalla cima d’un albero, stava a guardare. Quando<br />
l’uomo si coricò per dormire, la scimmia venne a mettersi a cavalcioni<br />
dell’albero, e voleva fare tutto come lui: ma appena essa cavò la zeppa,<br />
l’albero si rinserrò, e la imprigionò per la coda. La scimmia cominciò a<br />
<strong>di</strong>menarsi e a gridare. L’uomo si svegliò, bastonò la scimmia e la legò a<br />
una fune.<br />
Un ragazzo racconta d’una volta che non lo portarono in città.<br />
(Racconto).<br />
Il babbo si preparava per andare in città; io gli <strong>di</strong>ssi: — Babbino, por‐<br />
tami insieme con te! — Ma lui mi <strong>di</strong>sse: — Tu moriresti <strong>di</strong> freddo: dove<br />
vuoi andare? — Io mi voltai dall’altra parte, scoppiai a piangere e me<br />
n’andai nello sgabuzzino. Piansi, piansi, e finì che m’addormentai. Ed<br />
ecco che, in sogno, mi pare <strong>di</strong> vedere quella stradella che dal nostro pae‐<br />
se porta alla chiesa, e mi pareva che per questa stradella ci camminasse il<br />
babbo. Io lo arrivai, e tutt’e due insieme ci avviammo verso la città. Io<br />
cammino, e vedo come se <strong>di</strong>nanzi a noi ci fosse un forno acceso. Dico: —<br />
Babbino, è quella la città? — E lui: — Proprio quella —. Poi arrivam‐<br />
mo dov’era il forno, e mi pareva che là ci cuocessero le frittelle. Io <strong>di</strong>co:<br />
— Comprami una frittellina! — Lui me la comperava e me la dava.<br />
Allora io mi svegliai, m’alzai, m’infilai le scarpe, pigliai i guantoni e<br />
uscii sulla strada. Sulla strada i ragazzi facevano a scivolare sulla neve<br />
coi blocchi <strong>di</strong> ghiaccio e con le slitte. Io mi misi con loro a scivolare, e<br />
scivolai finché non mi fui intirizzito. Ero appena tornato in casa e m’ero<br />
arrampicato sulla stufa, sento il babbo che torna dalla città. Tutto conten‐<br />
to, gli salto incontro e gli <strong>di</strong>co: — Babbino, me l’hai comprata qualche<br />
frittellina? — Lui mi <strong>di</strong>ce: — Te l’ho comprata —. E mi <strong>di</strong>ede le frittelle.<br />
Io saltai sulla panca e mi misi a ballare dalla contentezza.
14<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il bugiardo.<br />
(Favola).<br />
Un ragazzo badava le pecore e, come se avesse visto il lupo, cominciò<br />
a gridare: — Aiuto, il lupo, il lupo! — I conta<strong>di</strong>ni corsero, e videro che<br />
non c’era niente <strong>di</strong> vero.<br />
Ancora due o tre volte il ragazzo fece così, finché per davvero, un<br />
giorno, sbucò fuori il lupo. Il ragazzo si mise a gridare: — Qua, qua, fate<br />
presto, il lupo! — I conta<strong>di</strong>ni credettero che anche stavolta facesse per<br />
finta, al solito suo, e non gli <strong>di</strong>edero retta. Il lupo s’avvide che non c’era<br />
niente da temere: comodo comodo, sgozzò tutto il gregge.<br />
Come fu raggiustata una casa a Parigi.<br />
(Racconto dal vero).<br />
I muri d’un grande palazzo s’erano scostati uno dall’altro. Si comin‐<br />
ciò a cercare un modo <strong>di</strong> riportarli a posto senza demolire il tetto. E ci fu<br />
un uomo che trovò il modo. Piantò nei muri, da un lato e dall’altro, degli<br />
anelli <strong>di</strong> ferro; poi fabbricò, pure <strong>di</strong> ferro, una sbarra, che era un po’<br />
troppo corta per arrivare da un anello all’altro: mancavano cinque cen‐<br />
timetri. Poi incurvò i due capi della sbarra a forma d’uncino, in modo<br />
che gli uncini potessero entrare negli anelli. Finalmente, arroventì la<br />
sbarra sul fuoco: essa si <strong>di</strong>latò, e venne a stendersi da un anello all’altro.<br />
Allora l’uomo la assicurò coi due uncini dentro gli anelli, e la lasciò<br />
stare così. La sbarra tornò a freddarsi e a ritirarsi, e fece ricombaciare i<br />
muri.<br />
L’asino e il cavallo.<br />
(Favola).<br />
C’era un uomo che aveva un asino e un cavallo. Mentre camminava‐<br />
no insieme per la strada, l’asino <strong>di</strong>sse al cavallo: — Quanto fatico, non<br />
posso portare più tutta questa roba, pren<strong>di</strong>mi tu qualche cosa! — Il ca‐<br />
vallo non gli <strong>di</strong>ede retta. L’asino cadde a terra dallo sforzo, e morí.<br />
Quando il padrone ebbe caricato tutta la roba dell’asino sul cavallo, e<br />
per giunta anche la pelle dell’asino, allora il cavallo gemette: — Oh <strong>di</strong>‐<br />
sgraziato me, come sono nato sfortunato! Non ho voluto dare un piccolo
Primo libro <strong>di</strong> lettura 15<br />
aiuto al mio compagno, ed ecco che adesso porto io la roba <strong>di</strong> tutt’e due,<br />
e per giunta la sua pelle!<br />
Un ragazzo racconta come, nel bosco, lo colse il temporale.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Quando io ero piccolo, mi mandarono al bosco per funghi. Io mi<br />
spinsi nel bosco, raccolsi i funghi e feci per tornarmene a casa. D’im‐<br />
provviso si rabbuiò, cominciò a piovere e a tuonare. Io mi spaventai, e<br />
mi appostai sotto una grande quercia. Sfolgorò una saetta così forte, che<br />
gli occhi mi fecero male, e li serrai. Sopra <strong>di</strong> me risonò uno schianto e un<br />
tuono; poi un non so che mi colpì alla testa. Io cad<strong>di</strong>, e restai per terra<br />
finché non smise <strong>di</strong> piovere. Quando riaprii gli occhi, per tutto il bosco<br />
gocciava acqua dagli alberi, cantavano gli uccelletti, e brillava un bel so‐<br />
le. La grande quercia era schiantata, e buttava fumo. Intorno a me stava‐<br />
no sparsi tanti scheggioni <strong>di</strong> legno <strong>di</strong> quercia. Il mio vestito era tutto<br />
molle e appiccicato alla pelle; sulla testa avevo un bernoccolo, e mi face‐<br />
va un po’ male.<br />
Quand’ebbi ritrovato il mio cappello, agguantai i funghi e corsi a ca‐<br />
sa. A casa non c’era nessuno: io presi sul tavolo un pezzetto <strong>di</strong> pane, e<br />
m’arrampicai sulla stufa. Quando mi svegliai, vi<strong>di</strong>, lassù dalla stufa, che<br />
avevano arrostito i funghi, li avevano portati in tavola, e già stavano per<br />
mangiarli. Io gridai: — Perché mangiate senza <strong>di</strong> me? – Loro mi <strong>di</strong>ssero:<br />
– E tu, perché dormi? Sbrigati, vieni a mangiare.<br />
La cornacchia e i piccioni.<br />
(Favola).<br />
Una cornacchia s’avvide che i piccioni avevano buoni pasti: si finse<br />
tutta <strong>di</strong> bianco, e volò alla piccionaia. I piccioni credettero, lì per lì, che<br />
fosse un piccione come loro, e la lasciarono entrare. Ma la cornacchia si<br />
scordò chi era, e si mise a gridare come tutte le cornacchie. Allora i pic‐<br />
cioni cominciarono a canzonarla, e la cacciarono via. La cornacchia se ne<br />
volò un’altra volta fra le compagne; ma le cornacchie si spaventarono<br />
quando la videro bianca: e anche loro la cacciarono via.
16<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il conta<strong>di</strong>no e i cocomeri.<br />
(Favola).<br />
Una volta un conta<strong>di</strong>no andò in un orto a rubare i cocomeri. Adagio<br />
adagio, s’avvicina ai cocomeri, e pensa: «Se posso portar via un sacco <strong>di</strong><br />
cocomeri, me li vendo: con quello che incasso, mi ci compro una gallinel‐<br />
la. La gallina mi farà le uova, le coverà, mi porterà alla luce un branco <strong>di</strong><br />
pulcini. Io li alleverò, li venderò, e comprerò una troietta: la troia mi fi‐<br />
glierà tanti porcellini. Venderò i porcellini, e comprerò una cavallina: la<br />
cavallina mi figlierà tanti puledrini. Alleverò i puledrini, e li venderò:<br />
comprerò una casa, e pianterò un bell’orto. Pianterò un bell’orto, ci col‐<br />
tiverò i cocomeri, e non lascerò che me li rubino, ci farò fare buona guar‐<br />
<strong>di</strong>a. Prenderò dei guar<strong>di</strong>ani, li porrò a bada dei cocomeri, e io stesso, o‐<br />
gni tanto, ci verrò <strong>di</strong> soppiatto, e darò un grido: “Ohé, fate buona guar‐<br />
<strong>di</strong>a!”»<br />
Il conta<strong>di</strong>no s’era talmente ingolfato nei suoi pensieri, da scordarsi<br />
completamente che si trovava nell’orto d’un altro, e gridò a squarciagola<br />
quelle parole. I guar<strong>di</strong>ani sentirono, saltarono fuori e presero il conta<strong>di</strong>‐<br />
no a bastonate.<br />
La massaia e la gallina.<br />
(Favola).<br />
C’era una volta una gallina che faceva ogni giorno il suo ovetto. La<br />
padrona ebbe il pensiero che, se le dava più mangime, la gallina avrebbe<br />
fruttato il doppio. E così provò a fare. Ma la gallina ingrassò e cessò del<br />
tutto <strong>di</strong> far l’uovo.<br />
Il vecchio nonno e il nipotino.<br />
(Favola).<br />
Il nonno <strong>di</strong>ventò molto vecchio. Le gambe non gli camminavano più,<br />
gli occhi non gli vedevano, le orecchie non gli sentivano, non aveva più<br />
un dente. E quando mangiava, la roba gli ricadeva giù dalla bocca. Il fi‐<br />
glio e la nuora non gli apparecchiarono più il posto a tavola: gli davano<br />
da mangiare accanto al fuoco. Una volta, gli avevano portato da mangia‐<br />
re in una ciotola. Lui voleva accostarsela, ma la fece cadere e la mandò in<br />
pezzi. La nuora cominciò a sgridare il vecchio, che in casa le mandava a
Primo libro <strong>di</strong> lettura 17<br />
male ogni cosa, e <strong>di</strong>sse che d’ora in poi gli avrebbe dato da mangiare nel<br />
mastello delle rigovernature. Il vecchio fece un sospiro, e non <strong>di</strong>sse nul‐<br />
la. Di lì a qualche giorno, la donna e l’uomo se ne stavano in casa, e ve‐<br />
dono il figliolino che gioca per terra con certe tavolette, come se volesse<br />
fabbricarci qualche cosa. Il padre, allora, gli domanda: – Che stai a fare,<br />
Micheluccio? – E Micheluccio gli <strong>di</strong>ce: – Io, babbino, sto a fare un mastel‐<br />
lo. Così, quando tu e mammina sarete vecchi, in questo mastello io ci da‐<br />
rò da mangiare a voi.<br />
L’uomo e la donna si guardarono tra loro, e si misero a piangere. Eb‐<br />
bero vergogna <strong>di</strong> offendere a quel modo il vecchio; e, da quel giorno in<br />
poi, ricominciarono a mettergli il posto a tavola e ad assisterlo con pre‐<br />
mura.<br />
La spartizione dell’ere<strong>di</strong>tà.<br />
(Favola).<br />
Un padre aveva due figli. Egli <strong>di</strong>sse loro: – Quando morrò, voi sparti‐<br />
te ogni cosa a mezzo –. Quando il padre mori, i figli non riuscirono a<br />
spartire senza venire a lite. Andarono a chiedere il parere d’un vicino. Il<br />
vicino domandò: — In che modo vostro padre vi ha or<strong>di</strong>nato <strong>di</strong> spartire?<br />
— Essi <strong>di</strong>ssero: — Ci ha or<strong>di</strong>nato <strong>di</strong> spartire ogni cosa a mezzo —. Il<br />
vicino <strong>di</strong>sse: — E voi, allora, strappate a mezzo tutti i vestiti, spezzate a<br />
mezzo tutte le stoviglie, e pure a mezzo squartate tutto il bestiame.<br />
I fratelli <strong>di</strong>edero retta al vicino, e rimasero senza più nulla.<br />
Dove va a finire l’acqua del mare?<br />
(Considerazioni).<br />
Dalle sorgenti, dalle vene e dalle palu<strong>di</strong> l’acqua si versa nei ruscelli,<br />
dai ruscelli nei fiumiciattoli, dai fiumiciattoli nei gran<strong>di</strong> fiumi, e dai<br />
gran<strong>di</strong> fiumi si versa nel mare. Da altre parti, nel mare, si versano altri<br />
fiumi, e tutti i fiumi continuano a versarsi nel mare da quando è comin‐<br />
ciato il mondo. Dove va a finire l’acqua del mare? Come mai non traboc‐<br />
ca dalle rive?<br />
L’acqua si solleva dal mare sotto forma <strong>di</strong> nebbia; la nebbia si solleva<br />
più in alto, e finalmente dalla nebbia si formano le nuvole. Le nuvole so‐<br />
no spinte via dal vento, e si spandono per tutta la terra. Dalle nuvole<br />
l’acqua viene a cadere sulla terra. Dalla terra va a versarsi nelle palu<strong>di</strong> e
18<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
nei ruscelli. Dai ruscelli si versa nei fiumi; dai fiumi nel mare. Dal mare<br />
si solleva <strong>di</strong> nuovo a formare le nuvole: e le nuvole si spandono per tutta<br />
la terra...<br />
Il leone, l’orso e la volpe.<br />
(Favola).<br />
Un leone e un orso s’impadronirono d’un pezzo <strong>di</strong> carne, e comincia‐<br />
rono a litigarselo. L’orso era duro a cedere, e il leone più duro ancora.<br />
Lottarono tanto a lungo, che perdettero le forze, e tutt’e due<br />
s’accovacciarono a terra. Una volpe scorse, nel mezzo fra i due, quel<br />
pezzo <strong>di</strong> carne; l’agguantò e scappo’ via.<br />
Un ragazzo racconta come avvenne che scoprí al nonno la regina delle api.<br />
(Racconto).<br />
Il mio nonnino abitava, d’estate, dov’era l’arniaio. Ogni volta che io<br />
andavo a trovarlo, lui mi dava un po’ <strong>di</strong> miele.<br />
Un giorno, io me ne andai all’arniaio, e cominciai a inoltrarmi in<br />
mezzo agli alveari. Io non avevo paura delle api, perché il nonno mi a‐<br />
veva insegnato a camminare senza rumore fra le arnie.<br />
Anche le api s’erano abituate a vedermi, e non mi pungevano. In uno<br />
degli alveari, sentii qualche cosa che chiocciava. Andai dal nonno alla<br />
baracca, e glielo ri<strong>di</strong>ssi.<br />
Lui mi venne <strong>di</strong>etro, ascoltò a sua volta, e <strong>di</strong>sse: — Da questo alveare<br />
è già volato uno sciame, quello primaticcio, con la regina vecchia; e a‐<br />
desso le regine giovani sono uscite dall’uovo. Sono loro che stridono.<br />
Domani, col secondo sciame, esse faranno il volo —. Io domandai al<br />
nonno che cosa fossero, queste regine. E lui mi <strong>di</strong>sse:<br />
— Le regine delle api sono la stessa cosa che l’imperatore per gli uo‐<br />
mini: senza <strong>di</strong> esse, le api non possono vivere.<br />
Io domandai: — Ma <strong>di</strong> figura, come sono fatte?<br />
Lui mi <strong>di</strong>sse: — Vieni domani; a Dio piacendo, sciameranno: e io te le<br />
farò vedere, e ti darò del miele.<br />
Quando io, il giorno dopo, arrivai lì dal nonno, nell’ingressetto della<br />
baracca stavano appesi due canestri chiusi, con le api dentro. Nonno mi<br />
fece infilare in testa la reticella, e me la legò con un fazzoletto intorno al<br />
collo; poi prese uno <strong>di</strong> quei canestri chiusi con le api, e lo portò dov’era‐<br />
no gli alveari. Le api ci rombavano dentro. Io mi spaventai, e mi nascosì
Primo libro <strong>di</strong> lettura 19<br />
le mani nei calzoni; ma avevo voglia <strong>di</strong> vedere la regina, e andai <strong>di</strong>etro<br />
al nonno.<br />
Quando fummo all’arniaia, il nonno s’avvicinò a un tronco vuoto, ci<br />
appoggiò un vassoietto <strong>di</strong> legno, aprì il canestro e ne scrollò fuori le api<br />
giù nel vassoio. Le api si misero a strisciare lungo il vassoio alla volta del<br />
tronco, e strombettavano a tutto spiano, mentre il nonno, con uno sco‐<br />
pettino, ci andava frugando tra mezzo.<br />
— Ecco qua la regina! — il nonno mi fece segno con lo scopettino, e io<br />
vi<strong>di</strong> una lunga ape con le alucce corte. Essa strisciò via con le altre e<br />
scomparve. Allora il nonno mi sfilò la reticella, e tornò alla baracchetta.<br />
Là mi <strong>di</strong>ede un bel tocco <strong>di</strong> miele; io lo mangiai, e m’impiastrai tutte<br />
le guance e le mani. Quando arrivai a casa, mamma mi <strong>di</strong>sse: — Anche<br />
oggi quel guastaragazzi del nonno ti ha rimpinzato <strong>di</strong> miele! — Ma io le<br />
risposi: — Sfido che mi ha dato il miele: io, iersera, gli ho scoperto<br />
un’arnia con le regine giovani, e or ora, tutt’e due insieme, abbiamo si‐<br />
stemato uno sciame.<br />
Il cane, il gallo e la volpe.<br />
(Favola).<br />
Un cane e un gallo si misero, da buoni compagni, a girare il mondo.<br />
Al calar della sera, il gallo s’addormentò sopra un albero, e il cane<br />
s’accomodò sotto quello stesso albero, fra le ra<strong>di</strong>ci. Quando venne l’ora,<br />
il gallo attaccò a cantare. Una volpe udì il gallo, corse lì, e dal basso co‐<br />
minciò a pregarlo che le scendesse accanto, come se volesse fargli i com‐<br />
plimenti per la bella voce che aveva. Il gallo <strong>di</strong>sse: — Bisogna prima<br />
svegliare il portiere: ecco, sta a dormire fra le ra<strong>di</strong>ci. Quando lui avrà<br />
aperto, io verrò giù.<br />
La volpe si mise a cercare il portiere e cominciò a schiamazzare. Il ca‐<br />
ne, d’impeto, saltò fuori e strozzò la volpe.<br />
Il mare.<br />
(Descrizione).<br />
Il mare è largo e profondo; del mare non si vede fine. Nel mare il sole<br />
si leva e nel mare tramonta. Il fondo del mare, nessuno l’ha raggiunto<br />
mai, e nessuno lo conosce. Quando il vento non c’è, il mare è azzurro e<br />
liscio; quando soffia il vento, subito il mare s’agita e fa le scale. S’alzano,
20<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
là per il mare, le onde; un’onda corre <strong>di</strong>etro all’altra; si uniscono insie‐<br />
me, si urtano, e sprizzano una schiuma bianca. Allora i bastimenti sono<br />
sbattuti qua e là dalle onde come fossero schegge <strong>di</strong> legno. Chi non s’è<br />
mai trovato in mezzo al mare, non sa che vuol <strong>di</strong>re raccomandarsi a Dio.<br />
Il cavallo e il mozzo <strong>di</strong> stalla.<br />
(Favola).<br />
Un mozzo <strong>di</strong> stalla rubava al cavallo l’avena, e la rivendeva; ma non<br />
passava giorno che non ripulisse il cavallo da capo a pie<strong>di</strong>. Allora il ca‐<br />
vallo gli <strong>di</strong>sse: — Se vuoi davvero che io sia bello, non rivendere la mia<br />
avena!<br />
L’incen<strong>di</strong>o.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Era <strong>di</strong> mietitura: uomini e donne erano andati fuori a lavorare. Nel<br />
villaggio erano rimasti soltanto i vecchi e i bambini. In una casetta era<br />
rimasta la nonna con tre nipotini. La nonna accese la stufa e s’allungò a<br />
fare un sonnellino. Le mosche le si posavano addosso e la punzecchia‐<br />
vano. Essa si coprì la testa con un panno, e s’addormentò. Una delle ni‐<br />
potine, Marietta, che aveva tre anni, aprì la stufa, ne tirò fuori un po’ <strong>di</strong><br />
braci in un coccerello, e andò nell’ingresso. Nell’ingresso c’erano am‐<br />
mucchiati tanti fasci <strong>di</strong> paglia. Le donne avevano preparato questi fasci<br />
per farne legacci per i covoni. Marietta portò li quelle braci, le posò sotto<br />
la paglia, e si mise a soffiare. Quando la paglia cominciò a prender fuo‐<br />
co, lei fu tutta contenta: andò nella camera, condusse <strong>di</strong> qua per mano il<br />
fratellino, Pietruccio (aveva un anno e mezzo, aveva appena imparato a<br />
camminare), e gli <strong>di</strong>sse: — Guarda, Pietruccio, che bella stufa ho acceso<br />
io! — I covoni già bruciavano e crepitavano. Quando l’ingresso si fu<br />
riempito <strong>di</strong> fumo, Marietta si spaventò, e corse <strong>di</strong> là in camera. Pietruc‐<br />
cio cadde sulla soglia, si fece male al naso, e si mise a piangere. Marietta<br />
lo trascinò in camera, e tutt’e due s’appiattarono sotto la panca. La non‐<br />
na non sentiva niente, e continuava a dormire.<br />
Il fratello più grande, Nino, che aveva otto anni, era sulla strada.<br />
Quando s’avvide che dall’ingresso usciva il fumo, corse alla porta,<br />
saltò tra il fumo fin dentro la camera, e si fece a svegliare la nonna; ma la<br />
nonna, svegliandosi <strong>di</strong> soprassalto, perse la testa, e non pensò ai bambi‐
Primo libro <strong>di</strong> lettura 21<br />
ni: balzò su e corse dai vicini a chiamar gente. Marietta, intanto, se ne<br />
stava sotto la panca, zitta zitta; solo il fratellino piccolo strillava, perché<br />
si era fatto molto male al naso. Nino udì i suoi strilli, guardò sotto alla<br />
panca, e gridò a Marietta: — Scappa, o ti bruci! — Marietta corse verso<br />
l’ingresso, ma dal fumo e dal fuoco non si poteva passare. Essa tornò in‐<br />
<strong>di</strong>etro. Allora Nino aprì la finestra e le <strong>di</strong>sse <strong>di</strong> arrampicarsi lì. Quando<br />
lei si fu arrampicata, Nino afferrò il fratellino e lo trascinò da quella pa‐<br />
ne. Ma il bambino era pesante, e resisteva al fratello. Piangeva e dava<br />
strattoni a Nino. Due volte Nino cadde, prima che riuscisse a trascinarlo<br />
fino alla finestra, e intanto la porta della camera aveva già preso fuoco.<br />
Nino ficcò nella finestra la testa del fratellino, e cercava <strong>di</strong> farlo tra‐<br />
boccare fuori; ma il bambino (che s’era spaventato assai) si teneva ag‐<br />
grappato con le sue manine, e non le staccava. Allora Nino gridò a Ma‐<br />
rietta: — Tiralo per la testa! — e intanto lui lo spingeva per <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro. In<br />
questo modo riuscirono a ribaltarlo dalla finestra sulla strada: e così an‐<br />
che loro saltarono all’aperto.<br />
La rana e il leone.<br />
(Favola).<br />
Un leone udì una rana che gracidava a gran voce, e si spaventò. Pen‐<br />
sò che doveva essere una belva ben grossa, se aveva tanta voce. Si avvi‐<br />
cinò pian piano; e che cosa vide? Una rana che era uscita da un pantano.<br />
Il leone la schiacciò con la zampa, e <strong>di</strong>sse: — Se prima non avrò visto<br />
bene <strong>di</strong> che si tratta, non mi lascerò più spaventare.<br />
L’elefante.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Un In<strong>di</strong>ano aveva un elefante. Il padrone gli dava poco da mangiare,<br />
e lo faceva lavorare molto. Un giorno l’elefante s’infuriò, e schiacciò con<br />
la zampa il suo padrone. L’In<strong>di</strong>ano morí.<br />
Allora la moglie dell’In<strong>di</strong>ano scoppiò a piangere, portò i suoi bambini<br />
lì dall’elefante, e glieli gettò <strong>di</strong>nanzi ai pie<strong>di</strong>. Essa <strong>di</strong>ceva: — Elefante! Tu<br />
hai ucciso il padre, ucci<strong>di</strong> anche loro:<br />
L’elefante guardò i bambini, prese con la proboscide il più grande,<br />
adagio adagio lo sollevò, e se lo pose a sedere sul collo. E da quel giorno<br />
l’elefante obbedì al ragazzo e lavorò per lui.
22<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
La scimmia e i piselli.<br />
(Favola).<br />
Una scimmia portava nel cavo delle mani una giumella <strong>di</strong> piselli. Un<br />
pisello saltò via: la scimmia andò per raccattarlo, e fece cadere in terra<br />
una ventina <strong>di</strong> piselli. Si slanciò per riprenderli, e li fece cadere in terra<br />
tutti quanti. Allora s’infuriò, sparpagliò i piselli ai quattro venti, e se la<br />
<strong>di</strong>ede a gambe.<br />
Un ragazzo racconta in che modo gli passò la paura dei men<strong>di</strong>canti ciechi.<br />
(Racconto).<br />
Quando io ero piccolo, mi avevano spaventato coi men<strong>di</strong>canti ciechi,<br />
e così avevo una gran paura <strong>di</strong> loro. Una volta, arrivai a casa, e sulla sca‐<br />
letta <strong>di</strong>nanzi alla porta c’erano seduti due men<strong>di</strong>canti ciechi. Io non sa‐<br />
pevo come fare: avevo paura <strong>di</strong> scappar via, e avevo paura <strong>di</strong> passare<br />
accanto a loro, perché credevo che loro mi avrebbero acciuffato. D’im‐<br />
provviso uno dei due (aveva gli occhi bianchi come il latte), s’alzò, mi<br />
prese per la mano e <strong>di</strong>sse: — Ragazzetto! Me la faresti una piccola ele‐<br />
mosina? — Io mi strappai da lui e corsi dalla mamma. Essa mi <strong>di</strong>ede da<br />
portare in elemosina qualche monetina e un po’ <strong>di</strong> pane. I men<strong>di</strong>canti<br />
furono contenti del pane, si fecero il segno della croce e cominciarono a<br />
mangiare. Poi quello con gli occhi bianchi mi <strong>di</strong>sse: — Il tuo pane è buo‐<br />
no, che Dio ti bene<strong>di</strong>ca! — E mi prese un’altra volta per la mano, e me la<br />
tastava. Io sentii compassione <strong>di</strong> lui, e da quel giorno mi passò la paura<br />
dei men<strong>di</strong>canti ciechi.<br />
La vacca lattaiola.<br />
(Favola).<br />
Un uomo possedeva una vacca: essa gli dava ogni giorno un secchio<br />
<strong>di</strong> latte. L’uomo invitò certa gente a casa sua, e per aver pronto più latte<br />
per gl’invitati, stette <strong>di</strong>eci giorni senza mungere la vacca. Egli pensava<br />
che, in capo a <strong>di</strong>eci giorni, la vacca gli avrebbe dato <strong>di</strong>eci vasi <strong>di</strong> latte.<br />
Ma alla vacca tutto quel latte s’era cagliato dentro: e quando final‐<br />
mente il padrone la munse, gli <strong>di</strong>ede meno latte che l’altre volte.
Primo libro <strong>di</strong> lettura 23<br />
L’imperatrice cinese Si–ling–ci.<br />
(Racconto dal vero).<br />
L’imperatore cinese Huang–ci amava molto sua moglie, Si–ling–ci.<br />
L’imperatore voleva che tutto il popolo ricordasse per sempre la sua<br />
amata imperatrice. Egli fece vedere alla moglie un baco da seta, e le <strong>di</strong>s‐<br />
se: – Impara che cosa si può fare con questo piccolo baco, e come può es‐<br />
sere allevato: e il popolo non si scorderà mai <strong>di</strong> te!<br />
Si–ling–ci cominciò a osservare quei bachi, e s’avvide che quando essi<br />
stanno per morire, intorno a loro si forma una specie <strong>di</strong> ragnatela. Essa<br />
srotolò questa ragnatela, la filò, e ci tessé un fazzoletto <strong>di</strong> seta. Poi notò<br />
che i bachi si sviluppavano sugli alberi <strong>di</strong> gelso. Allora provò a racco‐<br />
gliere la foglia del gelso e a governare i bachi con quella. Allevò bachi in<br />
gran numero, e insegnò al suo popolo il modo <strong>di</strong> allevarli.<br />
Da allora sono passati cinquemila anni, ma i Cinesi ricordano ancora<br />
la principessa Si–ling–ci, e fanno festa in onore <strong>di</strong> lei.<br />
La cicala e le formiche.<br />
(Favola).<br />
In autunno, nel formicaio, il grano s’era un po’ inumi<strong>di</strong>to: le formiche<br />
lo portarono fuori a rasciugare. Una cicala affamata chiese loro qualche<br />
cosa da mangiare. Le formiche <strong>di</strong>ssero: – E perché, quando era estate, tu<br />
non ti sei fatta la provvista? – Quella rispose: – Non avevo tempo: avevo<br />
le mie canzoni da cantare! – Le formiche risero e <strong>di</strong>ssero: – Se d’estate<br />
hai fatto musica, d’inverno ballerai.<br />
La ragazza–topolino.<br />
(Leggenda).<br />
Una volta, un uomo camminava in riva al fiume, e vide un corvo che<br />
portava un topolino. Gli tirò una sassata, e il corvo lasciò il topolino: il<br />
topolino cadde nell’acqua. L’uomo riuscì a pigliarlo <strong>di</strong> dentro all’acqua,<br />
e lo portò a casa sua. Egli non aveva figlioli, e <strong>di</strong>sse: – Oh se questo topo‐<br />
lino potesse <strong>di</strong>ventare una ragazzetta! – Ed ecco che il topolino <strong>di</strong>ventò<br />
proprio una ragazzetta.<br />
Quando la ragazzetta fu grande, l’uomo le domandò: – Chi vuoi per<br />
marito? – La ragazzetta <strong>di</strong>sse: – Voglio per marito quello che è il più for‐
24<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
te <strong>di</strong> tutto il mondo! – L’uomo andò dal sole e gli <strong>di</strong>sse: – Sole! Mia figlia<br />
vuole per marito quello che è il più forte <strong>di</strong> tutto il mondo. Tu sei il più<br />
forte <strong>di</strong> tutti: sposa mia figlia! – Il sole <strong>di</strong>sse: – Io non sono il più forte: le<br />
nuvole mi coprono.<br />
L’uomo andò dalle nuvole e <strong>di</strong>sse: – Nuvole! Voi siete più forti <strong>di</strong> tut‐<br />
ti: sposate mia figlia! – Le nuvole <strong>di</strong>ssero: – No, noi non siamo più forti<br />
<strong>di</strong> tutti: il vento ci spinge <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là.<br />
L’uomo andò dal vento e <strong>di</strong>sse: – Vento! Tu sei il più forte <strong>di</strong> tutti:<br />
sposa mia figlia! – Il vento <strong>di</strong>sse: – Io non sono il più forte: le montagne<br />
mi fermano.<br />
L’uomo andò dalle montagne e <strong>di</strong>sse: – Montagne! Sposate mia figlia:<br />
voi siete più forti <strong>di</strong> tutti! – Le montagne <strong>di</strong>ssero: – Più forte <strong>di</strong> noi c’è il<br />
sorcio: esso ci rode.<br />
Allora l’uomo andò dal sorcio e <strong>di</strong>sse: – Sorcio! Tu sei il più forte <strong>di</strong><br />
tutti: sposa mia figlia! – Il sorcio acconsentì. L’uomo ritornò dalla figlia e<br />
le <strong>di</strong>sse: – Il sorcio è il più forte <strong>di</strong> tutti: esso rode le montagne, le mon‐<br />
tagne fermano il vento, il vento spinge le nuvole, le nuvole coprono il<br />
sole; e il sorcio ti vuole sposare! – Ma la figlia <strong>di</strong>sse: – Povera me, e ades‐<br />
so come farò? Come farò a pigliare per marito un sorcio? – Allora<br />
l’uomo <strong>di</strong>sse: – Oh, se la mia figliola <strong>di</strong>ventasse un’altra volta un topoli‐<br />
no!<br />
Detto fatto: la ragazza <strong>di</strong>ventò una topolina, e la topolina pigliò per<br />
marito il sorcio.<br />
La gallina e le uova d’oro.<br />
(Favola).<br />
Un conta<strong>di</strong>no aveva una gallina che gli faceva le uova d’oro. Egli s’in‐<br />
capricciò <strong>di</strong> aver più oro tutto in una volta, e ammazzò la gallina (crede‐<br />
va che dentro ci fosse un gran globo d’oro). Ma la gallina era uguale in<br />
tutto e per tutto alle altre galline.<br />
Filo <strong>di</strong> lino.<br />
(Leggenda).<br />
C’erano una volta un vecchio e una vecchia. Essi non avevano figli. Il<br />
vecchio andò al campo ad arare, e la vecchia restò in casa a cuocere le<br />
frittelle. Quando ebbe cotto le frittelle, la vecchia <strong>di</strong>sse:
Primo libro <strong>di</strong> lettura 25<br />
– Se noi avessimo un figlio, porterebbe lui le frittelle a suo padre; ora,<br />
invece, da chi gliele manderò?<br />
D’improvviso, dalle acce del lino, sbucò fuori un figliolino piccino, e<br />
<strong>di</strong>sse: – Salute, mammina!<br />
Disse la vecchia: – E <strong>di</strong> dove vieni, figliolino? E come ti chiami?<br />
Disse il figliolino: – Tu, mammina, hai filato il lino e l’hai messo sul<br />
naspino: appunto là io sono nato. E mi chiamo Filo <strong>di</strong> lino. Se permetti,<br />
mammina, porterò io le frittelle al babbino.<br />
Rispose la vecchia: – Riuscirai a portargliele, Filo <strong>di</strong> lino?<br />
– Si che ci riuscirò, mammina mia!<br />
La vecchia legò le frittelle in un fagottello e le consegnò al figliolino.<br />
Filo <strong>di</strong> lino prese il fagottello e corse via verso il campo.<br />
Sul campo, gli si parò davanti un monticello <strong>di</strong> terra, e lui gridò: –<br />
Babbo, babbo, fammi passare <strong>di</strong> là da questo monticello! Io ti ho portato<br />
le frittelle.<br />
Il vecchio, in fondo al campo, udì una voce che lo chiamava, si fece<br />
incontro al figlio, gli fece passare il monticello, e <strong>di</strong>sse: – Di dove ne vie‐<br />
ni, figlioletto mio?<br />
E il bambino gli <strong>di</strong>sse: – Io, babbo, sono nato dalle acce del lino, – e<br />
<strong>di</strong>ede al padre le frittelle.<br />
Il vecchio si sedette a far colazione, e il bambino gli <strong>di</strong>sse: – Se per‐<br />
metti, babbo, io vorrei arare.<br />
Ma il vecchio gli <strong>di</strong>sse: – Tu non hai forza abbastanza per arare.<br />
Ma Filo <strong>di</strong> lino afferrò l’aratro e si mise ad arare. E non solo arava, ma<br />
cantava fior <strong>di</strong> canzoni.<br />
Passava in carrozza lungo quel campo un signore, e che cosa vide? Il<br />
vecchio seduto che fa colazione, e il cavallo che ara da solo. Il signore<br />
scende <strong>di</strong> carrozza, e fa al vecchio: – Come va che a te, vecchio, il cavallo<br />
ti ara da solo?<br />
Il vecchio risponde: – C’è là un ragazzo che mi ara, e canta fior <strong>di</strong><br />
canzoni.<br />
Il signore venne più innanzi, udì le canzoni, e vide Filo <strong>di</strong> lino.<br />
Allora il signore <strong>di</strong>sse: – Vecchio! Ven<strong>di</strong>mi il ragazzo.<br />
Ma il vecchio rispose: – No, io non posso venderlo: io ho lui solo.<br />
Filo <strong>di</strong> lino, però, <strong>di</strong>sse al vecchio: – Ven<strong>di</strong>mi, babbino: io gli scappe‐<br />
rò.<br />
Il conta<strong>di</strong>no, allora, vendette il ragazzo per cento lire. Il signore sbor‐<br />
sò le monete, prese il ragazzo, lo avvoltolò ben bene in un fazzoletto, e<br />
se lo mise in tasca. Quando arrivò a casa sua, il signore <strong>di</strong>sse alla moglie:
26<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
– Ti ho portato una bella sorpresa! – E la moglie <strong>di</strong>sse subito: – Fa ve‐<br />
dere che cos’è!<br />
Il signore cavò <strong>di</strong> tasca il fazzoletto, io svoltolò, ma nel fazzoletto non<br />
c’era un bel niente: già da un pezzo Filo <strong>di</strong> lino era scappato da suo pa‐<br />
dre.<br />
Il lupo e la vecchia.<br />
(Favola).<br />
Un lupo affamato girava in cerca <strong>di</strong> preda. All’entrata d’un paesino;<br />
<strong>di</strong> dentro a una casa, il lupo sentì un bambino che piangeva, e una vec‐<br />
chia che gli <strong>di</strong>ceva:<br />
– Se non la finisci <strong>di</strong> piangere, ti farò mangiare dal lupo.<br />
Il lupo non si mosse più <strong>di</strong> lì, e si mise ad aspettare il momento che<br />
gli avrebbero dato da mangiare quel bambino. Ecco che fece notte: lui<br />
stava sempre ad aspettare. A un tratto sente <strong>di</strong> nuovo la voce della vec‐<br />
chia, che <strong>di</strong>ce:<br />
– Non piangere, piccino mio: non ti farò mangiare, no, dal lupo! Fà<br />
che il lupo si presenti, e vedrai come l’ammazziamo.<br />
Il lupo, allora, pensò: si vede proprio che, qui, parlano in un modo e<br />
fanno in un altro. E se ne andò via dal paesino.<br />
Il gattino.<br />
(Racconto dal vero).<br />
C’erano un fratello e una sorella, Pino e Caterina: essi avevano una<br />
gatta. A primavera la gatta sparì. I bambini la cercarono da tutte le parti,<br />
ma non poterono trovarla. Un giorno, stavano a giocare accanto al ca‐<br />
pannone del magazzino, e sentirono, sopra <strong>di</strong> loro, miagolare certe vo‐<br />
cette fine fine. Pino s’arrampicò sulla scala fin sotto al tetto del magazzi‐<br />
no. E intanto Caterina stava ritta da pie<strong>di</strong>, e domandava ogni momento:<br />
– Trovi niente? Trovi niente? – Ma Pino non le rispondeva. Finalmen‐<br />
te, Pino gridò: – Ho trovato! È la nostra gatta... e ci ha i gattini: se ve<strong>di</strong><br />
come sono belli! Vieni qua, sbrigati.<br />
Caterina corse in casa, prese un po’ <strong>di</strong> latte e lo portò alla gatta.<br />
I gattini erano cinque. Quando furono cresciuti un pochino, e comin‐<br />
ciarono a trascinarsi fuori dal quel cantuccio dov’erano nati, i bambini<br />
scelsero fra gli altri un gattino grigio con le zampette bianche, e se lo
Primo libro <strong>di</strong> lettura 27<br />
portarono in casa. La madre <strong>di</strong>ede via tutti i gattini, ma questo lo lasciò<br />
ai figlioli. I bambini gli davano da mangiare, ci giocavano insieme e lo<br />
mettevano a dormire con loro;<br />
Una volta, i bambini andarono a giocare per la strada, e portarono<br />
anche il gattino con loro.<br />
Il vento faceva muovere i fili <strong>di</strong> paglia sulla strada, e il gattino gioca‐<br />
va con la paglia, e i bambini si <strong>di</strong>vertivano a guardarlo. Ma poi essi tro‐<br />
varono, poco lontano dalla strada, un po’ <strong>di</strong> acetosella, si misero a rac‐<br />
coglierla, e si scordarono del gattino.<br />
D’improvviso sentirono una voce che gridava forte: — Qua, qua! — e<br />
videro un cacciatore a cavallo che veniva <strong>di</strong> galoppo, e innanzi a lui due<br />
cani: i cani avevano avvistato il gattino, e volevano acciuffarlo. E il gatti‐<br />
no, sciocco, invece <strong>di</strong> scappar via, s’era piantato lì, aveva incurvato la<br />
schiena, e fissava i cani. Caterina si spaventò <strong>di</strong> quei cani, cominciò a<br />
gridare e s’allontanò <strong>di</strong> corsa. Pino, con quanta forza aveva, si slanciò<br />
verso il gattino, e gli arrivò sopra nello stesso istante dei cani. I cani vo‐<br />
levano acciuffare il gattino, ma Pino si buttò sul gattino a faccia avanti, e<br />
lo nascose ai cani.<br />
Sopraggiunse col cavallo il cacciatore, e scacciò via i cani. Pino riportò<br />
a casa il gattino, e da quel giorno non lo portò più in campagna.<br />
Il figlio istruito.<br />
(Favola).<br />
Il figlio arrivò dalla città in casa del padre in campagna. Il padre gli<br />
<strong>di</strong>sse: — Stiamo falciando il fieno: pren<strong>di</strong> il rastrello, e vieni ad aiutarmi!<br />
— Ma il figlio non aveva voglia <strong>di</strong> lavorare, e rispose: — Io ho stu<strong>di</strong>a‐<br />
to le scienze, e tutte queste parole conta<strong>di</strong>nesche me le sono scordate:<br />
che cos’è, un rastrello?<br />
Appena uscì sul davanti della casa, mise piede su un rastrello: e il ra‐<br />
strello andò a battergli sulla fronte. Allora si ricordò che cos’era un ra‐<br />
strello, si premette la fronte con la mano, e <strong>di</strong>sse: — Chi sarà stato quel‐<br />
l’imbecille che ha lasciato qua in mezzo il rastrello?
28<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
In che modo gli abitanti <strong>di</strong> Buchàra impararono ad allevare i bachi da seta.<br />
(Racconto dal vero).<br />
I Cinesi, per molto tempo, furono soli a conoscere il modo <strong>di</strong> fabbri‐<br />
care la seta: non insegnavano a nessuno l’arte loro, e vendevano a caro<br />
prezzo le stoffe <strong>di</strong> seta.<br />
Il re <strong>di</strong> Buchàra venne a sapere la cosa, e s’invogliò <strong>di</strong> procurarsi i ba‐<br />
chi e d’imparare ad allevarli. Egli pregò i Cinesi <strong>di</strong> fornirgli il seme, tan‐<br />
to dei bachi quanto dei gelsi. Quelli rifiutarono. Allora il re <strong>di</strong> Buchàra<br />
mandò a chiedere in sposa la figlia dell’imperatore dei Cinesi, e fece <strong>di</strong>re<br />
alla fidanzata che, nel suo regno, c’era <strong>di</strong> tutto in abbondanza, ma una<br />
cosa mancava: le stoffe <strong>di</strong> seta; e dunque bisognava che lei, <strong>di</strong> nascosto,<br />
si portasse <strong>di</strong>etro il seme dei gelsi e quello dei bachi, altrimenti non si sa‐<br />
rebbe potuta vestire <strong>di</strong> gala.<br />
La principessa raccolse i semi dei bachi e degli alberi, e se li nascose<br />
nella benda fra i capelli.<br />
Quando, al confine dell’impero, le guar<strong>di</strong>e cinesi si misero a cercare<br />
se la principessa portava con sé qualche cosa <strong>di</strong> contrabbando, non ci fu<br />
nessuno che ebbe il coraggio <strong>di</strong> slegare la sua benda.<br />
E gli abitanti <strong>di</strong> Buchàra coltivarono nel loro paese gli alberi <strong>di</strong> gelso e<br />
i bachi da seta, e la regina insegnò anche a loro il modo <strong>di</strong> servirsene.<br />
Il conta<strong>di</strong>no e la cavalla.<br />
(Favola).<br />
Un conta<strong>di</strong>no andò in città a comprare l’avena per la cavalla. Appena<br />
furono usciti dal paese, la cavalla cominciò a smaniare per tornare in<strong>di</strong>e‐<br />
tro. Il conta<strong>di</strong>no batté la cavalla con la frusta. Essa, allora, tirò innanzi, e<br />
fece tra sé: «Chissà questo stupido dove mi porta! Sarebbe meglio tor‐<br />
narsene a casa».<br />
Quando furono vicini alla città, il conta<strong>di</strong>no s’avvide che la cavalla fa‐<br />
ticava a camminare nel fango, e la spinse verso il selciato: ma la cavalla<br />
scartò via dal selciato. Il conta<strong>di</strong>no batté con la frusta e tirò il morso alla<br />
cavalla. Essa, finalmente, si mise sul selciato, ma pensava: «Perché mi<br />
avrà cacciato qua sul selciato, per il gusto <strong>di</strong> rompermi gli zoccoli? Qua,<br />
sotto i pie<strong>di</strong>, è duro!»<br />
Il conta<strong>di</strong>no fermò a un bottega, comperò l’avena, e si riavviò; verso<br />
casa. Quando fu arrivato a casa, <strong>di</strong>ede alla cavalla l’avena. La cavalla<br />
comincia a mangiare, e pensa: «Come sono stupi<strong>di</strong> gli uomini! Ci tengo‐
Primo libro <strong>di</strong> lettura 29<br />
no tanto a fare con noialtri le persone intelligenti, mentre, d’intelligenza,<br />
ne hanno meno <strong>di</strong> noi. Perché si è dato tanto da fare? Si è messo in viag‐<br />
gio per non so dove, e dàgli, a farmi camminare. Dopo aver tanto viag‐<br />
giato, abbiamo finito col tornare a casa. Quanto sarebbe stato meglio ri‐<br />
manere ad<strong>di</strong>rittura in casa tutt’e due: lui se ne sarebbe stato accanto al<br />
fuoco, e io a mangiare l’avena!»<br />
La zia racconta in che modo il brigante Emiliano Pugaciòv donò una monetina<br />
da <strong>di</strong>eci centesimi.<br />
(Racconto).<br />
Io avevo otto anni; si stava nel governatorato <strong>di</strong> Kazàn, nella nostra<br />
campagna. Mi ricordo che il babbo e la mamma cominciarono ad agitar‐<br />
si, e parlavano sempre <strong>di</strong> un certo Pugaciòv. Solo più tar<strong>di</strong> io venni a sa‐<br />
pere chi era Pugaciòv il brigante. Costui si faceva chiamare lo zar Pietro<br />
III, aveva raccolto un gran numero <strong>di</strong> altri briganti, e impiccava tutti i<br />
signori: i servi, invece, li metteva in libertà. E si <strong>di</strong>ceva appunto che lui e<br />
la sua banda non erano, ormai, <strong>di</strong>stanti da noi.<br />
Il babbo voleva partire per Kazàn, ma non si decideva a portar via<br />
anche noi, che eravamo piccoli, perché il tempo era freddo, e le strade<br />
cattive. Era <strong>di</strong> novembre, eppoi, a viaggiare, c’era anche pericolo. Così, il<br />
babbo decise <strong>di</strong> andare con la mamma a Kazàn, e <strong>di</strong> là ci promise che sa‐<br />
rebbe tornato a prenderci con una scorta <strong>di</strong> cosacchi.<br />
Loro partirono, e noi restammo sole con la nostra governante Anna<br />
Trofímovna, e si abitava insieme giù a pianterreno, tutte in una stanza.<br />
Mi pare <strong>di</strong> vedere ancora come stavamo lì, una sera: la governante a<br />
cullare la sorellina piccola e a portarla su e giù per la stanza, ché le face‐<br />
va male la pancetta, e io a vestire la bambola. E intanto Paràscia, la no‐<br />
stra cameriera, e la moglie del <strong>di</strong>acono, stavano li alla tavola, bevevano il<br />
tè e <strong>di</strong>scorrevano, sempre <strong>di</strong> Pugaciòv. Io vesto la bambola, ma intanto<br />
non perdo una parola, <strong>di</strong> tutti gli spaventi che racconta la moglie del<br />
<strong>di</strong>acono.<br />
– Mi rammento, – <strong>di</strong>ceva la donna, – quando dai vicini nostri,a qua‐<br />
ranta miglia <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza, arrivò Pugaciòv, e impiccò il padrone sul can‐<br />
cello, e ammazzò tutti i bambini.<br />
– E in che modo, mascalzoni, li ammazzavano? – domandò Paràscia.<br />
– Ecco in che modo, comare mia. Me l’ha detto Ighnàtyč: li prendeva‐<br />
no per i pie<strong>di</strong>ni, e li sbattevano alle cantonate.
30<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Via, basta <strong>di</strong> raccontar questi spaventi in presenza della bambina, –<br />
<strong>di</strong>sse allora la governante. – Và, Kàtenka, và a letto, che è ora.<br />
Io stavo già per mettermi a letto, quando d’improvviso si sente che<br />
bussano al portone, i cani abbaiano, e s’alzano grida.<br />
La moglie del <strong>di</strong>acono e Paràscia corsero a guardare, e subito ritorna‐<br />
rono in<strong>di</strong>etro: – È lui! È lui!<br />
La governante, allora, non pensò più se alla sorellina faceva male la<br />
pancia: la buttò là sul lettino, corse al baule, tirò fuori una camicetta e un<br />
abituccio da conta<strong>di</strong>na. Mi strappo’ tutto <strong>di</strong> dosso, mi scalzò, e m’infilò<br />
quei panni campagnuoli. In testa, mi ci legò un fazzoletto, e mi <strong>di</strong>sse:<br />
– Bada, se ti faranno delle domande, tu dì che sei la nipotina mia.<br />
Avevano appena fatto in tempo a vestirmi, che già sentiamo, <strong>di</strong> sopra,<br />
un trepestio <strong>di</strong> stivaloni. Si sentiva ch’erano venuti in tanti. Sopraggiun‐<br />
se <strong>di</strong> corsa la moglie del <strong>di</strong>acono.<br />
– Lui in persona, lui in persona è arrivato! Or<strong>di</strong>na che s’ammazzino<br />
degli agnelli. Manda a chiedere vino, liquori.<br />
Anna Trofímovna risponde: – Dategli <strong>di</strong> tutto. Ma badate <strong>di</strong> non <strong>di</strong>re<br />
che ci sono i figli dei padroni. Dite che sono tutti partiti. E questa, <strong>di</strong>te<br />
ch’è la nipotina mia.<br />
Tutta quella nottata, la passammo senza dormire. Ogni momento, en‐<br />
travano lì da noi cosacchi ubriachi.<br />
Ma Anna Trofímovna non aveva paura <strong>di</strong> loro. Ogni volta che ne en‐<br />
trava qualcuno, lei gli <strong>di</strong>ceva: – Figlio mio, che t’occorre? Qui, per voial‐<br />
tri, non c’è niente da fare. Bambini piccoli, lo vedete, e io vecchiarella.<br />
I cosacchi se ne riandavano.<br />
Verso mattina, io m’addormentai; e quando mi svegliai, vi<strong>di</strong> lì nella<br />
stanza un cosacco in pelliccia <strong>di</strong> velluto verde, e Anna Trofímovna che<br />
gli s’inchinava ai pie<strong>di</strong>.<br />
Quell’uomo in<strong>di</strong>cò verso mia sorella, e <strong>di</strong>sse: – Di chi è, questa?<br />
— E Anna Trofímovna rispondeva: – È <strong>di</strong> mia figlia, una nipotina mia.<br />
Mia figlia è partita coi padroni, e l’ha lasciata a me. E questa ragazzet‐<br />
ta? — E faceva segno a me.<br />
— Anche lei una nipotina, signore.<br />
Quello mi chiamò a sé col <strong>di</strong>to: — Vieni qua, birichina.<br />
Io mi inombrii. Ma Anna Trofímovna mi <strong>di</strong>sse: — Và, Kàtenka, non<br />
aver paura —. E allora m’accostai là.<br />
Quello mi prese per il ganascino, e mi <strong>di</strong>sse:<br />
— Guarda che bel visino bianco: <strong>di</strong>venterà un fior <strong>di</strong> ragazza! — Cavò<br />
<strong>di</strong> tasca una manciata <strong>di</strong> monete d’argento, ne scelse una da <strong>di</strong>eci cen‐<br />
tesimi, e me la <strong>di</strong>ede.
Primo libro <strong>di</strong> lettura 31<br />
— Ecco a te: ricordati dell’imperatore —. E se ne andò.<br />
Si trattennero da noi, così, due giorni: mangiarono, bevvero, sfracas‐<br />
sarono tutto: ma non bruciarono niente, e se ne ripartirono.<br />
Quando mio padre e mia madre furono <strong>di</strong> ritorno, non sapevano co‐<br />
me ringraziare Anna Trofímovna: le <strong>di</strong>edero la libertà, ma lei non la vol‐<br />
le, e fino all’ultimo visse e morí in casa nostra,<br />
A me, per scherzo, mi misero nome, da quella volta: «la fidanzata <strong>di</strong><br />
Pugaciòv». E quella monetina, che mi <strong>di</strong>ede Pugaciòv, io la conservo fi‐<br />
no a oggi: e come ci poso l’occhio, mi tornano in mente quegli anni<br />
quand’ero bambina, e la nostra buona Anna Trofímovna.<br />
Il vizir Abdul.<br />
(Leggenda).<br />
Al servizio d’un re persiano c’era un ministro giusto, Abdul. Un gior‐<br />
no, egli passava a cavallo per la città, andando dal re. Ma nella città il<br />
popolo s’era radunato a fare una sommossa. Appena videro il vizir, lo<br />
circondarono, fermarono il cavallo, e minacciarono <strong>di</strong> ucciderlo se non<br />
faceva come volevano loro. Un uomo arrivò al punto che lo pigliò per la<br />
barba, e gliela tirò.<br />
Quando il vizir fu lasciato libero, egli andò dal re, e lo pregò che aiu‐<br />
tasse il popolo e non punisse nessuno, sebbene lo avessero offeso così.<br />
Il giorno dopo, si presentò dal vizir un bottegaio. Il vizir gli chiese che<br />
cosa gli occorreva. Il bottegaio <strong>di</strong>sse: — Io sono venuto a informarti chi è<br />
quell’uomo che ti ha offeso ieri. Io lo conosco: è un mio vicino, e si chia‐<br />
ma Nahim. Fallo arrestare, e puniscilo!<br />
Il vizir mandò via il bottegaio e fece chiamare Nahim.<br />
Nahim indovinò che lo avevano denunciato: si presentò più morto<br />
che vivo lì <strong>di</strong>nanzi al vizir, e gli cadde ai pie<strong>di</strong>.<br />
Il vizir lo sollevò e gli <strong>di</strong>sse: — Io non ti ho mandato a chiamare per<br />
punirti, ma soltanto per <strong>di</strong>rti che tu hai un vicino cattivo. Egli ti ha de‐<br />
nunciato: stà in guar<strong>di</strong>a! E ora, và con Dio.<br />
In che modo un ladro si tradí.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Un ladro s’arrampicò, <strong>di</strong> notte, nella soffitta d’un mercante. Affagottò<br />
pellicce e pezze <strong>di</strong> tela, e fece per svignarsela, ma inciampo’ in una trave
32<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
e fece fracasso. Il mercante udì quel rumore dall’alto, svegliò un garzo‐<br />
ne, e s’avviò con la candela in soffitta. Il garzone, morto <strong>di</strong> sonno, <strong>di</strong>sse<br />
al mercante: — Che volete guardare, non c’è nessuno, sarà stato il gatto!<br />
— Ma il mercante salí ugualmente in soffitta.<br />
Quando il ladro sentì che veniva gente, ricollocò le pellicce e le pezze<br />
<strong>di</strong> tela dove stavano prima, e cercò un posto dove nascondersi. Vide, da<br />
una parte, un gran mucchio <strong>di</strong> roba. Era un mucchio <strong>di</strong> tabacco in foglia.<br />
Il ladro scavò fra il tabacco, ci s’intrufolò dentro, e si ricoprì <strong>di</strong> tabac‐<br />
co fin sopra alla testa. Ed ecco che il ladro <strong>di</strong>stingue che sono in due a<br />
venire: entrano e parlano fra loro. Il mercante <strong>di</strong>ce: — Io ho sentito che è<br />
stata una cosa pesante a fare fracasso —. Ma il garzone risponde: — Chi<br />
volete che abbia fatto fracasso! O è stato il gatto, oppure uno <strong>di</strong> questi<br />
spiritelli che stanno nelle case —. Il mercante passò accanto al tabacco,<br />
non s’accorse <strong>di</strong> nulla, e <strong>di</strong>sse: — Si vede proprio che mi è sembrato: non<br />
c’è nessuno: bè, an<strong>di</strong>amo.<br />
Il ladro capisce che se ne vanno, e pensa: adesso riprendo ogni cosa, e<br />
scappo dalla finestra. Ma d’improvviso sente che nel naso il tabacco gli<br />
ha svegliato un pizzicorino, e gli viene da starnutire. Si preme con la<br />
mano la bocca, ma il pizzicorino gli <strong>di</strong>venta sempre più forte, finché non<br />
può più far a meno <strong>di</strong> rompere in uno starnuto. Il mercante e il garzone<br />
stavano già uscendo. Sentono che, là in un angolo, qualcuno starnutisce:<br />
— Ci! Ci! Ecci! — Tornarono in<strong>di</strong>etro e acciuffarono il ladro.<br />
Il carico.<br />
(Favola).<br />
Due uomini andavano insieme per una strada, e portavano spalla cia‐<br />
scuno il suo carico. Uno lo portò per tutta la strada senza mai posarlo;<br />
l’altro, invece, ogni poco si fermava, posava il carico e si sedeva a ri‐<br />
prender fiato. Ma poi doveva ogni volta risollevare il carico e rigettarse‐<br />
lo in spalla. E così, quello che posava il carico fu più stanco, alla fine, <strong>di</strong><br />
quello che lo aveva portato senza mai posarlo.<br />
Il nocciolo.<br />
(Racconto dal vero).<br />
La mamma aveva comperato le prugne, e voleva darle ai bambini alla<br />
fine del pranzo. Intanto, stavano là in un piatto. Giovannino non aveva
Primo libro <strong>di</strong> lettura 33<br />
mangiato mai le prugne: tornava sempre a odorarle, e gli piacevano mol‐<br />
to. Aveva una gran voglia <strong>di</strong> mangiarle e girava e rigirava intorno a<br />
quelle prugne.<br />
In un momento che nella stanza non c’era nessuno, lui non seppe più<br />
frenarsi, afferrò una prugna e la mangiò. Prima <strong>di</strong> pranzo, la mamma<br />
contò le prugne, vide che ne mancava una, e lo <strong>di</strong>sse al babbo.<br />
Mentre pranzavano, il babbo <strong>di</strong>sse: – Sentite, bambini: qualcuno <strong>di</strong><br />
voi ha mangiato una prugna? – Tutti <strong>di</strong>ssero: – No! – Giovannino <strong>di</strong>ven‐<br />
tò rosso come un gambero, e <strong>di</strong>sse anche lui: – No, io non l’ho mangiata.<br />
Allora il babbo <strong>di</strong>sse: – Se qualcuno <strong>di</strong> voi l’ha mangiata, non è certo<br />
una bella cosa; ma il peggio non sta qui. Il peggio è che nelle prugne ci<br />
sono i noccioli, e se uno non sa il modo <strong>di</strong> mangiarle, e manda giù uno<br />
<strong>di</strong> questi noccioli, in giornata muore. È questo che mi dà pensiero.<br />
Giovannino <strong>di</strong>ventò bianco, e <strong>di</strong>sse: – No, io il nocciolo l’ho buttato<br />
dalla finestra.<br />
Allora tutti scoppiarono a ridere, e Giovannino scoppiò a piangere.<br />
I due mercanti.<br />
(Favola).<br />
Un mercante povero si mise in viaggio, e tutte le ferramenta che pos‐<br />
sedeva le affidò in custo<strong>di</strong>a a un mercante ricco. Quando fu <strong>di</strong> ritorno,<br />
andò dal mercante ricco e gli chiese <strong>di</strong> nuovo il suo ferro.<br />
Il mercante ricco aveva venduto tutte quelle ferramenta, e ora, per<br />
scusarsi in qualche modo, <strong>di</strong>sse: – Al tuo ferro gli è successa una <strong>di</strong>sgra‐<br />
zia.<br />
– E che cosa?<br />
– Ma io lo avevo riposto nel granaio. Là, <strong>di</strong> sorci, ce n’è un subisso. E<br />
tutto il ferro se lo sono rosicato loro. Ho visto io stesso come lo rosicava‐<br />
no. Se non ci cre<strong>di</strong>, và a guardare da te.<br />
Il mercante povero non si mise a <strong>di</strong>scutere. Disse: – Che bisogno c’è <strong>di</strong><br />
andare a guardare! Io ci credo lo stesso. Lo so anch’io che i sorci hanno il<br />
vizio <strong>di</strong> rodere il ferro. Arrivederci! – E il mercante povero se ne andò.<br />
Per la strada vide un bambino che stava giocando: era il figlio del<br />
mercante ricco. Il mercante povero fece le carezze al bambino, lo prese in<br />
braccio e lo portò a casa sua.<br />
Il giorno dopo, il mercante ricco s’incontra col povero, gli racconta <strong>di</strong><br />
questa sua sventura, che aveva smarrito il figlioletto, e gli domanda: –<br />
Tu non lo hai veduto, per caso? Non ne hai sentito <strong>di</strong>re niente?
34<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il mercante povero, allora, gli risponde: – Come no, l’ho veduto! Sta‐<br />
vo uscendo iersera da casa tua, quando vedo un falco che s’avventa <strong>di</strong>‐<br />
ritto <strong>di</strong>ritto sul tuo bambino, lo afferra e lo porta via.<br />
Il mercante ricco andò in collera, e <strong>di</strong>sse: – Ti dovresti vergognare a<br />
riderti <strong>di</strong> me! Ti pare una cosa cre<strong>di</strong>bile che un falco possa portare via<br />
un bambino?<br />
– No, io non mi rido <strong>di</strong> te. C’è da meravigliarsi che un falco abbia por‐<br />
tato via un bambino, una volta che i sorci hanno mangiato cento chili <strong>di</strong><br />
ferro? Tutto può accadere.<br />
Allora il mercante ricco comprese, e <strong>di</strong>sse: – I sorci non hanno man‐<br />
giato il tuo ferro: io l’ho venduto, e io te lo ripagherò due volte tanto.<br />
– Se è così, anche il falco non ha portato via tuo figlio: e io te lo rende‐<br />
rò.<br />
I cani del San Gottardo.<br />
(Descrizione).<br />
L’Italia e la Svizzera sono confinanti. Fra i due paesi ci sono le mon‐<br />
tagne delle Alpi. Queste montagne sono tanto alte che la neve, sopra,<br />
non si scioglie mai. Per andare dall’Italia alla Svizzera, bisogna attraver‐<br />
sare queste montagne. La strada passa attraverso la montagna del San<br />
Gottardo. Proprio sulla vetta <strong>di</strong> questa montagna, sorge sulla strada un<br />
convento. E in questo convento abitano dei frati.<br />
Questi frati pregano il Signore e danno ristoro ai viaggiatori e albergo<br />
per la notte. Sul San Gottardo il cielo è sempre chiuso: d’estate c’è la neb‐<br />
bia e non si vede niente. D’inverno, poi, ci fanno certe tormente, che<br />
ammassano fino a quattro metri <strong>di</strong> neve. E i passanti, sia in carrozza sia<br />
a pie<strong>di</strong>, spesso rimangono assiderati in queste tormente. I frati tengono<br />
dei cani. E questi cani sono ammaestrati a ricercare fra la neve le perso‐<br />
ne.<br />
Una volta, per la strada che porta in Svizzera, camminava una donna<br />
con un bambinello. Cominciò la tormenta, la donna smarrì la strada,<br />
s’accucciò fra la neve e s’intirizzì. I frati uscirono coi cani e trovarono la<br />
donna col bambinello. I frati riscaldarono il bambinello e gli <strong>di</strong>edero da<br />
mangiare. Ma la donna, quando la portarono su, era già morta; e la sep‐<br />
pellirono nel loro convento.
Primo libro <strong>di</strong> lettura 35<br />
Un conta<strong>di</strong>no racconta perché vuol bene al fratello maggiore.<br />
(Racconto).<br />
Io, a mio fratello, gli voglio bene anche così, ma più <strong>di</strong> tutto gli voglio<br />
bene perché ha fatto il soldato al posto mio. Ecco come andò la faccenda.<br />
Cominciarono a tirare a sorte, e la sorte toccò a me. Bisognava che io<br />
andassi a fare il soldato: e io, in quei momenti, era una settimana che a‐<br />
vevo sposato. Non mi piaceva davvero, lasciare la giovane sposa.<br />
Mammina si mise a lamentarsi e a <strong>di</strong>re: – Come farà Pietruccio a par‐<br />
tire, che è così piccolo! – Ma non c’era niente da fare: cominciarono a<br />
prepararmi la roba. La sposa mi cucì le camicie, mi raggranellò un po’ <strong>di</strong><br />
denaro; e senz’altro, come domani, si sarebbe dovuto andare in città, al<br />
<strong>di</strong>stretto. Mia madre si finiva dal piangere, e io, quando pensavo che<br />
dovevo partire, mi sentivo stringere il cuore come se andassi alla morte.<br />
Ci riunimmo tutti, la sera, a cena. Ma nessuno aveva voglia <strong>di</strong> man‐<br />
giare. Il mio fratello più grande, Nicola, restava sdraiato sulla stufa, e<br />
non faceva parola. La mia sposetta piangeva. Il babbo stava lì <strong>di</strong> malu‐<br />
more. La minestra, come mammina l’aveva posta in tavola così era rima‐<br />
sta, senza che la toccasse nessuno.<br />
Allora nostra madre chiamò giù Nicola, che scendesse dalla stufa a<br />
cenare. Egli scese, si fece il segno della croce, si sedette a tavola, ed ecco<br />
che <strong>di</strong>ce: – Non ti <strong>di</strong>sperare tanto, mammina! Andrò io al posto <strong>di</strong> Pietro<br />
a fare il soldato: io sono più grande <strong>di</strong> lui. Vedrai che me la caverò. Farò<br />
il mio dovere, e poi me ne tornerò a casa. Ma tu, Pietro, mentre io starò<br />
lontano, consola il babbo e la mamma, e non far torto a mia moglie! – Io<br />
mi sentii rinascere; nostra madre, anche lei, smise <strong>di</strong> lamentarsi; e si mi‐<br />
sero a preparar la roba per Nicola.<br />
Al mattino, quando mi svegliai, appena mi si presentò quel pensiero<br />
che al posto mio partiva mio fratello, mi sentii venir male. Prendo e <strong>di</strong>co:<br />
− Non muoverti, Nicola, la sorte è toccata a me, e io me ne partirò! –<br />
Lui zitto, e si prepara. E anch’io mi preparo. Così ce n’andammo<br />
tutt’e due in città, al <strong>di</strong>stretto. Lui si presenta alla visita, e anch’io mi<br />
presento.<br />
Eravamo tutt’e due ragazzi forti: restiamo lì ad aspettare la risposta:<br />
non ci scartarono. Mio fratello, allora, mi dà un’occhiata, scoppia a ride‐<br />
re e fa: – Basta, Pietro, vattene a casa. E non datevi pena <strong>di</strong> me, che io<br />
sono contento <strong>di</strong> partire.<br />
Io ruppi a piangere, e tornai a casa. E adesso, come penso al mio fra‐<br />
tello maggiore, mi pare che per lui darei la vita.
36<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
In che modo ammazzai la mia prima lepre.<br />
(Racconto d’un signore).<br />
Io avevo, per uomo d’accompagno, un certo Ivàn Andrèič. Egli<br />
m’insegnò a sparare che avevo appena tre<strong>di</strong>ci anni. Mi procurò un pic‐<br />
colo fuciletto e mi ci faceva tirare quando si andava a passeggio. E io,<br />
una volta ammazzai una gracchia, e un’altra volta una pica. Ma il babbo<br />
non sapeva che ero buono a tirare.<br />
Un giorno, era d’autunno, e precisamente l’onomastico della mamma,<br />
noi stavamo aspettando lo zio a pranzo, e io m’ero messo in finestra a<br />
guardar da quella parte <strong>di</strong> dove doveva arrivare, mentre il babbo cam‐<br />
minava per la stanza. Vi<strong>di</strong> a un tratto, <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro al boschetto, i quattro<br />
cavalli grigi e la carrozza, e gridai: — Arriva! Arriva!<br />
Il babbo s’affacciò alla finestra, vide la carrozza, prese il berretto e gli<br />
uscì incontro sul pianerottolo d’ingresso. Io gli corsi <strong>di</strong>etro. Il babbo sa‐<br />
lutò lo zio, e gli <strong>di</strong>sse: — Smonta, dunque! — Ma lo zio <strong>di</strong>sse: — No,<br />
pren<strong>di</strong> il fucile piuttosto, e vieni con me. Laggiù, ve<strong>di</strong>? Appena <strong>di</strong>etro al<br />
boschetto, c’è un bel leprone accovacciato fra il grano in erba. Pren<strong>di</strong> il<br />
fucile, e arriviamo là con la carrozza: lo ammazzeremo —. Il babbo si fe‐<br />
ce portare il giaccone e il fucile, e io corsi su in camera, al piano <strong>di</strong> sopra,<br />
mi misi il cappello e presi il fucile mio. Quando il babbo fu montato ac‐<br />
canto allo zio in carrozza, io col fucile m’aggrappai <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro, al portaba‐<br />
gagli, in modo che nessuno mi poteva vedere.<br />
Appena la carrozza ebbe oltrepassato il boschetto, lo zio or<strong>di</strong>nò al<br />
cocchiere che fermasse; s’alzò, e <strong>di</strong>sse: — Ve<strong>di</strong> laggiù, in quel fossatello,<br />
quella cosa grigia? A destra c’è un cespugliolo, e a sinistra, a cinque pas‐<br />
si <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza...lo ve<strong>di</strong>? — Il babbo stette un pezzo a guardare, ma non<br />
riusciva a vedere niente. Da parte mia, così dal basso, la vista mi rima‐<br />
neva tutta chiusa.<br />
Alla fine, il babbo avvistò il punto, e insieme con lo zio s’inoltrarono<br />
per il campo. Il babbo teneva il fucile tra mano, e lo zio continuava a far‐<br />
gli segno. Io venivo <strong>di</strong>etro col mio fucile, e non riuscivo a vedere niente.<br />
Ma ero contento perché non s’erano accorti <strong>di</strong> me.<br />
Facemmo così cento passi. Il babbo si fermò, fece per puntare il fucile,<br />
ma lo zio lo trattenne. — No, è lontano ancora, an<strong>di</strong>amo avanti. Si lascia<br />
avvicinare <strong>di</strong> più —. Il babbo gli <strong>di</strong>ede retta, ma avevano fatto pochi altri<br />
passi, che la lepre scattò, e allora fu che la vi<strong>di</strong>. Era un leprone grosso,<br />
quasi bianco: solo il fil della schiena era argentato. Scattò, alzò un orec‐<br />
chio, e a piccoli salti cominciò a <strong>di</strong>lungarsi da noi. Il babbo pigliò la mira:<br />
bum! La lepre seguita a correre. Il babbo spara da quell’altra canna. La
Primo libro <strong>di</strong> lettura 37<br />
lepre corre sempre. Io, ormai, non pensavo più né al babbo né a tutto il<br />
resto. Pigliai la mira, così alle loro spalle: bum! Guardo, e non credo ne‐<br />
anch’io ai miei occhi: la lepre aveva fatto una capriola, stava là in terra, e<br />
solo con la zampa <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro annaspava.<br />
Il babbo e lo zio si voltarono: — E tu, <strong>di</strong> dove sei scaturito? Bravo il<br />
nostro giovanotto! — E da quel giorno mi <strong>di</strong>edero il fucile, e mi permise‐<br />
ro <strong>di</strong> tirare.<br />
Mignolino.<br />
(Leggenda).<br />
Un uomo povero aveva sette figli, uno più piccino dell’altro. Il più<br />
piccino <strong>di</strong> tutti era così piccolo, che quando era nato, non era più grosso<br />
d’un <strong>di</strong>to. Poi era cresciuto un pochino, ma era sempre rimasto <strong>di</strong> poco<br />
piú grosso d’un <strong>di</strong>to: e per questo gli avevano messo nome Mignolino.<br />
Ma Mignolino, benché fosse piccolo, era molto svelto e furbo.<br />
Il padre e la madre <strong>di</strong>ventarono sempre più poveri, e alla fine si ri‐<br />
dussero in tanta miseria, che non avevano più nemmeno un boccone da<br />
dar da mangiare ai figlioli. Si consigliarono, si consigliarono fra loro, e<br />
decisero <strong>di</strong> portare i bambini nel bosco, più lontano possibile, e là ab‐<br />
bandonarli, in modo che a casa non tornassero più. Mentre il padre e la<br />
madre parlavano <strong>di</strong> queste cose, Mignolino non dormiva e ascoltava o‐<br />
gni parola. Al mattino, Mignolino si svegliò prima <strong>di</strong> tutti, corse al fiu‐<br />
micello, e si riempì le tasche <strong>di</strong> sassolini bianchi. Quando il padre e la<br />
madre condussero i bambini nel bosco, Mignolino andava <strong>di</strong>etro per ul‐<br />
timo, e ogni tanto prendeva <strong>di</strong> tasca un sassolino e lo gettava sulla stra‐<br />
da.<br />
Allorché il padre e la madre ebbero portato i bambini ben lontano nel<br />
bosco, scivolarono <strong>di</strong>etro agli alberi e fuggirono via. I bambini comincia‐<br />
rono a chiamarli, e quando s’avvidero che non veniva nessuno, si misero<br />
a piangere.<br />
Soltanto Mignolino non piangeva. Egli gridava agli altri, con la sua<br />
voce fina fina: — Smettetela <strong>di</strong> piangere, vi porterò io fuori del bosco! —<br />
Ma i fratelli piangevano tanto forte, che non lo sentivano. Quando fi‐<br />
nalmente l’ebbero sentito, lui li avvisò che aveva gettato lungo la strada<br />
tutti quei sassolini bianchi, e così avrebbe potuto condurli fuori del bo‐<br />
sco: e quelli si rallegrarono, e gli andarono appresso. Mignolino<br />
s’avanzava <strong>di</strong> sassolino in sassolino, e in questo snodo li ricondusse fino<br />
a casa.
38<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Proprio quello stesso giorno che il padre e la madre avevano portato i<br />
bambini via per il bosco, era arrivato al padre un po’ <strong>di</strong> denaro. E il pa‐<br />
dre e la madre stavano <strong>di</strong>cendo: — Perché abbiamo portato i nostri figli<br />
nel bosco? Essi, laggiù, perderanno la vita. E pensare che adesso il dena‐<br />
ro non ci manca, e potremmo dar da mangiare in abbondanza a quei<br />
bambini! — La madre si mise a piangere, e <strong>di</strong>sse: — Ah, se quei bambini<br />
fossero qua con noi! — Allora Mignolino, che stava sotto la finestra, la<br />
udì, e <strong>di</strong>sse: — Eccoci qua!<br />
La madre si rallegrò tutta, corse alla porta, e tutti i bambini; uno <strong>di</strong>e‐<br />
tro l’altro, entrarono in casa.<br />
Comperarono tutto quello che bisognava, e ricominciarono a vivere<br />
come prima; e vissero bene, fino a quando il denaro non fu terminato.<br />
Ma il denaro terminò un’altra volta, e un’altra volta padre e madre ri‐<br />
cominciarono a chiedersi come potevano fare, e un’altra volta decisero<br />
<strong>di</strong> portare i bambini nel bosco, e abbandonarli là.<br />
Mignolino, anche questa volta, sentì quel che <strong>di</strong>cevano, e appena fu<br />
giorno, zitto zitto, fece per andare al fiumicello a prendere i sassolini. Si<br />
accostò alla porta e cercò d’aprire, ma la porta era chiusa col saliscen<strong>di</strong>;<br />
lui cercò <strong>di</strong> spostarlo, ma per quanto s’arrabattasse, non riuscì ad arriva‐<br />
re fino al saliscen<strong>di</strong>.<br />
I sassolini, così, non gli fu possibile raccoglierli: e allora prese, del pa‐<br />
ne. Se lo mise in tasca e pensò: quando ci porteranno via, io butterò tante<br />
briciole <strong>di</strong> questo pane lungo la strada, e appresso alle briciole ricondur‐<br />
rò i miei fratelli in casa.<br />
Il padre e la madre condussero un’altra volta i bambini nel, bosco, e<br />
là li abbandonarono; e un’altra volta Mignolino gettò lungo la strada<br />
tante briciole <strong>di</strong> pane.<br />
Quando i fratelli più gran<strong>di</strong> cominciarono a piangere, Mignolino<br />
promise un’altra volta <strong>di</strong> portarli in salvo.<br />
Ma questa volta, però, non riuscì a ritrovare la strada, perché gli uc‐<br />
celli s’erano beccate tutte quante le briciole del pane.<br />
I bambini camminarono, camminarono per il bosco senza trovare la<br />
strada, fin tanto che fece notte fonda. Piansero, piansero, e poi<br />
s’addormentarono tutti. Mignolino fu il primo a risvegliarsi; e s’ar‐<br />
rampicò su un albero: guardò tutt’intorno, e vide una capannella. Scese<br />
dall’albero, svegliò i fratelli e li condusse a quella capannella.<br />
Provarono a bussare, e apparve sulla porta una vecchietta, e doman‐<br />
dò che cosa volevano. Loro <strong>di</strong>ssero che s’erano perduti nel bosco. Allora<br />
la vecchietta li fece entrare in casa, e <strong>di</strong>sse: — Ho pena <strong>di</strong> voi, che siete<br />
venuti qui! Mio marito è un orco. E se lui vi vede, vi mangia. Mi fate
Primo libro <strong>di</strong> lettura 39<br />
proprio pena. Nascondetevi qua sotto il letto, e domani vi farò scappar<br />
via! —. I bambini si spaventarono, e s’appiattarono sotto il letto. D’im‐<br />
provviso sentono qualcuno che bussa alla porta, e entra nella stanza.<br />
Mignolino sbirciò da sotto il letto, e che cosa vide? Il terribile orco<br />
s’era seduto a tavola, e gridava alla vecchietta: — Dà qua il vino! — La<br />
vecchia gli <strong>di</strong>ede il vino; quello bevve, e poi cominciò a fiutare: — Cosa<br />
c’è qua dentro, che manda quest’odore d’uomo? Tu hai nascosto qual‐<br />
cuno? —<br />
La vecchietta insisteva che non c’era nessuno, ma l’orco si mise a fiu‐<br />
tare sempre più alle strette, e così, guidandosi col fiuto, arrivò al letto. Si<br />
mise a spazzare con le mani sotto al letto, acchiappo’ per una gambetta<br />
Mignolino, e gridò: — Ah, eccoli qua! — E li tirò fuori tutti quanti, e fece<br />
gran<strong>di</strong> feste. Poi prese un coltello, e si preparò a squartarli, ma la moglie<br />
lo trattenne. Essa gli <strong>di</strong>sse: — Ve<strong>di</strong> come sono magri e patiti: ingrassia‐<br />
moli un pochino, <strong>di</strong>venteranno più freschi e gustosi! — L’orco le <strong>di</strong>ede<br />
ascolto: le or<strong>di</strong>nò che li facesse ingrassare e li mettesse a dormire insieme<br />
con le loro figliolette.<br />
Infatti l’orco aveva sette figliolette, piccoline come i fratelli <strong>di</strong> Migno‐<br />
lino. Queste figliolette, si coricavano e dormivano tutte in un letto, e o‐<br />
gnuna teneva in capo una cuffietta d’oro. Mignolino notò la cosa, e<br />
quando l’orco e la moglie se ne furono andati, pian pianino tolse le cuf‐<br />
fiette alle figlie dell’orco, se le infilò lui coi fratelli, e i berrettini, che ave‐<br />
vano lui e i suoi fratelli, li mise in testa alle bambine.<br />
Tutta la notte l’orco continuò a bere vino. E quando ebbe bevuto ben<br />
bene, gli tornò voglia <strong>di</strong> mangiare. S’alzò e andò in quella stanza dove<br />
stavano a dormire Mignolino coi suoi fratelli e le sette bambine. Si avvi‐<br />
cinò ai ragazzetti, tastò sulle loro teste le cuffiette d’oro, e <strong>di</strong>sse: — Ma<br />
guarda, sono tanto ubriaco che per un capello non ho sgozzato le figlie<br />
mie! — Lasciò i maschietti e andò dalle figlie: tastò in capo a quelle i ber‐<br />
rettini flosci, e le sgozzò dalla prima all’ultima: poi s’addormentò.<br />
Allora Mignolino fece levare i fratelli, aprì la porta e fuggì con loro<br />
nel bosco.<br />
Tutta quella notte, e tutto il giorno dopo, i bambini camminarono<br />
sempre, eppure non vennero a capo <strong>di</strong> uscire dal bosco.<br />
Intanto l’orco, quando la mattina si svegliò, e vide che invece <strong>di</strong> quei<br />
figli d’altri aveva sgozzato i figli suoi, calzò gli stivali delle sette leghe e<br />
corse al bosco a cercare i bambini.<br />
E bisogna sapere che questi stivali delle sette leghe erano fatti in mo‐<br />
do, che chi li calzava, ogni passo che faceva, percorreva sette leghe.
40<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
L’orco cercò, cercò i bambini, ma non li trovò, e alla fine, poco <strong>di</strong>stan‐<br />
te da loro, si fermò a riposare, e s’addormentò.<br />
Mignolino avvistò l’orco che dormiva, gli s’accostò chiotto chiotto, gli<br />
cavò <strong>di</strong> tasca una manciata <strong>di</strong> monete d’oro, e le <strong>di</strong>stribuì ai fratelli. Poi,<br />
pian pianino, gli sfilò gli stivali. Quando glieli ebbe sfilati, calzò lui stes‐<br />
so quegli stivali delle sette leghe, <strong>di</strong>sse ai fratelli che si prendessero forte<br />
per mano, e si tenessero ben attaccati a lui. E lui si slanciò a correre così<br />
alla svelta, che in un lampo uscì fuori dal bosco e si ritrovò a casa sua.<br />
Quando furono tornati, <strong>di</strong>edero quell’oro ai genitori. E così <strong>di</strong>venta‐<br />
rono ricchi, e non accadde più che li cacciassero <strong>di</strong> casa.<br />
Volle uno sciocco<br />
girar la Russia,<br />
vedere gente,<br />
farsi presente.<br />
Vide lo sciocco<br />
due case vuote:<br />
guardò in cantina:<br />
là in fondo, <strong>di</strong>avoli<br />
col capo a punta,<br />
occhi a cucchiaio,<br />
baffi a forchetta,<br />
mani a rastrello,<br />
giocano a carte,<br />
tirano i da<strong>di</strong>,<br />
contano i sol<strong>di</strong>.<br />
Disse lo sciocco:<br />
—Che Dio vi aiuti,<br />
buoni cristiani! —<br />
Non piacque ai <strong>di</strong>avoli,<br />
che lo agguantarono,<br />
lo briscolarono,<br />
lo soffocarono:<br />
poi mezzo morto<br />
lo abbandonarono.<br />
Torna lo sciocco<br />
Lo sciocco.<br />
(Leggenda in versi).
a casa urlando,<br />
piagnucolando.<br />
Mamma a sgridarlo,<br />
moglie e sorella<br />
a rimbrottarlo:<br />
— Un grande sciocco<br />
sei tu, Babino:<br />
non a quel modo<br />
dovevi <strong>di</strong>re! —<br />
Dovevi <strong>di</strong>re:<br />
«Nemico, Id<strong>di</strong>o ti male<strong>di</strong>ca!»<br />
Allora i <strong>di</strong>avoli<br />
via come il vento,<br />
e tu d’argento<br />
ti caricavi,<br />
non <strong>di</strong> legnate! —<br />
Va bene, moglie,<br />
si, mogliettina,<br />
mamma Pasquetta,<br />
sorella Betta,<br />
sciocco son stato,<br />
non sarò più! —<br />
E andò lo sciocco<br />
via per la Russia<br />
a veder gente,<br />
farsi presente.<br />
Vide lo sciocco<br />
quattro fratelli:<br />
coi correggiati<br />
battono il grano.<br />
Dice ai fratelli:<br />
— Nemico, Id<strong>di</strong>o ti male<strong>di</strong>ca!<br />
Quelli lo acchiappano<br />
in quattro insieme,<br />
e lo stangarono,<br />
e lo tritarono:<br />
poi mezzo morto<br />
lo abbandonarono.<br />
Torna lo sciocco<br />
a casa urlando,<br />
Primo libro <strong>di</strong> lettura 41
42<br />
piagnucolando.<br />
Mamma a sgridarlo,<br />
moglie e sorella<br />
a rimbrottarlo:<br />
— Un grande sciocco<br />
sei tu, Babino:<br />
non a quel modo<br />
dovevi <strong>di</strong>re!<br />
Dovevi <strong>di</strong>re:<br />
«Che Dio vi aiuti:<br />
così possiate<br />
far cento sacchi<br />
per ogni dí:<br />
ed ogni tribolo<br />
lontan <strong>di</strong> qui! »<br />
— Va bene, moglie,<br />
si, mogliettina,<br />
mamma Pasquetta,<br />
sorella Betta,<br />
sciocco son stato,<br />
non sarò piú! —<br />
E andò lo sciocco<br />
via per la Russia<br />
a veder gente,<br />
farsi presente.<br />
Vede lo sciocco<br />
sette fratelli:<br />
portan la madre<br />
al camposanto:<br />
piangono tutti,<br />
urlano forte.<br />
E lui gli <strong>di</strong>ce:<br />
— Che Dio vi aiuti,<br />
da bravi, in sette,<br />
a seppellire<br />
la vostra madre:<br />
così possiate<br />
portarne cento<br />
per ogni dí:<br />
ed ogni tribolo<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura
lontan <strong>di</strong> qui! —<br />
Quelli lo acchiappano<br />
in sette insieme:<br />
lo malmenarono,<br />
lo taroccarono,<br />
in mezzo al fango<br />
lo rotolarono:<br />
poi mezzo morto<br />
lo abbandonarono.<br />
E va, lo sciocco,<br />
a casa urlando,<br />
piagnucolando.<br />
Mamma a sgridarlo,<br />
moglie e sorella<br />
a rimbrottarlo:<br />
— Sei un grande sciocco,<br />
non a quel modo<br />
dovevi <strong>di</strong>re!<br />
Dovevi <strong>di</strong>re:<br />
«Incenso e preci!<br />
Che Id<strong>di</strong>o vi prenda<br />
nella sua gloria,<br />
in Para<strong>di</strong>so!»<br />
Così tu, sciocco,<br />
ti rimpinzavi<br />
<strong>di</strong> buon risotto<br />
e <strong>di</strong> frittelle!<br />
— Va bene, moglie,<br />
si, mogliettina,<br />
mamma Pasquetta,<br />
sorella Betta,<br />
sciocco son stato,<br />
non sarò più! —<br />
E andò lo sciocco<br />
via per la Russia<br />
a veder gente,<br />
farsi presente.<br />
Incontra un grande<br />
corteo <strong>di</strong> sposi,<br />
e lui gli <strong>di</strong>ce:<br />
Primo libro <strong>di</strong> lettura 43
44<br />
— Incenso e preci!<br />
Che Id<strong>di</strong>o vi prenda<br />
nella sua gloria,<br />
in Para<strong>di</strong>so! —<br />
Saltano fuori<br />
quei giovanotti,<br />
e giù allo sciocco:<br />
lo bastonarono,<br />
lo scardassarono,<br />
perfino in faccia<br />
lo scu<strong>di</strong>sciarono.<br />
Se ne va in lacrime,<br />
cammina e piange.<br />
Mamma a sgridarlo,<br />
moglie e sorella<br />
a rimbrottarlo:<br />
— Un grande sciocco<br />
sei tu, Babino:<br />
non a quel modo<br />
dovevi <strong>di</strong>re!<br />
Dovevi <strong>di</strong>re:<br />
«Dio vi conceda,<br />
mio re e regina,<br />
il sacramento<br />
del matrimonio:<br />
viver d’accordo<br />
e aver figlioli!»<br />
— Si si, finora<br />
sciocco son stato,<br />
non sarò più! —<br />
E andò lo sciocco<br />
via per la Russia<br />
a veder gente,<br />
farsi presente.<br />
Gli viene incontro<br />
un eremita.<br />
E lui gli <strong>di</strong>ce:<br />
— Dio ti conceda<br />
il sacramento<br />
del matrimonio:<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura
viver d’accordo<br />
e aver figlioli! —<br />
Lo agguanta<br />
il vecchio<br />
per il colletto,<br />
e giù a picchiarlo,<br />
a tempestarlo<br />
con quel bastone,<br />
fino a spezzarlo.<br />
Torna lo sciocco<br />
a casa, e piange.<br />
Mamma a sgridarlo,<br />
moglie e sorella<br />
a rimbrottarlo:<br />
— Un grande sciocco<br />
sei tu, Babino:<br />
non a quel modo<br />
dovevi <strong>di</strong>re!<br />
Dovevi <strong>di</strong>re:<br />
«Oh padre santo,<br />
deh, bene<strong>di</strong>cimi!»<br />
Va bene, moglie,<br />
si, mogliettina,<br />
mamma Pasquetta,<br />
sorella Betta:<br />
sciocco son stato,<br />
non sarò più! —<br />
E andò lo sciocco<br />
via per la Russia,<br />
dentro una selva.<br />
Vide lo sciocco,<br />
nel folto, un orso:<br />
l’orso fra i pini<br />
sbrana una vacca.<br />
E lui gli <strong>di</strong>ce:<br />
— Oh padre santo,<br />
deh, bene<strong>di</strong>cimi! —<br />
S’avventa l’orso,<br />
piglia lo sciocco,<br />
e giù a sgraffiarlo,<br />
Primo libro <strong>di</strong> lettura 45
46<br />
a massacrarlo:<br />
poi mezzo morto<br />
lo lascia a terra.<br />
Torna lo sciocco<br />
a casa urlando,<br />
piagnucolando.<br />
Lo <strong>di</strong>ce a mamma.<br />
Mamma a sgridarlo,<br />
moglie e sorella<br />
a rimbrottarlo:<br />
— Un grande sciocco<br />
sei tu, Babino:<br />
non a quel modo<br />
dovevi <strong>di</strong>re!<br />
Dovevi aizzarlo,<br />
fargli l’urlata,<br />
la chiucchiurlaia!<br />
—Va bene, moglie,<br />
si mogliettina,<br />
mamma Pasquetta,<br />
sorella Betta:<br />
sciocco son stato,<br />
non sarò più. —<br />
E andò lo sciocco<br />
via per la Russia<br />
a veder gente,<br />
farsi presente.<br />
Mentre s’avanza<br />
in campo aperto,<br />
gli viene incontro<br />
un generale.<br />
E lui l’aizza,<br />
gli fa l’urlata,<br />
la chiucchiurlaia.<br />
Il generale<br />
chiama i soldati:<br />
quelli lo agguantano,<br />
e giù a pestarlo...<br />
E lì alla fine,<br />
povero sciocco,<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura
l’ossa lasciò.<br />
Primo libro <strong>di</strong> lettura 47<br />
L’eroe Svjatagòr.<br />
(Leggenda in versi).<br />
Cavalca Svjatagòr in campo aperto,<br />
e non trova nessuno da affrontare,<br />
da provar la sua forza <strong>di</strong> gigante:<br />
ed egli sente in sé una forza immensa,<br />
se la sente giocare nelle vene.<br />
E <strong>di</strong>ce Svjatagòr superbamente:<br />
— Se con questa mia forza <strong>di</strong> gigante<br />
trovo un puntello, sollevo la terra —.<br />
Detto appena così, vede un viandante<br />
lontano per la steppa, sacco a spalla:<br />
e in<strong>di</strong>rizza il cavallo a quel viandante.<br />
Avanza al trotto, e quello è sempre innanzi:<br />
si lancia a tutta corsa, e non lo arriva.<br />
Allora Svjatagòr gridò a gran voce:<br />
— Oh quell’uomo, viandante, aspetta un poco,<br />
ché non t’arrivo col mio buon cavallo —.<br />
Di lontano il viandante l’ha sentito,<br />
s’è fermato, scarica il sacco a terra.<br />
S’accosta Svjatagòr a questo sacco,<br />
col suo frustino lo tocca e ritocca:<br />
fermo sta il sacco, come ra<strong>di</strong>cato,<br />
Di sella, allora, col <strong>di</strong>to lo stuzzica,<br />
ma non dà volta il sacco, non si sposta.<br />
Di sella Svjatagòr lo agguanta, tira:<br />
non s’alza il sacco, come ra<strong>di</strong>cato.<br />
Allora Svjatagòr scese <strong>di</strong> sella,<br />
s’aggiustò bene, lo afferrò a due mani,<br />
con tutta la sua forza <strong>di</strong> gigante scattò:<br />
sul bianco viso affiorò il sangue,<br />
ma alzò il sacco da terra appena un filo.<br />
E a mezza gamba intanto era affondato<br />
egli nella feconda terra madre.<br />
Esclama qui Svjatagòr a gran voce:<br />
—Dimmi, viandante, la verità santa:<br />
che cosa, dì, nel sacco sta racchiuso? —
48<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
E gli <strong>di</strong>ce il viandante <strong>di</strong> rimando:<br />
— Nel sacco è il peso della terra madre —.<br />
Allora Svjatagòr <strong>di</strong>ce al viandante:<br />
— Ma tu chi sei, come ti fai chiamare? —<br />
E gli <strong>di</strong>ce il viandante <strong>di</strong> rimando:<br />
— Son Mikula124 , il villano, il conta<strong>di</strong>no:<br />
mi vuol bene la terra nostra madre.<br />
124 Forma conta<strong>di</strong>nesca per Nicolaj, Nicola.
Secondo libro <strong>di</strong> lettura
La bambina e i funghi.<br />
(Racconto dal vero)<br />
Due bambine tornavano a casa con un po’ <strong>di</strong> funghi.<br />
Esse dovevano attraversare la linea ferroviaria.<br />
Pensando che il treno fosse lontano, s’arrampicarono sul terrapieno e<br />
passarono attraverso i binari.<br />
D’improvviso si sentì il rumore del treno. La bambina più grande<br />
tornò in<strong>di</strong>etro <strong>di</strong> corsa; la più piccola, <strong>di</strong> corsa anche lei, s’inoltrò in<br />
mezzo alla linea.<br />
La più grande gridò alla sorella: — Non tornare in<strong>di</strong>etro.<br />
Ma il treno era così vicino e faceva tanto rumore, che la bambina più<br />
piccola non udì bene: capì <strong>di</strong> dover tornare in<strong>di</strong>etro. Tornò in<strong>di</strong>etro <strong>di</strong><br />
corsa scavalcando i binari, inciampo’, fece cadere i funghi, e si mise a<br />
raccogliergli.<br />
Il treno era già vicino, e il macchinista fischiava a più non posso.<br />
La bambina più grande gridò: — Lascia stare i funghi! — ma la bam‐<br />
bina più piccola capì che doveva raccoglierli, e s’attardava accucciata là<br />
in mezzo alla linea.<br />
Il macchinista non riuscì a fermare il treno. Fischiando a più non pos‐<br />
so, la macchina investì la bambina.<br />
La sorella più grande gridava e piangeva. Tutti i viaggiatori s’erano<br />
affacciati ai finestrini dei vagoni, e il capotreno corse in coda al treno,<br />
per vedere che cosa era accaduto alla bambina.<br />
Quando il treno fu passato, tutti videro che la bambina stava stesa fra<br />
le verghe delle rotaie con la testa contro terra, e non faceva il più piccolo<br />
movimento.<br />
Poi, quando il treno si fu ben scostato da lei, la bambina sollevò la te‐<br />
sta, si rizzò sulle ginocchia, raccattò tutti i funghi, e <strong>di</strong> corsa tornò dalla<br />
sorella.<br />
L’asino nella pelle del leone.<br />
(Favola).<br />
Un asino aveva indossato la pelle d’un leone, e tutti credevano che<br />
fosse un leone. Uomini e bestie scappavano via. Levò il vento, la pelle<br />
s’apri, e apparve l’asino. La gente accorse: e l’asino fu caricato <strong>di</strong> legnate.
52<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
La rugiada sull’erba.<br />
(Descrizione).<br />
Quando, una bella mattina d’estate, tu vai in un bosco, o in mezzo ai<br />
campi, ve<strong>di</strong> sparsi sull’erba tanti brillanti. Questi brillanti risplendono e<br />
giocano sotto il sole con tanti colori <strong>di</strong>versi: giallo, rosso, azzurro. Quan‐<br />
do ti accosti più da vicino, e guar<strong>di</strong> bene che cosa sono, ti accorgi che<br />
sono gocce <strong>di</strong> rugiada posate su foglie d’erba a tre lobi, <strong>di</strong> dove risplen‐<br />
dono al sole.<br />
Si tratta <strong>di</strong> un’erba che ha le foglioline pelose all’interno e soffici come<br />
velluto. E le gocce rotolano sulla foglia senza bagnarla.<br />
Se strappi sbadatamente una <strong>di</strong> queste foglioline che sostengono la<br />
rugiada, la gocciolina rotola giù come una pallina luccicante e, prima che<br />
te ne accorgi, è già scivolata via per il gambo. Ma se cogli una <strong>di</strong> queste<br />
tazzettine, te l’accosti pian piano alla bocca, e riesci a berne la goccia <strong>di</strong><br />
rugiada, quella rugiada ti parrà più gustosa <strong>di</strong> qualunque bevanda.<br />
La gallina e la ron<strong>di</strong>ne.<br />
(Favola).<br />
Una gallina trovò certe uova <strong>di</strong> serpe, e si mise a covarle. La vide una<br />
ron<strong>di</strong>ne, e <strong>di</strong>sse:<br />
— Guarda, guarda che stupida! Tu ne farai sbocciare i serpi, e quando<br />
quelli saranno cresciuti, assaliranno per prima te!<br />
L’In<strong>di</strong>ano e l’Inglese.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Gl’In<strong>di</strong>ani avevano fatto prigioniero in guerra un giovane Inglese: lo<br />
legarono a un albero, e volevano ucciderlo.<br />
Un vecchio In<strong>di</strong>ano s’avvicinò e <strong>di</strong>sse: — Non lo uccidete: datelo a<br />
me.<br />
E a lui fu dato.<br />
Il vecchio In<strong>di</strong>ano slegò l’Inglese, lo portò alla sua capanna, gli <strong>di</strong>ede<br />
da mangiare e gli preparò da dormire.<br />
La mattina dopo, l’In<strong>di</strong>ano or<strong>di</strong>nò all’Inglese che lo seguisse. Cam‐<br />
minarono un pezzo, e quando furono vicini all’accampamento inglese,<br />
l’In<strong>di</strong>ano <strong>di</strong>sse:
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 53<br />
— I tuoi compagni hanno ucciso mio figlio, e io ti ho salvato la vita:<br />
tu torna pure dai tuoi, e continua a ucciderci.<br />
L’Inglese restò meravigliato, e <strong>di</strong>sse:<br />
— Perché tu ti beffi <strong>di</strong> me? Io so che i miei compagni hanno ucciso<br />
tuo figlio: ucci<strong>di</strong>mi dunque, senza farla più lunga. Allora l’In<strong>di</strong>ano <strong>di</strong>sse:<br />
— Quando stavano per ucciderti, io mi sono ricordato <strong>di</strong> mio figlio, e<br />
m’è venuta compassione <strong>di</strong> te. Io non <strong>di</strong>co per beffa: torna dai tuoi, e<br />
continua a ucciderci, se così ti pare! — E l’In<strong>di</strong>ano lasciò libero l’Ingle‐<br />
se.<br />
Il cervo e il cerbiatto.<br />
(Favola).<br />
Un cerbiatto <strong>di</strong>sse una volta a un cervo:<br />
— Babbo, tu sei più grosso e più svelto dei cani, e per <strong>di</strong>ppiù hai certe<br />
corna così gran<strong>di</strong> per <strong>di</strong>fenderti: come mai, dunque, hai tanta paura dei<br />
cani?<br />
Il cervo si mise a ridere e <strong>di</strong>sse:<br />
— Dici la verità, figliolo mio! Il guaio è uno solo: appena sento ab‐<br />
baiare i cani, prima ancora <strong>di</strong> fare un pensiero qualsiasi, già scappo.<br />
Il corpettino.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Un conta<strong>di</strong>no s’era messo a commerciare, e s’era tanto arricchito, che<br />
era <strong>di</strong>ventato il primo riccone della città. Teneva sotto <strong>di</strong> sé centinaia <strong>di</strong><br />
commessi, e anzi non li conosceva neanche tutti per nome.<br />
Un giorno, mancarono al commerciante ventimila rubli. I commessi<br />
più anziani si misero a far le ricerche, e finalmente trovarono quello che<br />
aveva rubato il denaro.<br />
Uno dei commessi anziani andò dal mercante e gli <strong>di</strong>sse: — Io ho tro‐<br />
vato il ladro. Bisogna mandarlo in Siberia.<br />
Il mercante <strong>di</strong>sse: — Chi è che ha rubato?<br />
Il commesso <strong>di</strong>sse: — Ivàn Petròv, lo ha confessato lui stesso. Il mer‐<br />
cante pensò un momento, poi <strong>di</strong>sse: — Ivàn Petròv va perdonato.<br />
Il commesso si meravigliò e <strong>di</strong>sse: — Come, va perdonato? Così an‐<br />
che gli altri commessi agiranno allo stesso modo: faranno man bassa <strong>di</strong><br />
tutto.
54<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Ma il mercante <strong>di</strong>sse: — Ivàn Petròv va perdonato. Quando io entrai<br />
in commercio, io e lui eravamo compagni. Quando presi moglie, non sa‐<br />
pevo come vestirmi per lo sposalizio. Fu lui che mi prestò il suo corpet‐<br />
tino. Ivàn Petròv va perdonato.<br />
E così tutto fu perdonato a Ivàn Petròv.<br />
La volpe e l’uva.<br />
(Favola).<br />
Una volpe vide pendere in aria certi grappoli d’uva ben maturi, e si<br />
mise a cercare il modo e la maniera <strong>di</strong> arrivare a mangiarli.<br />
Essa s’arrabattò per un pezzo, ma non riuscì ad arrivarci. Per mandar<br />
giù la rabbia, <strong>di</strong>sse: — Sono acerbi, ancora!<br />
La fortuna.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Certi uomini erano sbarcati su un’isola, dove c’era abbondanza <strong>di</strong><br />
pietre preziose. Gli uomini si sforzavano <strong>di</strong> trovarne più che potevano:<br />
poco mangiavano, poco dormivano, e stavano sempre a lavorare. Uno<br />
solo non faceva mai niente: se ne stava li fermo fermo, mangiava, beveva<br />
e dormiva.<br />
Quando venne l’ora <strong>di</strong> tornare a casa, gli altri svegliarono quest’uo‐<br />
mo, e gli <strong>di</strong>ssero: — E tu, con che cosa tornerai a casa?<br />
Quello prese a casaccio una manciata <strong>di</strong> terra che aveva lì sotto i pie‐<br />
<strong>di</strong>, e se la mise nel sacco.<br />
Quando tutti furono in casa, l’uomo cavò dal sacco la sua terra, e ci<br />
trovò una pietra più preziosa <strong>di</strong> tutte le altre messe insieme.<br />
Le operaie e il gallo.<br />
(Favola).<br />
Una padrona svegliava <strong>di</strong> notte le sue operaie e, al primo canto del<br />
gallo, le metteva al lavoro.<br />
Alle operaie questa vita riusciva dura, e pensarono d’ammazzare il<br />
gallo, in modo che non svegliasse più la padrona. Lo ammazzarono, e fu
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 55<br />
peggio: la padrona, per timore <strong>di</strong> non svegliarsi a tempo, da quel giorno<br />
in poi fece alzare le operaie ancora più <strong>di</strong> buonora.<br />
La macchina che gira da sola.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Un conta<strong>di</strong>no s’era impratichito nella costruzione dei mulini, e si mi‐<br />
se a fabbricare mulini ad acqua, a vento e a cavalli.<br />
Poi gli venne l’idea <strong>di</strong> congegnare un mulino fatto in modo che non<br />
avesse bisogno né d’acqua, né <strong>di</strong> vento, né <strong>di</strong> cavalli: voleva congegnarlo<br />
in modo che una pietra pesante scendesse in basso, e col suo peso faces‐<br />
se girare una ruota, poi <strong>di</strong> nuovo si sollevasse in alto, e <strong>di</strong> nuovo rica‐<br />
desse giù: e così il mulino andasse da solo.<br />
Il conta<strong>di</strong>no si recò dal padrone e gli <strong>di</strong>sse: — Io ho ideato un mulino<br />
fatto in modo che dovrà andare da solo, senz’acqua e senza cavalli: ba‐<br />
sterà metterlo in moto, e quello seguiterà a girare finché tu non lo ferme‐<br />
rai. Mi mancano soltanto i denari per il legname e per il ferro. Dammi tu,<br />
padrone, un migliaio <strong>di</strong> lire, e io fabbricherò questo mulino per te prima<br />
<strong>di</strong> tutti.<br />
Il padrone domandò al conta<strong>di</strong>no se sapeva leggere.<br />
Il conta<strong>di</strong>no rispose <strong>di</strong> no.<br />
Allora il padrone gli <strong>di</strong>sse: — Ecco, se tu sapevi leggere, io ti avrei da‐<br />
to un libretto <strong>di</strong> meccanica, e lì avresti letto quello che c’è scritto a pro‐<br />
posito dei mulini come il tuo, e avresti veduto che un mulino così non è<br />
possibile fabbricarlo, e che già molte persone istruite hanno perso il cer‐<br />
vello per questa idea d’inventare un mulino che andasse da solo.<br />
Il conta<strong>di</strong>no non credette al padrone, e rispose: — Nei vostri libri ci<br />
sono scritte tante sciocchezze! Per esempio, c’è stato un meccanico con<br />
tanto d’istruzione, che ha montato un vaglio per il grano a un negozian‐<br />
te in città, e glielo ha guastato e nient’altro. Invece io, che sono un igno‐<br />
rante, appena ci ho dato un’occhiata ho subito capito: ha raggiustato una<br />
manovella, e il vaglio ha cominciato a lavorare.<br />
Il padrone gli <strong>di</strong>sse: — Dì un po’: in che modo vorresti far risalire la<br />
tua pietra, quando sarà scesa in basso?<br />
Il conta<strong>di</strong>no rispose: — Risalirà da sola, con la ruota stessa.<br />
Il padrone <strong>di</strong>sse: — Risalirà, ma fino a un punto più basso <strong>di</strong> prima, e<br />
la seconda volta a un punto ancora più basso, e poi si fermerà, qualun‐<br />
que specie <strong>di</strong> ruote tu cerchi <strong>di</strong> congegnare. È la stessa cosa come quan‐<br />
do, con una slitta, vieni giù da una grande altura: potrai risalire su un’al‐
56<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
tura più piccola, ma da quella più piccola non potrai mai risalire in<strong>di</strong>etro<br />
su quella grande.<br />
Il conta<strong>di</strong>no non gli credette: andò da un commerciante, e gli promise<br />
<strong>di</strong> fabbricargli un mulino senz’acqua e senza cavalli.<br />
Il commerciante sborsò il denaro. Il conta<strong>di</strong>no si mise a fare, a <strong>di</strong>sfare,<br />
consumò nella faccenda tutt’e mille le lire, ma il mulino non andava.<br />
Allora il conta<strong>di</strong>no cominciò a vendere del suo, e a forza <strong>di</strong> tentativi<br />
si ridusse al verde.<br />
Ma il commerciante gli <strong>di</strong>ceva: — O tu mi dai il mulino che va da so‐<br />
lo, oppure mi ridai i miei sol<strong>di</strong>.<br />
Tornò il conta<strong>di</strong>no dal padrone, e gli raccontò tutte le sue pene.<br />
Il padrone gli <strong>di</strong>ede il denaro e gli <strong>di</strong>sse: — Resta con me a lavorare:<br />
tu mi farai dei mulini, ma ad acqua e a cavalli, come sei maestro; e d’ora<br />
in avanti non ti mettere più a certe imprese, che anche persone più intel‐<br />
ligenti <strong>di</strong> te non hanno saputo condurre in porto.<br />
Il pescatore e il pesciolino.<br />
(Favola).<br />
Un pescatore acchiappo’ un pesciolino. Allora il pesciolino gli <strong>di</strong>sse:<br />
— Pescatore, ributtami in acqua: mi ve<strong>di</strong>, sono piccolino; tu, con me,<br />
faresti poco profitto. Se invece mi lasci andare, io crescerò, e allora si mi<br />
potrai pigliare: ci farai molto più profitto.<br />
Rispose il pescatore: — Sarei uno sciocco, se ora mi mettessi ad aspet‐<br />
tare un profitto grosso, e intanto mi lasciassi scappare quello piccolo che<br />
ho fra le mani.<br />
Il tatto e la vista.<br />
(Considerazioni).<br />
Prova a intrecciare il <strong>di</strong>to in<strong>di</strong>ce col me<strong>di</strong>o, e con le <strong>di</strong>ta così intreccia‐<br />
te tocca una pallina in modo che essa scorra fra le due <strong>di</strong>ta, e intanto tu<br />
chiu<strong>di</strong> gli occhi. Ti sembrerà che ci siano due palline. Riapri gli occhi:<br />
vedrai che c’è una pallina sola. Le <strong>di</strong>ta ti hanno ingannato, ma gli occhi<br />
hanno corretto il tuo errore.<br />
Prova a guardare (specialmente <strong>di</strong> sghembo) un buono specchio ben<br />
pulito: ti sembrerà che sia una finestra o una porta, e che là <strong>di</strong>etro ci sia
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 57<br />
qualche cosa. Tasta col <strong>di</strong>to, e vedrai che è uno specchio. Gli occhi ti<br />
hanno ingannato, ma le <strong>di</strong>ta hanno corretto il tuo errore.<br />
La volpe e il caprone.<br />
(Favola).<br />
Un caprone ebbe voglia <strong>di</strong> bere: saltò giù sotto una scarpata, dov’era<br />
un pozzo, s’abbeverò e <strong>di</strong>venne greve. Tentò d’arrampicarsi su <strong>di</strong> nuo‐<br />
vo, e non ci riuscì. Allora cominciò a lamentarsi. La volpe lo vide, e <strong>di</strong>s‐<br />
se:<br />
— Guarda lì che sventato! Se avessi tanto cervello in zucca quanti peli<br />
hai nella barba, tu, prima <strong>di</strong> fare il salto, avresti pensato se era possibile,<br />
dopo, riarrampicarti su!<br />
In che modo un conta<strong>di</strong>no tolse via un macigno.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Sulla piazza d’una città stava buttato là un gran macigno. Il macigno<br />
occupava molto posto e impe<strong>di</strong>va il traffico della città. Chiamarono de‐<br />
gli ingegneri e chiesero a loro in che modo si poteva togliere quel maci‐<br />
gno, e quanta sarebbe stata la spesa.<br />
Uno degl’ingegneri <strong>di</strong>sse che il macigno bisognava mandarlo in pezzi<br />
con una mina, poi pezzo per pezzo portarlo via, e la spesa sarebbe stata<br />
<strong>di</strong> quarantamila lire; un altro <strong>di</strong>sse che sotto il macigno bisognava infila‐<br />
re un grosso rullo, e su questo rullo portar via il macigno: e la spesa sa‐<br />
rebbe stata <strong>di</strong> trentamila lire.<br />
Ma ci fu un conta<strong>di</strong>no che <strong>di</strong>sse: — Io toglierò <strong>di</strong> mezzo il macigno e<br />
prenderò in tutto cinquecento lire.<br />
Gli domandarono come avrebbe fatto. E lui <strong>di</strong>sse: — Scaverò, proprio<br />
accanto al macigno, una gran buca: la terra della buca la spanderò per la<br />
piazza, farò rotolare il macigno nella buca, e sopra pareggerò con la ter‐<br />
ra.<br />
E così il conta<strong>di</strong>no fece, e gli furono date le cinquecento lire, e altre<br />
cinquecento <strong>di</strong> giunta per l’idea ingegnosa.
58<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il cane e la sua ombra.<br />
(Favola).<br />
Un cane stava traversando un fiume su una passerella, e fra i denti<br />
portava un pezzo <strong>di</strong> carne. Vide se stesso dentro all’acqua, e credette che<br />
lì sotto ci fosse un altro cane che portava in bocca un pezzo <strong>di</strong> carne: la‐<br />
sciò andare la carne sua, e si lanciò a strapparla all’altro cane. Di quella<br />
carne non c’era neppure l’ombra, e la sua fu portata via dalle onde.<br />
E così il cane restò senza nulla <strong>di</strong> nulla.<br />
Sciat e Don.<br />
(Leggenda russa).<br />
Il vecchio Ivàn aveva due figli: Sciat Ivànič e Don Ivànič. Sciat<br />
Ivànič era il maggiore dei due fratelli: era più forte e più grosso; Don<br />
Ivànič, invece, era il minore, ed era più piccolo e più deboluccio. Il padre<br />
in<strong>di</strong>cò a ciascuno la strada che doveva fare, e raccomandò che dessero<br />
retta alle sue parole. Sciat Ivànič non <strong>di</strong>ede retta al padre, e non seguì<br />
la strada che quello gli aveva in<strong>di</strong>cata: si perdette e non se ne seppe più<br />
nulla. Ma Don Ivànič <strong>di</strong>ede retta al padre, e prese quella <strong>di</strong>rezione che il<br />
padre gli aveva in<strong>di</strong>cata. E la conseguenza fu che egli attraversò tutta la<br />
Russia, e <strong>di</strong>ventò famoso. Nella provincia <strong>di</strong> Tula, <strong>di</strong>stretto <strong>di</strong><br />
Epifàn, c’è un villaggio che porta il nome <strong>di</strong> «Lago <strong>di</strong> Ivàn», e proprio<br />
nel mezzo del villaggio c’è un lago. Dal lago escono due fiumiciattoli<br />
in <strong>di</strong>rezioni opposte. Uno dei fiumiciattoli è così stretto, che un uomo<br />
può scavalcarlo con un passo: e questo fiumicello ha nome Don. L’altro è<br />
d’una certa larghezza, e ha nome Sciat.<br />
Il Don se ne va sempre <strong>di</strong>ritto, e più lontano va, più largo <strong>di</strong>venta.<br />
Lo Sciat continua a far giravolte <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là.<br />
Il Don attraversa tutta la Russia e sfocia nel Mare <strong>di</strong> Azòv. Nelle sue<br />
acque ci sono molti pesci, e sulla sua superficie viaggiano barconi <strong>di</strong><br />
merci e bastimenti a vapore.<br />
Lo Sciat ha fatto lo sciattone 125 : a forza <strong>di</strong> traccheggiare, non è uscito<br />
neanche dalla provincia <strong>di</strong> Tula, e finisce nel fiume Upà.<br />
125 Gioco <strong>di</strong> parole russo: Šat zašatalsja, lo Sciat ha fatto il per<strong>di</strong>giorno.
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 59<br />
Le gru e la cicogna.<br />
(Favola).<br />
Un conta<strong>di</strong>no tese le reti alle gru, che gli facevano danno alla<br />
sementa. Nelle reti rimasero prese alcune gru, e insieme con le gru una<br />
cicogna.<br />
E <strong>di</strong>sse la cicogna al conta<strong>di</strong>no:<br />
— Lasciami libera: io non sono una gru, sono una cicogna; noialtre<br />
siamo la razza d’uccelli piú rispettabile <strong>di</strong> tutte: io abito sul tetto<br />
della casa <strong>di</strong> tuo padre. Anche dalle penne si vede che non sono una<br />
gru.<br />
Rispose il conta<strong>di</strong>no:<br />
— Con le gru t’ho acciuffato, e con loro t’ammazzo.<br />
Sudoma.<br />
(Leggenda russa).<br />
Nella provincia <strong>di</strong> Pskov, <strong>di</strong>stretto <strong>di</strong> Porochòv, si trova il fiumicello<br />
Sudoma, e lungo le rive <strong>di</strong> questo fiumicello ci sono due poggi, uno <strong>di</strong><br />
faccia all’altro.<br />
Su uno <strong>di</strong> questi poggi c’era una volta la citta<strong>di</strong>na <strong>di</strong> Vìsgorod;<br />
sull’altro poggio, ai tempi antichi, gli Slavi amministravano la giustizia. I<br />
vecchi raccontano che su questo poggio, a quei tempi, pendeva dal cielo<br />
una catena, e chi era innocente arrivava con la mano a toccare quella<br />
catena, chi era colpevole, invece, non ci poteva arrivare.<br />
Ci fu un tale che prese in prestito da un altro certi sol<strong>di</strong>, e poi negò <strong>di</strong><br />
averli presi. Li condussero tutti e due al poggio <strong>di</strong> Sudoma, e or<strong>di</strong>narono<br />
che toccassero la catena. Quello che aveva dato i sol<strong>di</strong> alzò la mano, e<br />
subito ci arrivò. Venne la volta che la toccasse il colpevole. Costui non si<br />
rifiutò: non fece altro che consegnare il suo bastone a quello con cui<br />
stava in lite, in modo da essere più agile con le mani a toccar la catena:<br />
stese bene le mani, e la toccò. Allora il popolo si meravigliò: come<br />
potevano aver ragione tutti e due?<br />
Il fatto è che il colpevole aveva il bastone vuoto, e nel vano c’erano<br />
nascosti appunto quei sol<strong>di</strong>, che negava <strong>di</strong> aver presi. Quando aveva<br />
dato a reggere il bastone a quello che glieli aveva prestati, gli aveva dato<br />
insieme col bastone anche i sol<strong>di</strong>, e perciò era arrivato a toccar la catena.<br />
In questo modo l’uomo ingannò tutti. Ma, da quella volta, la catena si<br />
sollevò nel cielo, e non s’abbassò più. Così raccontano i vecchi.
60<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il vignaiolo e i figli.<br />
(Favola).<br />
Un vignaiolo voleva che i figli s’affezionassero al lavoro della vigna.<br />
Quando fu vicino a morire, li chiamò e <strong>di</strong>sse:<br />
— Sentite, figli miei: quando io sarò morto, voi cercate bene nella<br />
vigna, in modo da trovare quel che c’è nascosto.<br />
I figli credettero che là ci fosse un tesoro: e quando il padre fu morto,<br />
si misero a scavare, a scavare, e rivoltarono sottosopra tutta la terra. Il<br />
tesoro non lo trovarono; ma la terra della vigna era stata così ben<br />
rivoltata, che cominciò a fruttare molto <strong>di</strong> più. E loro <strong>di</strong>ventarono ricchi.<br />
Il gufo e la lepre.<br />
(Favola).<br />
Aveva fatto buio. I gufi cominciavano a volare per il bosco lungo il<br />
burrone, in cerca <strong>di</strong> preda.<br />
Saltò fuori, su una piccola radura, un leprone maschio, e si mise a<br />
pavoneggiarsi lì in mostra. Un vecchio gufo <strong>di</strong>ede un’occhiata al<br />
leprone, e si appollaiò su un ramo; ma un gufo giovane gli <strong>di</strong>sse: — Che<br />
fai, che non acchiappi quella lepre? — Il vecchio rispose: — Non è roba<br />
per le nostre forze, è troppo grosso, il lepraccio: tu lo artigli, e lui ti<br />
travolge via nel folto! — Ma il gufo giovane <strong>di</strong>sse: — Allora io, con una<br />
zampa lo artiglierò, e con l’altra, lesto lesto, mi aggrapperò a un albero.<br />
E s’avventò il gufo giovane addosso alla lepre, l’artigliò con una<br />
zampa alla schiena, in modo che tutte le unghie gli ci affondarono<br />
dentro, e con l’altra zampa stava pronto ad aggrapparsi a un albero.<br />
Quando la lepre lo travolse via, il gufo s’aggrappo’ con l’altra zampa<br />
a un albero, e pensò: «Non mi scappa più!» La lepre <strong>di</strong>ede una stratta, e<br />
squarciò il gufo in due. Una zampa rimase attaccata all’albero, l’altra alla<br />
schiena della lepre.<br />
L’anno dopo, un cacciatore uccise quella lepre, e con gran meraviglia<br />
vide che sulla schiena, dentro la carne, c’erano degli artigli <strong>di</strong> gufo.<br />
Il lupo e la gru.<br />
(Favola).<br />
Un lupo aveva in gola un osso per traverso, e non riusciva a rigettarlo
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 61<br />
fuori. Chiamò una gru e le <strong>di</strong>sse:<br />
— Suvvia, gru, tu che hai il collo lungo, ficca la testa nella mia gola, e<br />
cavami quest’osso: te ne compenserò.<br />
La gru ficcò la testa là dentro, cavò fuori quell’osso, e <strong>di</strong>sse: — Ora<br />
dammi la ricompensa.<br />
Il lupo <strong>di</strong>grignò i denti, e poi rispose:<br />
— Ti pare una ricompensa da poco, che io con un morso non ti abbia<br />
staccato la testa, quando mi stava fra i denti?<br />
L’aquila.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Un’aquila aveva fatto il nido su una strada maestra, lontano dal mare,<br />
e lì aveva covato i suoi piccoli.<br />
Un giorno, vicino all’albero, c’era gente al lavoro, quando l’aquila<br />
venne a volo al suo nido con un grosso pesce fra gli artigli. La gente vide<br />
quel pesce: circondarono l’albero, cominciarono a gridare e a tirar sassi<br />
all’aquila.<br />
L’aquila lasciò cadere il pesce, e quelli lo raccattarono e<br />
s’allontanarono.<br />
L’aquila si posò sull’orlo del nido: allora gli aquilotti alzarono le teste<br />
e si misero a pigolare: chiedevano da mangiare.<br />
L’aquila era stanca e non poteva volare un’altra volta fino al mare. Si<br />
lasciò scivolare dentro al nido, coprì gli aquilotti con le ali, li carezzò,<br />
ravviò le loro piccole penne, e pareva che li pregasse <strong>di</strong> aspettare un po’.<br />
Ma più lei li accarezzava, più quelli pigolavano forte.<br />
Allora l’aquila, svolazzando, si <strong>di</strong>scostò un pochino da loro, e<br />
s’appollaiò su un ramo in cima all’albero. Gli aquilotti si misero a<br />
stridere e a pigolare ancora più lamentosi.<br />
Finalmente, d’improvviso, anche l’aquila gettò un grido: aprì le ali e,<br />
con gran fatica, volò via verso il mare. Fu <strong>di</strong> ritorno soltanto a sera<br />
avanzata: volava adagio e bassa da terra: negli artigli aveva <strong>di</strong> nuovo un<br />
grosso pesce.<br />
Quando fu per arrivare all’albero, essa si guardò intorno, se ci fosse<br />
ancora gente nelle vicinanze; poi rapidamente chiuse le ali, e si posò<br />
sull’orlo del nido.<br />
Gli aquiloni alzarono le teste e spalancarono le bocche: l’aquila fece a<br />
pezzi il pesce, e sfamò i figlioli.
62<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
L’oca e la luna.<br />
(Favola).<br />
Un’oca andava a nuoto per il fiume in cerca <strong>di</strong> pesci, e in tutta la<br />
giornata non ne aveva trovato nessuno. Quando fece notte, l’oca vide la<br />
luna nell’acqua, credette che fosse un pesce, e si tuffò per acchiappare la<br />
luna. Le altre oche la videro e cominciarono a riderle <strong>di</strong>etro.<br />
Da quel giorno quell’oca <strong>di</strong>ventò così vergognosa e impacciata che,<br />
anche quando vedeva un pesce sott’acqua, non lo acchiappava più: e<br />
così, morí <strong>di</strong> fame.<br />
L’orso sul carretto.<br />
(Favola).<br />
Uno zingaro che girava con l’orso arrivò a un’osteria, legò l’orso fuori<br />
della porta, ed entrò nell’osteria a bere. Un carrettiere con un tiro a tre<br />
cavalli sopravvenne <strong>di</strong> lì a poco, assicurò il cavallo <strong>di</strong> mezzo con la testa<br />
legata a una stanga, e anche lui entrò nell’osteria. Nel carro del<br />
carrettiere c’erano certe paste dolci. L’orso sentì venire, <strong>di</strong> là dentro,<br />
quell’odore <strong>di</strong> dolci, si sciolse, s’accostò al carro, ci s’arrampicò sopra, e<br />
cominciò a rimestare tra il fieno. I cavalli stralunarono gli occhi, e<br />
frullarono via dall’osteria per la strada. L’orso s’era aggrappato con le<br />
zampe alle coste del carro, e non sapeva che <strong>di</strong>amine fare. E intanto i<br />
cavalli, più strada facevano, più si sfrenavano a correre a rotta <strong>di</strong> collo.<br />
L’orso si regge con le zampe davanti alle coste del carro, e non fa<br />
altro che girare la testa ora da una parte, ora dall’altra. E i cavalli<br />
continuano a stralunare gli occhi, e sempre più all’impazzata galoppano<br />
via per la strada, giù per le <strong>di</strong>scese, su per le salite... I passanti non fanno<br />
in tempo a scansarsi. Galoppano i tre cavalli tutti in sudore: in cima al<br />
carro se ne sta l’orso, e si regge alle coste, e gira gli occhi <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là.<br />
Capisce, l’orso, che la faccenda si mette male, che i cavalli finiranno<br />
per accopparlo: e comincia a muggire. Ma i cavalli, sentendo quel<br />
muggito, s’avventano innanzi più scatenati che mai.<br />
Galoppa galoppa, arrivarono i cavalli alla casa del padrone, in un<br />
villaggio. Tutti guardavano chi <strong>di</strong>avolo correva a quel modo. I cavalli<br />
andarono a sbatacchiare contro il recinto del loro cortile, contro il<br />
cancello. La padrona s’affaccia: che cosa succede? Non è arrivato come<br />
<strong>di</strong> regola, il padrone: dev’essere ubriaco. La donna esce in cortile, ed<br />
ecco che dal carro, invece del padrone, scende un orso.
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 63<br />
L’orso saltò a terra, e via per i campi, via dentro ai boschi.<br />
Il lupo nel polverone.<br />
(Favola).<br />
Un lupo aveva voglia d’arraffare una pecora dal branco s’accostò<br />
sotto vento, in modo da restare avvolto nel polvere che il branco si<br />
lasciava <strong>di</strong>etro.<br />
Il cane del pecoraio lo avvistò, e gli <strong>di</strong>sse:<br />
— Inutilmente, lupo mio, tu cammini nel polverone: gli occhi ti si<br />
ammaleranno.<br />
Allora il lupo rispose:<br />
— Questo è il guaio, cagnoletto mio, che già da un pezzo ho gli occhi<br />
malati: e mi hanno detto che il polverone che s’alza un branco <strong>di</strong> pecore<br />
è un buon rime<strong>di</strong>o per guarire gli occhi.<br />
Il salcio.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Per la settimana santa, il conta<strong>di</strong>no andò a guardare se la terra<br />
<strong>di</strong>sgelava.<br />
Uscì nell’orto e con un palo appuntito tastò la terra. La terra ribollí<br />
tutta. Il conta<strong>di</strong>no andò al bosco. Nel bosco, ai salci, già gonfiavano le<br />
gemme. E al conta<strong>di</strong>no venne un pensiero: «Voglio fare intorno all’orto<br />
una piantata <strong>di</strong> salci: cresceranno, e sarà una <strong>di</strong>fesa!» Pigliò l’accetta,<br />
tagliò una <strong>di</strong>ecina <strong>di</strong> quelle vermene <strong>di</strong> saldo, le aguzzò a punta dal capo<br />
più grosso, e le ficcò in terra.<br />
Tutti i salciuoli cacciarono fuori delle gettate in alto, con tanto <strong>di</strong><br />
foglioline, e in basso, sotterra, cacciarono fuori dell’altre gettate simili a<br />
quelle, a uso <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>ci: e alcune fecero presa in terra e attecchirono, altre<br />
invece stentarono a far presa in terra con le ra<strong>di</strong>ci, e così appassirono e<br />
piegarono giù.<br />
Al venir dell’autunno, il conta<strong>di</strong>no fu contento dei suoi salci: sei<br />
avevano attecchito. A nuova primavera, le pecore rosero torno torno<br />
quattro dei salci, e ne restarono soltanto due. La primavera dopo, anche<br />
questi furono rosi dalle pecore. Uno si seccò completamente, ma l’altro si<br />
riebbe, fece buone ra<strong>di</strong>ci, e crebbe in un bell’albero. Quand’era <strong>di</strong><br />
primavera, le api ronzavano a tutt’andare su quel salcio. Al tempo della
64<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
sciamatura, spesso gli sciami venivano a posarsi sul salcio, e lì i<br />
conta<strong>di</strong>ni li catturavano. Donne e uomini venivano spesso a far<br />
colazione e a dormire sotto al salcio. E i ragazzi ci s’arrampicavano<br />
sopra, e ne strappavano quei frustini.<br />
Il conta<strong>di</strong>no che aveva piantato il salcio era morto da un pezzo ma il<br />
salcio era sempre ben vivo. Il figlio maggiore aveva già due volte<br />
scamozzato i rami, per farci il fuoco; ma il salcio era sempre ben vivo.<br />
Per quanto lo scapitozzino torno torno, da ridurlo una pigna, non<br />
importa: come torna primavera, ributta nuovi rami, magari più sottili,<br />
ma il doppio più fitti <strong>di</strong> prima, come il pelame d’un puledro.<br />
Anche il figlio maggiore aveva smesso <strong>di</strong> mandare avanti l’azienda;<br />
anche i conta<strong>di</strong>ni del villaggio erano stati trasportati lontano: ma il salcio<br />
era sempre ben vivo là al suo posto126 . Altri conta<strong>di</strong>ni sopravvennero, lo<br />
scamozzarono: esso era sempre ben vivo. La gran<strong>di</strong>ne ci tempestò sopra:<br />
il salcio se ne rifece coi rami <strong>di</strong> fianco, e sempre viveva e fioriva. Un<br />
conta<strong>di</strong>no voleva abbatterlo per farci un trogolo, ma smise l’idea: era<br />
tutto imporrito. Il salcio si piegò da un lato, e si reggeva da un lato solo,<br />
ma sempre viveva, e sempre, d’anno in anno, ci volavano le api a<br />
raccogliere bottino dai suoi fiori.<br />
Una volta certi ragazzi, in principio <strong>di</strong> primavera, si radunarono sotto<br />
al salcio a pasturare i cavalli. Sentirono freddo: si misero a fare il fuoco, e<br />
raccolsero stoppie, semenzina, sterpaglie. Uno s’arrampicò sul salcio, e<br />
ne schiantò qualche ramo. Ammucchiarono tutto nel cavo del salcio, e ci<br />
appiccarono fuoco. Il salcio cominciò a sfrigolare, ribollí la linfa<br />
all’interno, s’alzò il fumo, e guizzarono le fiamme. Tutto il dentro del<br />
salcio s’annerí. S’avvizzirono le gettate giovani, i fiori appassirono. I<br />
ragazzi ricondussero a casa i cavalli. Il salcio bruciato rimase solo là in<br />
mezzo ai campi.<br />
Venne a volo una cornacchia nera, ci s’appollaiò sopra, e gracchiò: —<br />
Ah, sei schiattato, vecchia carogna: da un pezzo era tempo!<br />
Il topo sotto il granaio.<br />
(Favola).<br />
Un topo abitava sotto un granaio. Nel piancito del granaio c’era un<br />
forellino, e il grano si versava man mano giù per quel forellino. Il topo,<br />
126 Il testo ha qui un’espressione tolta dalle antiche ballate epiche russe: «in cam‐<br />
po aperto».
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 65<br />
così, faceva una buona vita: ma gli venne l’estro <strong>di</strong> menar vanto della<br />
vita che faceva. A forza <strong>di</strong> rosicchiare, slargò il buco, e invitò altri topi a<br />
fargli visita.<br />
— Venite, — <strong>di</strong>ceva, — a far baldoria a casa mia. Vi farò una bella<br />
accoglienza. Da mangiare ce ne sarà per tutti.<br />
Ma quando ebbe condotto gli altri topi sul posto, s’avvide che il buco<br />
non c’era più. Il conta<strong>di</strong>no aveva notato quel grosso buco nel piancito, e<br />
lo aveva turato.<br />
In che modo i lupi danno lezione ai loro figli.<br />
(Racconto).<br />
Io camminavo per una strada <strong>di</strong> campagna, quando alle mie spalle<br />
sentii un grido. Gridava un ragazzo che badava le pecore. Egli correva<br />
per i campi e faceva segni in <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> qualche cosa.<br />
Guardai in quella <strong>di</strong>rezione e vi<strong>di</strong> due lupi che correvano per i campi:<br />
uno era matricino, l’altro era un cucciolotto. Il cucciolotto portava sulla<br />
groppa un agnelletto sgozzato, e coi denti lo reggeva per una zampa. Il<br />
lupo matricino gli andava alle calcagna.<br />
Quando vi<strong>di</strong> quei lupi, insieme col pastore io li inseguii, e ci<br />
mettemmo a gridare. Alle nostre grida, accorsero i conta<strong>di</strong>ni coi cani.<br />
Appena il vecchio lupo avvistò i cani e la gente, s’accostò a quello<br />
giovane, gli strappo’ <strong>di</strong> dosso l’agnello, se lo gettò sulla groppa: e tutt’e<br />
due insieme si misero a correre più alla svelta, finché si nascosero alla<br />
vista.<br />
Allora il ragazzo cominciò a raccontare com’erano andate le cose: da<br />
un burrone era saltato fuori il lupo grosso, aveva afferrato un agnello, lo<br />
aveva sgozzato e lo aveva portato via.<br />
Incontro a lui era uscito il lupacchiotto, e s’era slanciato a prendere<br />
l’agnello. Il vecchio aveva dato a portare l’agnello al giovane lupo, e<br />
così, rimasto libero, lo aveva seguito da vicino.<br />
— Solo quando era venuto il pericolo, il vecchio aveva sospeso la<br />
lezione, e aveva ripreso lui l’agnello.<br />
Le lepri e le rane.<br />
(Favola).<br />
Si radunarono un giorno le lepri, e cominciarono a lamentarsi della
66<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
loro vita: — Gli uomini, i cani, le aquile, cento altre bestie d’ogni sorta, ci<br />
uccidono. Meglio morire una volta sola, che vivere e soffrire fra continue<br />
paure. Coraggio, anneghiamoci!<br />
E le lepri si slanciarono verso uno stagno, per annegarsi là dentro. Le<br />
rane u<strong>di</strong>rono le lepri, e púnfete, si tuffarono in acqua. Allora una lepre<br />
<strong>di</strong>sse:<br />
— Fermi, ragazzi! Aspettiamo ad annegarci: vedete, ci sono qui le<br />
rane che fanno una vita ancora peggio della nostra: loro hanno paura<br />
anche <strong>di</strong> noi!<br />
La zia racconta d’un passerotto agevolino che aveva da bambina, e che si<br />
chiamava Vispetto.<br />
(Racconto).<br />
In casa nostra, <strong>di</strong>etro l’imposta d’una finestra, un passero aveva fatto<br />
il nido, e ci aveva deposto cinque ovetti. Io e le mie sorelline eravamo<br />
state sempre lì a guardare il passero, mentre portava <strong>di</strong>etro<br />
quell’imposta ora una pagliuzza, ora una piumetta, e intrecciava il nido.<br />
Ma quando poi ci depose le uova, noi fummo ancora più contente. Il<br />
passero smise <strong>di</strong> fare quei voli con le piumette e la paglia, e rimase<br />
fermo a covare le sue uova. Un altro passero (ci spiegarono che uno era<br />
il marito, l’altro la moglie) portava alla moglie qualche verme, e così la<br />
nutriva.<br />
Di lì a qualche giorno, noi sentimmo <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro all’imposta un pigolo, e<br />
andammo a spiare che cosa era successo nel nido dei passeri. C’erano<br />
dentro cinque minuscoli uccelletti nu<strong>di</strong>, senz’ali e senza piume; i loro<br />
beccucci erano gialli e teneri, le teste grosse grosse.<br />
Essi ci parvero molto brutti, e non fummo più tanto contente <strong>di</strong> loro;<br />
soltanto <strong>di</strong> rado andavamo a guardare che cosa facevano. La madre,<br />
ogni tanto, li lasciava per cercar da mangiare, e quando ritornava, i<br />
passerotti pigolavano e spalancavano i loro beccucci gialli, e la madre li<br />
imbeccava con pezzettini <strong>di</strong> vermi.<br />
Dopo una settimana, i piccoli passeri crebbero, si rivestirono <strong>di</strong><br />
lanugine, e <strong>di</strong>ventarono più belli: e allora noi tornammo a guardarli più<br />
spesso. Una mattina, ci accostammo alla finestra per dare un’occhiata ai<br />
nostri passerotti, e vedemmo che la passera grossa giaceva morta <strong>di</strong>etro<br />
l’imposta. Noi indovinammo che la passera, la sera prima, s’era<br />
appollaiata sull’imposta, ci s’era addormentata, ed era rimasta<br />
schiacciata quando l’imposta era stata chiusa.
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 67<br />
Prendemmo la passera e la gettammo fra l’erba. I piccoli pigolavano,<br />
si sporgevano in fuori con le loto testoline e spalancavano i beccucci, ma<br />
non c’era nessuno che li nutrisse.<br />
La nostra sorella più grande esclamò: – Ecco che ora non hanno più<br />
madre, non hanno nessuno che gli <strong>di</strong>a da mangiare: <strong>di</strong>amogli da<br />
mangiare noi!<br />
Noialtre, tutte contente, prendemmo una scatoletta, la imbottimmo <strong>di</strong><br />
ovatta, ci collocammo dentro il nido cogli uccelletti, e portammo tutto <strong>di</strong><br />
sopra, in camera nostra. Poi andammo a <strong>di</strong>ssotterrare un po’ <strong>di</strong> vermi,<br />
intingemmo nel latte un po’ <strong>di</strong> pane, e ci mettemmo a imbeccare i<br />
passerotti. Essi mangiavano bene, scrollavano le testoline, si ripulivano i<br />
beccucci contro le pareti della scatola, e tutti stavano allegri.<br />
Così li imbeccammo per tutta la giornata, e ci <strong>di</strong>vertimmo tanto con<br />
loro. Il giorno dopo, quando andammo a guardare nella scatola,<br />
vedemmo che il passerotto più piccolo <strong>di</strong> tutti stava li morto, con le<br />
zampette impigliate fra l’ovatta. Noi lo buttammo via e togliemmo tutta<br />
l’ovatta, in modo che qualcun altro non ci restasse impigliato: poi<br />
mettemmo dentro alla scatola un po’ d’erba e <strong>di</strong> muschio. Ma prima <strong>di</strong><br />
sera, altri due passerotti arruffarono le loro corte penne, aprirono la<br />
bocca, chiusero gli occhi, e anche loro morirono.<br />
Due giorni dopo, morí anche il quarto passerotto, e <strong>di</strong> tutti ne rimase<br />
uno solo. Ci <strong>di</strong>ssero che noi gli avevamo dato troppo da mangiare.<br />
La nostra sorella piangeva per i suoi passeri, e l’ultimo passero lo<br />
volle imbeccare lei sola: noialtre stavamo a guardare. L’ultimo<br />
passerotto, il quinto, era allegro, in buona salute e vispo: noi gli<br />
mettemmo nome Vispetto.<br />
Questo Vispetto visse tanto a lungo, che già cominciava a volare e a<br />
riconoscere chi lo chiamava.<br />
Tante volte che la nostra sorella gridava: – Vispetto, Vispetto! – lui<br />
volava subito lì, le si appollaiava sulla spalla, sulla testa o sul braccio, e<br />
lei gli dava da mangiare.<br />
Poi si fece grande, e imparò a mangiare da sé. Viveva con noi nelle<br />
stanze <strong>di</strong> sopra; qualche volta volava via dalla finestra; ma sempre<br />
tornava a passare la notte al suo posto, nella scatoletta.<br />
Una mattina, non volò fuori affatto dalla sua scatoletta: le penne gli<br />
erano <strong>di</strong>ventate umide, e lui le arruffava tutte, come avevano fatto gli<br />
altri passeri quando stavano per morire. La nostra sorella non lasciava<br />
un momento Vispetto, gli stava sempre intorno; ma lui non mangiava<br />
niente, e non beveva piú.<br />
Tre giorni stette malato, e il quarto morí. Quando noi lo vedemmo
68<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
morto, a pancia per aria, con quelle zampette rattrappite, ci mettemmo<br />
tutt’e tre a piangere così forte, che la mamma venne su <strong>di</strong> corsa a sentire<br />
che cos’era successo. Quando entrò, vide sul tavolo il passero morto, e<br />
allora capì il nostro dolore. La nostra sorella più grande restò per<br />
parecchi giorni senza mangiare, senza giocare, sempre a piangere.<br />
Avvoltolammo Vispetto nelle nostre pezzuole più belle, lo<br />
deponemmo dentro una cassettina <strong>di</strong> legno, e lo seppellimmo in<br />
giar<strong>di</strong>no, in una piccola fossa. Poi, sulla piccola tomba, facemmo un<br />
monticello <strong>di</strong> terra, e sopra ci collocammo una lastrina <strong>di</strong> pietra.<br />
Tre panini e una ciambella.<br />
(Favola).<br />
A un conta<strong>di</strong>no venne voglia <strong>di</strong> mangiare. Comprò un panino e lo<br />
mangiò: aveva ancora fame. Comprò un altro panino e lo mangiò: aveva<br />
ancora fame. Comprò un terzo panino e lo mangiò: aveva sempre fame.<br />
Finalmente, comprò qualche ciambelletta: e, quando ne ebbe<br />
mangiata una, fu sazio. Allora il conta<strong>di</strong>no si batté la fronte e <strong>di</strong>sse:<br />
– Stupido che sono stato! Perché ho mangiato inutilmente tanti<br />
panini? Sarebbe bastato che, da principio, mangiassi una sola <strong>di</strong> queste<br />
ciambellette!<br />
Mille monete d’oro.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Un uomo ricco aveva intenzione <strong>di</strong> dare ai poveri mille monete d’oro,<br />
ma non sapeva a quali poveri dare questo denaro.<br />
Andò da un prete e gli <strong>di</strong>sse: — Voglio dare mille monete d’oro ai<br />
poveri, ma non so a chi darle. Prendete voi il denaro e <strong>di</strong>stribuitelo a chi<br />
credete.<br />
Il prete <strong>di</strong>sse: — La somma è grossa, e non saprei nemmeno io a chi<br />
<strong>di</strong>stribuirla: forse a uno darei troppo, a un altro troppo poco. Ditemi voi<br />
a quali poveri debbo dare il vostro denaro, e quanto a ciascuno.<br />
Il ricco <strong>di</strong>sse: — Se non sapete voi a chi dare il denaro, c’è Id<strong>di</strong>o che lo<br />
sa: il primo povero che verrà a casa vostra, dategli tutto il denaro.<br />
In quella stessa parrocchia viveva un uomo povero. Egli aveva molti<br />
figli, ma era malato, e non poteva lavorare. Il povero, un giorno, stava<br />
leggendo i Salmi, quando vide queste parole: «Io fui giovane e sono
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 69<br />
<strong>di</strong>ventato vecchio, e non ho mai veduto l’uomo giusto abbandonato e i<br />
suoi figli che chiedevano il pane».<br />
Il povero pensò: «Ecco, io sono abbandonato da Dio! Eppure non ho<br />
fatto nulla <strong>di</strong> male... Voglio andare dal prete, a domandargli come mai<br />
una cosa tanto falsa sta scritta nella Bibbia».<br />
E andò dal prete.<br />
Il prete, appena lo vide, pensò: «Questo povero è il primo che viene<br />
da me!» E <strong>di</strong>ede a lui tutte quante, una sull’altra, le mille monete d’oro<br />
del ricco.<br />
Pietro il Grande e il conta<strong>di</strong>no.<br />
(Racconto dal vero).<br />
L’imperatore Pietro il Grande, passando per un bosco, incontrò un<br />
conta<strong>di</strong>no. Il conta<strong>di</strong>no spezzava la legna.<br />
Disse l’imperatore: — Che Dio t’aiuti, conta<strong>di</strong>no!<br />
Risponde il conta<strong>di</strong>no: — Per davvero ho bisogno dell’aiuto <strong>di</strong> Dio!<br />
L’imperatore gli domanda: — Perché, hai famiglia grossa?<br />
— La mia famiglia è <strong>di</strong> due figli maschi e <strong>di</strong> due figlie femmine.<br />
Allora non è mica grossa, la tua famiglia! O dunque i denari dove li<br />
impieghi?<br />
Io, i denari, li impiego in tre mo<strong>di</strong>: primo, ci pago il debito; secondo, li<br />
do a cre<strong>di</strong>to; terzo, li butto in acqua.<br />
L’imperatore rifletté, e non riusciva a capire che cosa voleva <strong>di</strong>re quel<br />
vecchio, che pagava il debito, dava a cre<strong>di</strong>to, e buttava in acqua.<br />
Allora il vecchio <strong>di</strong>sse: — Ci pago il debito: mantengo i genitori; li do<br />
a cre<strong>di</strong>to: mantengo i figlioli; li butto in acqua: allevo le figlie femmine.<br />
Disse l’imperatore: — Hai la testa fina, vecchietto. Adesso conducimi<br />
fuori del bosco, allo scoperto, perché io da solo non troverei la strada.<br />
Il conta<strong>di</strong>no rispose: — La troverai anche da solo, la strada: và <strong>di</strong>ritto,<br />
poi volta a destra, poi a sinistra, e poi ancora a destra.<br />
Disse l’imperatore: — Questo latino, io, non lo capisco: guidami tu!<br />
— Io, caro signore, non ho tempo <strong>di</strong> accompagnarti: la giornata <strong>di</strong> noi<br />
conta<strong>di</strong>ni vale parecchio.<br />
— Allora, se vale parecchio, io te la pagherò.<br />
— Se paghi, an<strong>di</strong>amo pure.<br />
Montarono sul calessino, e s’avviarono.<br />
Strada facendo, l’imperatore venne a domandare al conta<strong>di</strong>no: — Sei<br />
stato mai, conta<strong>di</strong>no, lontano <strong>di</strong> qui?
70<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
— Un po’ <strong>di</strong> mondo l’ho girato anch’io.<br />
— E l’hai veduto mai, l’imperatore?<br />
— L’imperatore non l’ho mai veduto: magari, però, potessi vederlo!<br />
— Ebbene: come usciremo allo scoperto, tu vedrai l’imperatore.<br />
— Ma come farò a riconoscerlo?<br />
— Tutti staranno senza cappello. L’imperatore solo avrà il cappello in<br />
testa.<br />
Ecco che arrivano allo scoperto. La gente vide l’imperatore, e tutti si<br />
levarono i cappelli. Il conta<strong>di</strong>no sgrana tanto d’occhi, ma non vede<br />
nessun imperatore.<br />
Finalmente domandò: — Ma dov’è, l’imperatore?<br />
Allora gli <strong>di</strong>sse Pietro il Grande: — Ve<strong>di</strong>, siamo in due soli col<br />
cappello in testa: uno <strong>di</strong> noi due, bisogna che sia l’imperatore.<br />
Il cane arrabbiato.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Un signore comperò in città un cucciolo <strong>di</strong> cane da fermo, e nella<br />
manica del cappotto se lo portò alla sua villa. La moglie s’affezionò al<br />
cucciolo, e lo teneva con sé nelle stanze <strong>di</strong> sopra, e lo custo<strong>di</strong>va. Il<br />
cucciolo crebbe: gli misero nome Amico.<br />
Andava a caccia col padrone, faceva guar<strong>di</strong>a alla casa e giocava coi<br />
bambini.<br />
Un giorno, un cane <strong>di</strong> conta<strong>di</strong>ni s’infilò nel giar<strong>di</strong>no. Questo cane<br />
correva <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong>ritto lungo lo stradello, teneva la coda fra le zampe, la<br />
bocca aperta, e dalla bocca gli colava la bava. I bambini del signore<br />
stavano in giar<strong>di</strong>no.<br />
Il signore vide quel cane, e gridò: — Bambini! Correte subito in casa:<br />
un cane arrabbiato!<br />
I bambini sentirono che il padre gridava, ma non vedendo il cane, gli<br />
correvano proprio incontro. Il cane, arrabbiato com’era, fece per<br />
avventarsi su uno dei bambini: ma in quel momento Amico si slanciò<br />
addosso al cane, e incominciarono a mordersi.<br />
I bambini riuscirono a fuggire: ma quando Amico rientrò in casa,<br />
guaiva, e sul collo aveva del sangue.<br />
Di lì a <strong>di</strong>eci giorni, Amico <strong>di</strong>ventò triste: non beveva, non mangiava,<br />
e s’avventò a mordere un cucciolo. Allora Amico fu rinchiuso in una<br />
stanza vuota.<br />
I bambini non capivano perché avessero rinchiuso Amico, e andarono
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 71<br />
<strong>di</strong> nascosto a guardare il cane.<br />
Essi aprirono la porta e si misero a chiamare Amico. Per poco Amico<br />
non li rovesciò per terra, corse fuori <strong>di</strong> casa e andò ad accucciarsi in<br />
giar<strong>di</strong>no, sotto un cespuglio.<br />
Quando la madre vide là Amico, lo chiamò, ma Amico non le <strong>di</strong>ede<br />
ascolto, non agitò la coda, non la guardò neppure. I suoi occhi erano<br />
velati; dalla bocca gli colava la bava. Allora la signora chiamò il marito, e<br />
gli <strong>di</strong>sse:<br />
— Vieni subito! Qualcuno ha fatto uscire dalla stanza Amico: è<br />
proprio arrabbiato. Per carità, deci<strong>di</strong>ti a far qualche cosa.<br />
Il marito venne qua col fucile, e s’avvicinò a Amico. Prese la mira, ma<br />
mentre mirava, la mano gli tremava. Sparò, e invece <strong>di</strong> colpirlo alla testa,<br />
lo colpí <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro.<br />
Il cane cominciò a guaire e a <strong>di</strong>menarsi.<br />
Il padrone gli s’accostò più da presso, per veder meglio com’era stato<br />
colpito.<br />
Tutto il posteriore <strong>di</strong> Amico era in sangue, e tutt’e due le zampe <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>etro erano spezzate. Amico si trascinò fin sotto al padrone, e si mise a<br />
leccargli un piede. Il padrone fu preso da un tremito, scoppiò in lacrime<br />
e corse via verso casa.<br />
Allora chiamarono un cacciatore: e il cacciatore, con un altro fucile,<br />
colpí il cane a morte, e lo portò lontano.<br />
I due cavalli.<br />
(Favola).<br />
Due cavalli tiravano due carri. Il cavallo che veniva per primo tirava<br />
bene, ma quello che veniva <strong>di</strong>etro, si fermava ogni momento. Allora il<br />
padrone dei carri fece trasportare sul primo cavallo il carico del carro <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>etro: e quando ci ebbero trasportato tutto, il cavallo <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro,<br />
camminando leggero leggero, <strong>di</strong>sse a quello davanti:<br />
— Ammazzati e suda! Più tu ti darai da fare, e più ti faranno crepar<br />
<strong>di</strong> fatica.<br />
Quando arrivarono alla locanda; il padrone pensò:<br />
«Che tengo a fare due cavalli, se uno solo mi porta il carico? Sarà<br />
meglio che uno dei due lo governi a sazietà, e l’altro lo scanni: almeno, ci<br />
guadagnerò la pelle!»<br />
E così fece.
72<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il leone e il cagnolino.<br />
(Racconto dal vero).<br />
A Londra c’era una mostra <strong>di</strong> bestie feroci, e per entrare a visitarle, si<br />
poteva pagare oppure portare dei cani e dei gatti, da dare in pasto alle<br />
belve.<br />
Un tale ebbe voglia <strong>di</strong> vedere le belve: acchiappo’ per la strada un<br />
cagnolino e lo portò al serraglio. L’uomo fu lasciato entrare, e il<br />
cagnolino fu preso e gettato nella gabbia del leone, che se lo mangiasse.<br />
Il canino si mise la coda fra le zampe e si ritirò in un angolo della<br />
gabbia. Il leone gli s’accostò e lo fiutò.<br />
Il canino si coricò sulla schiena, alzò le zampette e si mise ad agitare<br />
la co<strong>di</strong>na.<br />
Il leone gli <strong>di</strong>ede un tocco con la zampa, e lo rivoltolò. Il canino saltò<br />
su e restò seduto <strong>di</strong>nanzi al leone sulle zampette <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro.<br />
Il leone lo guardava fisso, piegava la testa ora <strong>di</strong> qua ora <strong>di</strong> là, e non<br />
lo toccava.<br />
Quando il padrone delle belve gettò al leone la carne, il leone ne<br />
strappo’ un boccone e lo lasciò al canino.<br />
Alla sera, quando il leone si stese a dormire, il canino gli si stese<br />
accanto, e gli posò la testa sulla zampa.<br />
Da quel giorno, il canino visse sempre dentro la gabbia del leone, e il<br />
leone non lo toccava, mangiava e dormiva con lui, e certe volte perfino ci<br />
giocava insieme.<br />
Una volta, un signore venne a visitare il serraglio, e riconobbe il suo<br />
cagnolino: <strong>di</strong>sse che il cagnolino era suo, e chiese al padrone del<br />
serraglio che glielo restituisse. Il padrone glielo voleva restituire, ma<br />
come provarono a chiamare il canino per tirarlo fuori della gabbia, il<br />
leone s’incollerì e si mise a ruggire.<br />
Così seguitarono a vivere insieme, leone e canino, un anno intero<br />
nella stessa gabbia.<br />
Passato un anno, il canino s’ammalò e morí. Il leone smise <strong>di</strong><br />
mangiare, e stava sempre a fiutare il canino, a leccarlo, a smuoverlo con<br />
la zampa.<br />
Quand’ebbe capito che era morto, d’improvviso <strong>di</strong>ede un balzo,<br />
drizzò la criniera, cominciò a battersi la coda sui fianchi, poi si slanciò<br />
contro la parete della gabbia e si mise a mordere i chiavistelli e il<br />
piancito.<br />
Per tutta la giornata si <strong>di</strong>batté, girò su e giù per la gabbia, e ruggiva;<br />
alla fine, s’accovacciò accanto al canino morto, e si quietò. Il padrone
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 73<br />
andò per portar via il canino morto, ma il leone non permetteva a<br />
nessuno <strong>di</strong> accostarvisi.<br />
Allora il padrone pensò che il leone avrebbe scordato il suo dolore se<br />
gli si fosse dato un altro cagnolino come quello, e gli mise nella gabbia<br />
un cagnolino vivo: ma subito il leone lo sbranò in mille pezzi. Poi<br />
abbracciò con le sue zampe il canino morto, e così rimase <strong>di</strong>steso cinque<br />
giorni.<br />
Il sesto giorno, il leone morí.<br />
L’ere<strong>di</strong>tà pareggiata.<br />
(Favola).<br />
Un mercante aveva due figli. Il più grande era il preferito del padre, e<br />
il padre voleva dare a lui tutta la sua ere<strong>di</strong>tà. La madre aveva<br />
compassione del figlio più piccolo, e pregò il marito che non <strong>di</strong>cesse ai<br />
figlioli, per ora, come avrebbe <strong>di</strong>viso le parti: essa voleva trovar qualche<br />
modo <strong>di</strong> pareggiare le parti <strong>di</strong> tutt’e due. Il mercante le <strong>di</strong>ede ascolto, e<br />
non <strong>di</strong>sse nulla ai figlioli della sua decisione.<br />
Un giorno, la madre sedeva alla finestra e piangeva. Passò accanto<br />
alla finestra un forestiero, e domandò per quale ragione piangeva.<br />
Essa <strong>di</strong>sse: — Ho ben ragione <strong>di</strong> piangere: tutt’e due i figli miei sono<br />
uguali per me, e invece il padre vuole dare tutto a uno solo, e all’altro<br />
niente. Io ho pregato mio marito <strong>di</strong> non far sapere nulla della sua<br />
decisione ai figlioli, fin quando non avrò trovato qualche modo <strong>di</strong> venire<br />
in aiuto al più piccolo. Ma denari <strong>di</strong> mio, non ne ho, e non so in che<br />
modo potrò liberarmi da questa pena.<br />
Il forestiero le <strong>di</strong>sse: — Dalla tua pena è facile liberarsi: và, fa’ sapere<br />
ai figlioli che al più grande toccherà tutta la sostanza, e al più piccolo<br />
niente: e vedrai che in questo modo otterranno parti uguali.<br />
Il figlio più piccolo, quando seppe che lui non avrebbe avuto niente,<br />
partì per paesi lontani, e là s’impratichì <strong>di</strong> tanti mestieri e acquistò tante<br />
cognizioni; il più grande, invece, continuò a vivere in casa del padre, e<br />
non si curò d’imparare niente, perché sapeva che sarebbe stato ricco.<br />
Quando il padre morí, il più grande non sapeva fare niente, e si<br />
mangiò tutto il suo capitale; il più piccolo, invece, aveva imparato a<br />
guadagnarsi la vita lontano da casa, e <strong>di</strong>ventò ricco.
74<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
I tre ladri.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Un conta<strong>di</strong>no portava a vendere in città un asino e una capra.<br />
La capra aveva al collo un campanaccio.<br />
Tre ladri videro il conta<strong>di</strong>no, e uno <strong>di</strong>sse: — Io ruberò quella capra in<br />
modo, che il conta<strong>di</strong>no non se n’accorgerà nemmeno.<br />
Un altro <strong>di</strong>sse: — E io, al conta<strong>di</strong>no, gli ruberò quell’asino proprio <strong>di</strong><br />
tra le mani.<br />
Il terzo <strong>di</strong>sse: — Anche questo non è <strong>di</strong>fficile. Ma io ruberò al<br />
conta<strong>di</strong>no ad<strong>di</strong>rittura tutti i panni che ha indosso.<br />
Il primo ladro, pian piano, s’accostò alla capra, le sfilò il campanaccio,<br />
e lo attaccò alla coda dell’asino: poi portò via la capra per i campi.<br />
Il conta<strong>di</strong>no, alla prima svolta, si guardò in<strong>di</strong>etro, s’avvide che la<br />
capra non c’era più, e si mise a cercarla.<br />
Allora gli si avvicinò il secondo ladro, e gli domandò che cosa<br />
cercava.<br />
Il conta<strong>di</strong>no <strong>di</strong>sse che gli era stata rubata una capra. Il secondo ladro<br />
gli <strong>di</strong>sse: — Io l’ho veduta, la tua capra: ecco, proprio adesso, verso quel<br />
bosco laggiù, stava scappando un uomo con una capra. Lo puoi ancora<br />
arrivare!<br />
Il conta<strong>di</strong>no, <strong>di</strong> corsa, si mise a inseguire la capra, e pregò il ladro <strong>di</strong><br />
badargli un po’ all’asino. Il secondo ladro portò via l’asino.<br />
Quando il conta<strong>di</strong>no tornò in<strong>di</strong>etro dal bosco, e s’avvide che anche il<br />
suo asino non c’era più, scoppiò a piangere, e s’incamminò lungo la<br />
strada.<br />
Al margine della strada, vicino a uno stagno, che cosa vide? Un<br />
uomo, seduto per terra, che piangeva. Il conta<strong>di</strong>no gli domandò che cosa<br />
gli era accaduto.<br />
L’uomo rispose che gli avevano dato da portare in città un sacco<br />
pieno d’oro: lui s’era seduto a riposarsi vicino a questo stagno, aveva<br />
preso sonno e, dormendo, aveva fatto rovesciare il sacco nell’acqua.<br />
Il conta<strong>di</strong>no gli domandò perché non si tuffava a riprenderlo.<br />
L’uomo <strong>di</strong>sse: — Io ho paura dell’acqua e non so nuotare, ma darò<br />
venti monete d’oro a chi riuscirà a riprendermelo.<br />
Il conta<strong>di</strong>no si rallegrò tutto, e pensò: «È il Signore che mi manda<br />
questa fortuna, in compenso della capra e dell’asino che mi hanno<br />
rubato!» Si tolse i panni, si tuffò in acqua, ma il sacco dell’oro non poté<br />
trovarlo: e, quando uscì dall’acqua, i suoi panni non c’erano più.<br />
Questa era opera del terzo ladro: gli aveva rubato anche i panni che
aveva indosso.<br />
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 75<br />
Il padre e i figli.<br />
(Favola).<br />
Un padre aveva raccomandato ai figli che vivessero tutti d’accordo:<br />
ma essi non gli davano ascolto. Il padre, un bel giorno, si fece portare da<br />
loro un fascetto <strong>di</strong> vinchi, e <strong>di</strong>sse: — Spezzatelo!<br />
Per quanti sforzi facessero, i figli non riuscirono a spezzarlo. Allora il<br />
padre slegò il fascetto, e or<strong>di</strong>nò che spezzassero i vinchi a uno a uno.<br />
I figli spezzarono senza fatica un vinco per volta.<br />
E il padre <strong>di</strong>sse loro:<br />
Così sarà anche <strong>di</strong> voi: se vivrete tutti d’accordo; nessuno vi potrà<br />
sopraffare; ma se litigherete e spartirete ogni cosa, chiunque riuscirà<br />
facilmente a mandarvi in rovina.<br />
Come si forma il vento?<br />
(Considerazioni).<br />
I pesci vivono nell’acqua, e gli uomini nell’aria. I pesci non sentono e<br />
non vedono l’acqua finché loro stessi non si muovono, o finché l’acqua<br />
non si muove. E noi, allo stesso modo, non sentiamo l’aria finché non ci<br />
moviamo, o finché l’aria non si muove.<br />
Ma appena noi ci mettiamo a correre, sentiamo l’aria che ci soffia in<br />
faccia: e certe volte, correndo, sentiamo l’aria che ci fischia nelle<br />
orecchie. E quando apriamo una porta che dà in una stanza riscaldata, si<br />
forma sempre un vento che in basso soffia dall’esterno verso la stanza, e<br />
in alto soffia dalla stanza verso l’esterno.<br />
Quando qualcuno cammina per una stanza o agita il vestito, noi<br />
<strong>di</strong>ciamo che fa vento; e quando si accende una stufa, c’è sempre un po’<br />
<strong>di</strong> vento che ci soffia dentro. Quando, in campagna, tira il vento,<br />
continua a tirare per giorni e per notti, a volte in una <strong>di</strong>rezione, a volte in<br />
un’altra. Questo accade perché, in qualche punto della terra, l’aria si<br />
riscalda molto, e in qualche altro punto si raffredda: allora nasce il<br />
vento, e in basso si muove l’aria fredda, in alto quella tiepida, proprio<br />
come accade quando si apre la porta d’un locale riscaldato. E il vento<br />
soffierà fino a tanto che quel punto dov’era freddo non si sarà riscaldato,<br />
e quel punto dov’era caldo non si sarà raffreddato.
76<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
A che scopo soffia il vento?<br />
(Considerazioni).<br />
Si legano due bacchette in croce, e intorno a questa croce si<br />
<strong>di</strong>spongono altre quattro bacchette. Sopra ci s’incolla un foglio <strong>di</strong> carta.<br />
A uno dei due capi s’attacca una coda <strong>di</strong> stoppa, all’altro capo<br />
s’attacca un lungo spago: ed ecco fatto un aquilone. Poi si prende<br />
l’aquilone, si corre contro vento, e lo si lancia: il vento solleva l’aquilone,<br />
e lo innalza su su nel cielo. E l’aquilone vibra tutto, e sfruscia, e dà<br />
strattoni, e fa le giravolte, e ondeggia con la coda <strong>di</strong> stoppa.<br />
Se non ci fosse il vento, non sarebbe possibile mandare l’aquilone.<br />
Con tante tavolette <strong>di</strong> legno si fabbricano quattro ali, si fissano in<br />
croce su un mozzo, e all’asse del mozzo si adattano ingranaggi e ruote<br />
dentate, <strong>di</strong> modo che, quando l’asse gira, trasmette il movimento<br />
agl’ingranaggi e alle ruote, e le ruote fanno girare una pietra da macina.<br />
Poi si collocano le ali in <strong>di</strong>rezione contraria al vento: le ali cominciano<br />
a girare, gl’ingranaggi e le ruote trasmettono via via il movimento, e la<br />
pietra della macina si mette a girare sull’altra pietra che sta sotto. E<br />
allora si può versare fra le due macine il grano, e il grano si stritola, e<br />
nella cassa viene giù la farina.<br />
Se il vento non ci fosse, non si potrebbe macinare il grano coi mulini a<br />
vento.<br />
Quando si va in barca, e si vuole andare più veloci, si pianta al centro<br />
della barca, in un buco, una grossa pertica: a questa pertica c’è adattata<br />
una traversa. Su questa traversa si issa una vela <strong>di</strong> tela, e al basso della<br />
vela si lega una cor<strong>di</strong>cella, che si regge fra le mani. Poi si espone la vela<br />
incontro al vento. E allora il vento gonfia la vela con tanta forza, che la<br />
barca si piega su un fianco, la cor<strong>di</strong>cella dà strattoni alle mani, e la barca<br />
corre via secondo la <strong>di</strong>rezione del vento, così veloce che l’acqua bolle<br />
sotto la prua, e sembra che le rive corrano in<strong>di</strong>etro ai due lati della barca.<br />
Se non ci fosse il vento, non sarebbe possibile navigare a vela.<br />
Nei locali dove si abita, l’aria <strong>di</strong>venta cattiva: se non ci fosse il vento,<br />
quest’aria resterebbe sempre lì. Invece arriva il vento, caccia via l’aria<br />
cattiva, e porta dai boschi e dai campi l’aria buona, pulita. Se non ci fosse<br />
il vento, gli uomini, col fiato, impregnerebbero e avvelenerebbero l’aria.<br />
L’aria starebbe sempre allo stesso posto, e gli uomini sarebbero<br />
costretti ad andarsene via da quel posto dove l’aria fosse stata già<br />
respirata da loro.<br />
Quando le bestie selvatiche vanno per boschi e per campi,<br />
camminano sempre contro vento, e così avvertono con le orecchie e
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 77<br />
sentono col naso tutto quello che sta <strong>di</strong>nanzi a loro. Se non ci fosse il<br />
vento, esse non saprebbero in che <strong>di</strong>rezione andare.<br />
Quasi tutte le erbe, i cespugli e gli alberi sono creati in modo, che il<br />
loro seme non si può formare su nessuna pianta, se una specie <strong>di</strong><br />
polverina non vola dal fiore <strong>di</strong> una sul fiore <strong>di</strong> un’altra. I fiori si trovano<br />
lontani fra loro, e non possono mandarsi quella polverina da uno<br />
all’altro.<br />
Quando i cocomeri sono coltivati nelle serre, dove il vento non tira,<br />
bisogna che gli uomini, con le loro mani, colgano un fiore e lo pongano<br />
sopra un altro, in modo che la polverina del polline vada a cadere sul<br />
fiore che fa il frutto, e questo fiore possa legare. Le api e altri insetti,<br />
qualche volta, trasportano sulle zampe la polverina da un fiore all’altro;<br />
ma è il vento, soprattutto, che trasporta questa polverina. Se non ci fosse<br />
il vento, la metà delle piante resterebbe senza seme.<br />
Nella stagione calda, dall’acqua, si solleva un vapore. Questo vapore<br />
si solleva sempre più, e quando, in alto, si ghiaccia, ricade giù in<br />
goccioline <strong>di</strong> pioggia.<br />
Ma il vapore si solleva soltanto da quei punti della terra, dove c’è<br />
acqua: dai ruscelli, dalle palu<strong>di</strong>, dagli stagni, dai fiumi, e soprattutto dal<br />
mare. Se il vento non ci fosse, i vapori non si sposterebbero qua e là, ma<br />
si raccoglierebbero in nubi soltanto sull’acqua, e ricadrebbero <strong>di</strong>, nuovo<br />
in quegli stessi punti, <strong>di</strong> dove si sono alzati. Sul ruscello, sulla palude,<br />
sul fiume, sul mare; ci pioverebbe, e invece sulla terra, sui campi e sui<br />
boschi non ci pioverebbe mai. È il vento che trasporta le nubi è annaffia<br />
la terra.<br />
Se il vento non ci fosse, nei punti dove già c’è acqua ci sarebbe ancora<br />
più acqua, e la terra, invece, si seccherebbe e brucerebbe tutta.<br />
Le pere più buone <strong>di</strong> tutte.<br />
(Favola).<br />
Un signore mandò il servitore a comprare le pere, e gli <strong>di</strong>sse:<br />
Comprami <strong>di</strong> quelle più buone <strong>di</strong> tutte! — Il servitore andò alla<br />
bottega e chiese le pere. Il bottegaio gliele, <strong>di</strong>ede ma il servitore <strong>di</strong>sse:<br />
— No, datemi quelle più buone <strong>di</strong> tutte.<br />
Il bottegaio <strong>di</strong>sse:<br />
— Assaggiane una, e vedrai che sono davvero buone.<br />
— E come faccio a sapere che sono buone tutte quante, — <strong>di</strong>sse il<br />
servitore, — se io ne assaggio una sola?
78<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Un po’ per volta, <strong>di</strong>ede un morso a ogni pera, e così le portò al suo<br />
padrone. Allora il padrone lo cacciò via.<br />
Volga e Vasusa 127 .<br />
(Leggenda russa).<br />
C’erano una volta due fratelli: Volga e Vasusa. Si misero a litigare per<br />
sapere chi dei due era più intelligente, e chi avrebbe vissuto con più<br />
larghezza.<br />
Volga <strong>di</strong>sse: — Perché dobbiamo litigare? Noi siamo tutt’e due<br />
abbastanza gran<strong>di</strong>celli. Domani mattina usciamo da casa e an<strong>di</strong>amo<br />
ognuno per la sua strada: si vedrà, allora, chi dei due saprà fare più<br />
cammino e arriverà più presto nel Regno <strong>di</strong> Chvalí n.<br />
Vasusa si mostrò d’accordo, ma ingannò Volga. Non appena Volga si<br />
fu addormentato, Vasusa, <strong>di</strong> notte, s’avviò <strong>di</strong> corsa per la strada più<br />
<strong>di</strong>retta verso il Regno <strong>di</strong> Chvalín.<br />
Quando Volga si levò, e vide che il fratello era già partito, si mise,<br />
d’un passo né svelto né lento, per la sua strada, e finí per raggiungere<br />
Vasusa.<br />
Allora Vasusa ebbe paura che Volga lo castigasse: <strong>di</strong>sse che lui era il<br />
fratello più piccino, e pregò Volga <strong>di</strong> accompagnarlo fino al Regno <strong>di</strong><br />
Chvalín. Volga perdonò il fratello e lo prese con sé.<br />
Il fiume Volga ha origine nel <strong>di</strong>stretto <strong>di</strong> Ostakovo, dalle palu<strong>di</strong><br />
presso il villaggio <strong>di</strong> Volgo. C’è là un pozzo non molto grande: da esso<br />
nasce il Volga. Il fiume Vasusa, invece, ha origine fra i monti. Il Vasusa<br />
scorre <strong>di</strong>ritto, ma il Volga fa molte giravolte.<br />
Al venire della primavera, il Vasusa è più svelto a spezzare il ghiaccio<br />
e ad aprirsi la strada, mentre il Volga è più tar<strong>di</strong>vo. Ma quando i due<br />
fiumi si congiungono insieme, il Volga ha già sessanta metri <strong>di</strong><br />
larghezza, mentre il Vasusa è ancora un fiumiciattolo stretto stretto e<br />
piccolino. Il Volga fa cammino attraverso tutta la Russia, per una<br />
lunghezza <strong>di</strong> tremila duecento chilometri, e va a buttarsi nel Mare <strong>di</strong><br />
Chvalín (cioè nel Caspio). E quando è in piena, esso raggiunge una<br />
larghezza perfino <strong>di</strong> do<strong>di</strong>ci chilometri.<br />
127 Nomi <strong>di</strong> fiumi che, in russo, sono femminili: e quin<strong>di</strong>, nell’originale, «sorelle»<br />
invece che «fratelli».
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 79<br />
Il vitello sul ghiaccio.<br />
(Favola).<br />
Un vitello, saltando nella sua stalletta, aveva imparato a fare giravolte<br />
e piroette. Quando arrivò l’inverno, il vitello fu lasciato andare con<br />
l’altro bestiame sul ghiaccio, all’abbeveratoio. Tutte le vacche<br />
s’avvicinarono guar<strong>di</strong>nghe al trogolo; il vitello, invece, si mise a<br />
galoppare sul ghiaccio, arrotolò in alto la coda, aguzzò le orecchie, e<br />
incominciò a piroettare. Ma alla prima piroetta, il piede gli mancò, e<br />
andò a battere con la testa contro il trogolo.<br />
Allora, giù a mugliare.<br />
— Guarda come sono <strong>di</strong>sgraziato! — <strong>di</strong>ceva. — Con la paglia fino al<br />
ginocchio, saltavo e non cascavo, e qui, sul liscio, sono subito<br />
sdrucciolato.<br />
Una vacca anziana gli <strong>di</strong>sse:<br />
— Se tu non fossi un vitello, sapresti che dove è più facile saltare, è più<br />
<strong>di</strong>fficile reggersi dritti.<br />
La principessa dai capelli d’oro.<br />
(Leggenda).<br />
In In<strong>di</strong>a c’era una principessa coi capelli d’oro; essa aveva una cattiva<br />
matrigna. La matrigna o<strong>di</strong>ava la figliastra coi capelli d’oro, e persuase il<br />
re a mandarla via in un deserto. Portarono via la ragazza coi capelli<br />
d’oro in un deserto lontano, e là l’abbandonarono. Dopo cinque giorni,<br />
la principessa coi capelli d’oro, a cavallo d’un leone, ritornò da suo<br />
padre.<br />
Allora la matrigna persuase il re a mandare la figliastra coi capelli<br />
d’oro in certe montagne selvagge, dove vivevano soltanto gli sparvieri.<br />
Gli sparvieri, dopo quattro giorni, la riportarono a casa.<br />
Allora la matrigna fece mandare la principessa in un’isola in mezzo al<br />
mare. I pescatori videro la principessa coi capelli d’oro, e dopo sei giorni<br />
la riportarono dal padre.<br />
Allora la matrigna fece scavare nel cortile un pozzo profondo, ci fece<br />
calare la principessa coi capelli d’oro, e la fece sotterrare là dentro.<br />
Dopo sei giorni, da quel punto dove era stata seppellita la<br />
principessa, trasparì una luce, e quando il re or<strong>di</strong>nò <strong>di</strong> togliere la terra,<br />
ritrovarono là in fondo la principessa coi capelli d’oro.
80<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Allora la matrigna fece incavare un tronco <strong>di</strong> gelso128 ci serrò dentro<br />
la principessa, e la lasciò in balia del mare.<br />
Dopo nove giorni, il mare portò la principessa coi capelli d’oro alle<br />
terre del Giappone, e là i giapponesi la tirarono fuori dal tronco. Essa era<br />
ancora viva.<br />
Ma, appena fu uscita sulla riva, morí, e si trasformò in un baco da<br />
seta.<br />
Il baco da seta s’arrampicò su un albero <strong>di</strong> gelso, e si mise a mangiare<br />
quella foglia <strong>di</strong> gelso. Quando si fu fatto un po’ più grosso,<br />
d’improvviso <strong>di</strong>ventò come morto: non mangiava e non si muoveva più.<br />
Dopo cinque giorni, in quel medesimo termine <strong>di</strong> tempo che il leone<br />
aveva riportato la principessa dal deserto, il baco rinvivì e ricominciò a<br />
mangiare la foglia.<br />
Quando il baco si fu fatto ancora piú grossetto, morí un’altra volta, e<br />
dopo quattro giorni, in quel medesimo termine <strong>di</strong> tempo che gli<br />
sparvieri avevano riportato la principessa a casa sua, il baco rinvivì <strong>di</strong><br />
nuovo, e ricominciò a mangiare.<br />
E un’altra volta morí, e poi, in quel medesimo termine <strong>di</strong> tempo che<br />
la principessa era tornata con la barca dei pescatori, un’altra volta<br />
rinvivì.<br />
E ancora, per la quarta volta, morì, e rinvivì il sesto giorno, quando la<br />
principessa era stata <strong>di</strong>ssotterrata dal pozzo.<br />
E ancora, per l’ultima volta, morí, e al nono giorno, in quel medesimo<br />
termine <strong>di</strong> tempo che la principessa era approdata in Giappone, rinvivì<br />
in un bozzolo <strong>di</strong> seta color dell’oro. Dal bozzolo volò fuori una farfalla e<br />
depose gli ovicini, e da quegli vicini uscirono tanti bachi, e si sparsero<br />
per il Giappone. Cinque volte i bachi s’addormentano, e cinque volte<br />
ritornano in vita.<br />
I Giapponesi allevano molti <strong>di</strong> questi bachi, e fabbricano molta seta. E<br />
il primo sonno del baco lo chiamano sonno del leone, il secondo sonno dello<br />
sparviero, il terzo sonno della barca, il quarto sonno del cortile, e il quinto<br />
sonno del tronco incavato.<br />
128 L’albero <strong>di</strong> gelso produce delle bacche simili al lampone, e ha la foglia simile a<br />
quella della betulla; con questa foglia si nutriscono i bachi da seta [N. d. A.].
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 81<br />
Il falco e il gallo.<br />
(Favola).<br />
Un falco s’era lasciato addomesticare, e veniva a posarsi sulla mano<br />
del padrone, quando lo chiamava; il gallo, invece, scappava lontano e<br />
schiamazzava, quando il padrone gli si avvicinava. Allora il falco <strong>di</strong>sse<br />
al gallo:<br />
– Voialtri galli non conoscete la gratitu<strong>di</strong>ne; si vede proprio che avete<br />
la natura del servitore. Soltanto quando siete affamati vi accostate ai<br />
padroni! Ben <strong>di</strong>versi siamo noialtri, uccelli selvatici: noi; <strong>di</strong> forza, ne<br />
abbiamo tanta, e in volo siamo piú veloci <strong>di</strong> voi: ma non scappiamo<br />
lontano dagli uomini, anzi an<strong>di</strong>amo <strong>di</strong> nostra volontà a posarci sulla<br />
loro mano, quando essi ci chiamano. Noi siamo riconoscenti a chi ci dà<br />
da mangiare.<br />
Rispose il gallo:<br />
— Voi non scappate lontano dagli uomini perché non avete mai<br />
veduto un falco arrosto: ma noi, <strong>di</strong> galli arrosto, ne ve<strong>di</strong>amo ogni<br />
momento.<br />
Il calore.<br />
(Considerazioni).<br />
I.<br />
Per quale ragione, nelle linee ferroviarie, le verghe dei binari sono<br />
<strong>di</strong>sposte in modo che l’estremità <strong>di</strong> una non tocca l’estremità dell’altra?<br />
Per la ragione che d’inverno, col freddo, il ferro si restringe, mentre<br />
d’estate, col caldo, si <strong>di</strong>lata. Se, quando è inverno, si piantassero i binari<br />
in modo da combaciare insieme con le estremità delle verghe, queste,<br />
quando viene l’estate, si allungherebbero, farebbero forza una contro<br />
l’altra, e si solleverebbero da terra.<br />
Col caldo ogni cosa si allarga, col freddo ogni cosa si restringe.<br />
Se una vite non entra nel dado, si riscalda il dado, e la vite ci entrerà.<br />
E se la vite ci giuoca dentro, si riscalda la vite, e ci andrà a perfezione.<br />
Per quale ragione un bicchiere si spezza, se ci si mesce l’acqua<br />
bollente?<br />
Per la ragione che quel punto del bicchiere, dov’è l’acqua bollente, si<br />
riscalda, si slarga, e invece quel punto, dove l’acqua bollente non c’è,<br />
rimane com’era prima: in basso il bicchiere fa forza in fuori, ma in alto<br />
non consente, e così si spezza.
82<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
II.<br />
Per quale ragione, quando viene il <strong>di</strong>sgelo, la neve si scioglie sulle<br />
mani, ma sul cappotto regge?<br />
Per la ragione che il calore del viso e delle mani trapassa nella neve e<br />
la fa fondere: infatti, quel punto del viso dove la neve s’è sciolta, <strong>di</strong>venta<br />
freddo.<br />
Per quale ragione, tenendo fra le mani una ciotola <strong>di</strong> latta piena<br />
d’acqua fredda, l’acqua si riscalda, mentre il palmo delle mani si<br />
raffredda?<br />
Per la ragione che, dalle mani; il calore trapassa nella latta, e <strong>di</strong> lì<br />
nell’acqua.<br />
Se si tiene la ciotola coi guanti, per quale ragione tarda un pezzo a<br />
scaldarsi?<br />
Per la ragione che i guanti non permettono al calore delle mani <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>ffondersi nell’acqua, mentre invece la latta lascia passare il calore dalle<br />
mani nell’acqua. Il ferro e la latta lasciano passare il caldo e il freddo; la<br />
pelliccia e il legno non lo lasciano passare. Per questa ragione il ferro, la<br />
latta, il rame e tanti altri metalli 129 si riscaldano al sole più del legno,<br />
della lana, della carta, e fanno più presto a raffreddarsi. E appunto per<br />
questo, nella stagione fredda, ci vestiamo <strong>di</strong> pellicce, <strong>di</strong> lana e <strong>di</strong> tutte le<br />
cose che non lasciano uscire il calore.<br />
Per quale ragione la pasta del pane, che deve levitare, si ricopre con<br />
una coperta <strong>di</strong> lana, e non con un pezzo <strong>di</strong> bandone?<br />
Per quale ragione, sotto i trucioli e sotto la paglia, la neve non si<br />
scioglie, e si mantiene fino a giugno?<br />
Per quale ragione il ghiaccio si mantiene meglio nelle cantine che<br />
sono riparate da un tetto <strong>di</strong> paglia?<br />
Per quale ragione, quando si vogliono far prosciugare le assi tagliate<br />
<strong>di</strong> fresco, si mettono sotto una tettoia <strong>di</strong> bandone, non già <strong>di</strong> paglia?<br />
Per quale ragione, <strong>di</strong> fienatura e <strong>di</strong> mietitura, i conta<strong>di</strong>ni, per<br />
conservare l’acqua fresca, avvolgono le brocche in un tovagliolo?<br />
III.<br />
Per quale ragione, quando tira il vento ma non gela, ci sentiamo<br />
129 Metalli sono l’oro, l’argento, il rame, il ferro, lo stagno, il mercurio, e altri [N.<br />
d. A.].
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 83<br />
intirizzire più <strong>di</strong> quando gela senza vento?<br />
Per la ragione che il calore passa dal nostro corpo nell’aria, e se il<br />
tempo è calmo, l’aria che sta intorno al corpo si riscalda e rimane<br />
intiepi<strong>di</strong>ta. Ma quando tira il vento, porta via l’aria riscaldata, e ne porta<br />
dell’altra fredda. Dal corpo esce nuovo calore, e <strong>di</strong> nuovo riscalda l’aria<br />
che gli sta intorno: ma <strong>di</strong> nuovo il vento porta via l’aria intiepi<strong>di</strong>ta. E<br />
quando molto calore, in questo modo, è uscito dal corpo, noi ci sentiamo<br />
intirizzire.<br />
Per quale ragione, quando in una tazzina il tè è bollente, ci si soffia<br />
sopra?<br />
Gli sciacalli e l’elefante.<br />
(Favola).<br />
Gli sciacalli 130 avevano mangiato tutte le carogne che c’erano nel<br />
bosco, e non avevano più da mangiare. Ed ecco che a un vecchio<br />
sciacallo venne in mente un modo <strong>di</strong> trovare da sfamarsi. Andò<br />
dall’elefante e gli <strong>di</strong>sse:<br />
– Noialtri avevamo un re, ma da un po’ <strong>di</strong> tempo non fila dritto: ci<br />
or<strong>di</strong>na <strong>di</strong> fare certe cose, che non è possibile eseguire. Noi ci vogliamo<br />
scegliere un altro re, e il nostro popolo mi ha mandato appunto a<br />
pregarti <strong>di</strong> <strong>di</strong>ventare tu il re nostro. Si campa bene, da noi: qualunque<br />
cosa tu ci comanderai, noi la faremo, e ti rispetteremo in tutto. Vieni nel<br />
nostro regno!<br />
L’elefante acconsentì, e andò <strong>di</strong>etro allo sciacallo. Lo sciacallo lo<br />
condusse in una palude. Quando l’elefante fu ben affondato nel fango, lo<br />
sciacallo gli <strong>di</strong>sse:<br />
– Adesso, comanda pure: qualunque cosa ci or<strong>di</strong>ni, noi la faremo.<br />
L’elefante rispose:<br />
– Io vi comando <strong>di</strong> tirarmi fuori <strong>di</strong> qui.<br />
Lo sciacallo si mise a ridere, e <strong>di</strong>sse: – Attaccati con la proboscide alla<br />
coda mia, e subito ti tiro fuori.<br />
Rispose l’elefante: – Ti pare possibile, con la coda, tirar fuori me?<br />
Allora lo sciacallo gli <strong>di</strong>sse: — E perché, dunque, tu coman<strong>di</strong> una cosa<br />
che non si può fare? Apposta abbiamo cacciato via il re <strong>di</strong> prima, perché<br />
ci comandava certe cose che non si potevano eseguire.<br />
Quando l’elefante, lì nella palude, fu morto, gli sciacalli vennero e se<br />
130 Bestie feroci simili a piccoli lupi. [ N. d. A.].
84<br />
lo mangiarono.<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Magnete.<br />
(Descrizione).<br />
Nei tempi antichi c’era un pastore: aveva nome Magnete. Un giorno,<br />
una pecora gli si smarrì. Magnete andò a cercarla sui, monti. Arrivò in<br />
un luogo dove non c’era altro che pietre nude. Lui andò avanti fra quelle<br />
pietre, e a un tratto s’accorse che gli scarponi gli s’attaccavano a quelle<br />
pietre. Le toccò con la mano: le pietre erano asciutte, e alle mani non<br />
restavano attaccate. Ricominciò a camminare, e gli scarponi<br />
ricominciarono ad attaccarglisi alle pietre. Si sedette, si scalzò, prese gli<br />
scarponi in mano, e con essi provò a toccare le pietre.<br />
Se le tocca con il cuoio o con la suola, le pietre non si attaccano; ma<br />
appena le tocca coi chio<strong>di</strong>, sono bell’e attaccate.<br />
Aveva con sé, Magnete, un bastone col puntale <strong>di</strong> ferro. Toccò una<br />
pietra col legno, e non s’attaccò; la toccò col ferro, e s’attaccò così forte,<br />
che la dovette strappare.<br />
Magnete, allora, osservò bene quel genere <strong>di</strong> pietre: vide che erano<br />
somiglianti al ferro, e ne portò qualche pezzo a casa. Da quel giorno, la<br />
gente conobbe questo genere <strong>di</strong> pietre, e le chiamò magnete, o calamita.<br />
La calamita si trova sotto terra insieme col minerale <strong>di</strong> ferro. Dove nel<br />
minerale c’è la calamita, lì il ferro è migliore. L’aspetto della calamita è<br />
poco <strong>di</strong>verso da quello del ferro.<br />
Se si pone un pezzetto <strong>di</strong> ferro sopra la calamita, anche il ferro<br />
acquista la virtù <strong>di</strong> attirare altro ferro. E se si pone sulla calamita un ago<br />
d’acciaio, e ci si tiene un certo tempo, l’ago si trasforma in calamita e<br />
acquista la virtù <strong>di</strong> attirare il ferro. Se due calamite si accostano insieme<br />
per le estremità, da una parte le estremità si respingeranno, dall’altra si<br />
attireranno fra loro.<br />
Prendendo una calamita a forma <strong>di</strong> verghetta, e <strong>di</strong>videndola in due<br />
metà, avverrà <strong>di</strong> nuovo la stessa cosa: tutt’e due queste metà, da una<br />
parte si attireranno, dall’altra si respingeranno. A <strong>di</strong>viderle ancora,<br />
avverrà la stessa cosa, e potrai <strong>di</strong>viderle quante volte, vuoi, sempre<br />
avverrà la stessa cosa: le estremità uguali si respingeranno, quelle<br />
<strong>di</strong>verse si attireranno, come se la calamita, da un’estremità spingesse in<br />
fuori, dall’altra tirasse a sé. E per quanto tu cercherai <strong>di</strong> spezzettarla,<br />
sempre da un’estremità spingerà in fuori, e dall’altra tirerà a sé, proprio<br />
allo stesso modo che una pigna <strong>di</strong> abete, in qualunque punto tu la
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 85<br />
spezzi, risulterà sempre da un lato a punta, dall’altro a incavo. Da<br />
qualunque verso si prenda, l’incavo combinerà con la punta, ma punta<br />
con punta e incavo con incavo non combineranno mai.<br />
Se si magnetizza un ago (tenendolo a contatto con la calamita), e poi<br />
se ne fissa il centro su un pernio, in modo che vi giuochi liberamente,<br />
potrai far ruotare a tuo piacere l’ago magnetizzato; ma appena lo<br />
lascerai libero, esso si girerà con uno dei capi verso mezzogiorno (sud),<br />
con l’altro capo verso mezzanotte (nord).<br />
Quando non si conosceva la calamita, non era possibile navigare in<br />
mare molto lontano da terra. Se una barca si spinge molto lontano in<br />
mare, la terra non si vede più, e soltanto il sole e le stelle possono<br />
guidare la navigazione. Ma se il tempo è coperto, e non si vede né sole<br />
né stelle, allora non si sa davvero in che <strong>di</strong>rezione navigare. E la nave,<br />
travolta dal vento, viene sbattuta contro gli scogli e si frantuma.<br />
Così, fin quando la calamita non fu conosciuta, gli uomini non<br />
s’allontanavano <strong>di</strong> molto dalle coste; ma quando fu conosciuta la<br />
calamita, adattarono l’ago magnetico su un pernio, in modo che vi<br />
giocasse liberamente. E dai movimenti <strong>di</strong> quest’ago impararono a<br />
regolarsi in quale <strong>di</strong>rezione fosse da guidare la nave. Con l’ago<br />
magnetico incominciarono ad avventurarsi più lontano dalle coste e, da<br />
allora in poi, conobbero molti mari nuovi.<br />
Sulle navi c’è sempre un ago magnetico (la bussola), e c’è anche una<br />
funicella misurata, con tanti no<strong>di</strong>, che si tiene arrotolata all’estremità<br />
della nave. E questa funicella è congegnata in modo che si srotola via<br />
via, e da essa si può vedere quanta strada la nave ha percorso.<br />
In questo modo, su una nave in viaggio, si sa sempre in che luogo si<br />
trova la nave in quel certo momento, e quanto è lontana dalla costa, e in<br />
quale <strong>di</strong>rezione cammina.<br />
L’airone, i pesci e il gambero.<br />
(Favola).<br />
Un airone abitava in uno stagno, e s’era invecchiato: non aveva più<br />
forza d’acchiappare i pesci. Si mise a pensare in che modo, con l’astuzia,<br />
potesse campar la vita. E <strong>di</strong>sse ai pesci: — Voi, pesci, non sapete che<br />
grande <strong>di</strong>sgrazia vi pende sul capo: ho sentito io che cosa <strong>di</strong>cevano gli<br />
uomini: vogliono prosciugare, lo stagno, e voi, quanti siete, acchiapparvi<br />
tutti. Ma io so bene che là, <strong>di</strong>etro a quel poggio, c’è un altro stagno<br />
meraviglioso. Vi aiuterei volentieri io stesso, ma mi sono fatto vecchio:
86<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
mi è fatica volare.<br />
I pesci incominciarono a pregare l’airone che li aiutasse. L’airone,<br />
allora rispose:<br />
—Di buon cuore mi darò da fare per voi: vi trasporterò senz’altro.<br />
Ma, tutti insieme, non è possibile: uno alla volta!<br />
I pesci furono contenti lo stesso, anzi contentissimi: e tutti a gridare:<br />
— Porta me, porta me!<br />
L’airone, dunque, s’accinse al trasporto: ne afferra uno, lo porta al<br />
largo, e se lo <strong>di</strong>vora. Poi un secondo, e un terzo. E in questa maniera<br />
trangugiò un sacco <strong>di</strong> pesci.<br />
Abitava in quello stagno un vecchio gambero. Non appena l’airone<br />
aveva cominciato a portar via i pesci, egli aveva capito l’antifona; e<br />
finalmente gli <strong>di</strong>sse:<br />
—Su, airone, ora porta anche me alla nuova <strong>di</strong>mora.<br />
L’airone prese il gambero e lo portò via. Quando fu giunto al largo,<br />
fece per scagliare il gambero a terra. Ma il gambero aveva visto le spine<br />
dei pesci là in terra: abbrancò con le tenaglie l’airone per il collo, e lo<br />
strozzò. Poi da solo si trascinò <strong>di</strong> nuovo fino allo stagno, e raccontò tutto<br />
ai pesci.<br />
Lo zio racconta in che modo imparò ad andare a cavallo.<br />
(Racconto).<br />
C’era fra i nostri conta<strong>di</strong>ni un vecchione decrepito, Pimen <strong>di</strong> Timoteo.<br />
Aveva novant’anni. Viveva in casa d’un suo nipote senza lavorare. La<br />
sua schiena era piegata in due, camminava col bastone, e metteva<br />
innanzi i pie<strong>di</strong> lento lento. Non aveva più un dente, e il viso gli s’era<br />
tutto raggrinzito. Il labbro <strong>di</strong> sotto gli ballava, mentre camminava e<br />
mentre parlava, continuava sempre a biascicare con la bocca, e non si<br />
poteva capire che cosa <strong>di</strong>ceva.<br />
Noi eravamo quattro fratelli, e ci piaceva a tutti andare a cavallo. Ma<br />
cavalli tranquilli, da montare a sella, non ne avevamo. Soltanto su un<br />
vecchio cavallo avevamo il permesso <strong>di</strong> montare: era un cavallo<br />
chiamato Corvino.<br />
Un giorno, nostra madre ci <strong>di</strong>ede il permesso <strong>di</strong> cavalcare, e noi<br />
andammo tutti alla scuderia col nostro istitutore. Lo stalliere ci sellò<br />
Corvino, e il più grande <strong>di</strong> noi fratelli montò per primo. Egli fece una<br />
buona cavalcata: andò fino all’aia e fece il giro del giar<strong>di</strong>no; e quando<br />
noi lo vedemmo ritornare, ci mettemmo a gridargli: — Su, ora lanciati al
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 87<br />
galoppo!<br />
Nostro fratello cominciò a battere Corvino coi pie<strong>di</strong> e con lo<br />
scu<strong>di</strong>scio, e Corvino, <strong>di</strong> galoppo, ci passò rasente.<br />
Dopo il fratello più grande, ne montò un altro, e anche questo fece<br />
una cavalcata ben lunga, e poi anche lui, con lo scu<strong>di</strong>scio, forzò Corvino<br />
a correre, e venne giù lanciato <strong>di</strong> galoppo. Voleva continuare ancora a<br />
cavalcare, ma il terzo fratello insistette perché lasciasse subito montar<br />
lui. Il terzo fratello, come gli altri, si spinse fino all’aia, e poi intorno al<br />
giar<strong>di</strong>no, e per giunta anche per il villaggio: infine, <strong>di</strong> gran galoppo,<br />
venne giù fino alla scuderia. Quando fu lì da noi, Corvino ansimava, e il<br />
collo e le cosce gli s’erano anneriti dal sudore.<br />
Quando arrivò il turno mio, io cercai <strong>di</strong> far colpo sui fratelli, e <strong>di</strong><br />
mostrare quant’ero bravo a stare a cavallo: e così, mi misi subito a<br />
incitare Corvino quanto più potevo. Ma Corvino non voleva staccarsi<br />
dalla scuderia. Per quanto io lo tempestassi <strong>di</strong> colpi, non ci fu verso che<br />
si lanciasse: andava al passo, non solo, ma <strong>di</strong> continuo tentava <strong>di</strong><br />
rigirarsi in<strong>di</strong>etro. Io m’infuriai contro il cavallo, e <strong>di</strong> tutta forza lo<br />
picchiai con lo scu<strong>di</strong>scio e coi pie<strong>di</strong>.<br />
Cercavo <strong>di</strong> picchiarlo proprio in quei punti dove poteva fargli più<br />
male; spezzai lo scu<strong>di</strong>scio, e col mozzicone, che mi restò in mano, mi<br />
misi a picchiarlo sopra alla testa. Ma Corvino, niente: non si lanciava.<br />
Allora io lo feci tornare in<strong>di</strong>etro, mi avvicinai all’istitutore, e gli chiesi<br />
uno scu<strong>di</strong>scio più forte. Ma l’istitutore mi <strong>di</strong>sse:<br />
— Basta col cavalcare, signorino: scendete. Perché tormentare tanto la<br />
bestia?<br />
Io mi offesi, e <strong>di</strong>ssi: — Ma come, io non ho cavalcato per niente! Stà a<br />
vedere, ora, che galoppata gli faccio fare! Dà qua per favore, uno<br />
scu<strong>di</strong>scio più forte: ci penso io a scaldarlo. Allora l’istitutore scrollò la<br />
testa, e <strong>di</strong>sse:<br />
— Ah, signorino mio, voi siete senza cuore. Come parlate <strong>di</strong><br />
scaldarlo?<br />
— Ha vent’anni, sapete! La bestia è sfinita, ha il fiato grosso, e poi,<br />
soprattutto, è vecchia. Lo sapete quant’è vecchia? Né più né meno che<br />
Pimen <strong>di</strong> Timoteo. Fate conto che foste montato in groppa a Pimen, e<br />
così, <strong>di</strong> tutta forza, lo aveste preso a frustate. Ebbene, non vi avrebbe<br />
fatto compassione?<br />
Io mi ricordai <strong>di</strong> Pimen, e <strong>di</strong>e<strong>di</strong> ascolto all’istitutore. Smontai giù dal<br />
cavallo, e quando ebbi visto come ondeggiava coi fianchi sudati, come<br />
respirava a fatica dalle froge, e agitava quella co<strong>di</strong>na spelacchiata, capii<br />
che il cavallo non se la passava bene, E io credevo, invece, che fosse stato
88<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
allegro e contento com’ero io! Allora mi prese una tale compassione <strong>di</strong><br />
Corvino, che cominciai a baciarlo su quel collo bagnato <strong>di</strong> sudore, e a<br />
chiedergli perdono se lo avevo picchiato.<br />
Da quel giorno sono cresciuto, mi sono fatto grande, ma sempre ho<br />
compassione dei cavalli, e sempre mi tornano in mente Corvino e Pimen<br />
<strong>di</strong> Timoteo, quando vedo qualcuno che tormenta un cavallo.<br />
Il riccio e la lepre.<br />
(Favola).<br />
La lepre incontrò il riccio, e gli <strong>di</strong>sse:<br />
– Tu saresti senza <strong>di</strong>fetti, o riccio, ma hai le zampe storte: ti<br />
s’imbrogliano una con l’altra.<br />
Il riccio andò su tutte le furie, e rispose: – Hai poco da prendermi in<br />
giro: le mie zampe storte corrono più svelte delle tue, che sono dritte.<br />
Lascia che arrivi un momento fino a casa, e poi faremo a chi corre <strong>di</strong><br />
più!<br />
Il riccio andò a casa e <strong>di</strong>sse alla moglie: – Io ho fatto una scommessa<br />
con la lepre: vogliamo fare a chi corre <strong>di</strong> più.<br />
La moglie del riccio rispose: – Si vede proprio che sei uscito <strong>di</strong><br />
cervello! Come puoi correre a gara con la lepre? Quella ha le zampe<br />
leste, e tu ce le hai storte e lente.<br />
Ma il riccio <strong>di</strong>sse: – Se lei ci ha leste le zampe, io ci ho lesto il cervello.<br />
Basta che tu faccia come ti <strong>di</strong>rò. An<strong>di</strong>amo là al campo.<br />
Ecco che arrivarono su quel campo arato, dove la lepre aspettava: e<br />
allora il riccio <strong>di</strong>sse alla moglie:<br />
—Tu nascon<strong>di</strong>ti da questo capo del solco, ché io e la lepre<br />
spiccheremo la corsa da quell’altro capo: quando lei si sarà ben lanciata,<br />
io me ne tornerò in<strong>di</strong>etro: e quando arriverà qui da te, tu salta fuori e dì:<br />
«È già un pezzo che sto qui ad aspettarti!» Lei non potrà <strong>di</strong>stinguerti<br />
da me, e crederà che sia qui io.<br />
La moglie del riccio si nascose nel solco, e il riccio con la lepre<br />
attaccarono a correre da quell’altro capo.<br />
Appena la lepre si fu lanciata, il riccio se ne tornò in<strong>di</strong>etro, e si<br />
nascose nel solco. La lepre arrivò <strong>di</strong> galoppo all’altro capo del solco: oh<br />
guarda! La moglie del riccio si trovava già lì. Essa vide la lepre, e le<br />
<strong>di</strong>sse: – È già un pezzo che sto qui ad aspettarti!<br />
La lepre non <strong>di</strong>stinse la moglie del riccio dal riccio in persona, e fece<br />
tra sé: «Questa si che è bella! Come ha fatto a passarmi innanzi?»
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 89<br />
— Ebbene, – <strong>di</strong>sse al riccio, – proviamo ancora una volta!<br />
— Proviamo!<br />
La lepre tornò a slanciarsi su per il solco, arrivò <strong>di</strong> gran corsa al capo<br />
<strong>di</strong> là: oh guarda! Là c’era già il riccio, che le <strong>di</strong>ce: – Eh, fratello, tu arrivi<br />
tar<strong>di</strong>: è già un pezzo che sto qui ad aspettarti!<br />
«Questa si che è bella! – pensa la lepre. – Io ho corso <strong>di</strong> buona lena,<br />
eppure lui mi è passato innanzi. Bè, allora proviamo a correre una terza<br />
volta: vedrai che, ora, non mi passa più!» E <strong>di</strong>sse:<br />
— Forza, corriamo!<br />
La lepre galoppo’ via con quanto fiato aveva: oh guarda! Il riccio le<br />
sta seduto lì davanti, e l’aspetta.<br />
E così la lepre galoppo’ su e giù da un capo all’altro del solco, fin<br />
tanto che le forze la abbandonarono.<br />
Alla fine la lepre s’arrese, e <strong>di</strong>sse che, da quel giorno in poi, non<br />
avrebbe più fatto scommesse.<br />
I due fratelli.<br />
(Leggenda).<br />
Due fratelli si misero a viaggiare insieme per il mondo. Sul<br />
mezzogiorno si sdraiarono a riposare in un bosco. Quando si<br />
svegliarono, s’avvidero che accanto a loro c’era una pietra, e sulla pietra<br />
c’era scritto qualche cosa. Guardarono ben bene, e lessero:<br />
«Chi troverà questa pietra, vada <strong>di</strong>ritto per il bosco in <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong><br />
levante. Nel bosco incontrerà un fiume: passi a nuoto quel fiume fino<br />
alla sponda opposta. Là vedrà un’orsa con gli orsacchiotti: dovrà<br />
strappare gli orsacchiotti all’orsa e fuggire senza mai voltarsi, <strong>di</strong>ritto alla<br />
montagna. In cima alla montagna vedrà una casa, e in quella casa<br />
troverà la felicità».<br />
I fratelli lessero come stava scritto, e il più piccolo <strong>di</strong>sse:<br />
— An<strong>di</strong>amoci insieme. Forse riusciremo a passare a nuoto il fiume,<br />
porteremo gli orsacchiotti fino alla casa, e tutt’e due insieme troveremo<br />
la felicità.<br />
Allora il più grande <strong>di</strong>sse: — Io non ci vengo per il bosco a cercare gli<br />
orsacchiotti, e ti consiglio <strong>di</strong> non andarci neppure te. Prima <strong>di</strong> tutto,<br />
nessuno sa se è vero quel che sta scritto su questa pietra: potrebbe essere<br />
che abbiano scritto tutto per burla; oppure, chissà che noi non abbiamo<br />
inteso a dovere. Eppoi, secondo punto: anche se quel che è scritto è<br />
verità, noi ci mettiamo per il bosco, ci si fa notte, e il fiume non lo
90<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
incontriamo, e finiamo per perderci. E anche nel caso che trovassimo il<br />
fiume, come faremo a passarlo a nuoto? Terzo punto: dato pure che<br />
passassimo il fiume, ti pare una cosa facile strappare all’orsa gli<br />
orsacchiotti? Quella ci sbranerà, e noialtri, invece <strong>di</strong> trovare la felicità,<br />
perderemo inutilmente le vita. Quarto punto: se anche ci riuscisse bene<br />
<strong>di</strong> portar via con noi gli orsacchiotti, non potremo mai arrivare tutto<br />
d’un fiato fino alla montagna. Ma il punto principale è questo, che non<br />
c’è mica scritto quale genere <strong>di</strong> felicità troveremo in quella casa:<br />
potrebbe darsi che là ci aspetti un certo genere <strong>di</strong> felicità, che a noi non<br />
servirebbe a nulla.<br />
Ma il più piccolo <strong>di</strong>sse: — Secondo me, non sta così. Se non ci fosse<br />
niente <strong>di</strong> vero, tante cose su questa pietra non le avrebbero scritte. E<br />
tutto sta scritto in modo chiarissimo. Il primo punto è questo: non ci<br />
accadrà nulla <strong>di</strong> male, se tentiamo la sorte. Secondo punto: se non<br />
an<strong>di</strong>amo noi, qualcun altro leggerà la scritta sopra la pietra, e troverà la<br />
felicità, mentre noialtri resteremo a mani vuote. Terzo punto: se a questo<br />
mondo non ti dai da fare, la fortuna non ti cadrà mai in bocca. Quarto<br />
punto: non mi va giù che la gente possa pensare che io ho avuto paura<br />
<strong>di</strong> qualche cosa.<br />
Allora il più grande <strong>di</strong>sse: — Anche il proverbio <strong>di</strong>ce: «Chi troppo<br />
vuole nulla stringe», e ancora: «È meglio un uovo oggi, che una gallina<br />
domani».<br />
Ma il più piccolo <strong>di</strong>sse: — E invece io ho sentito <strong>di</strong>re: «Se cominci ad<br />
aver paura dei lupi, non andrai più nel bosco»; e ancora: «Uomo che<br />
dorme, non piglia pesci». Secondo me, bisogna andare.<br />
E così, il fratello più piccolo andò, e il più grande rimase.Appena<br />
entrato nel bosco, il più piccolo dei due fratelli trovò il fiume, lo passò a<br />
nuoto, e subito, sulla riva <strong>di</strong> là, vide l’orsa. L’orsa dormiva. Lui<br />
acchiappo’ gli orsacchiotti, e via, senza mai voltarsi, verso la montagna.<br />
Era appena arrivato sulla cima, che gli esce incontro tanta gente, lo<br />
fanno salire su una carrozza, lo conducono nella loro città, e lo fanno re.<br />
Egli regnò cinque anni. Nel sest’anno <strong>di</strong> regno, gli salí contro un altro<br />
re, più forte <strong>di</strong> lui: conquistò la città, e lo scacciò via. Allora il più piccolo<br />
dei due fratelli ricominciò a girare per il mondo, finché capitò dal<br />
fratello più grande.<br />
Il fratello più grande viveva da conta<strong>di</strong>no, né ricco né povero. I due<br />
fratelli si fecero festa, e cominciarono a raccontarsi la vita che era toccata<br />
a ciascuno.<br />
Allora il fratello più grande <strong>di</strong>sse: — Ve<strong>di</strong> che ho avuto ragione io? Io<br />
ho campato sempre pacifico e tranquillo, mentre tu sei <strong>di</strong>ventato re, ma
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 91<br />
hai anche provato gran<strong>di</strong> dolori.<br />
Ma il più piccolo rispose: — Io non mi pento, se quel giorno mi misi<br />
per il bosco alla volta della montagna: anche se adesso me la passo male,<br />
almeno ho qualche cosa <strong>di</strong> bello da ricordare della mia vita, mentre tu<br />
non hai nulla neppure da ricordare.<br />
Lo spirito delle acque e la perla.<br />
(Favola).<br />
Un uomo andava in barca sul mare, e gli cadde nell’acqua una perla<br />
preziosa. L’uomo tornò a riva, pigliò un secchio, e si mise a tirar su<br />
l’acqua e a rovesciarla sulla terra. Tirò su e rovesciò giù per tre giorni <strong>di</strong><br />
fila.<br />
Al quarto giorno, usci dal mare lo spirito delle acque, e domandò:<br />
— Perché attingi così?<br />
L’uomo rispose:<br />
— Attingo così perché m’è caduta una perla.<br />
Lo spirito delle acque gli domandò:<br />
— E quando pensi <strong>di</strong> smettere?<br />
L’uomo rispose:<br />
— Quando avrò asciugato il mare, allora smetterò. Allora lo spirito<br />
delle acque rientrò nel mare, portò su proprio quella perla, e la restituì<br />
all’uomo.<br />
La biscia.<br />
(Leggenda).<br />
Una donna aveva una figlia che si chiamava Mariolina. Mariolina<br />
andò con le amiche a fare un bagno. Le ragazzette si tolsero le camicine,<br />
le posero sulla sponda e saltarono in acqua.<br />
Dall’acqua scivolò fuori una grossa biscia e, arrotolandosi, si adagiò<br />
sulla camicia <strong>di</strong> Mariolina. Le ragazzette riuscirono dall’acqua,<br />
indossarono le loro camicine, e corsero a casa. Quando Mariolina<br />
s’accostò alla camicia sua, e vide che sopra c’era quel biscione, prese un<br />
bastone e fece per cacciarlo via; ma il biscione sollevò la testa e<br />
incominciò a fischiare, con voce umana:<br />
– Mariolina, Mariolina, promettimi che mi sposerai.<br />
Mariolina scoppiò a piangere, e <strong>di</strong>sse: – Basta che mi ridai la camicia,
92<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
farò quello che vuoi.<br />
– Mi prenderai per sposo?<br />
Mariolina <strong>di</strong>sse: – Ti prenderò! – E il biscione scivolò via dalla camicia<br />
e scomparve sott’acqua.<br />
Mariolina indossò la sua camicia e corse a casa. In casa <strong>di</strong>sse alla<br />
madre: – Mammina, un biscione s’è posato sulla mia camicia e mi ha<br />
detto: pren<strong>di</strong>mi per sposo, altrimenti non ti ridò la camicia. Io gli ho<br />
dato la parola.<br />
La madre si mise a ridere e <strong>di</strong>sse: – Tu te lo sei sognato!<br />
Di lì a una settimana, un branco <strong>di</strong> tante bisce riunite insieme venne a<br />
strisciare fino alla casa <strong>di</strong> Mariolina.<br />
Mariolina vide le bisce, si spaventò e <strong>di</strong>sse: – Mamma, le bisce sono<br />
venute a prendermi!<br />
La madre non ci credeva; ma quando le vide, si spaventò anche lei, e<br />
chiuse la porta <strong>di</strong> strada e l’uscio <strong>di</strong> camera. Le bisce, sempre<br />
strisciando, passarono sotto il portone ed entrarono nell’an<strong>di</strong>to: ma non<br />
riuscirono a insinuarsi dentro la camera. Allora strisciarono <strong>di</strong> nuovo<br />
all’aperto, tutte insieme s’arrotolarono come una gran palla, e si<br />
lanciarono contro la finestra. Ruppero il vetro, piombarono sul piancito<br />
della camera, e si misero a strisciare su per le panche, sui tavoli e sulla<br />
stufa. Mariolina s’era rannicchiata in un cantuccio sopra la stufa: ma le<br />
bisce la trovarono la tirarono via <strong>di</strong> lassù, e la trascinarono al fiume.<br />
La madre piangeva e le rincorreva, sua non poté arrivarle. Le bisce,<br />
insieme con Mariolina, si tuffarono sott’acqua.<br />
La madre, allora, pianse la figlia, pensando che fosse morta.<br />
Un giorno, la madre stava alla finestra e guardava in strada. A un<br />
tratto, vede la sua Mariolina che le viene incontro, e porta per mano un<br />
maschiettino e in braccio una femminella.<br />
La madre fu tutta contenta, e si mise a baciare Mariolina e a<br />
domandarle dov’era stata finora, e <strong>di</strong> chi erano questi figliolini.<br />
Mariolina <strong>di</strong>sse che questi erano i figliolini suoi: il biscione l’aveva<br />
sposata, e lei viveva con lui nel regno degli spiriti delle acque.<br />
La madre domandò alla figlia se si trovava bene, a vivere nel regno<br />
degli spiriti delle acque: e la figlia rispose che ci si trovava meglio che<br />
sulla terra.<br />
La madre pregò Mariolina che rimanesse con lei, ma Mariolina non<br />
acconsentì. Disse che aveva promesso al marito <strong>di</strong> tornare da lui.<br />
Allora la madre domandò alla figlia:<br />
– E come farai, per andare a casa tua?<br />
– Andrò là, chiamerò forte: «Simeone, Simeone, esci fuori a pren‐
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 93<br />
dermi!» E lui uscirà sulla riva e mi prenderà.<br />
Sentendo questo, la madre <strong>di</strong>sse a Mariolina: – Va bene, ma almeno<br />
per stanotte rimani con me.<br />
Mariolina si coricò e s’addormentò; la madre prese l’accetta e andò al<br />
fiume.<br />
Arrivò al fiume e si mise a chiamare: – Simeone, Simeone, esci fuori a<br />
prendermi!<br />
Il biscione, a nuoto, venne a riva. Allora la madre gli <strong>di</strong>ede un colpo<br />
d’accetta, e gli staccò la testa. L’acqua si fece rossa <strong>di</strong> sangue.<br />
La madre tornò a casa, ed ecco che la figlia si sveglia e <strong>di</strong>ce: – Io me<br />
ne vado a casa, mamma: mi ha preso una malinconia... – E così,<br />
s’incamminò.<br />
Mariolina aveva preso la femminella in braccio, e il maschietto per<br />
mano.<br />
Quando furono all’acqua, cominciò a chiamare: – Simeone, Simeone,<br />
esci fuori, che sono io! – Ma nessuno veniva fuori.<br />
Allora essa guardò meglio sull’acqua, e vide che l’acqua era rossa, e la<br />
testa del biscione ci galleggiava sopra.<br />
A quella vista, Mariolina baciò la figlia e il figlio, e <strong>di</strong>sse loro:<br />
Non avete più il babbo, non avrete più neanche la mamma! Tu,<br />
figliolina mia, <strong>di</strong>venterai una ron<strong>di</strong>nella, e volerai sull’acqua; tu,<br />
figliolino, <strong>di</strong>venterai un usignoletto, e spanderai i tuoi canti giorno e<br />
notte: e io <strong>di</strong>venterò un cuculo, e mi lamenterò del mio sposo ucciso.<br />
E tutt’e tre se ne volarono via, chi da una parte chi dall’altra.<br />
Il passero e le ron<strong>di</strong>ni.<br />
(Racconto).<br />
Io, un giorno, m’ero fermato in cortile a guardare un nido <strong>di</strong> ron<strong>di</strong>ni<br />
sotto il tetto. Mentre guardavo, tutt’e due le ron<strong>di</strong>ni volarono via, e il<br />
nido rimase vuoto.<br />
Mentre le ron<strong>di</strong>ni erano assenti, volò giù dal tetto un passero, saltellò<br />
verso il nido, <strong>di</strong>ede un’occhiata intorno, annaspo’ con le alucce e<br />
s’intrufolò dentro al nido; poi cacciò fuori la sua testolina, e mandò un<br />
cinguettio.<br />
Poco dopo, arrivò al nido una delle ron<strong>di</strong>ni. Essa andò per infilarsi<br />
nel nido; ma appena s’avvide dell’ospite, pigolò, sbatté le ali lì <strong>di</strong> fuori, e<br />
volò via.<br />
Il passero rimaneva al suo posto, e cinguettava.
94<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
D’improvviso arrivarono un branchetto <strong>di</strong> ron<strong>di</strong>ni: tutte queste<br />
ron<strong>di</strong>ni, volando, s’accostarono al nido, come per dare un’occhiata al<br />
passero, e poi rivolarono via.<br />
Il passero non si spaventò: girava la testa <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là, e cinguettava.<br />
Le ron<strong>di</strong>ni, volando, s’accostarono al nido un’altra volta, fecero<br />
qualche cosa, e poi <strong>di</strong> nuovo rivelarono via.<br />
Le ron<strong>di</strong>ni avevano il loro motivo, per accostarsi al nido così: ognuna<br />
portava nel becco un pochino <strong>di</strong> fango, e con questo, un po’ per volta,<br />
muravano l’apertura del nido.<br />
Un’altra volta le ron<strong>di</strong>ni volarono via, e un’altra volta tornarono a<br />
volo, e ogni volta un po’ <strong>di</strong> più muravano il nido, e l’apertura <strong>di</strong> questo<br />
<strong>di</strong>ventava più stretta, più stretta.<br />
Da principio si vedeva tutto il collo del passero, poi si vide la<br />
testolina sola, poi il becco, e poi non si vide più niente: le ron<strong>di</strong>ni lo<br />
avevano completamente murato nel nido.<br />
Allora se ne volarono lontano, e coi loro stri<strong>di</strong> si misero a girare<br />
intorno alla casa.<br />
Cambise e Psammenite.<br />
(Racconto storico).<br />
Quando il re <strong>di</strong> Persia, Cambise, conquistò l’Egitto e catturò il re<br />
egiziano Psammenite, or<strong>di</strong>nò che portassero su una piazza il re<br />
Psammenite con altri Egiziani, e poi or<strong>di</strong>nò che su quella piazza fossero<br />
portate duemila persone, e tra queste la figlia <strong>di</strong> Psammenite. La fece<br />
vestire <strong>di</strong> stracci e la mandò, con le secchie, a prender l’acqua; e insieme<br />
con lei, vestite allo stesso modo, ci mandò le figlie dei più gran<strong>di</strong><br />
personaggi egiziani. Quando le ragazze, urlando e piangendo,<br />
passarono davanti ai loro padri, i padri si misero a piangere, guardando<br />
le loro figlie. Solo Psammenite non pianse: non fece altro che abbassare il<br />
viso verso terra.<br />
Quando le ragazze furono passate oltre, Cambise or<strong>di</strong>nò che venisse<br />
il figlio <strong>di</strong> Psammenite con altri Egiziani. Tutti costoro avevano il collo<br />
avvoltolato da una corda, e in bocca avevano un morso da cavalli. Li<br />
condussero via per ucciderli.<br />
Psammenite vide tutto, e capì che il figlio era condotto alla morte. Ma<br />
come aveva già fatto alla vista della figliola, così anche adesso, mentre<br />
gli altri padri piangevano i loro figli, lui non fece altro che abbassare il<br />
viso verso terra.
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 95<br />
Poco dopo venne a passare davanti a Psammenite un vecchio<br />
compagno suo, che gli era anche parente.<br />
Questo, prima, era stato un riccone, e invece ora, come un<br />
men<strong>di</strong>cante, andava chiedendo l’elemosina ai soldati. Appena<br />
Psammenite lo vide, lo chiamò per nome, si batté coi pugni la testa, e<br />
ruppe in singhiozzi. Cambise si meravigliò che Psammenite facesse così<br />
e mandò a interrogarlo in questi termini:<br />
— Psammenite! Il tuo signore Cambise ti domanda: per quale<br />
ragione, quando la tua figliola è stata oltraggiata, e tuo figlio è stato<br />
condotto alla morte, tu non hai pianto, e invece un men<strong>di</strong>cante, che non<br />
è affatto del tuo stesso sangue, ti ha provocato tanta compassione?<br />
Psammenite rispose:<br />
— Cambise! Il dolore che io soffro per conto mio è tanto grande, che<br />
non ci posso nemmeno piangere: ma questo compagno mi ha fatto<br />
compassione perché, così in vecchiaia, da ricco che era, è caduto in<br />
miseria.<br />
Era il presente un altro re prigioniero, Creso. Quando egli udì quelle<br />
parole, senti più vivo il suo dolore, e si mise a piangere: e allora tutti i<br />
persiani, che si trovavano intorno, si misere a piangere anche loro.<br />
E Cambise stesso fu assalito dalla compassione: or<strong>di</strong>nò che il figlio <strong>di</strong><br />
Psammenite fosse riportato in<strong>di</strong>etro, e che Psammenite in persona fosse<br />
condotto alla sua presenza.<br />
Ma il figlio non fu trovato vivo: già lo avevano ucciso. Psammenite fu<br />
condotto alla presenza <strong>di</strong> Cambise, e Cambise gli fece grazia.<br />
Il pescecane.<br />
(Racconto).<br />
La nostra nave stava all’ancora sulla costa africana. Era una giornata<br />
bellissima: dal mare soffiava un vento fresco; ma verso sera il tempo<br />
cambiò: si fece un caldo soffocante, e un’aria infocata, come se uscisse da<br />
un forno, tirava dal deserto del Sahara.<br />
Poco prima che il sole tramontasse, il capitano uscì sul ponte, gridò:<br />
— Fate il bagno! — e, in un momento, i marinai saltarono in acqua,<br />
calarono in acqua una vela, la legarono, e così, in quella vela,<br />
apprestarono una specie <strong>di</strong> vasca da bagno.<br />
Sulla nave c’erano con noi due ragazzi. I ragazzi furono i primi a<br />
saltare in acqua, ma dentro la vela si sentivano stretti, e pensarono <strong>di</strong> far<br />
la gara a chi nuotava meglio in mare aperto.
96<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Tutt’e due, come due lucertole, guizzarono via per l’acqua e,<br />
nuotando <strong>di</strong> tutta forza, si spinsero verso un punto, dove stava ancorata<br />
una boa.<br />
Uno dei ragazzi, da principio, era passato innanzi al compagno, ma<br />
poi cominciò a restare in<strong>di</strong>etro. Il padre del ragazzo, un vecchio<br />
artigliere, se ne stava sul ponte, e si compiaceva a guardare il suo<br />
figliolo. Quando il figlio cominciò a restare in<strong>di</strong>etro, il padre gli gridò:<br />
— Non cedere! Fa’ ancora uno sforzo!<br />
A un tratto, dal ponte, una voce gridò: — Un pescecane! — E tutti<br />
vedemmo, nell’acqua, la schiena del mostro marino.<br />
Il pescecane filava <strong>di</strong>ritto verso i ragazzi.<br />
— In<strong>di</strong>etro, in<strong>di</strong>etro! Voltate! II pescecane! — si mise a gridare<br />
l’artigliere. Ma i ragazzi non lo u<strong>di</strong>rono: seguitavano a nuotare, e<br />
ridevano, e gridavano, sempre più allegri e chiassosi.<br />
L’artigliere, bianco come un panno, immobile, guardava i ragazzi.<br />
I marinai calarono una scialuppa, vi si gettarono dentro e, piegando i<br />
remi dallo sforzo, si lanciarono verso i ragazzi a tutta velocità: ma erano<br />
ancora lontani da loro, mentre il pescecane era arrivato a non più <strong>di</strong><br />
venti passi.<br />
I ragazzi, da principio, non avevano inteso le grida, e non avevano<br />
veduto il pescecane: ma poi uno dei due allungò un’occhiata in<strong>di</strong>etro, e<br />
noi u<strong>di</strong>mmo tutti uno strillo acuto, e i ragazzi si lanciarono a nuoto uno<br />
<strong>di</strong> qua e un altro <strong>di</strong> là.<br />
Quello strillo fu come se risvegliasse l’artigliere. Egli si strappo’ al<br />
suo posto, e corse ai cannoni. Girò un affusto, si curvò sul cannone,<br />
mirò, e afferrò la miccia. Tutti noi, quanti ci trovavamo sopra la nave,<br />
eravamo senza fiato, e aspettavamo che cosa sarebbe successo.<br />
Rimbombò un colpo: e noi vedemmo l’artigliere che s’era gettato in<br />
ginocchio accanto al cannone, e si copriva il viso con le mani. Che cosa<br />
era successo là, tra il pescecane e i ragazzi, noi non lo vedevamo, perché<br />
il fumo dello sparo, per un minuto, ci chiuse la vista.<br />
Ma quando il fumo si sciolse sull’acqua, si senti da tutte le parti un<br />
mormorio leggero, poi il mormorio si fece più forte, e alla fine, da tutte<br />
le parti, risonò un grido forte e festoso.<br />
Il vecchio artigliere si scopri il viso, si levò in pie<strong>di</strong> e guardò sul mare.<br />
Sulle onde ballonzolava la pancia gialla del pescecane morto. In<br />
pochi minuti la scialuppa fu accanto ai ragazzi, e li riportò alla nave.
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 97<br />
Perché le finestre s’appannano, e cade la guazza?.<br />
(Considerazioni).<br />
Quando l’acqua svapora, quest’acqua dove va a finire?<br />
Col caldo tutte le cose si <strong>di</strong>latano. Anche l’acqua, col caldo, si <strong>di</strong>lata, e<br />
si <strong>di</strong>vide in particelle tanto piccole, che il nostro occhio non le <strong>di</strong>stingue:<br />
e così si solleva nell’aria. Queste particelle (cioè il vapore) vengono<br />
trasportate dall’aria, e non si possono vedere finché l’aria è tiepida. Ma<br />
appena l’aria si raffredda, subito il vapore si gela, e allora <strong>di</strong>venta<br />
visibile.<br />
Se si riscalda un bagno a vapore, e sui mattoni roventi si versa<br />
dell’acqua, l’acqua se ne andrà tutta in vapore, e il piancito rimarrà<br />
asciutto. Versiamone ancora un po’: l’acqua svaporerà come l’altra. Se il<br />
bagno è ben infocato, anche un intero secchio d’acqua potrà perdersi in<br />
vapore. Un secchio d’acqua, cioè, rimarrà in sospeso nell’aria infocata<br />
del bagno, e non se ne vedrà più nulla. L’aria del bagno assorbe così<br />
tutta l’acqua d’un secchio. Ma se ne versiamo ancora dell’altra, l’aria<br />
sarà già troppo imbevuta, e non potrà più ricevere acqua: e allora,<br />
l’acqua in soprappiú colerà a gocce. L’acqua, d’un secchio rimarrà in<br />
sospeso, ma quella in soprappiú goccerà in basso.<br />
In quello stesso bagno, non riscaldato, proviamo a portare dei<br />
mattoni roventi, e a versarci dell’acqua: se ne versiamo una mestolata,<br />
l’acqua svaporerà e sparirà, perché l’aria l’assorbirà tutta. Ma se ne<br />
verseremo un’altra mestolata, l’acqua colerà a gocce. L’acqua in<br />
soprappiú colerà a gocce, e l’aria fredda potrà contenerne una mestolata<br />
sola. Dunque, nel medesimo bagno, quando l’aria era infocata, assorbiva<br />
un secchio d’acqua, ma ora che è fredda, può assorbirne soltanto una<br />
mestolata.<br />
Se soffiamo col fiato su un vetro, si formano sul vetro tante<br />
goccioline. E quanto più fa freddo, più goccioline si formano. Perché<br />
avviene questo? Perché il fiato dell’uomo è più caldo del vetro, e nel<br />
fiato c’è molta acqua in sospeso. Appena questo fiato si posa sul freddo<br />
del vetro, l’acqua ne esce fuori.<br />
Una spugna è capace <strong>di</strong> contenere molta acqua, e l’acqua non si vede<br />
fintanto che la spugna non viene spremuta: ma appena la spremi,<br />
l’acqua gronda. Allo stesso modo, anche l’aria è capace <strong>di</strong> contenere<br />
molta acqua, fin tanto che è infocata: ma appena si raffredda, l’acqua<br />
gronda.<br />
Se d’estate porti su dalla cantina una bottiglia fredda, questa si<br />
coprirà subito <strong>di</strong> gocce d’acqua. Di dove è venuta quest’acqua? Essa era
98<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
già lì. Ma finché tutto era caldo, non era possibile vederla: invece,<br />
quando il calore è passato dall’aria nella bottiglia fredda, l’aria intorno<br />
alla bottiglia s’è gelata, e sono apparse le gocce. La stessa cosa avviene<br />
sui vetri delle finestre. Nell’interno delle stanze fa caldo, e il vapor<br />
d’acqua resta contenuto nell’aria; ma dall’esterno i vetri si gelano, e<br />
allora, all’interno, vicino alle finestre, l’aria si raffredda, ed ecco che sui<br />
vetri colano le gocce.<br />
Così si forma anche la guazza. Quando, <strong>di</strong> notte, la terra si gela, l’aria<br />
che ci sta sopra si gela ugualmente, e da quest’aria così fredda il vapore<br />
si stacca a gocce e si posa sulla terra.<br />
Certe volte accade che fa freddo <strong>di</strong> fuori, e in casa fa caldo, eppure i<br />
vetri delle finestre non s’appannano; certe volte, fa piú caldo <strong>di</strong> fuori, e<br />
in casa fa piú freddo, eppure i vetri s’appannano.<br />
Accade pure che la notte è calda, e c’è molta guazza; e altre volte, la<br />
notte è fredda, e la guazza non c’è.<br />
Da che cosa <strong>di</strong>pende?<br />
Questo <strong>di</strong>pende dal fatto che l’aria può essere secca e può essere<br />
umida. L’aria è secca quando, senza riscaldarsi, può ancora tenere in<br />
sospeso molto vapor d’acqua; è umida quando, senza riscaldarsi, non<br />
può più tenere in sospeso molto vapor d’acqua. L’aria secca è come la<br />
spugna che non è ancora tutta imbevuta d’acqua; l’aria umida è come la<br />
spugna che è già tutta imbevuta d’acqua. Appena l’aria si raffredda un<br />
po’, o appena la spugna viene spremuta, l’acqua ne gronda fuori.<br />
Nell’aria umida tutte le cose più fredde dell’aria si bagnano; nell’aria<br />
secca, tutte le cose bagnate si asciugano. Il vapor d’acqua si leva da esse,<br />
e l’aria lo assorbe.<br />
Il vescovo e il brigante.<br />
(Racconto dal vero).<br />
C’era un brigante che da molto tempo era ricercato dalla polizia. Un<br />
giorno, egli si travestì e andò in città. In città le guar<strong>di</strong>e lo riconobbero e<br />
lo inseguirono. Il brigante riuscì a fuggire e, <strong>di</strong> gran corsa, arrivò al<br />
palazzo del vescovo. Il portone era aperto: lui entrò nel cortile.<br />
Un servitore del vescovo gli domandò che cosa voleva.<br />
Il brigante non sapeva come rispondere, e <strong>di</strong>sse a casaccio: – Devo<br />
parlare col vescovo.<br />
Il vescovo ricevette il brigante e gli domandò per quale affare era
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 99<br />
venuto a trovarlo.<br />
Il brigante rispose: – Io sono un brigante, mi stanno inseguendo:<br />
nascon<strong>di</strong>mi, o t’uccido.<br />
Il vescovo rispose: – Io sono un vecchio, non temo la morte: ma sento<br />
pietà <strong>di</strong> te. Và in quella stanza: tu sei stanco, riposa: e intanto io ti<br />
porterò da mangiare.<br />
Le guar<strong>di</strong>e non si arrischiarono a entrare nel palazzo del vescovo, e il<br />
brigante rimase lì a passare la notte.<br />
Quando il brigante si fu riposato, il vescovo gli si avvicinò, e gli <strong>di</strong>sse:<br />
– Tu mi fai pietà, a vedere che hai freddo, hai fame, sei inseguito<br />
come un lupo; ma più <strong>di</strong> tutto mi fai pietà per il gran male che hai fatto,<br />
e per l’anima tua, che stai mandando in per<strong>di</strong>zione. Smetti <strong>di</strong> fare le<br />
cattive azioni!<br />
Il brigante <strong>di</strong>sse: – No, ormai io non posso più vincere l’abitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong><br />
fare il male; da brigante ho vissuto, e da brigante morrò.<br />
Il vescovo lo lasciò, spalancò tutte le porte, e andò a dormire.<br />
Durante la notte, il brigante s’alzò e si mise a girare per le stanze. Gli<br />
pareva una cosa incre<strong>di</strong>bile che il vescovo non avesse rinchiuso nessun<br />
oggetto, e avesse lasciato tutte le porte spalancate.<br />
Il brigante cominciò a guardare qua e là, che cosa poteva rubare. Vide<br />
un grosso candeliere d’argento, e pensò: «Piglierò questo, che ha un<br />
buon valore: così me ne andrò <strong>di</strong> qui, e non starò ad ammazzare quel<br />
vecchio».<br />
E così fece.<br />
Le guar<strong>di</strong>e non s’erano allontanate dal palazzo del vescovo, e<br />
continuavano sempre a far la posta al brigante. Appena questo uscì dal<br />
palazzo, lo circondarono, e gli trovarono indosso il candeliere.<br />
Il brigante volle scolparsi, ma le guar<strong>di</strong>e gli <strong>di</strong>ssero: — Di tutti i delitti<br />
passati, tu ti puoi scolpare, ma il furto <strong>di</strong> questo candeliere non puoi<br />
negarlo. An<strong>di</strong>amo dal vescovo; lui ti smaschererà.<br />
Condussero il ladro alla presenza del vescovo, gli mostrarono il<br />
candeliere, e gli domandarono: — È vostro questo oggetto? — Il vescovo<br />
rispose: — È mio.<br />
Il brigante taceva: i suoi occhi, come quelli d’un lupo, sfuggivano qua<br />
e là.<br />
Il vescovo non fece parola: andò nella stanza, prese l’altro candeliere<br />
che c’era là, compagno <strong>di</strong> quello, lo <strong>di</strong>ede al brigante e <strong>di</strong>sse: — Ma<br />
perché, figlio mio, hai preso un candeliere solo? Eppure io te li avevo<br />
regalati tutt’e due.<br />
Il brigante scoppiò a piangere, e <strong>di</strong>sse alle guar<strong>di</strong>e: — Sono un ladro e
100<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
un brigante: portatemi via!<br />
Poi <strong>di</strong>sse al vescovo: — Perdonami, in nome <strong>di</strong> Cristo, e prega Id<strong>di</strong>o<br />
per me.<br />
Jermàk<br />
(Racconto <strong>di</strong> storia russa).<br />
Al tempo dello zar Ivàn il Terribile, vivevano i ricchi mercanti<br />
Strògonov, che abitavano a Perm, sul fiume Kàma. Essi vennero a sapere<br />
che, lungo il fiume Kàma, per un’estensione <strong>di</strong> centoquaranta miglia,<br />
c’era un’ottima terra: terreni arativi non mai lavorati, boschi d’altofusto<br />
non tagliati mai. Nei boschi c’era selvaggina in abbondanza, lungo il<br />
fiume c’erano laghi pieni <strong>di</strong> pesci: e nessuno abitava quella terra: solo i<br />
Tartari ci facevano delle scorrerie.<br />
Gli Strògonov mandarono allo zar una lettera: — Dà a noi questa<br />
terra, e noi, per conto nostro, penseremo a fabbricarci dei villaggi<br />
fortificati, a raccogliere gente e a farcela stabilite: così impe<strong>di</strong>remo che i<br />
Tartari abbiano il passo attraverso questa terra.<br />
Lo zar acconsentì, e <strong>di</strong>ede a loro quella terra. Gli Strògonov<br />
mandarono i loro commessi a raccogliere gente. E si radunò, così, una<br />
gran quantità <strong>di</strong> gente <strong>di</strong>soccupata. Chiunque si presentava, gli<br />
Strògonov gli assegnavano un pezzo <strong>di</strong> terra e <strong>di</strong> bosco, gli davano il<br />
bestiame, e non chiedevano nessuna tassa: bastava che tu ti adattassi a<br />
vivere là, e quando c’era bisogno, ti trovassi pronto a combattere contro i<br />
Tartari. In questo modo quella terra fu colonizzata dai Russi.<br />
Passarono vent’anni. I mercanti Strògonov <strong>di</strong>ventarono ancora più<br />
ricchi, e allora cominciò a sembrargli poco quel possesso <strong>di</strong><br />
centoquaranta miglia. Essi s’invogliarono <strong>di</strong> possedere altra terra ancora.<br />
A cento miglia <strong>di</strong> lì, c’erano le alte montagne degli Urali, e <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro a<br />
quelle montagne essi vennero a sapere che c’era una terra meravigliosa,<br />
una terra che non aveva fine. Comandava su questa terra il piccolo<br />
principe siberiano Kuciúm. Questo Kuciúm, nei tempi passati, s’era<br />
sottomesso allo zar dei Russi, ma poi s’era ribellato, e minacciava <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>struggere i villaggi fortificati degli Strògonov.<br />
Allora gli Strògonov <strong>di</strong>ssero allo zar: — Tu ci hai dato questa terra, e<br />
noi l’abbiamo ridotta in tuo potere: adesso, però, un furfante d’un<br />
reuccio, Kuciúm, si ribella contro <strong>di</strong> te, e vuole strapparci questa terra e<br />
mandarci in rovina. Dacci l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> conquistare quella terra <strong>di</strong>etro ai<br />
monti Urali: noi domeremo Kuciúm, e la sua terra la ridurremo tutta in
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 101<br />
tuo potere.<br />
Lo zar acconsentì, e rispose: — Se siete in forze, togliete a Kuciùm la<br />
sua terra. Badate, però, <strong>di</strong> non <strong>di</strong>stogliere troppi uomini dalla Russia.<br />
Detto fatto: gli Strògonov, appena ricevuta dallo zar questa lettera,<br />
mandarono i loro commessi a raccogliere altra gente. E soprattutto li<br />
incaricarono <strong>di</strong> far venire i Cosacchi dal Volga e dal Don. A quei tempi,<br />
lungo il Volga e lungo il Don, i Cosacchi giravano in gran numero. Si<br />
raggruppavano in bande <strong>di</strong> trecento, seicento uomini, sceglievano un<br />
atamàn, ossia un capo, e navigando su gran<strong>di</strong> barconi catturavano i<br />
bastimenti da carico, vivevano <strong>di</strong> rapina, e poi d’inverno si stabilivano in<br />
un villaggio fortificato sulla riva dei fiumi.<br />
Giunsero gli arrolatori sul Volga, e incominciarono a informarsi quali<br />
erano, lì, i Cosacchi più famosi. Gli rispondevano: – Di Cosacchi ce n’è<br />
tanti: ce n’è tanti che non ci lasciano più campare! C’è Michelaccio<br />
Cerkascenin; c’è Sary– Asmàn... Ma non ce n’è nessuno più cattivo <strong>di</strong><br />
Jermàk figlio <strong>di</strong> Timoteo, l’atamàn. Quello ha una banda <strong>di</strong> mille uomini,<br />
e non solo è il terrore della popolazione e dei mercanti, ma perfino<br />
l’esercito dello zar non ha coraggio <strong>di</strong> accostarglisi.<br />
E allora gli arrolatori andarono da Jermàk, l’atamàn, e si misero a<br />
persuaderlo che si recasse dagli Strògonov. Jermàk li accolse bene,<br />
ascoltò con attenzione i loro <strong>di</strong>scorsi, e promise che si sarebbe trovato là<br />
coi suoi uomini per la festa dell’Assunzione.<br />
Quando fu l’Assunzione, i Cosacchi arrivarono dagli Strògonov:<br />
seicento uomini al comando dell’atamàn Jermàk <strong>di</strong> Timoteo. Prima <strong>di</strong><br />
tutto, il mercante Strògonov li mandò contro i Tartari confinanti. I<br />
Cosacchi li batterono. Poi, quando non ci fu niente da fare, i Cosacchi si<br />
misero a vagabondare e a saccheggiare nei <strong>di</strong>ntorni.<br />
Strògonov chiamò Jermàk, e gli <strong>di</strong>sse: – Io, d’ora in poi, non vi terrò<br />
più con me, se voi continuate a comportarvi così male! – E Jermàk gli<br />
rispose: – Anche io sono <strong>di</strong>spiacente, ma coi miei uomini non ce la cava<br />
nemmeno il <strong>di</strong>avolo: si sono troppo guastati. Dacci qualche cosa da fare!<br />
– Allora Strògonov <strong>di</strong>sse: – Andate al <strong>di</strong> là degli Urali, a combattere<br />
contro Kuciùm, e impadronitevi delle sue terre. Vedrete che lo zar vi<br />
ricompenserà –. E mostrò a Jermàk la lettera imperiale.<br />
Jermàk fu tutto contento, radunò i Cosacchi, e <strong>di</strong>sse a costoro:<br />
– Voi mi fate <strong>di</strong>sonore davanti al padrone <strong>di</strong> questi posti: continuate a<br />
rubare all’impazzata. Se non la smettete, il padrone vi caccerà via: e<br />
allora, dove andrete? Sul Volga lo zar ha mandato molte truppe: se voi<br />
tornaste là, vi acchiapperebbero, e dovreste rispondere <strong>di</strong> tutte le<br />
faccende passate. Ché se fosse la noia che vi dà addosso, in questo caso
102<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
ho qui del lavoro per voi.<br />
E gli mostrò la lettera imperiale, che permetteva agli Strògonov <strong>di</strong><br />
conquistare le terre <strong>di</strong>etro gli Urali. I Cosacchi si consigliarono fra loro e<br />
acconsentirono a partire. Jermàk tornò da Strògonov, e presero accor<strong>di</strong><br />
per preparare la spe<strong>di</strong>zione.<br />
Stabilirono insieme quanti barconi erano necessari, che quantità <strong>di</strong><br />
grano, <strong>di</strong> bestiame, <strong>di</strong> fucili, <strong>di</strong> polvere da sparo, <strong>di</strong> piombo, quanti<br />
prigionieri tartari per far da interpreti, quanti mastri armaioli tedeschi.<br />
Strògonov pensava tra sé: «Per quanto caro mi costi, bisogna dargli<br />
d’ogni cosa, ché se rimangono qua, mi mandano in rovina!». Perciò<br />
Strògonov convenne su ogni punto, procurò ogni cosa, ed equipaggiò a<br />
perfezione Jermàk e i suoi Cosacchi.<br />
Il primo <strong>di</strong> settembre i Cosacchi <strong>di</strong> Jermàk partirono risalendo il<br />
fiume Ciusovà su trentadue barconi, e in ciascun barcone c’erano venti<br />
uomini. Navigarono per quattro giorni a forza <strong>di</strong> remi contro corrente, e<br />
andarono a sboccare nel fiume Serebrianà. Di lì in poi, la navigazione<br />
<strong>di</strong>ventava impossibile. Chiesero informazioni alle guide, e sentirono che<br />
a questo punto bisognava mettersi per le montagne, e andare avanti per<br />
duecento miglia sempre per via <strong>di</strong> terra: dopo, però, sarebbero<br />
ricominciati i fiumi. I Cosacchi si fermarono lì, impiantarono un<br />
villaggio fortificato e sbarcarono a terra ogni arnese: i barconi li<br />
abbandonarono, e al loro posto fabbricarono dei carri: caricarono tutto<br />
su questi, e s’avviarono per via <strong>di</strong> terra attraverso i monti. Quei luoghi<br />
erano tutti boschi, e non c’era nemmeno un abitante. Avanzarono <strong>di</strong>eci<br />
giorni per via <strong>di</strong> terra, e incontrarono la Zarovnià, un nuovo fiume.<br />
Allora si fermarono un’altra volta, e si misero a fabbricarsi degli altri<br />
barconi. Finito <strong>di</strong> fabbricare i barconi, si misero giù per il fiume<br />
seguendo la corrente. Navigarono così per cinque giorni, e vennero in<br />
posti ancora più belli: stagni, boschi, laghi. Pesci, selvaggina in<br />
abbondanza: ed era selvaggina che non era stata mai spaventata.<br />
Proseguirono ancora una giornata, e sboccarono nel fiume Turà. Qui,<br />
lungo il fiume Turà, incominciarono a incontrare gente, e qualche<br />
villaggetto tartaro.<br />
Jermàk mandò i suoi Cosacchi a osservare uno <strong>di</strong> quei villaggi, che<br />
sorta <strong>di</strong> fortificazioni avesse, e se ci fossero molte forze. Andarono una<br />
ventina <strong>di</strong> Cosacchi, spaventarono tutti quei Tartari, spogliarono il<br />
villaggio da cima a fondo e pigliarono tutto il bestiame. Dei Tartari che<br />
c’erano dentro, qualcuno ne uccisero, e qualcuno ne riportarono vivo.<br />
Allora Jermàk, per mezzo degl’interpreti, fece domandare ai Tartari: –<br />
Che popolo siete, e da chi <strong>di</strong>pendete? – I Tartari <strong>di</strong>ssero che facevano
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 103<br />
parte dell’impero <strong>di</strong> Siberia, e che il loro imperatore era Kuciúm.<br />
Jermàk rimandò liberi i Tartari, ma tre più intelligenti degli altri li<br />
tenne con sé, in modo che gl’insegnassero la strada. Ripresero a navigare<br />
in avanti. E più i barconi vengono avanti, più il fiume <strong>di</strong>venta grosso: e i<br />
posti, più avanti si va, più belli si fanno.<br />
Anche la popolazione, a mano a mano, s’incontrava più fitta <strong>di</strong><br />
prima. Però, non era una popolazione forte. E i Cosacchi, quanti villaggi<br />
trovavano lungo il fiume, tanti ne conquistavano In un villaggio fecero<br />
prigionieri un gran numero <strong>di</strong> Tartari, e tra essi un vecchio Tartaro <strong>di</strong><br />
riguardo. Interrogarono il vecchio, chi fosse. Quello rispose: — Io sono<br />
Tauzík: io sono un servo del mio re Kuciúm, e per lui comando in questo<br />
villaggio. Jermàk si mise a chiedere a Tauzìk notizie del suo re: stava<br />
lontano <strong>di</strong> qui la città sua, Sibìr? Kuciúm aveva molti soldati, molte<br />
ricchezze?<br />
Tauzìk raccontò tutto. Diceva: — Kuciúm è il più potente imperatore<br />
del mondo. La sua città, Sibìr, è la città più grande del mondo. In questa<br />
città, — <strong>di</strong>ceva, — c’è tanta gente e tanto bestiame, quante stelle ci sono<br />
in cielo. E i soldati che ha il re Kuciúm non si contano: tutti i re messi<br />
insieme, non riuscirebbero a vicerlo!<br />
Ma Jermàk gli <strong>di</strong>sse: — Noi, Russi, siamo venuti qui a vincere il tuo re<br />
e a prendere la sua città, per sottometterla allo zar russo. Noi abbiamo<br />
gran<strong>di</strong> forze. Questi che sono venuti con me, sono soltanto le<br />
avanguar<strong>di</strong>e, ma <strong>di</strong>etro a noi sta avanzando una flotta <strong>di</strong> barconi, con<br />
tanti uomini che non si possono contare, e ognuno ha il suo fucile. E i<br />
fucili nostri trapassano un albero da parte a parte: non sono mica come i<br />
vostri archi e le vostre frecce. Su, guarda!<br />
E Jermàk sparò contro un albero, e spaccò l’albero in due, e da ogni<br />
parte i Cosacchi si misero a sparare. Tauzìk, dallo spavento, cadde in<br />
ginocchio. Allora Jermàk gli <strong>di</strong>sse: — Dunque và dal tuo re, e <strong>di</strong>gli da te<br />
quel che hai visto. Digli che si sottometta; e se non si sottomette, ci<br />
penseremo noi a domarlo! — E lasciò partire Tauzík.<br />
I Cosacchi navigarono più avanti. Sboccarono nel gran fiume Tobòl, e<br />
a mano a mano la città <strong>di</strong> Sibìr si faceva sempre più vicina. Quando<br />
giunsero coi barconi al fiumicello Babasàn, guardano, e là sulla riva<br />
vedono un villaggetto, e intorno al villaggetto una gran folla <strong>di</strong> Tartari.<br />
Mandarono da quei Tartari un interprete, per sapere che gente fosse.<br />
L’interprete riviene in<strong>di</strong>etro e <strong>di</strong>ce: — Quello è l’esercito <strong>di</strong> Kuciúm<br />
che s’è radunato. E a capo dell’esercito c’è il genero <strong>di</strong> Kuciúm in<br />
persona, Mametkúl. Egli mi ha chiamato alla sua presenza, e mi ha<br />
or<strong>di</strong>nato <strong>di</strong> <strong>di</strong>rvi che ritorniate in<strong>di</strong>etro, altrimenti vi massacrerà tutti
104<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
quanti.<br />
Jermàk radunò i Cosacchi, sbarcò sulla riva e incominciò a sparare<br />
contro i Tartari. Quelli, appena u<strong>di</strong>rono la sparatoria, via a gambe<br />
levate. I Cosacchi li inseguirono, e parecchi ne uccisero, parecchi ne<br />
fecero prigionieri. Mametkúl riuscì per miracolo a prendere il largo. I<br />
Cosacchi navigarono più avanti. Sboccarono in un largo, rapido fiume:<br />
l’Irtísc. Lungo l’Irtísc avanzarono per una giornata, arrivarono a un<br />
villaggio ben situato, e si fermarono. I Cosacchi mossero verso il<br />
villaggio. Appena ci furono sotto, i Tartari si misero a tirar con le frecce,<br />
e ferirono tre dei Cosacchi. Jermàk mandò un interprete a <strong>di</strong>te ai Tartari<br />
che cedessero il villaggio, altrimenti li massacravano tutti. L’interprete<br />
andò, tornò e <strong>di</strong>sse: — Questa è la residenza d’un altro vassallo <strong>di</strong><br />
Kuciúm, Atik– Mursa– Karacià. Egli ha molti soldati, e <strong>di</strong>ce che non vuol<br />
cedere il villaggio.<br />
Jermàk radunò i Cosacchi e <strong>di</strong>sse: — Ebbene, ragazzi, se noi non<br />
pren<strong>di</strong>amo questo villaggio, i Tartari si ringalluzziscono, e non ci<br />
daranno più il passo. Più presto riusciamo a spaventarli, più liscio andrà<br />
l’affare. Sbarcate giù tutti quanti! All’assalto tutti insieme!,— E così<br />
fecero. I Tartari, qui, erano molti, ed erano Tartari coraggiosi.<br />
Quando i Cosacchi si slanciarono contro <strong>di</strong> loro, i Tartari si misero a<br />
tirare con gli archi. Una pioggia <strong>di</strong> frecce copri i Cosacchi. Qualcuno fu<br />
trafitto a morte, qualcun altro ferito.<br />
S’infuriarono a loro volta i Cosacchi, si spinsero addosso ai Tartari, e,<br />
quanti gliene venivano a mano, li ammazzavano tutti.<br />
In quel villaggio i Cosacchi trovarono gran quantità <strong>di</strong> roba:<br />
bestiame, tappeti, pellicce, miele in abbondanza; seppellirono i morti, si<br />
riposarono, pigliarono con sé ogni ben <strong>di</strong> Dio, e ripresero a navigare più<br />
avanti. Non erano avanzati <strong>di</strong> molto, che ecco, là sulla riva, avvistano<br />
una città, truppe che non se ne vede la fine, e tutto questo esercito sta<br />
trincerato <strong>di</strong>etro un fossato, e il fossato è <strong>di</strong>feso da una palizzata. I<br />
Cosacchi si fermarono. Incominciarono le consultazioni. Jermàk li<br />
raccolse in circolo: — Ebbene, ragazzi, che ne <strong>di</strong>te? Come conviene fare?<br />
I Cosacchi s’erano scoraggiati. Alcuni <strong>di</strong>cevano: — Bisognerebbe<br />
passar oltre coi barconi —. Altri <strong>di</strong>cevano: — Torniamo in<strong>di</strong>etro.<br />
E <strong>di</strong>ventarono <strong>di</strong> cattivo umore, e incominciarono a prendersela con<br />
Jermàk. Gli <strong>di</strong>cevano: — E tu, perché ci hai portato fin qua? Già parecchi<br />
<strong>di</strong> noi sono stati uccisi o feriti: e adesso, qui, moriremo tutti —. E si<br />
mettevano a piangere.<br />
Allora Jermàk <strong>di</strong>sse al suo aiutante, Ivàn Kolzòv: — Ebbene, Ivàn: e<br />
tu, che ne <strong>di</strong>ci?
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 105<br />
E Kolzòv gli rispose: — Che vuoi che ti <strong>di</strong>ca? A questo mondo, se non<br />
ti uccidono oggi, ti uccideranno domani, e se non sarà domani,<br />
moriremo scioccamente in fondo a un letto. A mio parere, la meglio cosa<br />
sarebbe <strong>di</strong> sbarcar sulla riva, e <strong>di</strong>ritti <strong>di</strong>ritti scagliarci come una valanga<br />
addosso ai Tartari, alla buona <strong>di</strong> Dio!<br />
Jermàk <strong>di</strong>sse allora: — Bravo il mio Ivàn, tu si che hai del fegato! Così<br />
bisogna essere. Ehi, voialtri, ragazzi! Voi non siete Cosacchi, siete<br />
donnicciole. Si vede proprio che siete buoni soltanto ad acchiappar gli<br />
storioni e a far tremare le donne tartare! Ma dunque non lo capite da<br />
voi? Se ora torniamo in<strong>di</strong>etro, ci massacreranno: se coi barconi passiamo<br />
oltre, ci massacreranno: se restiamo qua fermi, ci massacreranno. A che<br />
ci giova, insomma, perderci d’animo? Facciamo uno sforzo, e dopo sarà<br />
tutto più facile. Sapete, ragazzi: il mio babbo aveva una bella cavallina.<br />
Finché si trattava <strong>di</strong> andare in <strong>di</strong>scesa, tirava; in piano, tirava; ma<br />
come si arrivava a una salita, s’impuntava, voleva dar in<strong>di</strong>etro,<br />
pensando <strong>di</strong> cavarsela con meno fatica. Allora il babbo pigliò un buon<br />
passone, e con quel passone la pestò ben bene. E quella, dagli a torcersi e<br />
a <strong>di</strong>battersi, fin tanto che non ebbe fracassato tutto il carro. Finì che il<br />
babbo la staccò e le fece la pelle. Se invece avesse tirato il carico, non<br />
avrebbe sofferto nessun male... Così è anche per noi, ragazzi! C’è rimasta<br />
un’uscita sola: piombare in pieno su quei Tartari.<br />
Scoppiarono a ridere i Cosacchi, e <strong>di</strong>ssero: — Si vede proprio che tu,<br />
Jermàk <strong>di</strong> Timoteo, sei più fino <strong>di</strong> noi: a chiedere il parere a noialtri,<br />
ignoranti, è fiato sprecato. Portaci dove sai tu: tanto, due volte non si<br />
muore, e una volta non si scampa.<br />
Allora Jermàk <strong>di</strong>sse: — Ebbene, ascoltate, ragazzi! Facciamo così. Il<br />
nemico non ci ha ancora visti tutti. Spartiamoci in tre gruppi. Il primo<br />
gruppo, al centro, andrà <strong>di</strong>ritto all’assalto, e gli altri due, da destra e da<br />
sinistra, si spingeranno all’accerchiamento. Certamente, quando quelli<br />
<strong>di</strong> mezzo si avvicineranno, i Tartari crederanno che siamo tutti lì, e<br />
salteranno fuori. E allora noi, dai lati, gli salteremo addosso. Proprio<br />
così, ragazzi! Quando poi avremo sbaragliato costoro, non avremo più<br />
da temere nessuno. Diventeremo noi gl’imperatori della Siberia.<br />
E così fecero. Appena s’avanzò il gruppo <strong>di</strong> mezzo, guidato da<br />
Jermàk, i Tartari si misero a urlare e saltarono fuori: allora gli<br />
s’avventarono contro, da destra Ivàn Kolzòv, da sinistra l’atamàn<br />
Mesceriàk. Si spaventarono i Tartari, e si <strong>di</strong>edero alla fuga. I Cosacchi ne<br />
fecero un macello. Da quel momento in poi, nessuno ebbe più coraggio<br />
<strong>di</strong> resistere a Jermàk. E in questo modo egli entrò fin nell’interno della<br />
città <strong>di</strong> Sibìr. E là Jermàk si inse<strong>di</strong>ò né più né meno che come un
106<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
imperatore.<br />
Cominciarono a venire da lui i signorotti a fargli omaggio. I Tartari<br />
vennero a stabilirsi in maggior numero nella città <strong>di</strong> Sibìr. In quanto a<br />
Kuciúm e al genero Mametkúl, essi non si fidavano <strong>di</strong> affrontare Jermàk<br />
in campo aperto, e s’aggiravano <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là cercando qualche modo <strong>di</strong><br />
mandarlo in rovina.<br />
A primavera, quando le nevi si sciolsero, certi Tartari accorsero da<br />
Jermàk, e gli <strong>di</strong>ssero: — Mametkúl ti viene addosso un’altra volta: ha<br />
radunato un grande esercito: stanno sul fiume Vagaià.<br />
Jermàk si avventurò attraverso fiumi, palu<strong>di</strong>, ruscelli, foreste; si<br />
avvicinò coi suoi Cosacchi <strong>di</strong> nascosto: assalí Mametkúl, uccise molti<br />
Tartari, e prese vivo Mametkúl in persona, e lo portò a Sibìr. Da allora in<br />
poi, pochi dei Tartari rimasero ribelli, e quelli che non si sottomisero,<br />
Jermàk andò a combatterli in quella stessa estate. E tra l’Irtísc e l’Obi, fu<br />
tanto il territorio conquistato da Jermàk, che in due mesi non si riusciva<br />
a girarlo tutto.<br />
Quando ebbe procacciato tutto questo territorio, Jermàk mandò un<br />
ambasciatore dagli Strògonov, con una lettera che <strong>di</strong>ceva così: «Io ho<br />
preso la città capitale <strong>di</strong> Kuciúm, e ho fatto prigioniero Mametkúl, e<br />
tutta la popolazione <strong>di</strong> queste parti è ridotta in mio potere. Però i miei<br />
cosacchi hanno avuto gran<strong>di</strong> per<strong>di</strong>te. Mandate qua altra gente, in modo<br />
che noi ce la passiamo più allegramente. In quanto a ricchezze, queste<br />
terre ne hanno a non finire». E spedì molte pellicce <strong>di</strong> valore: volpi,<br />
martore e zibellini.<br />
Passarono, dopo d’allora, due anni. Jermàk teneva sempre Sibìr, ma<br />
gli aiuti dalla Russia non arrivavano e Jermàk era rimasto con pochi<br />
russi.<br />
Un giorno, il tartaro Karacià mandò da Jermàk un ambasciatore, che<br />
gli <strong>di</strong>sse: — Noi ci siamo sottomessi a te, ma gli abitanti del Nogài ci<br />
infasti<strong>di</strong>scono: mandaci qua in aiuto i tuoi valorosi compagni. D’intesa<br />
con loro, domeremo tutti quelli del Nogài. Per farti star sicuro che non<br />
offenderemo i tuoi, te ne facciamo giuramento solenne.<br />
Jermàk si fidò del loro giuramento, e inviò Ivàn Kolzòv con quaranta<br />
uomini. Appena questi quaranta uomini furono là, i Tartari si<br />
scagliarono su loro e li uccisero. Così i cosacchi <strong>di</strong>ventarono ancora <strong>di</strong><br />
meno.<br />
Un’altra volta, i mercanti <strong>di</strong> Buchara mandarono a <strong>di</strong>re a Jermàk che<br />
s’erano messi in viaggio con tante merci da portargli a Sibír, ma sulla<br />
strada che dovevano fare, c’era Kuciùm col suo esercito, e non li lasciava<br />
passare.
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 107<br />
Jermàk pigliò con sé cinquanta uomini, e mosse per sgombrare la<br />
strada ai mercanti <strong>di</strong> Buchara. Arrivò al fiume Irtìsc, e non trovò i<br />
mercanti. Si fermò lì a pernottare. La nottata era buia, e pioveva. I<br />
cosacchi s’erano coricati da poco, quando all’improvviso i Tartari li<br />
assalirono, mezzi addormentati, e si misero a massacrarli. Balzò in pie<strong>di</strong><br />
Jermàk, e cominciò a battersi. Fu ferito <strong>di</strong> coltello a un braccio. Lui si<br />
buttò a correre verso il fiume. I Tartari appresso. Lui giù dentro al fiume.<br />
E non fu visto più. Neppure il suo corpo fu più ritrovato. E nessuno<br />
ha saputo mai come morí.<br />
L’anno seguente, arrivò dalla Russia l’esercito dello zar, e i Tartari<br />
furono sottomessi.<br />
Suchmàn.<br />
(Leggenda in versi).<br />
Nel palazzo del principe Vladímir<br />
c’è un gran banchetto, c’è un banchetto splen<strong>di</strong>do<br />
<strong>di</strong> principi, boiar<strong>di</strong> e cavalieri.<br />
Tutti, durante il banchetto, si vantano:<br />
uno si vanta dei propri tesori,<br />
l’altro si vanta del suo buon cavallo,<br />
si vanta il forte della propria forza,<br />
lo sciocco vanta la sua sposa giovane,<br />
il savio vanta la sua vecchia madre.<br />
Siede in silenzio, pensoso, alla tavola<br />
l’eroe Suchmàn, il figlio d’O<strong>di</strong>chmàne,<br />
e <strong>di</strong> nulla, Suchmàn, lui non si vanta.<br />
Ecco il bel sole, il principe Vladìmir,<br />
che per la sala su e giù passeggia,<br />
scrolla i riccioli d’oro, e si rivolge<br />
al figlio d’O<strong>di</strong>chmàne, domandandogli:<br />
— Che hai, Suchmàn, che stai così pensoso<br />
Perché non mangi, non bevi, e non pren<strong>di</strong><br />
un boccone <strong>di</strong> questo cigno can<strong>di</strong>do,<br />
e <strong>di</strong> nulla, al banchetto, non ti vanti? —<br />
E risponde Suchmàn queste parole: —<br />
Se <strong>di</strong> vantarmi tu mi dai comando,<br />
io ti porterò (questo è il mio vanto)<br />
un cigno bianco non insanguinato
108<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
e non ferito: vivo tu l’avrai —.<br />
E si levò Suchmàn sui pie<strong>di</strong> rapi<strong>di</strong>,<br />
mise la sella al bravo suo cavallo,<br />
e se n’andò Suchmàn al mare azzurro,<br />
al mare azzurro, alle baie tranquille.<br />
Suchmàn s’avvicinò alla prima baia<br />
e non poté incontrare i cigni can<strong>di</strong><strong>di</strong>.<br />
S’avvicinò Suchmàn alla seconda,<br />
e non poté trovar le cigne femmine.<br />
Suchmàn s’avvicinò alla terza baia:<br />
né grige femmine, né cigni can<strong>di</strong><strong>di</strong>.<br />
Allora il figlio d’O<strong>di</strong>chmàne pensa:<br />
«Come tornerò a Kiev, la magnifica?<br />
Che mi <strong>di</strong>rà Vladímir, il bel principe?»<br />
Va alla Njeprà, alla fiumana madre:<br />
ma la Njeprà non scorre come al solito,<br />
non come al solito, non come un tempo:<br />
l’acqua, dalla gran sabbia, è tutta torbida.<br />
Alla Njeprà Suchmàn domandò allora:<br />
— Perché scorri così, o Njeprà madre,<br />
non come al solito, non come un tempo,<br />
ma tutta l’acqua la sabbia t’intorbida? —<br />
E proferisce la fiumana madre:<br />
— Se io non scorro più come <strong>di</strong> solito,<br />
non come un tempo, non come in antico,<br />
gli è che mi stanno sopra, sul mio fiume,<br />
quarantamila maledetti Tartari.<br />
Su me, da mane a sera, un ponte fabbricano.<br />
Quanto ne fanno il giorno, a notte io sra<strong>di</strong>co:<br />
ma le forze, oramai, più non mi reggono —.<br />
Disse allora Suchmàn queste parole:<br />
— Portare il nome d’eroe non mi merito,<br />
se non esploro queste forze tartare —.<br />
Diede lo slancio al bravo suo cavallo,<br />
<strong>di</strong> là dalla Njeprà passò d’un salto,<br />
non bagnò zoccolo il suo cavallo bravo.<br />
Corse Suchmàn verso una verde quercia,<br />
verso una verde quercia ben piantata,<br />
e strappo’ via la quercia con le ra<strong>di</strong>che:<br />
sgorgò fuori dal tronco il succo can<strong>di</strong>do.
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 109<br />
Quel randelletto afferrò per un capo,<br />
e poi spronò il cavallo contro i Tartari.<br />
E cominciò Suchmàn a mulinare<br />
quel suo randello; ed a frullarlo a tondo.<br />
Come lo frulla innanzi, fa una strada:<br />
come lo mena in<strong>di</strong>etro, fa un bel vicolo.<br />
Così Suchmàn uccise tutti i Tartari:<br />
solo scamparono tre tartartícoli,<br />
sotto i cespugli, sotto i folti vetrici<br />
della Njeprà, per dove s’appiattarono.<br />
S’avvicinò alla Njeprà l’O<strong>di</strong>chmànide,<br />
e dai cespugli quei tre tartartícoli<br />
contro Suchmàn le saette lanciarono,<br />
nel costato <strong>di</strong> lui, nel corpo can<strong>di</strong>do.<br />
Le saette strappo’ Suchmàn lo splen<strong>di</strong>do<br />
dai fianchi, dalle piaghe sanguinose,<br />
le tamponò con foglie <strong>di</strong> papavero,<br />
e squartò col coltello i tartarucoli.<br />
Venne Suchmàn da Vladímir bel principe,<br />
legò il cavallo fuori a una colonna,<br />
ed egli entrò, Suchmàn, dove banchettano.<br />
Là il principe Vladìmir, sole fulgido,<br />
per il salone su e giù passeggia,<br />
e al figlio d’O<strong>di</strong>chmàne così <strong>di</strong>ce:<br />
— Ebbene, Suchmàn caro, non mi porti<br />
il cigno bianco, non insanguinato? —<br />
E risponde Suchmàn queste parole:<br />
— Ahimè, sulla Njeprà, Vladìmir principe,<br />
ho avuto a fare con altro che cigni!<br />
Sulla Njeprà mi s’è parata incontro<br />
un’armata, quarantamila uomini:<br />
marciavano su Kiev gli o<strong>di</strong>osi Tartari,<br />
da mane a sera i ponti fabbricavano,<br />
e la Njeprà li sra<strong>di</strong>cava a notte,<br />
ma ormai le forze già la abbandonavano.<br />
Io m’avventai col cavallo sui Tartari,<br />
e li sterminai tutti fino all’ultimo<br />
—. Il principe Vladìmir, sole fulgido,<br />
non prestò fede a queste sue parole:<br />
ai servi suoi fedeli <strong>di</strong>ede or<strong>di</strong>ne d’afferrare
110<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
a Suchmàn le mani can<strong>di</strong>de,<br />
<strong>di</strong> chiuderlo in profon<strong>di</strong> sotterranei:<br />
e intanto alla Njeprà mandò, Dobrýnja,<br />
che <strong>di</strong> Suchmàn controllasse le imprese.<br />
Si levò il buon Dobrýnja sui piè rapi<strong>di</strong>,<br />
mise la sella al cavallo suo bravo,<br />
si spinse fino là alla Njeprà madre.<br />
Ed ecco, giace là una grande armata,<br />
quarantamila uomini, <strong>di</strong>strutta.<br />
E accanto c’è una quercia con le ra<strong>di</strong>che,<br />
tutta schiantata in mille schegge e trucioli.<br />
La quercia il buon Dobrýnja alzò da terra,<br />
la trascinò fin <strong>di</strong>nanzi a Vladímir,<br />
e così gli <strong>di</strong>ceva, il buon Dobrýnja:<br />
— Il vanto <strong>di</strong> Suchmàn è verità.<br />
Sulla Njeprà, li ho visti io stesso,<br />
giacciono quarantamila maledetti Tartari,<br />
e questo randelletto d’O<strong>di</strong>chmànide,<br />
tutto schiantato in mille schegge e trucioli—<br />
Allora ai servi comandò il bel principe<br />
che corressero ai cupi sotterranei,<br />
e il figlio d’O<strong>di</strong>chmàne liberassero,<br />
qui al suo cospetto glielo conducessero;<br />
e ancora pronunciò tali parole:<br />
— Di tutte queste imprese memorande<br />
il buon eroe voglio rimunerare,<br />
ricompensarlo vò a suo beneplacito,<br />
col dono <strong>di</strong> città e loro sobborghi,<br />
col dono <strong>di</strong> paesi e lor villaggi,<br />
e con oro in tesori incalcolabili —<br />
Discesero nei cupi sotterranei<br />
i fi<strong>di</strong> servi a chiamar l’O<strong>di</strong>chmànide,<br />
e rivolsero a lui queste parole:<br />
— Esci, Suchmàn, da questi sotterranei:<br />
il principe Vladìmir ti fa grazia,<br />
e <strong>di</strong> tutte le gesta memorande<br />
il bel sole ti vuol rimunerare,<br />
col dono <strong>di</strong> città e loro sobborghi,<br />
col dono <strong>di</strong> paesi e lor villaggi,<br />
e con oro in tesori incalcolabili —.
Secondo libro <strong>di</strong> lettura 111<br />
Uscì fuori Suchmàn allo scoperto,<br />
e pronunciò Suchmàn queste parole:<br />
— Ahi, principe Vladímir, sole splen<strong>di</strong>do,<br />
non hai saputo in tempo farmi grazia,<br />
non hai saputo in tempo darmi merito:<br />
e ora più non mi potrai vedere,<br />
non mi potrai vedere al tuo cospetto —.<br />
E strappo’ via Suchmàn,<br />
dalle sue piaghe sanguinanti,<br />
le foglie <strong>di</strong> papavero, e così <strong>di</strong>sse,<br />
il fulgido O<strong>di</strong>chmànide:<br />
—Voglio che un fiume scorra dal mio sangue,<br />
da questo sangue mio così bruciante,<br />
così bruciante, così sparso invano:<br />
scorri, Suchmàn, oh tu fiume Suchmàn,<br />
e alla madre Njeprà sii buon fratello! —
Terzo libro <strong>di</strong> lettura
Il re e il falco.<br />
(Favola).<br />
Un re, andando a caccia, lanciò su una lepre il suo falco fedele, e col<br />
cavallo gli corse <strong>di</strong>etro.<br />
Il falco afferrò la lepre. Il re gli tolse la lepre e andò in cerca d’acqua,<br />
da calmare la gran sete. Sotto un greppo, il re travò l’acqua. Ma cadeva a<br />
goccia a goccia. Allora il re staccò <strong>di</strong> sélla la sua tazza, e la mise sotto<br />
l’acqua. L’acqua colava a gocce, e quando la tazza fu piena, il re se la<br />
portò alla bocca e fece per bere. D’improvviso, il falco starnazzò sulla<br />
mano del re, sbatté le ali e mandò per aria tutta l’acqua. Il re tese la tazza<br />
per la seconda volta. Aspettò un buon pezzo, in modo che si riempisse<br />
fino all’orlo: e quando poi fu sul punto <strong>di</strong> accostarla alla bocca, il falco si<br />
rimise a starnazzare, e rovesciò l’acqua.<br />
Quando, per la terza volta, il re si fu ben riempita la tazza, e fece per<br />
accostarsela alle labbra, il falco tornò daccapo a rovesciarla. Allora il re<br />
andò in collera e, sbattendo <strong>di</strong> tutta forza il falco su una pietra, lo uccise.<br />
In quel momento arrivarono i servi del re, e uno <strong>di</strong> loro s’arrampicò<br />
più in alto verso la sorgente, per trovare più acqua e far più presto a<br />
riempire la tazza. Ma il servo non riportò l’acqua: tornò in<strong>di</strong>etro con la<br />
tazza vuota, e <strong>di</strong>sse: — Quest’acqua non è da bere: nella fonte c’è un ser‐<br />
pente, e il serpente ha sparso nell’acqua il suo veleno. Fortuna che il fal‐<br />
co ha rovesciato l’acqua! Se tu avessi bevuto <strong>di</strong> quest’acqua, saresti mor‐<br />
to.<br />
Il re <strong>di</strong>sse: — Male ho ricompensato il mio falco: lui mi ha salvato la<br />
vita, e io l’ho ucciso.<br />
La volpe.<br />
(Favola).<br />
Una volpe cascò in una tagliola: con uno strappo si staccò la coda, e<br />
scappo’. Allora cominciò a pensare in che modo poteva nascondere la<br />
sua vergogna. Chiamò a raccolta le altre volpi, e cercò <strong>di</strong> persuaderle che<br />
anche loro si mozzassero la coda. – La coda, – <strong>di</strong>ceva, – non serve a un<br />
bel niente: non si sa proprio perché ci trasciniamo <strong>di</strong>etro questo peso i‐<br />
nutile –. Ma una volpe rispose: – Oh, tu non avresti detto così, se non<br />
fossi stata senza coda!<br />
La volpe scodata non parlò più, e filò via.
116<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Castigo severo.<br />
(Leggenda).<br />
Un tale andò al mercato a comprar della carne. Al mercato lo ingan‐<br />
narono: gli vendettero carne cattiva, e per <strong>di</strong>ppiú lo frodarono sul peso.<br />
Così egli se n’andava verso casa con quella carne, e imprecava. Lo in‐<br />
contrò il re, e gli <strong>di</strong>sse: – Contro chi vai imprecando? – E quello rispose:<br />
– Impreco contro chi mi ha ingannato. Ho pagato per tre libbre, e me<br />
ne hanno date soltanto due, eppoi <strong>di</strong> carne cattiva –. Allora il re <strong>di</strong>sse: –<br />
Torniamo al mercato: là tu mi in<strong>di</strong>cherai chi è quello che ti ha ingan‐<br />
nato –. L’uomo tornò in<strong>di</strong>etro e in<strong>di</strong>cò il ven<strong>di</strong>tore. Il re fece pesare la<br />
carne alla sua presenza: e vide che veramente l’uomo era stato inganna‐<br />
to. Allora il re <strong>di</strong>sse: – Dunque ora <strong>di</strong>mmi in che modo vuoi che io puni‐<br />
sca questo ven<strong>di</strong>tore! – Quello rispose: – Or<strong>di</strong>na che venga tagliata dalla<br />
sua schiena tanta carne, quanta lui ne ha truffata a me.<br />
Il re <strong>di</strong>sse: – Bene: pren<strong>di</strong> tu stesso un coltello, e taglia <strong>di</strong> dosso a que‐<br />
sto ven<strong>di</strong>tore una libbra <strong>di</strong> carne: ma stà ben attento che il peso riesca<br />
esatto: se taglierai un pochino <strong>di</strong> più o un pochino <strong>di</strong> meno d’una libbra,<br />
tu ne dovrai rispondere!<br />
L’uomo non parlò più, e se ne tornò a casa sua.<br />
L’asino selvatico e quello domestico.<br />
(Favola).<br />
Un asino selvatico vide un asino domestico, gli s’avvicinò, e si mise a<br />
lodarlo della bella vita che faceva: com’era grasso e lustro, e che buoni<br />
cibi si buscava. Ma poi, quando l’asino domestico fu caricato col basto, e<br />
il conduttore, <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro, cominciò a incitarlo col randello, l’asino selvatico<br />
<strong>di</strong>sse: – No, fratello, adesso non t’invi<strong>di</strong>o più: vedo che il tuo campar be‐<br />
ne ti costa sudore.<br />
La lepre e il segugio.<br />
(Favola).<br />
Una lepre <strong>di</strong>sse a un segugio: – Perché tu abbai così, quando ci inse‐<br />
gui? Faresti prima ad acchiapparci, se corressi a bocca chiusa. Tu, ab‐<br />
baiando, non fai altro che spingerci sul cacciatore: quello sente che noi<br />
scappiamo, ci corre incontro col fucile, ci ammazza e a te non dà niente.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 117<br />
Disse il cane: – Non per questo io abbaio: io abbaio soltanto perché,<br />
quando sento il tuo odore, mi arrabbio e insieme mi rallegro che sto lì lì<br />
per acchiapparti: non so nemmeno io perché, ma non posso far a meno<br />
d’abbaiare.<br />
Il cervo.<br />
(Favola).<br />
Un cervo venne a un fiumicello per abbeverarsi: vide se stesso<br />
nell’acqua, e si rallegrò tutto delle sue corna, che erano tanto gran<strong>di</strong> e<br />
ramose; poi si guardò le zampe, e <strong>di</strong>sse: – Peccato che le mie zampe sia‐<br />
no così malfatte e meschine! – D’improvviso salta fuori un leone e<br />
s’avventa sul cervo. Il cervo si lanciò <strong>di</strong> galoppo per l’aperta pianura. Es‐<br />
so guadagnava terreno: ma quando giunse al bosco, s’impigliò con le<br />
corna fra i rami, e il leone lo acchiappo’. Vedendo che stava per morire,<br />
il cervo <strong>di</strong>sse: – Ero davvero sciocco! Quelle che mi parevano malfatte e<br />
meschine, mi hanno salvato; e quelle che mi davano tanta sod<strong>di</strong>sfazione,<br />
sono state la mia rovina.<br />
Le lepri.<br />
(Descrizione).<br />
Le lepri <strong>di</strong> bosco, la notte, si cibano <strong>di</strong> scorza d’alberi; le lepri <strong>di</strong> cam‐<br />
po si cibano <strong>di</strong> grano tenero e d’erba; le lepri d’aia si cibano del grano<br />
secco ammassato sulle aie. In nottata, le lepri stampano sulla neve una<br />
traccia profonda e ben visibile. Esse sono perseguitate da tutti: uomini,<br />
cani, lupi, volpi, corvi, aquile. Se una lepre camminasse spe<strong>di</strong>ta lungo<br />
una linea retta, appena fa giorno la sua traccia la farebbe scoprire, e sa‐<br />
rebbe presa. Ma Dio le ha dato la paura, e la paura la salva.<br />
La lepre, finché è notte, va per campi e per boschi senza paura, e<br />
stampa una traccia <strong>di</strong>ritta; ma quando sta per far giorno, i suoi nemici si<br />
svegliano: la lepre comincia a sentire ora un abbaio <strong>di</strong> cani, ora lo stri<strong>di</strong>o<br />
d’una slitta, ora le voci dei conta<strong>di</strong>ni, ora il fruscio d’un lupo nel bosco:<br />
s’impaurisce, e comincia a sbandare <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là. Viene avanti a saltel‐<br />
loni, si spaventa <strong>di</strong> qualche cosa, e riscappa in<strong>di</strong>etro sulla traccia sua. Poi<br />
sente qualche altra cosa, e allora, <strong>di</strong> tutta forza, fa un balzo <strong>di</strong> fianco, e si<br />
mette a saltellare un po’ <strong>di</strong>stante dalla traccia <strong>di</strong> prima. Poi <strong>di</strong> nuovo<br />
qualche cosa dà uno scrocchio, e <strong>di</strong> nuovo la lepre fa <strong>di</strong>etrofronte, e si
118<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
rimette a correre in un altro verso. Quando è giorno chiaro, si accovac‐<br />
cia.<br />
I cacciatori, al mattino, vanno per seguire la traccia della lepre, si con‐<br />
fondono con quelle doppie péste e con quei salti fuor <strong>di</strong> strada, e si me‐<br />
ravigliano della furberia della lepre. Ma la lepre non ci ha neanche pen‐<br />
sato, a fare la furba. Ha paura <strong>di</strong> tutto, e altro non sa.<br />
Il cane e il lupo.<br />
(Favola).<br />
Un cane s’addormentò fuori del suo cortile. Arrivò un lupo affamato<br />
e fece per mangiarlo. Il cane gli <strong>di</strong>sse: — Lupo! Aspetta a mangiarmi:<br />
adesso io sono magro, tutt’ossa. Ma se dai tempo al tempo, i miei pa‐<br />
droni stanno per fare uno sposalizio, e anch’io avrò da mangiare a vo‐<br />
lontà, e <strong>di</strong>venterò ben grasso: allora si che ci sarà gusto a mangiarmi!<br />
Il lupo gli credette, e se ne andò. Ecco che ritorna un’altra volta, e che<br />
cosa vede? Il cane sta coricato sul tetto. Allora il lupo gli fa: — Ebbene, è<br />
stato fatto questo sposalizio?<br />
Gli rispose il cane: — Senti, lupo mio: un’altra volta che mi trovi a<br />
dormire davanti al cortile, non stare più ad aspettare gli sposalizi.<br />
I fratelli del re.<br />
(Leggenda).<br />
Un re stava camminando per la strada. Un men<strong>di</strong>cante gli s’avvicinò<br />
e gli chiese l’elemosina.<br />
Il re non gli <strong>di</strong>ede niente. Il men<strong>di</strong>cante <strong>di</strong>sse: — Re, si vede che tu ti<br />
sei scordato che tutti quanti abbiamo un padre solo, Dio: noi siamo tutti<br />
fratelli, e tutti dobbiamo <strong>di</strong>videre la nostra roba con gli altri.<br />
A queste parole, il re si fermò, e <strong>di</strong>sse: — Hai ragione: noi siamo fra‐<br />
telli, e dobbiamo <strong>di</strong>videre ogni cosa fra noi —; e <strong>di</strong>ede al men<strong>di</strong>cante<br />
una moneta d’oro.<br />
Il men<strong>di</strong>cante prese la moneta d’oro, e <strong>di</strong>sse: — Tu mi dai poco: è<br />
questo il modo <strong>di</strong> <strong>di</strong>videre le proprie cose coi fratelli? Bisogna <strong>di</strong>videre<br />
in parti uguali. Tu hai un milione <strong>di</strong> queste monete, e qui me ne hai data<br />
una sola.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 119<br />
Allora il re rispose: — È vero che io ho un milione <strong>di</strong> monete, e che a<br />
te ne ho data una sola; ma anche <strong>di</strong> fratelli io ne ho tanti, quante sono le<br />
mie monete.<br />
Il cieco e il latte.<br />
(Favola).<br />
Un tale, cieco nato, domandò a uno che ci vedeva: — Di che colore è il<br />
latte?<br />
Quello che ci vedeva <strong>di</strong>sse: — Il colore del latte somiglia a quello del‐<br />
la carta bianca.<br />
Il cieco domandò: — Ma forse questo colore sfruscia sotto le mani<br />
come fa la carta?<br />
Quello che ci vedeva <strong>di</strong>sse: — No, è bianco come la farina bianca.<br />
Il cieco domandò: — Ma forse è morbido e in polvere come la farina?<br />
Quello che ci vedeva <strong>di</strong>sse: — No, è bianco e basta, come una lepre <strong>di</strong><br />
quelle bianche.<br />
Il cieco domandò: — Ma allora, è peloso e morbido come una lepre?<br />
Quello che ci vedeva <strong>di</strong>sse: — No, il color bianco è tal e quale com’è<br />
la neve. Il cieco domandò: – Ma allora, è freddo come la neve?<br />
E così, per quanti paragoni portasse quello che ci vedeva, il cieco non<br />
poté capire com’è fatto il colore bianco che ha il latte.<br />
La lepre della steppa.<br />
(Descrizione).<br />
Una grossa lepre abitava, d’inverno, vicino a un villaggio. Quando<br />
venne la notte, essa drizzò un orecchio, e stette in ascolto; drizzò quel‐<br />
l’altro, torse i baffi, annusò, e si sedette sulle zampe <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro. Poi fece<br />
due o tre salterelli sulla neve alta, e daccapo si mise a sedere sulle zampe<br />
<strong>di</strong> <strong>di</strong>etro, guardandosi intorno. Da tutte le parti non c’era niente in vista,<br />
tranne che neve. La neve si stendeva a onde, e lustrava come fosse zuc‐<br />
chero. Sul capo della lepre stava sospeso un vapore gelato, e attraverso<br />
questo vapore apparivano gran<strong>di</strong> stelle splendenti.<br />
La lepre aveva bisogno <strong>di</strong> scavalcare la strada maestra, per recarsi al‐<br />
la solita aia. Per la strada maestra, si u<strong>di</strong>va fin qui come stridevano i pat‐<br />
tini, come sbuffavano i cavalli, come scricchiolavano i fusti delle slitte.
120<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
La lepre tornò a fermarsi al margine della strada. I conta<strong>di</strong>ni cammi‐<br />
navano <strong>di</strong>etro alle slitte coi baveri alzati. Le loro facce si scorgevano ap‐<br />
pena. Le barbe, i baffi, le sopracciglia, erano bianche. Dalle bocche e dai<br />
nasi il fiato vaporava. I loro cavalli erano sudati, e sul sudore s’era attac‐<br />
cata la brina. I cavalli scrollavano i collari, sprofondavano nelle buche, se<br />
ne tiravano fuori. I conta<strong>di</strong>ni li rincorrevano, li sorpassavano, li prende‐<br />
vano a frustate. Due vecchi camminavano a fianco a fianco, e uno stava<br />
raccontando d’un cavallo che gli era stato rubato.<br />
Quando la sfilata delle slitte fu passata, la lepre traversò in due salti<br />
la strada, e leggera leggera se n’andò verso l’aia. Ma un cagnuolo, da<br />
quelle slitte, aveva avvistato la lepre: cominciò ad abbaiare e gli si slan‐<br />
ciò appresso. La lepre si mise a galoppare su su per quell’onde <strong>di</strong> neve:<br />
la neve reggeva la lepre; ma il cane, quand’ebbe fatto <strong>di</strong>eci salti,<br />
s’impegolò fra la neve e si fermò. Allora anche la lepre si fermò, stette un<br />
po’ a sedere sulle zampe <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro, e calma calma se n’andò alla volta<br />
dell’aia. Strada facendo, tra certi grani in erba, s’imbatté in altre due le‐<br />
pri. Esse stavano mangiando e giocando. La lepre si trattenne a giocar<br />
colle compagne, scavò insieme con loro la neve gelata, mangiò <strong>di</strong> quel<br />
grano invernale, e continuò per la strada sua.<br />
Al villaggio, c’era un gran silenzio; le luci erano spente. Si u<strong>di</strong>va sol‐<br />
tanto il piangere d’un bambino da latte <strong>di</strong> dentro una casupola, e gli<br />
scoppi che il legname della casupola mandava pel gelo. La lepre<br />
s’inoltrò fin sull’aia, e là trovò le altre compagne. Si mise a giocare con<br />
loro sullo spiazzo selciato, sgombro <strong>di</strong> neve; mangiò l’avena da una<br />
massa già incominciata, s’arrampicò su per il tetto, carico <strong>di</strong> neve, fin<br />
dentro il seccatoio, e scavalcando la siepe se ne tornò verso il suo burro‐<br />
ne.<br />
A levante schiariva l’alba, le stelle <strong>di</strong>ventavano più rade, e sempre<br />
più fitto il vapore gelato si sollevava da sotto la terra. Nel villaggio vici‐<br />
no, s’erano già svegliate le donne, e andavano per acqua; gli uomini, dal‐<br />
le aie, portavano da mangiare alle bestie; i bambini gridavano e piange‐<br />
vano. Sulla strada maestra passavano ancora più carri <strong>di</strong> prima, e i con‐<br />
ta<strong>di</strong>ni chiacchieravano più forte.<br />
La lepre, a salti, riattraversò la strada, s’accostò al suo covo vecchio, si<br />
scelse un posticino un po’ più a monte, scavò la neve, s’adattò parte in‐<br />
<strong>di</strong>etro nel nuovo covàcciolo, s’applicò le orecchie sulla schiena, e<br />
s’addormentò cogli occhi aperti.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 121<br />
Il lupo e l’arco<br />
(Favola).<br />
Un cacciatore con arco e frecce andò a caccia, uccise un capriolo, se lo<br />
caricò sulle spalle, e così lo portava verso casa. Strada facendo, vide un<br />
cinghiale. Il cacciatore buttò in terra il capriolo, tirò al cinghiale e lo ferì.<br />
Il cinghiale s’avventò contro il cacciatore, lo squarciò a morte con le<br />
zanne, e poi subito anch’esso, lì sul posto, morí. Un lupo fiutò l’odore<br />
del sangue, e arrivò dove giacevano per terra il capriolo, il cinghiale,<br />
l’uomo e il suo arco. Il lupo si rallegrò tutto, e fece tra sé: — Adesso, per<br />
un pezzo, non avrò più fame! Non voglio, però, mangiare tutto d’un<br />
colpo: voglio mangiare un pochino per volta, in modo che nulla vada<br />
sprecato: prima mi mangerò quel che c’è <strong>di</strong> più duro, poi mi papperò le<br />
cosette più tenere e dolci.<br />
Il lupo annusò il capriolo, il cinghiale e l’uomo, e <strong>di</strong>sse: — Questi so‐<br />
no tutti cibi teneri: li mangerò più tar<strong>di</strong>. Prima, fammi mangiare questo<br />
nervo dell’arco! – E si mise a rosicchiare il nervo teso sull’arco. Quando<br />
ebbe finito <strong>di</strong> tagliare coi denti la corda, l’arco scattò e <strong>di</strong>ede un colpo al<br />
lupo nella pancia.<br />
Subito, lì sul posto, il lupo morí: e vennero altri lupi, e mangiarono a<br />
loro volta l’uomo, il capriolo, il cinghiale e il lupo.<br />
In che modo il conta<strong>di</strong>no seppe spartire l’oca.<br />
(Leggenda).<br />
Un conta<strong>di</strong>no povero rimase senza grano. Gli venne l’idea <strong>di</strong> chiedere<br />
del grano al padrone. Per non presentarsi dal padrone a mani vuote,<br />
ammazzò un’oca, l’arrostì e gliela portò in regalo. Il padrone accettò l’o‐<br />
ca, e <strong>di</strong>sse al conta<strong>di</strong>no: – Ti ringrazio dell’oca, conta<strong>di</strong>no: ma io non so<br />
in che modo faremo a spartire la tua oca. Devi sapere che siamo io, mia<br />
moglie, due figli maschi e due figlie femmine. In che modo si potrebbe<br />
spartire quest’oca senza far torto a nessuno?<br />
Il conta<strong>di</strong>no rispose: – Te la spartisco io! – Prese il suo coltelluccio, ta‐<br />
gliò la testa, e <strong>di</strong>sse al padrone: – Tu sei il capo <strong>di</strong> tutta la casa: a te la te‐<br />
sta! – Poi tagliò il sedere e lo offrì alla padrona: – Tu, – le <strong>di</strong>sse, – in casa<br />
stai seduta, sulla casa vigili: a te il sedere! – Poi tagliò le cosce e le <strong>di</strong>ede<br />
ai figli maschi: – A voi, – <strong>di</strong>sse, – le zampe: del vostro babbo ricalcate le<br />
stampe! – E alle figlie femmine <strong>di</strong>ede le ali: – Voi,– <strong>di</strong>sse, – presto presto
122<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
via <strong>di</strong> casa volerete: d’un’aluccia per ciascuna voi vi accontenterete... E<br />
tutto quel che resta, me lo piglierò io! – E prese per sé tutta l’oca.<br />
Il padrone rise, <strong>di</strong>ede al conta<strong>di</strong>no il grano e vi aggiunse del denaro.<br />
Venne all’orecchio d’un altro conta<strong>di</strong>no, benestante, che il padrone, in<br />
compenso <strong>di</strong> un’oca, aveva dato al conta<strong>di</strong>no povero grano e denaro:<br />
s’affrettò ad arrostire cinque oche, e le portò al padrone.<br />
Il padrone gli <strong>di</strong>sse: – Grazie delle oche. Ma ve<strong>di</strong>, io ho moglie, due<br />
figli maschi, due figlie femmine: in tutto siamo sei: in che modo si po‐<br />
trebbe, in parti uguali, spartire tra noi le tue oche?<br />
Il conta<strong>di</strong>no ricco si mise a pensare: pensa e ripensa, non gli venne in<br />
mente un bel nulla.<br />
Allora il padrone mandò a chiamare il conta<strong>di</strong>no povero, e <strong>di</strong>sse a lui<br />
<strong>di</strong> fare quella <strong>di</strong>visione. Il conta<strong>di</strong>no povero prese una delle oche e la<br />
<strong>di</strong>ede al padrone e alla padrona insieme, <strong>di</strong>cendo: – Così, con quest’oca,<br />
siete in tre –; un’altra ne <strong>di</strong>ede ai figli maschi: – E anche voi, – <strong>di</strong>sse, –<br />
siete in tre –; un’altra ne <strong>di</strong>ede alle figlie femmine: – E anche voi siete in<br />
tre –; e finalmente, per sé, prese due oche: – Così, – <strong>di</strong>sse, – anche noi, io<br />
e quest’oche, siamo in tre: a tutti parti uguali!<br />
Il padrone rise e <strong>di</strong>ede al conta<strong>di</strong>no povero altro denaro e altro grano.<br />
In quanto al conta<strong>di</strong>no ricco, lo fece cacciar via senza niente.<br />
La zanzara e il leone.<br />
(Favola).<br />
Una zanzara venne a posarsi su un leone, e gli <strong>di</strong>sse: – Tu cre<strong>di</strong> <strong>di</strong> a‐<br />
vere più forza <strong>di</strong> me? Temo che ti sbagli! In che consiste la tua forza? Se<br />
consiste nel graffiare con le unghie e nel mordere coi denti, allora anche<br />
le donnicciòle sanno battersi così coi loro mariti! Io sono più forte <strong>di</strong> te:<br />
vieni, facciamo la guerra! – E la zanzara si mise a strombettare e a pun‐<br />
zecchiare il leone sul nudo delle guance e sul naso. Il leone continuava a<br />
darsi colpi <strong>di</strong> zampa e unghiate alla faccia: si scorticò tutta la faccia a<br />
sangue, e rimase sfinito dalla stanchezza.<br />
La zanzara, strombettando <strong>di</strong> gioia, se ne volò via. Poco dopo, però,<br />
andò a impigliarsi nella tela d’un ragno, e il ragno incominciò a suc‐<br />
chiarsela. Allora la zanzara <strong>di</strong>sse: – Una fiera forte come il leone, io ho<br />
saputo vincerla: ma ecco, per mano d’un miserabile ragno ora perdo la<br />
vita.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 123<br />
Gli alberi <strong>di</strong> melo.<br />
(Racconto).<br />
Avevo piantato duecento giovani meli, e per tre anni, in primavera e<br />
in autunno, avevo rimosso ben bene intorno ai tronchi la terra, e nell’in‐<br />
vernata li avevo avvoltolati <strong>di</strong> paglia per <strong>di</strong>fenderli dalle lepri. Il quarto<br />
anno, quando la neve si sciolse, andai a guardare i miei meli. S’erano in‐<br />
grossati parecchio, in quell’ultima invernata; avevano la scorza lucida e<br />
piena <strong>di</strong> linfa; i rametti erano tutti interi, e alle loro estremità, come pure<br />
alle biforcazioni, spiccavano rotonde, come tanti piselli, le gemme dei<br />
fiori. Qua e là gl’involucri delle gemme erano già scoppiati, e si scorge‐<br />
vano, d’un rosso vivo, gli orli dei petali. Io sapevo che tutti quei bottoni<br />
sarebbero <strong>di</strong>ventati fiori e frutti, e perciò mi rallegravo, guardando così i<br />
miei meli. Ma quando svoltolai la paglia dal primo degli alberetti, m’av‐<br />
vi<strong>di</strong> che in basso, proprio a fior <strong>di</strong> terra, la scorza del melo era stata ro‐<br />
sicchiata giro giro, alla profon<strong>di</strong>tà dell’alburno, in una specie <strong>di</strong> anello<br />
bianco. Questa era opera dei sorci. Io tolsi la paglia a un secondo alberet‐<br />
to: anche a quest’altro era accaduta la stessa cosa. Di duecento meli,<br />
nemmeno uno era rimasto intatto.<br />
Provai a spalmare i punti rosicchiati con pece e cera; ma quando i me‐<br />
li, poco più tar<strong>di</strong>, sbocciarono, i loro fiori caddero subito. Poi spuntarono<br />
delle piccole foglioline, ma anche queste appassirono e si seccarono. La<br />
scorza si raggrinzi e s’annerí. Di duecento meli, se ne salvarono soltanto<br />
nove. Erano nove meli sui quali la scorza non era stata mangiata in un<br />
giro completo: in quella specie <strong>di</strong> anello bianco era rimasta qualche stri‐<br />
sciolina <strong>di</strong> scorza. Su queste striscioline, nei punti in cui la scorza s’aprì,<br />
si formarono delle escrescenze: e gli alberetti, sia pure un po’ malaticci,<br />
continuarono a svilupparsi. Gli altri andarono tutti a male: soltanto al <strong>di</strong><br />
sotto dei punti rosicchiati crebbe qualche rimessiticcio, ma anche questo<br />
inselvatichito.<br />
La scorza è per gli alberi la stessa cosa che la pelle per l’uomo: attra‐<br />
verso le vene il sangue circola nell’uomo, e così, attraverso la scorza, la<br />
linfa circola per il tronco dell’albero, e sale ai rami, alle foglie e ai fiori. Si<br />
può scavare un albero all’interno e svuotarlo del tutto, come accade ai<br />
vecchi salci, purché la scorza, però, resti viva: allora tutto l’albero resterà<br />
in vita; ma se la scorza andrà a male, anche per l’albero sarà finita. Se a<br />
un uomo si tagliassero le vene, egli morrebbe, prima <strong>di</strong> tutto perché<br />
perderebbe il sangue, e poi perché il sangue non avrebbe piú modo <strong>di</strong><br />
circolare per il suo corpo.
124<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Così anche le betulle si seccano quando i ragazzi ci scavano una fos‐<br />
setta per berne la linfa, e tutta la linfa man mano ne sgorga fuori.<br />
E così anche i miei meli andarono a male, dopo che i sorci ebbero<br />
mangiato tutta la scorza giro giro, e la linfa non aveva più modo <strong>di</strong> pas‐<br />
sare dalle ra<strong>di</strong>ci ai rami, alle foglie e ai fiori.<br />
Il cavallo e i suoi padroni.<br />
(Favola).<br />
Un cavallo stava con un giar<strong>di</strong>niere. Da lavorare ne aveva tanto, ma<br />
da mangiare ben poco. Perciò si mise a pregare il Signore <strong>di</strong> poter anda‐<br />
re da un altro padrone. E così gli avvenne.<br />
Il giar<strong>di</strong>niere vendette il cavallo a un vasaio. Il cavallo fu tutto con‐<br />
tento: ma, stando col vasaio, il lavoro gli crebbe ancora più <strong>di</strong> prima. Al‐<br />
lora il cavallo ricominciò a lamentarsi della sua sorte, e a pregare il Si‐<br />
gnore <strong>di</strong> poter andare da un padrone migliore. E anche stavolta ottenne<br />
quel che voleva.<br />
Il vasaio vendette il cavallo a un pellaio. Ma appena, nel cortile del<br />
pellaio, il cavallo vide tutte quelle pelli cavalline, subito si mise a frigna‐<br />
re: – Oh poveretto me, <strong>di</strong>sgraziato che non sono altro! Era meglio che<br />
fossi rimasto coi padroni <strong>di</strong> prima. Adesso, lo vedo bene, non per fare<br />
un lavoro sono stato venduto, ma per la pelle che ho indosso!<br />
Le cimici.<br />
(Racconto).<br />
M’ero fermato a pernottare in una locanda con stallaggio. Prima <strong>di</strong><br />
coricarmi, presi la candela e <strong>di</strong>e<strong>di</strong> un’occhiata ai cantoni del letto e delle<br />
pareti: e quando vi<strong>di</strong> che in tutti i cantoni c’erano le cimici, mi misi a<br />
pensare come potevo sistemarmi per la notte in modo che le cimici non<br />
riuscissero a raggiungermi.<br />
Avevo con me un lettino pieghevole, ma sapevo che, piantandolo nel<br />
mezzo della stanza, le cimici sarebbero strisciate giù dalle pareti fin sul<br />
piancito, e dal piancito, risalendo su per le zampe del letto, sarebbero<br />
riuscite a raggiungermi. Quin<strong>di</strong> io chiesi al locan<strong>di</strong>ere quattro ciotole <strong>di</strong><br />
legno: riempii le ciotole d’acqua: e posi le quattro zampe del letto cia‐<br />
scuna in una ciotola piena. Poi mi coricai, appoggiai la candela in terra, e<br />
stetti a guardare che cosa avrebbero fatto le cimici.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 125<br />
Erano in molte, le cimici, e avevano già fiutato il mio odore: le vi<strong>di</strong><br />
strisciare per il piancito, arrampicarsi sulle ciotole fino all’orlo, e <strong>di</strong> lì, al‐<br />
cune cadere in acqua, altre tornarsene in<strong>di</strong>etro. «Sono stato più furbo <strong>di</strong><br />
voi! — <strong>di</strong>ssi tra me. — Ora non mi raggiungerete più!» E già facevo per<br />
spegnere la candela, quando, improvvisamente, sentii qualche cosa che<br />
mi pungeva. Mi guardo addosso: una cimice! Come <strong>di</strong>amine aveva fatto<br />
a infilarsi fin lì ? Non era passato un minuto, e ne trovai un’altra.<br />
Allora mi misi a scrutare bene tutt’intorno, cercando d’indovinare in<br />
che modo erano riuscite a raggiungermi.<br />
Per un bel pezzo non potei capirci niente, ma alla fine, alzai un’oc‐<br />
chiata al soffitto, e che cosa vi<strong>di</strong>? Le cimici s’arrampicavano su per il sof‐<br />
fitto: strisciando strisciando, arrivavano al livello del letto: quando erano<br />
lì, si staccavano dal soffitto e venivano a cadermi addosso.<br />
«No, — <strong>di</strong>ssi allora fra me, — più furbo <strong>di</strong> voi non c’è nessuno!»<br />
M’infilai la pelliccia e uscii nel cortile.<br />
Il vecchio e la morte.<br />
(Favola).<br />
Un vecchio era andato a tagliare la legna, e la portava verso casa. La<br />
strada era lunga; il vecchio si senti sfinito, depose il suo fascio in terra, e<br />
<strong>di</strong>sse: — Ah, se venisse la morte!<br />
La morte venne, e gli <strong>di</strong>sse: — Eccomi qua: che ti occorre?<br />
Il vecchio si spaventò, e rispose: — Che tu mi aiuti a sollevare questo<br />
fascio.<br />
In che modo le oche salvarono Roma.<br />
(Racconto storico).<br />
Nel 390 avanti Cristo, delle popolazioni selvagge, i Galli, assalirono i<br />
Romani. I Romani non riuscirono a fermarli, e molti fuggirono dalla cit‐<br />
tà, molti altri si rinchiusero dentro la rocca. Questa rocca aveva nome<br />
Campidoglio. In città non era rimasto nessuno fuorché i senatori. I Galli<br />
entrarono nella città, uccisero tutti i senatori, e incen<strong>di</strong>arono Roma. Ri‐<br />
maneva, al centro <strong>di</strong> Roma, la rocca sola, il Campidoglio, dove i Galli<br />
non avevano potuto penetrare. I Galli erano desiderosi <strong>di</strong> saccheggiare il<br />
Campidoglio, giacché sapevano che là c’erano gran<strong>di</strong> ricchezze. Ma il<br />
Campidoglio era posto su un’altura <strong>di</strong>rupata: da una parte c’erano le
126<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
mura e le porte, dall’altra un <strong>di</strong>rupo a picco. Una notte, <strong>di</strong> soppiatto, i<br />
Galli s’arrampicarono su, dalla parte del <strong>di</strong>rupo, verso il Campidoglio:<br />
essi si sostenevano dal basso l’uno sull’altro, e si passavano l’uno all’al‐<br />
tro le lance e le spade.<br />
In questo modo, pian piano, arrivarono fino in cima al <strong>di</strong>rupo: e<br />
nemmeno i cani li avevano u<strong>di</strong>ti.<br />
Stavano già scavalcando il muro, quando a un tratto certe oche senti‐<br />
rono che veniva gente, e si misero a gracidare e a sbattere le ali. Uno dei<br />
Romani si svegliò, corse al muro e ribaltò giti nel <strong>di</strong>rupo uno dei Galli. Il<br />
Gallo precipitò e travolse altri con lui. Allora i Romani si radunarono in<br />
fretta e incominciarono a lanciare tronchi e pietre verso il <strong>di</strong>rupo, e così<br />
uccisero molti dei Galli. Poi arrivarono a Roma aiuti dal <strong>di</strong> fuori, e i Galli<br />
furono ricacciati lontano.<br />
Da allora i Romani, in ricordo <strong>di</strong> quella giornata, stabilirono <strong>di</strong> fare<br />
una festa. I sacerdoti, in paramenti solenni, andavano in giro per la città,<br />
e uno portava fra le braccia un’oca; <strong>di</strong>etro <strong>di</strong> loro, legato a una corda,<br />
trascinavano un cane. La gente s’avvicinava all’oca e s’inchinava alla be‐<br />
stia e al sacerdote; al cane, invece, davano bastonate a tutto andare, fin<br />
tanto che non lo vedevano morto.<br />
Per quale ragione il gelo fa scoppiare gli alberi?<br />
(Considerazioni).<br />
La ragione è questa, che dentro agli alberi c’è dell’umi<strong>di</strong>tà, e questa<br />
umi<strong>di</strong>tà si congela, né più né meno <strong>di</strong> come fa l’acqua. Quando l’acqua<br />
si congela, si <strong>di</strong>lata; e quando non trova spazio per <strong>di</strong>latarsi, tanto fa che<br />
spacca qualunque recipiente, e così anche gli alberi.<br />
Se provate a mescere dell’acqua in una bottiglia, e a metterla in ghiac‐<br />
cio, l’acqua si congelerà e spaccherà la bottiglia.<br />
Quando l’acqua si muta in ghiaccio, questo ghiaccio contiene in sé<br />
una forza tale che, se riempite d’acqua la canna <strong>di</strong> ferro d’un cannone, e<br />
ce la fate gelare dentro, il ghiaccio la farà spaccare.<br />
Per quale ragione l’acqua non si restringe col freddo, come fa il ferro,<br />
ma si <strong>di</strong>lata mentre si congela? Per la ragione che quando l’acqua si con‐<br />
gela, le particelle <strong>di</strong> cui è composta si collegano fra loro in un modo <strong>di</strong>‐<br />
verso, e fra l’una e l’altra <strong>di</strong> queste particelle resta un maggior numero<br />
<strong>di</strong> spazi vuoti.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 127<br />
E a quale scopo la natura non fa restringere l’acqua, quando si conge‐<br />
la? Allo scopo che l’acqua, nei fiumi e nei laghi, non si congeli fino al<br />
fondo.<br />
Il ghiaccio, formandosi, si <strong>di</strong>lata, e così <strong>di</strong>venta più leggero dell’ac‐<br />
qua, e resta a galla sull’acqua; più in basso si forma soltanto un mezzo<br />
ghiaccio, che acquista uno spessore sempre più grosso, ma non arriva<br />
mai fino al fondo. Se invece l’acqua si restringesse col gelo, come si re‐<br />
stringe il ferro, accadrebbe che l’acqua <strong>di</strong> superficie, gelando sui fiumi,<br />
affonderebbe giù, giacché il ghiaccio sarebbe più pesante dell’acqua. Poi<br />
<strong>di</strong> nuovo altra acqua, alla superficie, gelerebbe a sua volta, e affondereb‐<br />
be giù: e così, laghi e fiumi si congelerebbero per intero, dalla superficie<br />
fino al fondo.<br />
L’umi<strong>di</strong>tà.<br />
(Considerazioni).<br />
I.<br />
Come mai il ragno, certe volte, fa la ragnatela e rimane lì fermo al<br />
centro del suo nido, e altre volte esce dal nido e si tesse un’altra ragnate‐<br />
la?<br />
Il ragno fa le sue ragnatele a seconda del tempo che è e che sarà. Noi,<br />
osservando le ragnatele, possiamo sapere che cosa farà il tempo: se il ra‐<br />
gno se ne sta fermo, ficcato al centro della ragnatela, e <strong>di</strong> lì non si muo‐<br />
ve, è segno <strong>di</strong> pioggia: se esce dal nido e tesse altre ragnatele, è segno <strong>di</strong><br />
buon tempo.<br />
Come fa, il ragno, a sapere in anticipo che tempo sarà?<br />
I sensi del ragno sono talmente fini, che appena nell’aria comincia a<br />
raccogliersi un pochino <strong>di</strong> umi<strong>di</strong>tà, e noialtri non ce ne accorgiamo nep‐<br />
pure, e il tempo ci pare ancora sereno, per il ragno già piove.<br />
Allo stesso modo che anche un uomo, se è svestito, sente subito l’u‐<br />
mi<strong>di</strong>tà, ma se è vestito non l’avverte, così per il ragno già piove, quando<br />
per noialtri la pioggia si sta appena preparando.<br />
II.<br />
Per quale ragione, in autunno e in inverno, le porte si gonfiano e non<br />
chiudono più, mentre in estate si prosciugano e chiudono bene?
128<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
La ragione è che in autunno e in inverno il legno s’impregna d’acqua,<br />
come una spugna, e cresce: in estate, invece, ogni umore ne svapora, ed<br />
esso si rattrappisce.<br />
Per quale ragione il legname tenero, per esempio il pioppo, si gonfia<br />
<strong>di</strong> più, e la quercia <strong>di</strong> meno?<br />
La ragione è che il legno forte, come la quercia, contiene in sé meno<br />
spazi vuoti, e l’acqua non trova dove infiltrarsi: nel legno tenero, invece,<br />
come il pioppo, gli spazi vuoti sono <strong>di</strong> più, e l’acqua trova dove infiltrar‐<br />
si. Nel legno fra<strong>di</strong>cio, poi, ci sono ancora più spazi vuoti: e per questo il<br />
legno fra<strong>di</strong>cio è quello che si gonfia più <strong>di</strong> tutti, e più <strong>di</strong> tutti si ritira.<br />
I tronchi scavati, che servono <strong>di</strong> arnia per le api, sono fatti con legno<br />
più tenero e più fra<strong>di</strong>cio possibile: le arnie migliori sono quelle <strong>di</strong> salcio<br />
fra<strong>di</strong>cio. Per quale ragione? Per la ragione che, attraverso il legno fra<strong>di</strong>‐<br />
cio, passa l’aria; e le api, nelle arnie fatte così, trovano aria più leggera.<br />
Per quale ragione le assi umide fanno la gobba?<br />
La ragione è che esse non si prosciugano in modo uguale in ogni pun‐<br />
to. Se un’asse umida viene <strong>di</strong>sposta con una faccia verso la stufa,<br />
l’umore ne uscirà, e allora il legno si restringerà da quella faccia, e tirerà<br />
a sé l’altra faccia: ma la faccia ancora umida non potrà restringersi, giac‐<br />
ché contiene acqua, e così, tutta l’asse s’incurverà per intero.<br />
Le particelle della materia sono collegate tra loro in mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi.<br />
(Considerazioni).<br />
Per quale ragione il ceppo del carro e i mozzi delle ruote non si fanno<br />
<strong>di</strong> legno <strong>di</strong> quercia, ma <strong>di</strong> betulla? Eppure, il ceppo e i mozzi debbono<br />
essere forti, e la quercia è più forte e non costa <strong>di</strong> più della betulla.<br />
La ragione è che la quercia si spacca per lungo, mentre la betulla non<br />
si spacca in nessun verso, non fa altro che sfilaccicarsi. E questo <strong>di</strong>pende<br />
dal fatto che la quercia è composta <strong>di</strong> particelle più compatte della betul‐<br />
la, ma è composta in modo che, per il lungo, si fende, mentre la betulla<br />
non è soggetta a fendersi.<br />
Per quale ragione le ruote e i pattini da slitta s’incurvano, se sono fatti<br />
<strong>di</strong> quercia o <strong>di</strong> olmo, e invece non s’incurvano, se sono <strong>di</strong> betulla o <strong>di</strong> ti‐<br />
glio?<br />
La ragione è che la quercia e l’olmo, quando si ammolliscono col va‐<br />
pore, s’incurvano e non si spezzano: la betulla e il tiglio, invece, si sfilac‐<br />
cicano in tutti i versi.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 129<br />
E tutto <strong>di</strong>pende sempre dal fatto che le particelle del legno, nella<br />
quercia e nella betulla, sono collegate tra loro in mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>versi.<br />
Il leone e la volpe.<br />
(Favola).<br />
Un leone, dalla gran vecchiaia, non era più capace d’acchiappare le<br />
bestie selvatiche, e allora pensò <strong>di</strong> campare con la furberia: si ritirò in<br />
una grotta, e finse d’essere malato. Le bestie selvatiche vennero a fargli<br />
visita, e lui, tutte quelle che mettevano piede nella sua grotta, se le man‐<br />
giava. La volpe subodorò la faccenda: si fermò sull’entrata della grotta, e<br />
<strong>di</strong>sse: — Bè, caro il mio leone, come te la passi?<br />
Il leone rispose: — Male. Ma tu, perché non vieni dentro?<br />
Gli ribatté la volpe: — Sai perché non vengo dentro? Perché, dalle<br />
tracce <strong>di</strong> fuori, vedo che ad entrare sono stati in molti, ma nessuno è u‐<br />
scito.<br />
Il giu<strong>di</strong>ce giusto.<br />
(Leggenda).<br />
Un re d’Algeri, Bauakas, volle accertarsi coi suoi occhi se era vero ciò<br />
che gli avevano detto, che in una delle città del suo regno viveva un<br />
giu<strong>di</strong>ce giusto, il quale sapeva subito riconoscere la verità, e non c’era<br />
nessun imbroglione capace <strong>di</strong> sfuggirgli. Bauakas si travestì da mercante<br />
e partì, a cavallo, per la città dove il giu<strong>di</strong>ce viveva. All’entrata della cit‐<br />
tà, s’avvicinò a Bauakas uno storpio, e gli chiese l’elemosina. Bauakas<br />
gliela <strong>di</strong>ede, e fece per proseguire oltre, ma lo storpio gli s’aggrappo’ al<br />
vestito. — Che cosa vuoi? — gli domandò Bauakas. — Forse non te l’ho<br />
data, l’elemosina?<br />
— L’elemosina me l’hai data, — <strong>di</strong>sse lo storpio, — ma ora fammi u‐<br />
n’altra carità: montami sul tuo cavallo e portami fino in piazza, ché qui,<br />
fra cavalli e cammelli, finirò per restare schiacciato.<br />
Bauakas fece sedere lo storpio alle sue spalle, e così lo portò fino alla<br />
piazza. Quando fu sulla piazza, Bauakas fermò il cavallo: ma il men<strong>di</strong>‐<br />
cante non scendeva a terra. Bauakas gli <strong>di</strong>sse: — Che fai, che non scen<strong>di</strong>?<br />
Siamo arrivati —. Ma il men<strong>di</strong>cante rispose: — E perché dovrei scende‐<br />
re? Il cavallo è mio! E se poi, con le buone, tu non me lo vuoi rendere,<br />
vieni con me <strong>di</strong>nanzi al giu<strong>di</strong>ce.
130<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Intorno a loro s’era radunata gente, che stava a sentire perché litiga‐<br />
vano; poi tutti si misero a gridare: — Andate <strong>di</strong>nanzi al giu<strong>di</strong>ce, quello<br />
vi farà giustizia!<br />
Bauakas e lo storpio andarono, dunque, dal giu<strong>di</strong>ce. Nel tribunale c’e‐<br />
ra folla, e il giu<strong>di</strong>ce chiamava a turno quelli che doveva giu<strong>di</strong>care. Prima<br />
che venisse il turno <strong>di</strong> Bauakas, il giu<strong>di</strong>ce chiamò un dotto e un conta<strong>di</strong>‐<br />
no: costoro stavano in lite per una donna. Il conta<strong>di</strong>no <strong>di</strong>ceva che quella<br />
era sua moglie, e il dotto <strong>di</strong>ceva che, invece, era moglie sua. Il giu<strong>di</strong>ce li<br />
ascoltò ben bene, restò un minuto in silenzio, e poi <strong>di</strong>sse: — Lasciate<br />
questa donna qui da me, e voi tornate domani.<br />
Quando quei due se ne furono andati, entrarono un macellaio e un o‐<br />
lialo. Il macellaio era tutto sporco <strong>di</strong> sangue, e l’oliaio <strong>di</strong> olio. Il macel‐<br />
laio teneva nella mano del denaro: l’oliaio teneva nella sua mano la ma‐<br />
no del macellaio. Il macellaio <strong>di</strong>ceva: — Io ho comperato da costui<br />
dell’olio e ho tratto fuori il borsello per pagarlo: ma lui mi ha afferrato<br />
per la mano e ha fatto per strapparmi il denaro. In questo modo siamo<br />
venuti fin qui da te: io tengo nella mano il borsello, e lui mi tiene stretto<br />
per la mano. Ma il denaro è mio: e lui è un ladro.<br />
L’oliaio <strong>di</strong>ceva, da parte sua: — Non è vero. Il macellaio è venuto da<br />
me a comperare dell’olio. Dopo che io gliene ho fatta piena la brocca, lui<br />
mi ha pregato <strong>di</strong> cambiargli una moneta d’oro. Io ho tirato fuori gli spic‐<br />
cioli e li ho <strong>di</strong>sposti sul bancone: allora lui li ha arraffati e ha fatto per<br />
fuggire. Io l’ho afferrato per la mano e l’ho condotto fin qui.<br />
Il giu<strong>di</strong>ce restò un minuto in silenzio, e poi <strong>di</strong>sse: — Lasciate questo<br />
denaro qui da me, e voi ritornate domani.<br />
Quando venne il turno <strong>di</strong> Bauakas e dello storpio, Bauakas raccontò<br />
com’era andato il fatto. Il giu<strong>di</strong>ce lo ascoltò, quin<strong>di</strong> interrogò il men<strong>di</strong>‐<br />
cante. Il men<strong>di</strong>cante <strong>di</strong>sse: — Sono tutte bugie. Io passavo a cavallo per<br />
la città: costui stava accoccolato per terra, e mi ha pregato <strong>di</strong> trasportarlo<br />
con me. Io l’ho fatto montare sul mio cavallo e l’ho portato fin dove mi<br />
aveva chiesto: ma lui s’è rifiutato <strong>di</strong> scendere e ha detto che il cavallo era<br />
suo. Sono tutte bugie!<br />
Il giu<strong>di</strong>ce stette a pensare un minuto, e poi <strong>di</strong>sse: — Lasciate questo<br />
cavallo qui da me, e voi ritornate domani.<br />
L’indomani, molta gente si radunò in tribunale per sentire in che mo‐<br />
do il giu<strong>di</strong>ce avrebbe fatto giustizia.<br />
Per primi s’avanzarono il dotto e il conta<strong>di</strong>no.<br />
— Ripren<strong>di</strong>ti tua moglie, — <strong>di</strong>sse il giu<strong>di</strong>ce al dotto, — e al conta<strong>di</strong>no<br />
siano date quaranta bastonate —. E il dotto si riprese sua moglie, e il<br />
conta<strong>di</strong>no fu punito lì per lì.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 131<br />
Poi il giu<strong>di</strong>ce chiamò il macellaio.<br />
— Il denaro è tuo, — <strong>di</strong>sse al macellaio, poi in<strong>di</strong>cò l’oliaio e <strong>di</strong>sse: —<br />
E a lui, cinquanta bastonate.<br />
Allora furono chiamati Bauakas e lo storpio. — Saresti capace <strong>di</strong> rico‐<br />
noscere il tuo cavallo fra altri venti? — domandò il giu<strong>di</strong>ce a Bauakas.<br />
— Si che lo riconoscerei!<br />
— E tu?<br />
— Anch’io lo riconoscerei! — <strong>di</strong>sse lo storpio.<br />
— Vieni con me, — <strong>di</strong>sse a Bauakas il giu<strong>di</strong>ce.<br />
Andarono nella scuderia. Bauakas, senza un attimo d’esitazione, fra<br />
venti altri cavalli, in<strong>di</strong>cò il suo. Poi il giu<strong>di</strong>ce chiamò lo storpio alla scu‐<br />
deria, e anche a lui or<strong>di</strong>nò d’in<strong>di</strong>care qual era il cavallo. Lo storpio rico‐<br />
nobbe il cavallo e lo in<strong>di</strong>cò. Allora il giu<strong>di</strong>ce tornò a sedere al suo posto<br />
e <strong>di</strong>sse a Bauakas:<br />
— Il cavallo è tuo: ripren<strong>di</strong>telo. E allo storpio, cinquanta bastonate.<br />
Terminato il giu<strong>di</strong>zio, il giu<strong>di</strong>ce s’avviò a casa: ma Bauakas gli andò<br />
<strong>di</strong>etro.<br />
Che cosa c’è: non sei contento, forse, della mia sentenza? — gli do‐<br />
mandò il giu<strong>di</strong>ce.<br />
— No, sono contento, — <strong>di</strong>sse Bauakas: — vorrei sapere, soltanto,<br />
come hai fatto a capire che la donna era moglie del dotto e non del con‐<br />
ta<strong>di</strong>no, e che il denaro era del macellaio e non dell’oliaio, e che il cavallo<br />
era mio e non del men<strong>di</strong>cante!<br />
In quanto alla donna, ecco come ho fatto: l’ho chiamata, stamattina a<br />
buonora, e le ho detto che riempisse d’inchiostro il mio calamaio. Lei ha<br />
preso il calamaio, lo ha lavato svelta e sicura, e ci ha versato dentro l’in‐<br />
chiostro. Vuol <strong>di</strong>re che era abituata a questa faccenda. Se fosse stata mo‐<br />
glie d’un conta<strong>di</strong>no, non avrebbe saputo sbrigarsela così. Dunque, la ra‐<br />
gione era del dotto.<br />
— In quanto poi al denaro, ecco come ho fatto: ho messo quel denaro<br />
in una ciotola piena d’acqua, e stamattina sono andato a guardare se, a<br />
galla sull’acqua, c’era dell’olio. Se il denaro fosse appartenuto all’oliaio,<br />
sarebbe rimasto impiastricciato dalle sue mani unte e bisunte. Ma, a gal‐<br />
la sull’acqua, olio non ce n’era: dunque, il macellaio <strong>di</strong>ceva la verità.<br />
— Per il cavallo, finalmente, la cosa era più <strong>di</strong>fficile. Lo storpio, né<br />
più né meno <strong>di</strong> te, fra venti cavalli ha subito in<strong>di</strong>cato il cavallo giusto.<br />
Ma io non vi avevo condotti tutt’e due alla scuderia per vedere se voi<br />
riconoscevate il cavallo; vi ci avevo condotti per vedere chi <strong>di</strong> voi due<br />
sarebbe stato riconosciuto dal cavallo! Quando tu ti sei accostato alla be‐<br />
stia, essa ha girato la testa, e si è protesa verso <strong>di</strong> te: ma quando lo stor‐
132<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
pio l’ha toccata, ha abbassato le orecchie e ha levato una zampa. Da que‐<br />
sto io ho capito che il vero padrone del cavallo eri tu.<br />
Allora Bauakas <strong>di</strong>sse:<br />
— Io non sono un mercante, ma il re Bauakas. Io sono venuto qui per<br />
vedere se era vero ciò che <strong>di</strong>cevano <strong>di</strong> te. E, ora, vedo che tu sei un giu‐<br />
<strong>di</strong>ce saggio. Chie<strong>di</strong>mi tutto quello che vuoi: io ti ricompenserò.<br />
Disse il giu<strong>di</strong>ce: — Non ho bisogno <strong>di</strong> ricompense: sono già felice ab‐<br />
bastanza che il mio re mi abbia lodato.<br />
Il cervo e la vigna.<br />
(Favola).<br />
Un cervo si nascose ai cacciatori dentro una vigna. Quando i cacciato‐<br />
ri furono passati oltre, il cervo si mise a brucare le gran<strong>di</strong> foglie dell’uva.<br />
I cacciatori notarono che le foglie si muovevano, e pensarono:<br />
«Non ci sarà qualche bestia selvatica laggiù sotto le foglie?» Spararo‐<br />
no, e ferirono il cervo.<br />
Allora il cervo <strong>di</strong>sse, già in punto <strong>di</strong> morte: — Me lo sono meritato:<br />
ho voluto mangiare proprio quelle foglie, che mi avevano salvato la vita.<br />
Il figlio del re e i suoi compagni.<br />
(Leggenda).<br />
Un re aveva due figli. Il re voleva più bene al maggiore, e <strong>di</strong>ede a lui<br />
tutto il regno. La madre aveva compassione del figlio minore, e si oppo‐<br />
neva alla volontà del re. Il re ne era irritato, e non passava giorno che fra<br />
loro non nascesse un litigio. Il principe più piccolo, allora, pensò: «È me‐<br />
glio che me ne vada lontano!» Si congedò dal padre e dalla madre, in‐<br />
dossò un abito modesto, e si mise in viaggio per il mondo.<br />
Strada facendo, s’imbatté in un mercante. Il mercante raccontò al<br />
principino che, un tempo, lui era stato ricco, ma poi tutte le sue mercan‐<br />
zie erano colate in fondo al mare, e ora stava andando in paesi stranieri<br />
in cerca <strong>di</strong> fortuna.<br />
I due s’accompagnarono insieme. Di lì a due giorni, venne a unirsi<br />
con loro anche un terzo compagno. Si misero a <strong>di</strong>scorrere fra loro, e il<br />
nuovo compagno raccontò che lui era un conta<strong>di</strong>no: aveva tanto <strong>di</strong> casa<br />
e <strong>di</strong> terra; ma c’era stata la guerra, i suoi campi erano stati devastati, le
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 133<br />
sue provviste incen<strong>di</strong>ate, non gli era rimasto più nulla da vivere: e ora<br />
stava andando in cerca <strong>di</strong> lavoro in paesi stranieri.<br />
Tutt’e tre s’accompagnarono insieme. Arrivarono nei paraggi d’una<br />
grande città, e si fermarono a riposare. Ed ecco che il conta<strong>di</strong>no <strong>di</strong>ce: –<br />
Ebbene, fratelli: smettiamola, adesso, <strong>di</strong> fare i vagabon<strong>di</strong>: giacché<br />
siamo arrivati a una città, ci conviene metterci al lavoro, ciascuno secon‐<br />
do quello che sa fare.<br />
Il mercante <strong>di</strong>sse:– Quello che so fare io, è commerciare. Se avessi del<br />
denaro, anche pochissimo, commercerei e ne guadagnerei moltissimo.<br />
Disse il principino: – Io, per conto mio, non so né lavorare né com‐<br />
merciare: so soltanto regnare. Se avessi un regno, io sarei un re bravis‐<br />
simo.<br />
E il conta<strong>di</strong>no <strong>di</strong>sse: – A me, invece, non occorre né denaro né regno:<br />
a me basta soltanto che i pie<strong>di</strong> mi vadano e le mani mi si muovano: con<br />
questo riuscirò a campare e a dar da mangiare anche a voialtri benissi‐<br />
mo. Se no, voi due, intanto che uno aspetta il denaro e l’altro il regno, fi‐<br />
nirete per morire <strong>di</strong> fame.<br />
Ma il principino ribatté: – Al mercante occorre il denaro, a me occorre<br />
il regno, a te occorre la forza per lavorare: ma sia il denaro, sia il regno,<br />
sia la forza, tutto ci viene da Dio. Se Dio vorrà, a me darà il regno e a te<br />
la forza; ma se non vorrà, né a te darà la forza, né a me il regno!<br />
Il conta<strong>di</strong>no non <strong>di</strong>ede ascolto a quelle parole, ed entrò in città. Là si<br />
mise a lavorare a giornata, trasportando la legna. Quando fu sera, gli fu<br />
pagato il suo. Lui portò il denaro ai compagni, e <strong>di</strong>sse: – Intanto che voi<br />
pensate al modo <strong>di</strong> fare i re, io ho già lavorato e guadagnato.<br />
Il giorno dopo, il mercante chiese in prestito quel denaro al conta<strong>di</strong>‐<br />
no, ed entrò in città.<br />
Al mercato, il mercante seppe che in città scarseggiava l’olio, e che<br />
giorno per giorno aspettavano che ne arrivasse una nuova partita. Il<br />
mercante andò al porto e si mise a osservare i bastimenti. Arrivò, mentre<br />
lui stava lì, un bastimento carico d’olio. Il mercante fu più svelto <strong>di</strong> tutti<br />
a salire sul bastimento, domandò del padrone, comperò tutto l’olio, e<br />
versò per caparra il denaro che aveva. Poi corse in città, rivendette<br />
quell’olio e, dandosi da fare per quattro, guadagnò una somma <strong>di</strong>eci<br />
volte più grossa <strong>di</strong> quella del conta<strong>di</strong>no, e la portò ai compagni.<br />
Allora il principino <strong>di</strong>sse: – Bè, adesso tocca a me, <strong>di</strong> entrare in città!<br />
Voi avete avuto tutt’e due fortuna; chissà che anche a me non accada<br />
lo stesso. Per Dio non c’è nulla <strong>di</strong> <strong>di</strong>fficile: per Lui è la stessa cosa darti<br />
lavoro se sei un conta<strong>di</strong>no, darti un grosso profitto se sei un mercante,<br />
oppure, se sei un principe, darti un regno.
134<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Entra il principe in città, e che cosa vede? La gente gira per le vie<br />
piangendo. Il principe domanda perché piangono. Gli rispondono: –<br />
Dunque non sai che stanotte il nostro re è morto, e che un altro re<br />
come quello non lo potremo trovare più?<br />
– Ma <strong>di</strong> che cosa è morto?<br />
– Eh, debbono essere stati quei malfattori che sappiamo noi, che lo<br />
hanno avvelenato.<br />
Il principe scoppiò a ridere e <strong>di</strong>sse: – Questo non può essere.<br />
Allora, d’improvviso, un uomo squadrò il principe da capo a pie<strong>di</strong>,<br />
s’accorse che egli non parlava perfettamente nella loro lingua, e non era<br />
vestito come usavano tutti in quella città, e gridò: _ Ragazzi!<br />
Quest’uomo è stato mandato fra noi da quei malfattori, per prendere<br />
informazioni sulla nostra città. Forse è stato proprio lui che ha avvelena‐<br />
to il re. Fate attenzione: ha una parlata <strong>di</strong>versa dalla nostra e, mentre noi<br />
piangiamo, lui ride. Prendetelo, e portatelo in prigione!<br />
Il principe fu preso, portato in prigione e, per due giorni, lasciato sen‐<br />
za mangiare. Il terzo giorno, vennero a cercarlo, e lo condussero al tri‐<br />
bunale. Molta folla si radunò per ascoltare in che modo il principe sa‐<br />
rebbe stato giu<strong>di</strong>cato.<br />
In tribunale domandarono al principe chi era e per quale scopo era<br />
venuto nella loro città. Il principe <strong>di</strong>sse: – Io sono il figlio d’un re. Mio<br />
padre ha dato tutto il regno al mio fratello maggiore: mia madre ha cer‐<br />
cato <strong>di</strong> <strong>di</strong>fendermi, e così, per causa mia, i miei genitori si sono messi in<br />
contrasto fra loro. Era una cosa che a me <strong>di</strong>spiaceva troppo: ho detto ad‐<br />
<strong>di</strong>o ai miei genitori e ho incominciato a viaggiare per il mondo. Strada<br />
facendo, ho incontrato due compagni: un conta<strong>di</strong>no e un mercante, e in‐<br />
sieme con loro sono venuto alla vostra città. Mentre c’eravamo fermati a<br />
riposare fuori <strong>di</strong> città, il conta<strong>di</strong>no <strong>di</strong>sse che era arrivato il momento <strong>di</strong><br />
metterci al lavoro, ciascuno secondo quello che sapeva fare; e allora il<br />
mercante <strong>di</strong>sse che lui sapeva commerciare, ma gli mancava il denaro: e<br />
io <strong>di</strong>ssi che sapevo soltanto regnare, ma mi mancava il regno. Il conta<strong>di</strong>‐<br />
no ribatté che noi due saremmo morti <strong>di</strong> fame, intanto che aspettavamo<br />
il denaro e il regno: lui, invece, aveva forza abbastanza nelle sue braccia<br />
per dar da mangiare a se stesso e a noialtri. Detto fatto, è entrato in città,<br />
ha trovato lavoro, ha guadagnato denaro e l’ha portato a noi. Con questo<br />
denaro il mercante è entrato a sua volta, e ci ha guadagnato <strong>di</strong>eci volte<br />
tanto; poi sono entrato io, ed ecco che sono stato preso e imprigionato<br />
senza nessuna ragione, e già da due giorni non mi si dà da mangiare, e<br />
ora si vorrebbe condannarmi a morte. Ma queste sono tutte cose che non<br />
mi fanno paura, perché io so che tutto viene da Dio, e che, se così vuole
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 135<br />
Dio, voi mi condannerete a morrò innocente; se invece Dio vuole altri‐<br />
menti, voi mi farete vostro re,<br />
Quando il principe ebbe terminato <strong>di</strong> parlare, i giu<strong>di</strong>ci restarono in si‐<br />
lenzio, e non sapevano che cosa <strong>di</strong>re. Allora, d’improvviso, un uomo<br />
gridò in mezzo alla folla: – È stato Dio che ci ha mandato questo princi‐<br />
pe! Un re migliore <strong>di</strong> questo, noi non potremo trovarlo mai! Scegliete lui<br />
come nostro re!<br />
E tutti quanti lo scelsero come loro re.<br />
Dopo che fu eletto re, il principe mandò a cercare fuori <strong>di</strong> città i suoi<br />
due compagni, che fossero condotti da lui. Quando quelli si sentirono<br />
<strong>di</strong>re che li voleva il re, si spaventarono: credettero <strong>di</strong> aver commesso<br />
qualche mancanza mentre erano stati in città. Ma non c’era, per loro,<br />
possibilità <strong>di</strong> fuggire: e furono condotti <strong>di</strong>nanzi al re. Essi si gettarono<br />
subito ai suoi pie<strong>di</strong>; ma il re or<strong>di</strong>nò che s’alzassero.<br />
Allora i due riconobbero il loro compagno. Il re raccontò tutto quello<br />
che gli era accaduto, e <strong>di</strong>sse loro: – Vedete che avevo ragione io? Il male<br />
e il bene, tutto viene da Dio. E per Dio non è più <strong>di</strong>fficile dare il regno a<br />
un principe, che dare a un mercante il suo profitto, o a un conta<strong>di</strong>no il<br />
suo lavoro.<br />
Poi <strong>di</strong>ede a tutt’e due gran<strong>di</strong> ricompense, e li fece stabilire nel suo re‐<br />
gno.<br />
La piccola cornacchia.<br />
(Favola).<br />
Un eremita vide una volta, in un bosco, uno sparviero. Lo sparviero<br />
portava al suo nido un pezzo <strong>di</strong> carne: lacerò quella carne in tanti piccoli<br />
pezzi, e si mise a imbeccare una piccola cornacchia.<br />
L’eremita si meravigliò che uno sparviero imbeccasse così una piccola<br />
cornacchia, e pensò:<br />
«Una piccola cornacchia, anche lei vien protetta da Dio: apposta per<br />
salvarla, Dio ha insegnato a quello sparviero a dare l’imbeccata a una<br />
creaturina d’altra razza, rimasta orfana al mondo. Si vede proprio che<br />
Dio dà il necessario a tutte le creature: e noi, invece, stiamo sempre in<br />
pensiero per noi stessi. Voglio smetterla <strong>di</strong> preoccuparmi <strong>di</strong> me stesso!<br />
Da oggi in poi, non mi procurerò più da mangiare! Dio non abbando‐<br />
na nessuna delle sue creature: non abbandonerà neanche me».<br />
E così fece: si mise a sedere in quel bosco e non si mosse più <strong>di</strong> là:<br />
pregava, pregava, e nient’altro. Per tre giorni e per tre notti rimase così,
136<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
senza bere un sorso d’acqua e senza mangiare un boccone. Dopo tre<br />
giorni, l’eremita s’era tanto indebolito, che non era più capace d’alzare la<br />
mano. Dalla gran debolezza, s’addormentò. Ed ecco apparirgli in sogno<br />
il suo confessore. Il confessore gli veniva accanto, e gli <strong>di</strong>ceva: – Perché<br />
non ti procuri il cibo necessario? Tu cre<strong>di</strong> <strong>di</strong> piacere a Dio, e invece stai<br />
facendo un peccato. Dio ha regolato il mondo in maniera che ogni crea‐<br />
tura si deve procacciare quel che le occorre. Se Dio ha or<strong>di</strong>nato allo<br />
sparviero <strong>di</strong> dare l’imbeccata alla piccola cornacchia, è stato perché la<br />
piccola cornacchia sarebbe morta, senza l’aiuto dello sparviero; ma tu sei<br />
in con<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong> lavorare per conto tuo. Tu, comportandoti così, vuoi<br />
mettere Dio alla prova: e questo è un peccato. Svegliati, su, e torna a la‐<br />
vorare come prima!<br />
L’eremita si svegliò e ricominciò a vivere come aveva fatto sempre.<br />
In che modo io imparai ad andare a cavallo.<br />
(Racconto d’un signore).<br />
Nei mesi che noi stavamo in città, tutti i giorni li passavamo a stu<strong>di</strong>a‐<br />
re; soltanto le domeniche e le giornate <strong>di</strong> festa andavamo a passeggio e<br />
giocavamo tra fratelli. Una volta il babbo <strong>di</strong>sse: – Bisogna che i più<br />
gran<strong>di</strong>celli dei ragazzi imparino ad andare a cavallo. Conduceteli al ma‐<br />
neggio!<br />
Io ero il più piccolo <strong>di</strong> tutti i fratelli, e domandai: – E io, non potrei<br />
imparare? – Il babbo mi rispose: – Tu cadresti! – Ma io mi misi a pregar‐<br />
lo <strong>di</strong> far dare lezione anche a me, e quasi quasi ci piangevo. Allora il<br />
babbo <strong>di</strong>sse: – Bè, va bene, pren<strong>di</strong> lezione anche te. Bada, però, non<br />
piangere quando cadrai. Chi non cade almeno una volta da cavallo, non<br />
imparerà mai a cavalcare.<br />
Quando arrivò il giovedì, tutt’e tre fummo condotti al maneggio. En‐<br />
trammo su un largo pianerottolo, e da questo passammo a un altro pia‐<br />
nerottolo piccino piccino. Di lì, con una scaletta, si scendeva in uno stan‐<br />
zone <strong>di</strong> straor<strong>di</strong>naria grandezza. Quello stanzone, al posto del piancito,<br />
aveva tutta sabbia. E in giro per lo stanzone andavano a cavallo signori e<br />
signore e ragazzetti tali e quali come noi. Quello stanzone era il maneg‐<br />
gio.<br />
Nel maneggio non c’era molta luce, e c’era odore <strong>di</strong> cavalli. Si senti‐<br />
vano i colpi dei frustini, i versi che facevano per incitare i cavalli, e i ca‐<br />
valli che battevano con gli zoccoli contro il legno delle pareti. Io, lì per lì,<br />
mi spaventai, e non riuscivo a <strong>di</strong>stinguere niente. Poi il nostro istitutore
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 137<br />
chiamò il maestro <strong>di</strong> equitazione, e gli <strong>di</strong>sse: – Date dei cavalli a questi<br />
ragazzi: vogliono imparare a cavalcare –. Il maestro rispose: – Benissimo.<br />
Poi allungò un’occhiata a me, e <strong>di</strong>sse: – Questo è piccolo parecchio! –<br />
Ma l’istitutore gli <strong>di</strong>sse: – Lui ha fatto la promessa <strong>di</strong> non piangere,<br />
quando cadrà –. Il maestro si mise a ridere, e s’allontanò.<br />
Furono condotti tre cavalli sellati: noi ci togliemmo il cappotto, e<br />
scendemmo per quella scaletta giù nel maneggio. Il maestro teneva il<br />
cavallo per la corda 131 , e i miei fratelli, uno dopo l’altro, facevano una ca‐<br />
valcata intorno a lui. Da principio andavano al passo; poi, <strong>di</strong> trotto.<br />
Poi fu condotto qua da noi un cavallino <strong>di</strong> statura piccolina: era <strong>di</strong> pe‐<br />
lo rossino, e la coda l’aveva mozza. Si chiamava Zecchino. Il maestro si<br />
mise a ridere, e <strong>di</strong>sse a me: – Forza, cavallerizzo, salite in sella! – Io ero<br />
contento e insieme avevo paura, e cercavo <strong>di</strong> comportarmi in modo che<br />
nessuno s’avvedesse <strong>di</strong> nulla. Per un pezzo mi sforzai d’imbroccare col<br />
piede la staffa, ma proprio non ci riuscivo, perché ero troppo bassino.<br />
Allora il maestro mi sollevò tra le braccia e mi pose in sella. – Non è<br />
pesante, – <strong>di</strong>sse, – il signorino: un paio <strong>di</strong> libbre, <strong>di</strong> più non sarà!<br />
Da principio mi reggeva per un braccio: ma io avevo veduto che i<br />
miei fratelli non li reggeva nessuno, e perciò pregai d’essere lasciato so‐<br />
lo. Il maestro mi <strong>di</strong>sse: – E non avete paura? – Io, <strong>di</strong> paura, ne avevo<br />
molta, ma <strong>di</strong>ssi che non avevo paura. La mia paura veniva soprattutto<br />
dal fatto che Zecchino, a ogni momento, abbassava le orecchie, e io cre‐<br />
devo che fosse inquieto con me. Il maestro <strong>di</strong>sse: – Attenzione, allora, a<br />
non cadere! – E mi lasciò solo.<br />
Zecchino, da principio, andava al passo, e io mi reggevo bene <strong>di</strong>ritto.<br />
Ma la sella era sdrucciolevole, e mi teneva in ansia <strong>di</strong> slittare <strong>di</strong> lato. Il<br />
maestro mi domandò: – Bè, come va? Avete trovato la posizione giusta?<br />
– Io gli risposi: – Si, l’ho trovata! – Dunque, ora, <strong>di</strong> trotto! – E il mae‐<br />
stro fece schioccare la lingua.<br />
Zecchino s’avviò <strong>di</strong> piccolo trotto, e io cominciai a sentirmi sbilicare.<br />
Ma continuavo a far silenzio, e mi sforzavo <strong>di</strong> non piegarmi <strong>di</strong> lato. Il<br />
maestro mi fece le lo<strong>di</strong>: – Bravo il mio cavallerizzo, benissimo! – E io ne<br />
fui tutto contento.<br />
In quel punto, s’avvicinò al maestro un suo collega, e si mise a chiac‐<br />
chierare con lui. Il maestro, così, smise <strong>di</strong> seguirmi con l’occhio.<br />
Tutt’a un tratto, quando già non ci pensavo più, m’accorsi d’essermi<br />
un pochino piegato su un fianco della sella. Feci per raddrizzarmi: mac‐<br />
ché, impossibile! Volevo chiamare il maestro, che fermasse il cavallo, ma<br />
131 Korda: funicella <strong>di</strong> cui ci si serve per far girare i cavalli intorno [N. d. A.].
138<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
mi pareva che fosse vergogna fare così, e non aprii bocca. Il maestro non<br />
guardava affatto dalla parte mia. Zecchino continuava a trotterellare, e<br />
io pencolavo sempre peggio da quel lato. Allungai un’occhiata al mae‐<br />
stro, pensando che lui mi sarebbe venuto in aiuto: ma quello chiacchie‐<br />
rava sempre col suo collega, e, senza neanche sbirciarmi, ripeteva: – È<br />
gamba, il nostro cavallerizzo!<br />
Io ero ormai tutto storto da un lato, e avevo addosso una gran paura.<br />
Pensavo che da un momento all’altro sarei cascato.Ma, a chiamare<br />
aiuto, sentivo sempre vergogna. Zecchino mi <strong>di</strong>ede ancora una scrollata:<br />
io finii <strong>di</strong> scivolare del tutto, e ruzzolai per terra.<br />
Allora Zecchino si fermò: il maestro si girò a guardare, e s’avvide che,<br />
in groppa a Zecchino, io non c’ero più. – Oh guarda guarda! Esclamò. –<br />
Il nostro cavallerizzo ha fatto un capitombolo! – e mi venne vicino.<br />
Quando io gli ebbi detto che non m’ero fatto male, lui scoppiò a ride‐<br />
re, e <strong>di</strong>sse: – I ragazzetti hanno le ossa elastiche! – Ma a me, intanto, ve‐<br />
niva voglia <strong>di</strong> piangere. Chiesi d’essere rimesso in sella, e infatti mi ci<br />
rimisero. E, dopo quella prima caduta, non ne feci più nessun’altra.<br />
Così continuammo a recarci al maneggio due volte la settimana, e ben<br />
presto io imparai a cavalcare bene, e non avevo più paura <strong>di</strong> niente.<br />
L’accetta e la sega.<br />
(Favola).<br />
Due conta<strong>di</strong>ni andarono al bosco per legna. Uno aveva portato un’ac‐<br />
cetta, l’altro una sega. Quando ebbero scelto l’albero, cominciarono a<br />
questionare. Uno <strong>di</strong>ceva che l’albero bisognava abbatterlo con l’accetta,<br />
l’altro <strong>di</strong>ceva che bisognava segarlo.<br />
Un terzo conta<strong>di</strong>no intervenne fra i due: – Ci penso io, – <strong>di</strong>sse, – a<br />
mettervi subito in pace: se l’accetta è ben affilata, sarà meglio dargli<br />
d’accetta, ma se la sega è più affilata ancora, sarà meglio segarlo –. Detto<br />
fatto, agguantò l’accetta e si mise a menar colpi contro l’albero. Ma l’ac‐<br />
cetta aveva il taglio così ottuso, che con essa non era possibile abbattere<br />
un albero.<br />
Quin<strong>di</strong> pigliò la sega: la sega era malconcia, e non tagliava affatto.<br />
Allora il conta<strong>di</strong>no <strong>di</strong>sse: – Aspettate a questionare! L’accetta non in‐<br />
tacca, e la sega non taglia. Prima, arrotate l’accetta e racconciate la sega:<br />
poi questionerete.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 139<br />
Ma gli altri due conta<strong>di</strong>ni andarono più in collera che mai per il fatto<br />
che uno aveva portato l’accetta non arrotata, l’altro la sega sdentata: e<br />
incominciarono a darsi botte da orbi.<br />
Vita della famiglia d’un soldato 132 .<br />
(Racconto d’un conta<strong>di</strong>no).<br />
Campavamo da poveretti in una casa in fondo al villaggio. Io abitavo<br />
con la mamma, con una sorella grande e con la nonna. La nonna andava<br />
vestita con un vecchio grembialone e un abituccio mal ridotto, e in testa<br />
si copriva con un cencio qualsiasi; la pelle, sotto la gola, le pendeva come<br />
una borsetta. A me, la nonna mi voleva più bene della mamma, e mi<br />
compativa <strong>di</strong> più. Mio padre era soldato. Di lui la gente <strong>di</strong>ceva che be‐<br />
veva troppo, e che perciò lo avevano mandato a fare il soldato. Io mi ri‐<br />
cordo, come un sogno, <strong>di</strong> qualche volta che veniva a trovarci in licenza.<br />
La stanza <strong>di</strong> casa nostra era stretta, con un palo nel mezzo per soste‐<br />
gno del tetto: anzi mi ricordo che, un giorno, m’arrampicai su per quel<br />
sostegno, persi l’equilibrio e andai a rompermi la fronte contro una pan‐<br />
ca. E ancora oggi m’è rimasto il segno sulla fronte.<br />
La stanza aveva due finestrelle piccole piccole, e una stava sempre<br />
tappata con uno straccio. Il cortiletto, fuori, era stretto e senza tettoie.<br />
Nel mezzo c’era un vecchio trogolo per le bestie. Noi avevamo, in tut‐<br />
to una vecchia cavalla sfiancata; la vacca non ce l’avevamo: avevamo<br />
due pecorucce malandate e un agnello. Io dormivo sempre con quell’a‐<br />
gnello. Il nostro mangiare era pane e acqua. A lavorare, nessuno <strong>di</strong> noi<br />
era buono: mia madre si lamentava sempre che le doleva il corpo; alla<br />
nonna le doleva sempre la testa, e se ne stava tutto il giorno accanto alla<br />
stufa. Lavorava soltanto mia sorella, ma lei non metteva niente in fami‐<br />
glia, metteva tutto da parte per il suo corredo: si comperava la roba<br />
buona, e faceva i preparativi per maritarsi.<br />
Mi ricordo che mia madre si senti peggio, e poi le nacque un bambi‐<br />
no. Mammina fu sistemata nel locale d’entrata. La nonna si fece impre‐<br />
stare dai vicini il miglio per fare la zuppa, e mandò zio Nefiòd a chiama‐<br />
re il prete. E intanto mia sorella andò a chiamare la gente che doveva<br />
venire al battesimo.<br />
Venne la gente, e portarono tre forme rotonde <strong>di</strong> pane <strong>di</strong> grano. I pa‐<br />
renti si misero a stendere le tavole e a coprirle con le tovaglie. Poi porta‐<br />
132 Letteralmente, «della moglie d’un soldato».
140<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
rono gli sgabelli e un mastello pieno d’acqua. E cos tutti si sedettero ai<br />
loro posti. Quando arrivò il calesse del prete, il compare e la comare si<br />
alzarono e si misero <strong>di</strong>nanzi a tutti, e <strong>di</strong>etro a loro zia Akulina col bam‐<br />
bino fra le braccia. Incominciarono a pregare, poi tirarono fuori dai pan‐<br />
ni il bambino nudo nato, e il prete lo prese e lo tuffò dentro all’acqua. Io<br />
mi spaventai e mi misi a gridare: – Da’ qua il bambino! – Ma la nonna<br />
s’inquietò, e mi <strong>di</strong>sse: – Zitto, sennò ti picchio!<br />
Il prete lo immerse tre volte, poi lo ri<strong>di</strong>ede a zia Akulina. Lei lo avvol‐<br />
tolò in una pezza <strong>di</strong> cotonina, e lo riportò a mia madre nell’an<strong>di</strong>to. Poi<br />
tutti si sedettero a tavola, la nonna portò due ciotole <strong>di</strong> legno piene <strong>di</strong><br />
polentina <strong>di</strong> miglio, ci versò sopra l’olio, e servì la gente. Quando tutti<br />
ebbero mangiato a sazietà, s’alzarono da tavola, ringraziarono la nonna,<br />
e se n’andarono.<br />
Allora io andai dalla mamma, e le <strong>di</strong>ssi: – Ma’ 133 , che nome gli mette‐<br />
te?<br />
Mia madre mi rispose: – Lo stesso nome che hai tu.<br />
Il bambino era magro: le gambette, i braccini, li aveva fini fini, e stava<br />
sempre a strillare. La notte, a qualunque ora ti svegliavi, lui sempre stril‐<br />
lava, e sempre la mamma lo cullava e gli cantava le ninnenanne. Si ra‐<br />
schiava la gola, tossiva, ma gli cantava sempre.<br />
Una notte, io mi svegliai, e che sento? Mia madre piangeva. La nonna<br />
si levò dal letto e le <strong>di</strong>sse: – Che hai, che Dio ti bene<strong>di</strong>ca? – Mia madre<br />
rispose: – Il bambino è morto.<br />
La nonna accese il fuoco, lavò il bambino, gl’infilò una camicina <strong>di</strong><br />
bucato, gli mise una cinta alla vita, e lo accomodò sotto le immagini san‐<br />
te. Quando fu giorno, la nonna uscì <strong>di</strong> casa, e tornò con zio Nefiòd. Zio<br />
Nefiòd aveva portato due vecchie assicelle, e si mise a fare una cassetti‐<br />
na. Fabbricò una cassa da morto piccola piccola, e accomodò il bambino<br />
lì dentro. Poi mia madre andò ad accucciarsi accanto alla cassettina, e<br />
con una voce sottile sottile incominciò a fare le lamentazioni e il pianto.<br />
Poi zio Nefiòd pigliò la cassettina sotto il braccio, e la portò al campo‐<br />
santo.<br />
L’unica allegria che ci fu in casa nostra, fu quando sposammo la mia<br />
sorella grande. Ecco che un giorno arrivarono coi carri certi conta<strong>di</strong>ni:<br />
s’erano portate <strong>di</strong>etro forme <strong>di</strong> pane e acquavite. E si misero a offrire<br />
della loro acquavite a mia madre. Mia madre ne bevve un bicchiere. Poi<br />
zio Ivàn tagliò una fetta <strong>di</strong> quel pane, e gliela <strong>di</strong>ede a mangiare. Io stavo<br />
133 Così anche nel testo russo, con un <strong>di</strong>minutivo per «mamma» che coincide con<br />
molti <strong>di</strong>aletti italiani e con altre lingue straniere.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 141<br />
in pie<strong>di</strong> accanto al tavolo, e mi venne voglia d’un po’ <strong>di</strong> pane. Tirai la<br />
mamma verso <strong>di</strong> me, fin, ché non mi si fu curvata sopra, e glielo <strong>di</strong>ssi in<br />
un orecchio. La mamma si mise a ridere, e zio Ivàn le <strong>di</strong>sse: – Che cosa<br />
vuole, un po’ <strong>di</strong> panino? – e me ne tagliò una fetta grossa. Io presi il pa‐<br />
ne e me ne andai nello sgabuzzino della <strong>di</strong>spensa. Proprio là nello sga‐<br />
buzzino se ne stava rinchiusa mia sorella. Subito incominciò a doman‐<br />
darmi: – Che <strong>di</strong>cono, <strong>di</strong> là, quei conta<strong>di</strong>ni? – Io le risposi: – Stanno a bere<br />
l’acquavite! – Lei scoppiò a ridere e <strong>di</strong>sse: – Sono venuti a combinare il<br />
mio fidanzamento con Kondraska.<br />
Poi venne il giorno che bisognava fare lo sposalizio. Tutti s’alzarono a<br />
buonora. La nonna accese la stufa, la mamma fece la pasta per gli sfor‐<br />
mati dolci, e zia Akulina lavò la carne da cuocere.<br />
Mia sorella si calzò le scarpe nuove, indossò un vestito rosso e un faz‐<br />
zoletto buono, e stava lì senza fare niente. Poi, quando la stufa fu ben<br />
avviata, anche mia madre si cambiò, e incominciarono a venire a casa<br />
nostra un sacco <strong>di</strong> gente: tutta la stanza era piena.<br />
Poi al cancello del nostro cortile arrivarono tre tiri a due, coi campa‐<br />
nelli. E sul tiro più in<strong>di</strong>etro <strong>di</strong> tutti c’era Kondraska, lo sposo, con un caf‐<br />
fettano nuovo e un cappello alto in testa. Lo sposo scese dalla carretta e<br />
venne dentro casa. Alla sposa fu fatta indossare una pelliccia nuova, e fu<br />
condotta <strong>di</strong>nanzi allo sposo. Tutt’e due, sposo e sposa, furono fatti ac‐<br />
comodare a tavola, e le donne si misero a cantare le loro lo<strong>di</strong>. Poi loro<br />
s’alzarono da tavola, fecero una preghiera, e uscirono da casa. Kondra‐<br />
ska fece salire mia sorella su una <strong>di</strong> quelle carrette, e lui sali su un’altra.<br />
Tutti quanti presero posto sulle carrette, si fecero il segno della croce,<br />
e partirono. Io me ne tornai in casa, e mi sedetti accanto alla finestra, a‐<br />
spettando che il corteo degli sposi fosse <strong>di</strong> ritorno. Mia madre mi <strong>di</strong>ede<br />
un pezzetto <strong>di</strong> pane: io lo mangiai, e appena mangiato, m’addormentai.<br />
Mi svegliò mia madre, <strong>di</strong>cendomi: – Arrivano! – e subito mi mise in<br />
mano il matterello per spianare la pasta, e mi fece sedere lì a tavola.<br />
Kondraska e mia sorella entrarono nella stanza, e appresso a loro un<br />
sacco <strong>di</strong> gente, ancora più <strong>di</strong> prima. Anche <strong>di</strong> fuori, sulla strada, c’era<br />
gente, e tutti, dalle finestre, guardavano a noi. Zio Gherasim era il com‐<br />
pare; s’accostò qua da me, e mi <strong>di</strong>sse: – Via da tavola, tu! – Io mi spaven‐<br />
tai, e feci atto <strong>di</strong> andarmene; ma la nonna mi <strong>di</strong>sse: – Fagli vedere il mat‐<br />
terello, e rispon<strong>di</strong>gli: – Lo ve<strong>di</strong> che ci ho io? – Come lei mi <strong>di</strong>sse, così io<br />
feci.<br />
Allora zio Gherasim mise delle monetine in un bicchiere, ci mescé so‐<br />
pra l’acquavite, e me l’offrì. Io pigliai il bicchiere e lo <strong>di</strong>e<strong>di</strong> alla nonna.<br />
Fatto questo, noialtri d levammo <strong>di</strong> tavola, e loro s’accomodarono.
142<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Poi incominciarono a portare in tavola acquavite, carne in gelatina,<br />
manzo lesso; e si misero a cantare in coro e a ballare. A zio Gherasim of‐<br />
frirono un bicchiere pieno: lui ne bevve un sorso, e <strong>di</strong>sse: – Quest’acqua‐<br />
vite mi sa <strong>di</strong> amaro! – Allora mia sorella pigliò Kondraska per le orec‐<br />
chie e si mise a baciarlo. Ancora per un pezzo seguitarono a cantare in<br />
coro e a ballare; alla fine, se ne andarono tutti, e anche Kondraska si por‐<br />
tò via mia sorella a casa sua.<br />
Dopo d’allora, incominciò per noialtri una vita ancora più povera.<br />
Vendemmo la cavalla e le pecore che ci restavano, e spesso spesso, in<br />
casa nostra, perfino il pane ci mancava. Mia madre andava a prenderlo<br />
in prestito dai parenti. Non passò molto che anche la nonna morí. Mi ri‐<br />
cordo che mia madre faceva il pianto per lei e le lamentazioni: – Madre<br />
bella del mio cuore! In mano a chi mi hai lasciata, misera me, sfortunata?<br />
A chi hai abbandonato la creatura tua infelice? Da chi andrò, ora, a<br />
prendere consiglio? Come farò a tirare innanzi a questo mondo? – E così<br />
durò un pezzo a urlare e a fare le lamentazioni.<br />
Un bel giorno, me n’ero andato con altri ragazzi sulla strada maestra<br />
a pascolare i cavalli, ed ecco che vedo venire un soldato con una sacchet‐<br />
ta sulle spalle. S’avvicina a noi ragazzi, e domanda: – Di che villaggio<br />
siete, ragazzi? – Noialtri, – gli rispon<strong>di</strong>amo, –siamo <strong>di</strong> Nikòlskoie. – Di‐<br />
temi, allora: c’è sempre, da voi, la moglie <strong>di</strong> quel soldato, Matriòna? –<br />
Allora io gli faccio: – Altro se c’è: è mamma mia! – Il soldato mi dà<br />
un’occhiata, e mi <strong>di</strong>ce: – E il tuo babbo, lo hai mai veduto? – Io rispondo:<br />
– Lui fa il soldato, non l’ho veduto mai –. Il soldato, allora, mi <strong>di</strong>ce: –<br />
Bè, vieni con me: conducimi tu a casa <strong>di</strong> Matriòna, ché io ho portato<br />
per lei una lettera <strong>di</strong> tuo padre! – Io gli <strong>di</strong>co: – Che lettera sarebbe? – Ma<br />
quello mi fa: – Ora an<strong>di</strong>amo, lo vedrai! – Perché no, an<strong>di</strong>amo pure!<br />
Il soldato riprese il cammino insieme con me, ma d’un passo così<br />
svelto, che io, <strong>di</strong> corsa, faticavo a tenergli <strong>di</strong>etro. Ecco che arriviamo a<br />
casa nostra. Il soldato fece la sua preghiera, e poi <strong>di</strong>sse: – Salute a tutti! –<br />
Poi si tolse <strong>di</strong> dosso il pastrano, andò a sedersi sulla cassa, guardò e<br />
riguardò tutt’in giro per la stanza, la famiglia è tutta qui? – Mia madre<br />
s’era tanto confusa che non apriva bocca: guardava il soldato, e<br />
nient’altro; Lui <strong>di</strong>sse ancora: – E la mamma, dov’è? – e intanto, gli veni‐<br />
va da piangere. Allora mia madre gli corse accosto e incominciò a baciar‐<br />
lo. E anch’io m’arrampicai sulle sue ginocchia, e incominciai a frugargli<br />
nelle tasche. Lui, a vedere così, smise <strong>di</strong> piangere, e si mise a ridere.<br />
Poi venne in casa gente, e mio padre salutava tutti quanti, e racconta‐<br />
va che stavolta era venuto via per sempre, in congedo.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 143<br />
Quando fu l’ora che il bestiame tornava dal pascolo, arrivò in casa<br />
anche la mia sorella grande, e scambiò un bacio col babbo. Ma subito il<br />
babbo domandò: – Di che famiglia è, questa massaietta così giovane?—<br />
Mia madre scoppiò a ridere, e <strong>di</strong>sse: – È sua figlia, e non l’ha ricono‐<br />
sciuta! – Allora mio padre la richiamò accanto a lui, e la ribaciò, e le do‐<br />
mandò come s’era sistemata.<br />
Poi la mamma andò a cuocere una frittata, e mandò mia sorella a<br />
comprare da bere. Mia sorella tornò con la bottiglia piena, tappata con<br />
un batuffolo <strong>di</strong> carta, e la pose in tavola. Disse il babbo: – E questa, che<br />
roba è? – Rispose la mamma: – Un pochino d’acquavite per te! – Ma lui<br />
<strong>di</strong>sse: – No, va già per i cinqu’anni che io non bevo più. La frittata, quel‐<br />
la si, portala qua! – Fece la sua preghiera, si sedette a tavola, e incomin‐<br />
ciò a mangiare. Poi <strong>di</strong>sse: – Se non avessi smesso <strong>di</strong> bere, neanche sarei<br />
<strong>di</strong>ventato sergente, e a casa non avrei riportato un bel nulla: ora, inve‐<br />
ce... Dio sia lodato! – Tirò fuori dalla sacchetta un borsello pieno <strong>di</strong> mo‐<br />
nete, e lo consegnò a mia madre. Mia madre, tutta contenta, non perse<br />
tempo, e andò a nasconderlo al sicuro.<br />
Poi, quando tutti se ne furono andati alle loro case, mio padre si cori‐<br />
cò sulla panca più interna della stanza, e mi fece adagiare <strong>di</strong> fianco a lui,<br />
mentre la mamma si stendeva ai nostri pie<strong>di</strong>. E per un pezzo essi segui‐<br />
tarono a <strong>di</strong>scorrere tra loro, che quasi quasi era mezzanotte. Poi io m’ad‐<br />
dormentai.<br />
Alla mattina, mia madre <strong>di</strong>sse: – Oh, che <strong>di</strong> legna non ce ne ho più! –<br />
Rispose mio padre: – Un’accetta, ce l’hai? – Ce l’ho, ma tutta sbrecca‐<br />
ta, non vale niente! – Mio padre si calzò per bene, prese l’accetta, e usci<br />
in cortile. Io gli corsi <strong>di</strong>etro.<br />
Mio padre strappo’ giù dal tetto un travicello, lo aggiustò sul trogolo,<br />
levò alta l’accetta, con pochi colpi robusti lo ridusse in tanti pezzi, portò<br />
tutto in casa, e <strong>di</strong>sse: – Ebbene, eccoti qua la legna, accen<strong>di</strong>ci la stufa; io,<br />
intanto, vado a vedere se trovo da comprare il legname per fabbricare<br />
una casa nuova, e le stalle. Anche una vacca bisognerà comprare!<br />
La mamma <strong>di</strong>sse: – Oh, chissà quanti sol<strong>di</strong> ci vorranno, per fare ogni<br />
cosa!<br />
Ma le rispose mio padre: – E noi lavoreremo! Non ve<strong>di</strong>, qua, che con‐<br />
ta<strong>di</strong>no abbiamo, che vien su? – Mio padre fece segno a me.<br />
Dunque mio padre fece la sua preghiera, mangiò un po’ <strong>di</strong> pane, si<br />
vestì, e <strong>di</strong>sse alla mamma: – Se ci fossero delle uova fresche, cuocimele<br />
sotto la cenere per pranzo –. E se ne andò.<br />
Stette un pezzo, mio padre, a ritornare. Io mi misi a pregare la mam‐<br />
ma che mi lasciasse andare incontro al babbo. Lei non cedeva. Io feci per
144<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
uscire lo stesso, ma lei non me la <strong>di</strong>ede vinta, e mi picchiò. Io mi appol‐<br />
laiai sulla stufa, e incominciai a piangere. In quel momento mio padre<br />
rientrò in casa, e mi <strong>di</strong>sse: – Perché piangi? – Io gli feci: – Volevo scap‐<br />
parti incontro, ma la mamma non mi ha lasciato uscire, e per giunta mi<br />
ha picchiato! – e più forte che mai scoppiai a piangere. Il babbo si mise a<br />
ridere, andò accosto alla mamma, fece finta <strong>di</strong> picchiarla, e intanto le ri‐<br />
peteva: – Tu non devi toccarlo, Fedoruccio! Tu non devi toccarlo, Fedo‐<br />
ruccio! – La mamma, per finta, si mise a piangere; mio padre si mise a<br />
ridere, e <strong>di</strong>sse: – Si vede proprio che tu e Fedoruccio avete le lacrime in<br />
tasca: per un nonnulla, giù a piangere! – Poi mio padre s’accomodò a ta‐<br />
vola, mi fece sedere <strong>di</strong> fianco a lui, e gridò: – Su, ora portaci qua, per me<br />
e per Fedoruccio, questo pranzo: noialtri vogliamo mangiare!<br />
La mamma ci portò la polentina <strong>di</strong> miglio e le uova, e noi ci mettem‐<br />
mo a mangiare. E la mamma, intanto, <strong>di</strong>sse: – Bè, che hai fatto, poi, <strong>di</strong><br />
quel legname? – E il babbo rispose: – L’ho comprato: ottanta rubli, tutto<br />
<strong>di</strong> tiglio, bianco che pare il vetro! Lascia che venga il momento, paghe‐<br />
remo ai conta<strong>di</strong>ni da bere, e loro ce lo porteranno coi carri, una domeni‐<br />
ca...<br />
Da allora in poi, incominciammo a campare bene.<br />
Il gatto e i sorci.<br />
(Favola).<br />
In una casa s’era creato un gran numero <strong>di</strong> sorci. Un gatto s’intrufolò<br />
nella casa, e si mise ad acchiappare i sorci. S’avvidero, i sorci, che la fac‐<br />
cenda andava male, e <strong>di</strong>ssero: – Sapete che facciamo, ragazzi? Non<br />
scen<strong>di</strong>amo più dal soffitto: così, fin quassù, gatto non potrà arrivarci!<br />
Non appena i sorci ebbero smesso <strong>di</strong> scendere in basso, il gatto cercò<br />
tra sé il modo d’essere più furbo <strong>di</strong> loro. S’attaccò con una zampetta al<br />
soffitto, e così si lasciò penzolare, facendo finta d’essere morto. Uno dei<br />
sorci lo adocchiò in quella posizione, ma gli <strong>di</strong>sse: — No, fratello! Ti ri‐<br />
ducessi pure a sembrare un sacchetto, nemmeno allora mi ti accosterei!<br />
Il ghiaccio, l’acqua e il vapore.<br />
(Considerazioni).<br />
Il ghiaccio può essere duro come una pietra. Se, tra il ghiaccio, ci resta<br />
congelato un bastone, non riuscirai a strapparlo fuori finché non avrai
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 145<br />
riscaldato e squagliato il ghiaccio. Quando il ghiaccio è freddo, i carri ca‐<br />
richi ci passano sopra senza sprofondare; e se anche ci fai cadere <strong>di</strong><br />
schianto un masso <strong>di</strong> ferro d’un quintale e mezzo, il ghiaccio non si<br />
sfonderà,<br />
Quanto più freddo è il ghiaccio, tanto più forte è. Non appena il<br />
ghiaccio sente il calore, s’indebolisce, <strong>di</strong>venta come una polentina; se un<br />
oggetto c’era rimasto congelato dentro, si riesce a cavarlo fuori con la<br />
mano; sotto i pie<strong>di</strong> si sfonda, e non sostiene più neanche una libbra <strong>di</strong><br />
ferro. Quando il ghiaccio viene riscaldato ancora, si converte in acqua.<br />
Qualunque oggetto, dall’acqua, si cava fuori con facilità, e l’acqua<br />
non sostiene più nessun oggetto, all’infuori del legno. Se l’acqua, a sua<br />
volta, viene riscaldata, <strong>di</strong>venterà ancora meno capace <strong>di</strong> sostenere una<br />
cosa qualsiasi. Nell’acqua fredda è più facile nuotare che in quella calda.<br />
E nell’acqua bollente, poi, perfino il legno va a fondo.<br />
Continuando sempre a riscaldare l’acqua, finirà che essa andrà tutta<br />
in vapore: e il vapore non sostiene più assolutamente nulla, e tende, da<br />
parte sua, a spandersi in tutte le <strong>di</strong>rezioni.<br />
Facendo bollire l’acqua sotto un coperchio, l’acqua svapora e si posa<br />
in tante gocce sotto il coperchio: <strong>di</strong> lì cola in basso, e ri<strong>di</strong>venta acqua. A<br />
raccogliere quest’acqua, e ad esporla al gelo, ri<strong>di</strong>venterà ghiaccio.<br />
Riscaldate l’acqua: <strong>di</strong>venterà vapore; fate gelare l’acqua: <strong>di</strong>venterà<br />
ghiaccio. È sempre la medesima acqua che si trova allo stato gassoso<br />
quando è calda, allo stato solido quando si gela.<br />
Nel ghiaccio non c’è calore affatto; nell’acqua ce n’è un pochino; nel<br />
vapore ce n’è moltissimo.<br />
Se sul ghiaccio si posa un altro blocco <strong>di</strong> ghiaccio, questo blocco <strong>di</strong><br />
ghiaccio non si riscalda e non si raffredda.<br />
Ma se si versa dell’acqua sul ghiaccio, il ghiaccio si farà più tiepido, e<br />
l’acqua più fredda. Se l’acqua sarà molta, il ghiaccio si scioglierà ad<strong>di</strong>rit‐<br />
tura: e l’acqua si gelerà, se sarà molto il ghiaccio. Se poi contro il ghiaccio<br />
si manderà del vapore, il ghiaccio si farà più tiepido e il vapore si farà<br />
più freddo: il ghiaccio si scioglierà fino a convertirsi in acqua, e il vapore<br />
si raffredderà fino a convertirsi anch’esso in acqua.<br />
Quando l’acqua è fredda, e l’aria è fredda ugualmente, allora l’acqua<br />
non si riscalderà, e l’aria non si raffredderà. Ma se l’aria è calda, e<br />
l’acqua è fredda, che cosa accadrà? Accadrà che dall’aria il calore passe‐<br />
rà nell’acqua: l’acqua <strong>di</strong>venterà sempre più calda, e l’aria sempre più<br />
fredda, fin tanto che l’una e l’altra non si saranno pareggiate.
146<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Quando l’aria è più calda dell’acqua, l’acqua si riscalderà, e l’aria si<br />
raffredderà; quando l’acqua è la più calda delle due, l’aria si riscalderà, e<br />
l’acqua si raffredderà.<br />
Se, dall’acqua allo stato liquido, verrà a formarsi, nell’aria, dell’acqua<br />
allo stato <strong>di</strong> ghiaccio, vuol <strong>di</strong>re che l’acqua era più calda dell’aria: in<br />
queste con<strong>di</strong>zioni, l’acqua si raffredda e l’aria si riscalda.<br />
Se, nell’aria, l’acqua allo stato gassoso <strong>di</strong>venterà acqua allo stato li‐<br />
quido, vuol <strong>di</strong>re che l’aria era più fredda dell’acqua allo stato gassoso: in<br />
queste con<strong>di</strong>zioni, l’acqua si raffredda, e l’aria si riscalda.<br />
Se dall’acqua allo stato solido verrà a formarsi, nell’aria, acqua allo<br />
stato liquido, vuol <strong>di</strong>re che l’aria era la più calda delle due: in queste<br />
con<strong>di</strong>zioni l’aria si raffredda, si condensa, e il ghiaccio si riscalda.<br />
Se nell’aria verrà a formarsi, dall’acqua, il vapore (cioè, se l’acqua si<br />
rasciugherà), vuol <strong>di</strong>re che l’aria era la più calda: essa, in queste con<strong>di</strong>‐<br />
zioni, si raffredda, e l’acqua si riscalda.<br />
Il ghiaccio non si può usare come mezzo <strong>di</strong> riscaldamento, ma l’acqua<br />
e il vapore si possono usare. Ecco in che modo il vapore si può usare<br />
come mezzo <strong>di</strong> riscaldamento: si porta dell’acqua, in inverno, in un loca‐<br />
le freddo. Quando l’acqua si gelerà, produrrà del ghiaccio quando si ge‐<br />
lerà <strong>di</strong> nuovo, produrrà altro ghiaccio. E nel locale farà sempre più cal‐<br />
do, e il caldo arriverà al punto che l’acqua smetterà <strong>di</strong> gelarsi. Per quale<br />
ragione avviene questo? Per la ragione che, quando l’acqua si gela, essa<br />
fa passare nell’aria il soprappiú <strong>di</strong> calore che conteneva, e ne farà passa‐<br />
re fin tanto che l’aria si sarà riscaldata, e l’acqua smetterà <strong>di</strong> coprirsi <strong>di</strong><br />
ghiaccio.<br />
Col vapore si può riscaldare in questo modo: si fa entrare del vapore<br />
in un locale freddo. Il vapore comincerà a freddarsi a poco a poco, colerà<br />
verso il basso in forma <strong>di</strong> gocce, e si convertirà in acqua. Portando via<br />
quest’acqua, nel locale ci sarà caldo. Per quale ragione avviene questo?<br />
Per la ragione che, non appena il vapore si converte in acqua, esso fa<br />
passare nell’aria il soprappiú <strong>di</strong> calore che conteneva.<br />
Quando l’acqua si converte in ghiaccio, e il vapore si converte in ac‐<br />
qua, il calore dell’acqua e del vapore passa nell’aria, e allora l’aria <strong>di</strong>ven‐<br />
ta più calda. Quando invece il ghiaccio si converte in acqua, e l’acqua si<br />
converte in vapore, il calore dell’aria passa nell’acqua e nel vapore, e al‐<br />
lora l’aria <strong>di</strong>venta più fredda.<br />
Se avrai bisogno <strong>di</strong> freddare una stanza troppo calda, portaci del<br />
ghiaccio e lascialo sciogliere. Per quale ragione farà piú freddo? Per la<br />
ragione che il ghiaccio, per <strong>di</strong>ventare acqua, dovrà assorbire il calore che<br />
è nell’aria.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 147<br />
Così pure, per freddare una stanza, potrai versarci dell’acqua e la‐<br />
sciarcela asciugare. Per quale ragione otterrai un raffreddamento? Per la<br />
ragione che l’acqua si convertirà in vapore: e, per convertirsi in vapore,<br />
l’acqua assorbirà gran parte del calore che è nell’aria.<br />
Per la stessa ragione, fa più freddo quando piove, e fa più caldo<br />
quando il tempo si prepara a piovere. Infatti, quando piove, l’acqua via<br />
via si rasciuga, svapora e assorbe calore; ma quando si prepara a piove‐<br />
re, ci sono dei vapori in giro nell’aria, e questi vapori si raffreddano for‐<br />
mando le nubi: da essi, appunto, viene calore.<br />
E noi, allora, <strong>di</strong>ciamo che sembra <strong>di</strong> stare in un bagno a vapore.<br />
La quaglia e i suoi pulcini.<br />
(Favola).<br />
I conta<strong>di</strong>ni falciavano i prati. In un prato, al riparo d’una zolla <strong>di</strong> ter‐<br />
ra, c’era un nido <strong>di</strong> quaglie.<br />
La quaglia madre, tornando a volo con l’imbeccata, arrivò al suo ni‐<br />
do, e vide che, giro giro, tutto era già stato falciato. Subito <strong>di</strong>sse ai suoi<br />
pulcini: — Ah, bambini miei, che guaio c’è capitato fra capo e collo! Ora<br />
state zitti zitti, e non fate nessun movimento, sennò sarebbe una rovina!<br />
Appena fa sera, vi porterò in un altro posto.<br />
Ma i pulcini erano tutti contenti che lì nel prato fosse venuta più luce,<br />
e <strong>di</strong>cevano: — La mamma è vecchia: apposta non vuole che noi facciamo<br />
festa! — E si misero a pigolare e a fischiare.<br />
Certi ragazzi che portavano il pranzo ai falciatori, sentirono il verso<br />
dei pulcini <strong>di</strong> quaglia: accorsero, e strapparono a tutti le testoline.<br />
Bulka.<br />
(Racconto d’un ufficiale).<br />
Io avevo un cane mastino. Si chiamava Bulka. Era tutto nero: solo le<br />
estremità delle zampe davanti erano bianche.<br />
In tutti i mastini, la mascella <strong>di</strong> sotto è più lunga <strong>di</strong> quella <strong>di</strong> sopra, e i<br />
denti <strong>di</strong> sopra restano in<strong>di</strong>etro a quelli <strong>di</strong> sotto; ma a Bulka la mascella <strong>di</strong><br />
sotto sporgeva talmente in avanti, che c’era posto per ficcare un <strong>di</strong>to,<br />
comodamente, nello scarto fra i denti. La faccia <strong>di</strong> Bulka era larga; gli oc‐<br />
chi gran<strong>di</strong>, neri e brillanti; i denti, soprattutto i canini, bianchissimi,
148<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
sempre ben esposti in fuori. Aveva una certa rassomiglianza con un ne‐<br />
gro.<br />
Bulka era pacifico e non aveva il vizio <strong>di</strong> mordere, ma era molto ro‐<br />
busto e aveva una presa fortissima. Quando s’attaccava a qualche cosa,<br />
serrava i denti e ci restava appeso come un cencio: non si riusciva più in<br />
nessun modo a staccarlo, né più né meno che se fosse una zecca.<br />
Una volta lo avevano aizzato contro un orso, e lui s’era attaccato all’o‐<br />
recchio dell’orso e c’era rimasto appeso come una sanguisuga. L’orso lo<br />
malmenava con le zampe, se lo serrava contro il petto, lo sbalestrava <strong>di</strong><br />
qua e <strong>di</strong> là, ma non riusciva a staccarselo <strong>di</strong> dosso, e aveva finito per ro‐<br />
tolarsi con la testa contro terra, cercando <strong>di</strong> schiacciare Bulka: ma Bulka<br />
non allentava la presa, fin tanto che non lo ebbero annaffiato ben bene<br />
d’acqua gelata.<br />
Io lo avevo preso da cucciolo, e avevo pensato da me ad allevarlo.<br />
Quando partii per il Caucaso, non volevo portarmelo <strong>di</strong>etro:<br />
m’allontanai da lui alla chetichella, e <strong>di</strong>e<strong>di</strong> or<strong>di</strong>ne che lo chiudessero a<br />
chiave. Arrivato alla prima stazione <strong>di</strong> tappa, stavo già per salire su<br />
un’altra carrozza, quando a un tratto m’accorsi che, lungo la strada mae‐<br />
stra, rotolava in questa <strong>di</strong>rezione una cosa nera e rilucente. Era Bulka col<br />
suo collare <strong>di</strong> metallo. Correva a per<strong>di</strong>fiato verso la stazione. Mi si slan‐<br />
ciò addosso, mi leccò la mano, poi si stese lungo nell’ombra della car‐<br />
rozza. La lingua gli penzolava in fuori d’un buon palmo. Ora la ritirava<br />
dentro, inghiotte: la saliva, ora tornava a spenzolarla quant’era lunga.<br />
Aveva un affanno talmente precipitoso, che il respiro gli restava in<br />
tronco.<br />
Si voltolava ora su un fianco ora sull’altro, e con la coda tamburellava<br />
contro il terreno.<br />
Come seppi poi, quando s’era accorto che io ero partito, aveva sfon‐<br />
dato la finestra ed era saltato all’aperto: e senz’altro, seguendo la mia<br />
traccia, s’era lanciato <strong>di</strong> galoppo per la strada maestra e così <strong>di</strong> galoppo<br />
aveva percorso tutto d’un fiato venti chilometri nel colmo del caldo.<br />
Bulka e il cinghiale.<br />
(Racconto).<br />
Un giorno, mentre stavo nel Caucaso, andammo a caccia <strong>di</strong> cinghiali,<br />
e Bulka volle venire con me. Non appena i segugi incominciarono a in‐<br />
seguire la fiera, Bulka si lanciò <strong>di</strong>etro alle loro voci, e sparì nel bosco. Era
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 149<br />
novembre: i cinghiali maschi e le troie, <strong>di</strong> quella stagione, sono molto<br />
grassi.<br />
Nel Caucaso, per i boschi dove vivono i cinghiali, c’è abbondanza <strong>di</strong><br />
frutti saporosi: uva selvatica, pigne, mele, pere, funghi, ghiande, bacche<br />
<strong>di</strong> spino. E quando tutti questi frutti arrivano a maturazione, e vengono<br />
infrolliti dal gelo, i cinghiali hanno cibo a sazietà, e così ingrassano.<br />
Accade, <strong>di</strong> quella stagione, che il cinghiale sia talmente grasso, da<br />
non poter correre molto a lungo <strong>di</strong>nanzi alla muta dei cani. Dopo che è<br />
stato inseguito per un paio d’ore, va a ficcarsi in un folto, e là si ferma.<br />
Allora i cacciatori accorrono nel punto dove lui resta immobile, e gli<br />
sparano addosso. Dal modo come abbaiano i cani, si può indovinare se il<br />
cinghiale s’è fermato, o se continua a correre. Se continua a correre, i ca‐<br />
ni abbaiano con una specie <strong>di</strong> guaito, come se li frustassero; se invece s’è<br />
fermato, abbaiano come fanno contro un uomo, e ululano.<br />
In quella giornata <strong>di</strong> caccia io corsi a lungo qua e là per il bosco, ma<br />
non mi capitò neppure una volta <strong>di</strong> traversare la strada al cinghiale. Alla<br />
fine, mi giunse all’orecchio l’abbaio prolungato e lamentoso dei segugi, e<br />
corsi da quella parte. Mi trovavo già vicino al cinghiale. Già <strong>di</strong>stinguevo<br />
lo schianto dei rami nel folto. Era il cinghiale che stava alle prese coi ca‐<br />
ni. Ma si sentiva, al modo d’abbaiare, che i cani non lo avevano afferrato:<br />
si limitavano girargli attorno. Improvvisamente, sentii un fruscio alle<br />
mie spalle, e avvistai Bulka. Doveva aver perduto i segugi tra il bosco,<br />
smarrendo la strada: ma ora aveva u<strong>di</strong>to i loro abbai e, allo stesso modo<br />
che avevo fatto io, s’era lanciato da questa parte con quanto fiato aveva.<br />
Veniva avanti <strong>di</strong> corsa per una radura, attraverso l’erba alta, e io non<br />
scorgevo nient’altro che la sua testa nera e la lingua stretta fra il bianco<br />
dei denti. Lo chiamai, ma non si voltò: passò oltre, e scomparve nel folto.<br />
Io gli corsi <strong>di</strong>etro, ma via via che m’avanzavo, il bosco <strong>di</strong>ventava<br />
sempre più fitto e intricato. I rametti mi strappavano il cappello, mi bat‐<br />
tevano in faccia; le spine dei pruni mi uncinavano il vestito. Ero, ormai,<br />
vicinissimo all’abbaiare dei cani, ma non riuscivo a <strong>di</strong>stinguere nulla.<br />
D’improvviso sentii rinforzare il latrato: qualche cosa <strong>di</strong>ede un gran‐<br />
de schianto: e il cinghiale si mise ad anfanare e a rantolare. Pensai subito<br />
che Bulka lo avesse raggiunto, e ci stesse lottando insieme. Facendo un<br />
ultimo sforzo, mi spinsi in fretta, attraverso il folto, fino a quel punto.<br />
Nel più cupo del forteto mi apparve il manto pezzato d’uno dei se‐<br />
gugi. Abbaiava e gemeva senza spostarsi <strong>di</strong> lì: e, tre passi <strong>di</strong>stante, si<br />
muoveva qualche cosa <strong>di</strong> nero.<br />
Quando mi fui spinto più da presso, <strong>di</strong>stinsi il cinghiale, e u<strong>di</strong>i il<br />
guaito lacerante <strong>di</strong> Bulka. Il cinghiale emise un grugnito e s’avventò con‐
150<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
tro quel segugio, che rimpiattò la coda fra le gambe e balzò lontano. A<br />
me, allora, si scoprí il fianco del cinghiale, e la testa. Mirai al fianco e<br />
sparai. Vi<strong>di</strong> che lo avevo centrato. Il cinghiale grugnì e si <strong>di</strong>lungò da me,<br />
schiantando i rami tra il folto. I cani, stridendo e abbaiando, gli si butta‐<br />
rono <strong>di</strong>etro; io, tra quel folto, mi aprii un varco <strong>di</strong>etro a loro.<br />
Quand’ecco, improvvisamente, quasi <strong>di</strong>nanzi ai pie<strong>di</strong>, mi vi<strong>di</strong>, u<strong>di</strong>i<br />
un non so che. Era Bulka. Giaceva su un fianco e guaiva. Sotto <strong>di</strong> lui,<br />
c’era una pozza <strong>di</strong> sangue. Dissi tra me: «È finita, povera bestia»; ma in<br />
quel momento avevo altro da pensare, e cercai <strong>di</strong> aprirmi un varco più<br />
oltre. Di lì a poco, infatti, il cinghiale mi apparve alla vista. I cani lo te‐<br />
nevano per il deretano, e il cinghiale si rivoltava in<strong>di</strong>etro, <strong>di</strong> scatto, ora<br />
da una parte ora dall’altra. Quando si fu avveduto <strong>di</strong> me, mi s’avventò<br />
contro. Io sparai un altro colpo, quasi a bruciapelo, tanto che le setole si<br />
bruciacchiarono addosso alla bestia. Poi il cinghiale emise un rantolo,<br />
barcollò e, <strong>di</strong> schianto, con un tonfo greve, crollò a terra.<br />
Quando gli fui sopra, il cinghiale era già morto: solo a tratti, ora in un<br />
punto ora in un altro del corpo, gli appariva un groppo, una contrazio‐<br />
ne. Ma i segugi, ormai, s’erano inferociti: e chi gli addentava il ventre e<br />
le cosce, chi gli leccava il sangue delle ferite.<br />
Soltanto allora io mi rammentai <strong>di</strong> Bulka, e tornai in<strong>di</strong>etro a ricercar‐<br />
lo. Anche lui mi stava strisciando incontro, e si lamentava. Io m’accostai,<br />
m’accovacciai accanto a lui, ed esaminai la sua ferita. Aveva il ventre<br />
squarciato, e la matassa delle budella, che ne era uscita fuori, si trascina‐<br />
va sulle foglie secche. Quando i miei compagni <strong>di</strong> caccia mi ebbero rag‐<br />
giunto, rimettemmo a posto a Bulka le budella, e gli cucimmo il ventre.<br />
Intanto che gli si davano i punti al ventre, e gli si facevano i fori nella<br />
pelle, lui non smetteva mai <strong>di</strong> leccarmi le mani.<br />
Il cinghiale fu legato alla coda d’un cavallo per essere trasportato fuo‐<br />
ri dal bosco; e Bulka fu posto sulla groppa del, cavallo, e così portato fi‐<br />
no a casa. Rimase ammalato, Bulka, per sei settimane; poi guarì.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 151<br />
I fagiani.<br />
(Descrizione).<br />
Nel Caucaso 134 i fagiani sono tanti che, da quelle parti, costano meno<br />
del pollame domestico. Ne vanno a caccia in tre mo<strong>di</strong>: con la cavallina, a<br />
pollo e a frullo.<br />
Con la cavallina la caccia si svolge così: si prende un pezzo <strong>di</strong> tela da<br />
barca, e si stende su un telaio <strong>di</strong> legno; nel mezzo del telaio si applica<br />
una traversina, e nella tela si fa uno spiraglio. Questo telaio rivestito <strong>di</strong><br />
tela prende il nome <strong>di</strong> cavallina. All’alba, con la cavallina e col fucile, ci<br />
si avvia al bosco. Il cacciatore porta la cavallina <strong>di</strong>nanzi a sé, e attraverso<br />
quello spiraglio nella tela va spiando i fagiani. I fagiani, all’alba, si ciba‐<br />
no sulle radure: certe volte se ne trova una covata intera, chioccia e pul‐<br />
cini; altre volte il gallo con la sua femmina; altre volte parecchi galli in‐<br />
sieme.<br />
I fagiani non scorgono l’uomo, e non hanno paura <strong>di</strong> quel quadro <strong>di</strong><br />
tela: perciò si lasciano avvicinare fino a pochi passi. Allora il cacciatore<br />
colloca in terra la cavallina, introduce nello spiraglio il fucile, e spara a<br />
sua scelta.<br />
A pollo, invece, ecco come si caccia: si mette nel bosco un qualsiasi<br />
cagnolaccio da cortile, e gli si va <strong>di</strong>etro. Quando il cane trova un fagiano,<br />
gli s’avventa contro. Il fagiano vola su un albero, e allora il cane inco‐<br />
mincia ad abbaiargli. Il cacciatore si <strong>di</strong>rige verso l’albero, e spara al fa‐<br />
giano appollaiato là sopra. Sarebbe una caccia facile, se il fagiano s’ap‐<br />
pollaiasse sull’albero in un posto scoperto, e così rimanesse fermo, in<br />
modo da riuscire ben visibile. Ma i fagiani vanno sempre ad appollaiarsi<br />
sugli alberi che sorgono fitti, nel più cupo del bosco, e poi, appena avvi‐<br />
stano il cacciatore, vanno a ficcarsi ben addentro tra il fogliame. Così,<br />
riesce <strong>di</strong>fficile aprirsi il passo tra il folto, per arrivare fino a quel certo al‐<br />
bero, e altrettanto <strong>di</strong>fficile riesce <strong>di</strong>stinguere l’animale. Fin quando il ca‐<br />
ne, da solo, abbaia contro il fagiano, questo non si spaventa, se ne resta<br />
appollaiato su un ramo, e ad<strong>di</strong>rittura si pavoneggia <strong>di</strong> fronte al cane,<br />
starnazzando con le ali. Ma basta che avvisti l’uomo, subito si rannicchia<br />
tra il fogliame, in una maniera che solo un cacciatore ben pratico riesce a<br />
<strong>di</strong>stinguerlo; a chi non è, pratico, può capitare <strong>di</strong> star lì a due passi e non<br />
scorgere nulla.<br />
134 Abbiamo omesso la frase del testo, comprensibile solo ai lettori russi: «la gal‐<br />
line selvatiche si chiamano fagiani».
152<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Quando i Cosacchi s’avvicinano <strong>di</strong> soppiatto ai fagiani, si calano il<br />
cappello sulla faccia e non guardano verso l’alto, perché il fagiano ha<br />
paura dell’uomo col fucile, ma più <strong>di</strong> tutto ha paura dei suoi occhi.<br />
A frullo, poi, si caccia così: si prende un cane da punta, e gli si va <strong>di</strong>e‐<br />
tro nel bosco. Il cane sente, al fiuto, dove i fagiani hanno pe<strong>di</strong>nato e si<br />
sono cibati all’alba: si metterà quin<strong>di</strong> a battere le loro tracce. E, per quan‐<br />
to i fagiani le abbiano intrecciate e arruffate, un buon cane troverà sem‐<br />
pre l’ultima traccia, quella che porta fuori dal luogo dove hanno sostato<br />
a cibarsi. A mano a mano, poi, che il cane s’inoltrerà lungo quella traccia,<br />
ne sentirà sempre più forte l’odore, e così arriverà fino a quel punto do‐<br />
ve il fagiano passa la giornata, accovacciato fra l’erba o pe<strong>di</strong>nando.<br />
Quando il cane sarà a poca <strong>di</strong>stanza, gli sembrerà che il fagiano sia<br />
già <strong>di</strong>nanzi a lui: s’avanzerà sempre più guar<strong>di</strong>ngo, per non spaventarlo,<br />
e ogni tanto farà una fermatina, per poter poi d’un tratto avventarsi e ac‐<br />
ciuffarlo. Quando il cane, in questo modo, sarà arrivato proprio a ridos‐<br />
so, il fagiano frullerà, e il cacciatore potrà sparargli.<br />
Milton e Bulka.<br />
(Racconto).<br />
Avevo preso, per la caccia ai fagiani, un cane da punta. Questo cane si<br />
chiamava Milton. Era alto, magro, d’un grigio picchiettato; aveva le o‐<br />
recchie pendenti e ben lunghe, ed era assai forte e intelligente. Lui e Bul‐<br />
ka non si mordevano mai. Nessun cane, del resto, aveva mai fatto a<br />
morsi con Bulka. Bastava che Bulka mostrasse i denti, e subito qualun‐<br />
que cane abbassava la coda e s’allontanava.<br />
Un giorno, io ero andato con Milton a fagiani. Tutt’a un tratto, <strong>di</strong> gran<br />
corsa, Bulka mi raggiunse nel bosco. Io volevo scacciarlo via, ma non ci<br />
riuscii in nessun modo. Tornare a casa, e riportarlo fin là, era troppa<br />
strada. Pensando che non mi avrebbe dato troppo fasti<strong>di</strong>o, proseguii<br />
senz’altro; ma, non appena Milton ebbe fiutato tra l’erba un fagiano, e si<br />
mise a cercarlo, Bulka si slanciò innanzi e incominciò a frugare <strong>di</strong> qua e<br />
<strong>di</strong> là. Faceva <strong>di</strong> tutto per essere più lesto <strong>di</strong> Milton a levare il fagiano.<br />
Sentiva anche lui qualche cosa tra l’erba, dava balzi, si rigirava su se<br />
stesso; ma il suo fiuto era poco fine, e non riusciva, da solo, a trovare la<br />
traccia: perciò teneva d’occhio Milton e correva là dove Milton si <strong>di</strong>rige‐<br />
va. Appena Milton imbroccava la traccia, Bulka gli passava innanzi a<br />
precipizio. Io richiamavo Bulka, lo battevo, ma con lui non c’era niente<br />
da fare. Bastava che Milton incominciasse a cercare, lui si slanciava in‐
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 153<br />
nanzi, e gl’impe<strong>di</strong>va <strong>di</strong> lavorare. Avevo già deciso <strong>di</strong> tornare a casa,<br />
giacché ormai ero sicuro che la mia cacciata era andata in fumo: ma Mil‐<br />
ton fu più bravo <strong>di</strong> me a inventare un modo d’ingannare Bulka. Ecco che<br />
cosa fece: appena Bulka gli passava innanzi, Milton abbandonava la<br />
traccia, deviava da un’altra parte, e faceva finta <strong>di</strong> cercare in quella <strong>di</strong>re‐<br />
zione, Bulka si precipitava subito là dove Milton lo aveva in<strong>di</strong>rizzato, e<br />
allora Milton si voltava a me, mi dava un’occhiata, batteva la coda, e<br />
s’avviava <strong>di</strong> nuovo sulla traccia vera. Bulka tornava <strong>di</strong> corsa da Milton,<br />
gli passava innanzi un’altra volta: e Milton, un’altra volta, faceva a bella<br />
posta una decina <strong>di</strong> passi fuori strada, traendo Bulka in inganno: poi mi<br />
riconduceva nella <strong>di</strong>rezione giusta.<br />
Così, per tutta la cacciata, Milton continuò a ingannare Bulka, e non<br />
gli permise <strong>di</strong> rovinare definitivamente ogni cosa.<br />
La tartaruga.<br />
(Racconto).<br />
Un giorno, io ero andato con Milton a caccia. Nei paraggi del bosco,<br />
Milton incominciò a cercare: tese la coda, drizzò le orecchie e si mise ad<br />
annusare. Io preparai il fucile e gli andai <strong>di</strong>etro. Pensavo che battesse la<br />
traccia d’una starna, d’un fagiano, o d’una lepre. Ma Milton non<br />
s’addentrò nel bosco: s’inoltrava sempre ala scoperto. Io continuavo a<br />
seguirlo, guardando in avanti. D’improvviso, scorsi la cosa <strong>di</strong> cui anda‐<br />
va in cerca. C’era in terra <strong>di</strong>anzi a lui una grossa tartaruga, della gran‐<br />
dezza d’un cappello. La testa nuda e grigia, in cima al lungo collo, le<br />
stava tesa all’infuori, pareva un pestello; le zampe annaspavano ben <strong>di</strong>‐<br />
varicate; la toppa era coperta per intero dalla corazza.<br />
Quando la tartaruga avvistò il cane, nascose le zampe e la teca, e<br />
s’appiattò in mezzo all’erba, in modo che non si vedeva più nient’altro<br />
che il guscio. Milton la afferrò e si mise a rosicchiarla attorno, ma non<br />
riusciva ad addentarla, giacché la tartaruga a una corazza anche sul ven‐<br />
tre, né più né meno che sulla groppa. soltanto <strong>di</strong>nanzi, <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro e ai due<br />
fianchi la corazza ha delle aperture, <strong>di</strong> dove passano la testa, le zampe e<br />
la coda.<br />
Io tolsi a Milton la tartaruga e osservai i <strong>di</strong>segni che aveva sulla<br />
groppa, e com’era fatto quel guscio, e in che modo la bestia ci i ritirava<br />
dentro. Quando si tiene una tartaruga fra le mani, e si guarda sotto al<br />
suo guscio, si scorge in fondo in fondo, come dentro a una cantina, qual‐<br />
che cosa <strong>di</strong> nero e <strong>di</strong> vivo. Gettai la tartaruga fra l’erba e proseguii per la
154<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
mia strada, ma Milton non volle lasciarla lì, e mi venne <strong>di</strong>etro portando‐<br />
la fra i denti. Improvvisamente, Milton guaì e la lasciò cadere in terra. La<br />
tartaruga, standogli sospesa fra i denti, aveva tirato fuori una zampa e<br />
gli aveva graffiato la bocca. Il cane ne fu tanto irritato che ruppe ad ab‐<br />
baiare, la afferrò <strong>di</strong> nuovo, e riprese a portarla in bocca <strong>di</strong>etro a me. Io<br />
gli or<strong>di</strong>nai <strong>di</strong> nuovo <strong>di</strong> lasciarla, ma Milton non mi obbe<strong>di</strong>va. Allora gli<br />
strappai la tartaruga e la gettai lontano. Ma il cane non la lasciò così.<br />
Con le zampe, in fretta in fretta, si mise a scavare accanto a lei una<br />
buca. E quando ebbe scavato la buca, con zampe ci ruzzolò dentro la tar‐<br />
taruga, e la seppellí sotto terra.<br />
Le tartarughe vivono tanto a terra quanto in acqua, come le bisce e le<br />
rane. Partoriscono i figli chiusi in un uovo, e queste uova le depongono<br />
in terra e non le covano: le uova, da sole, come quelle dei pesci, si apro‐<br />
no, e ne escono le tartarughine. Ci sono tartarughe <strong>di</strong> razza piccola, non<br />
più grosse d’un piattino, e <strong>di</strong> razza grossa, lunghe fino a due metri e pe‐<br />
santi più <strong>di</strong> tre quintali. Queste gran<strong>di</strong> tartarughe vivono nei mari.<br />
A ogni primavera, una tartaruga depone centinaia <strong>di</strong> uova. La coraz‐<br />
za della tartaruga è per lei la stessa cosa che per noi sono le costole. Ma<br />
mentre negli uomini e negli altri animali le costole sono separate l’una<br />
dall’altra, le costole della tartaruga si sono unite tutte insieme nella co‐<br />
razza.<br />
La <strong>di</strong>fferenza principale, però, è che in tutti gli altri animali le costole<br />
si trovano all’interno, sotto la carne; nelle tartarughe, invece, le costole si<br />
trovano alla superficie, e la carne sta al <strong>di</strong> sotto.<br />
Bulka e il lupo.<br />
(Racconto).<br />
Quando io ripartii dal Caucaso, laggiù c’era ancora la guerra, e <strong>di</strong><br />
notte era pericoloso viaggiare senza scorta.<br />
Io decisi <strong>di</strong> partire la mattina più presto possibile, e perciò non andai<br />
affatto a dormire.<br />
Un mio amico era venuto a farmi compagnia le ultime ore, e pas‐<br />
sammo insieme tutta la sera e la notte seduti <strong>di</strong> fuori alla mia casetta,<br />
sulla strada del villaggio.<br />
Era una nottata <strong>di</strong> luna e <strong>di</strong> nebbia, e c’era tanta luce che si poteva<br />
leggere, sebbene la luna restasse invisibile.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 155<br />
Nel colmo della notte, d’improvviso, sentimmo dall’altra parte della<br />
strada, in un cortile, pigolare un maialino. Uno <strong>di</strong> noi esclamò: — È un<br />
lupo che scanna un maialino!<br />
Io corsi in casa, afferrai il fucile già carico e mi slanciai per la strada.<br />
Tutti stavano fermi all’entrata <strong>di</strong> quel cortile, dove il maialino aveva<br />
pigolato, e mi gridavano: — Di qua, <strong>di</strong> qua! — Milton m’era corso <strong>di</strong>etro<br />
(credeva <strong>di</strong> certo che io andassi a caccia, con quel fucile), e Bulka aveva<br />
rizzato le sue corte orecchie e si buttava <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là, come se chiedesse<br />
chi doveva addentare. Quando io arrivai alla siepe <strong>di</strong> quel cortile, vi<strong>di</strong><br />
che, dall’altra parte del cortile, veniva <strong>di</strong> corsa proprio verso <strong>di</strong> me una<br />
bestiaccia selvatica. Era il lupo. Così correndo, s’avvicinò fino alla siepe,<br />
e spiccò un salto per passarci sopra. Io mi scostai da un lato, tenendo<br />
pronto il fucile. Appena il lupo fu saltato <strong>di</strong> qua della siepe, puntai il fu‐<br />
cile quasi a bruciapelo, e premetti il grilletto: ma il fucile fece «cich», e<br />
non lasciò partire il colpo.<br />
Il lupo, senza fermarsi, era proseguito <strong>di</strong> corsa attraverso la strada.<br />
Milton e Bulka gli s’erano slanciati appresso. Milton stava vicino al<br />
lupo, ma si vedeva che aveva paura <strong>di</strong> afferrarlo: e Bulka, per quanto<br />
s’arrabattasse con le sue corte zampe, non riusciva a stargli <strong>di</strong>etro. An‐<br />
che noi correvamo con tutte le forze appresso al lupo, ma già lupo e cani<br />
s’erano persi <strong>di</strong> vista. Soltanto da un canale, che passava all’estremità<br />
del villaggio, sentimmo latrare, guaire, e vedemmo attraverso la nebbia,<br />
luminosa <strong>di</strong> luna, levarsi un polverone, e i cani alle prese col lupo.<br />
Quando noialtri arrivammo là al canale, il lupo non c’era più, e i due<br />
cani se ne tornavano verso <strong>di</strong> noi con le code ritte e i musi imbronciati.<br />
Bulka ringhiava e mi dava urtoni con la testa: si vedeva che voleva<br />
<strong>di</strong>re qualche cosa, ma non poteva.<br />
Esaminammo con attenzione i due cani, e scoprimmo che sulla testa<br />
<strong>di</strong> Bulka c’era una piccola ferita. Senza dubbio, Bulka aveva raggiunto il<br />
lupo in riva al canale, ma non era riuscito ad afferrarlo: e il lupo, <strong>di</strong>gri‐<br />
gnando i denti, lo aveva morso <strong>di</strong> sfioro, e via <strong>di</strong> corsa. Era una ferita da<br />
poco, e non c’era nulla <strong>di</strong> pericoloso.<br />
Tornammo a casa, ci sedemmo, e ci mettemmo a chiacchierare del‐<br />
l’accaduto. Io non potevo rassegnarmi che il fucile mi si fosse inceppato<br />
a quel modo, e continuavo a pensare a come il lupo sarebbe rimasto lì<br />
secco, se il colpo fosse partito. L’amico mio non si capacitava come aves‐<br />
se fatto, il lupo, a scavalcare la siepe <strong>di</strong> quel cortile. Un vecchio Cosacco<br />
<strong>di</strong>ceva che, in quanto a questo, non era il caso <strong>di</strong> meravigliarsi: non era<br />
mica un lupo, quello, era una strega, tant’è vero che aveva gettato l’in‐<br />
canto sul mio fucile. Così, riuniti insieme dentro casa, facevamo conver‐
156<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
sazione. Tutt’a un tratto, i cani s’avventarono, e noi scorgemmo nel bel<br />
mezzo della strada, proprio <strong>di</strong>nanzi a noi, un’altra volta quel medesimo<br />
lupo: ma stavolta, appena ci senti gridare, fu tanto svelto a fuggire, che i<br />
cani non lo raggiunsero più.<br />
Il vecchio Cosacco, dopo un fatto simile, fu più che mai sicuro che<br />
quello non era un lupo, ma una strega. A me, invece, venne l’idea che<br />
poteva essere un lupo arrabbiato, giacché finora non m’era mai accaduto<br />
<strong>di</strong> vedere o <strong>di</strong> sentire che un lupo, dopo essere stato scacciato dagli uo‐<br />
mini, tornasse un’altra volta fra loro.<br />
Perciò, a ogni buon conto, versai sulla ferita <strong>di</strong> Bulka della polvere da<br />
sparo, e ci <strong>di</strong>e<strong>di</strong> fuoco. La polvere <strong>di</strong>vampo’, e bruciò il punto malato.<br />
Bruciai così la ferita con la speranza <strong>di</strong> bruciare insieme la saliva in‐<br />
fetta <strong>di</strong> rabbia, se ancora non aveva avuto tempo <strong>di</strong> entrare nel sangue.<br />
Se poi la saliva era già andata a segno, ed era entrata nel sangue, io<br />
sapevo benissimo che essa, attraverso il sangue, sarebbe sparsa per tutto<br />
il corpo, e allora non ci sarebbe stata più nessuna cura da fare.<br />
Che cosa accadde a Bulka a Piatigòrsk.<br />
(Racconto).<br />
Dal villaggio cosacco dov’ero stato finora, io non venni <strong>di</strong>rettamente<br />
in Russia, ma mi trasferii a Piatigòrsk, e là mi fermai un paio <strong>di</strong> mesi.<br />
Milton, lo avevo regalato a un Cosacco cacciatore; ma Bulka, lo portai<br />
con me a Piatigòrsk.<br />
Piatigòrsk si chiama così 135 perché è situata sul monte Besctàn. In lin‐<br />
gua tartara, Besc vuol <strong>di</strong>re cinque, tan vuol <strong>di</strong>te monte. Da questa mon‐<br />
tagna nasce un’acqua solforosa a temperatura cal<strong>di</strong>ssima. È tanto calda,<br />
quest’acqua, che scotta, e nel luogo dove esce dalla montagna, c’è sem‐<br />
pre un vapore che ristagna come su una pentola in ebollizione. Tutto il<br />
luogo dove sta la città è molto ridente. Dall’alto sgorgano le sorgenti<br />
calde, in basso scorre il fiume Podkumok. In alto, tutti boschi; in giro,<br />
campi lavorati; in lontananza, sono sempre in vista le gran<strong>di</strong> montagne<br />
del Caucaso. Su quelle montagne la neve non si scioglie mai, e restano<br />
sempre bianche come zucchero. La grande montagna dell’Elbruz, bianca<br />
come un grande pan <strong>di</strong> zucchero, si scorge da tutte le parti del Caucaso,<br />
quando il tempo è sereno. Alle fonti d’acqua calda viene a curarsi gente<br />
<strong>di</strong> lontano; e presso le fonti sono stati fabbricati chioschi, rimesse, e tut‐<br />
135 «Città dai cinque monti».
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 157<br />
t’intorno sono stati scavati nella montagna giar<strong>di</strong>ni e stradelli. Ogni mat‐<br />
tina ci suona la musica, e la gente beve l’acqua, fa i bagni, passeggia.<br />
La città sta piantata sopra un’altura, e sotto l’altura ci sono i sobbor‐<br />
ghi. Io abitavo in questi sobborghi, in una piccola casettina. La casettina<br />
aveva intorno una spiazzo cintato: <strong>di</strong>nanzi alle finestre c’era un giar<strong>di</strong>‐<br />
netto, e in giar<strong>di</strong>no c’erano le api dei miei padroni <strong>di</strong> casa, che non erano<br />
tenute in arnie <strong>di</strong> tronchi svuotati, come usa in Russia, ma in una specie<br />
<strong>di</strong> canestre rotonde. Le api, da quelle parti, sono tanto pacifiche, che io<br />
passavo le mattinate intere con Bulka in quel giar<strong>di</strong>netto, lì in mezzo alle<br />
arnie.<br />
Bulka gironzolava fra le arnie, contemplava le api, le annusava, ascol‐<br />
tava il ronzio che facevano; ma era talmente guar<strong>di</strong>ngo nel passarci ac‐<br />
canto, che non le infasti<strong>di</strong>va in nessun modo, e quelle non lo toccavano.<br />
Una mattina, tornando a casa dalle fonti, io mi sedetti a prendere il<br />
caffè nel giar<strong>di</strong>netto sotto le finestre. Bulka si mise a grattarsi <strong>di</strong>etro le<br />
orecchie, facendo tintinnare il collare. Quel rumore inquietava le api, e io<br />
tolsi a Bulka il collare. Poco dopo, dalla parte della città alta, sentii un<br />
fracasso strano e spaventevole. Cani che abbaiavano, guaivano, gente<br />
che gridava: e il fracasso, scendendo dall’alto, s’avvicinava, s’avvicinava<br />
sempre più al nostro sobborgo. Bulka aveva smesso <strong>di</strong> grattarsi: aveva<br />
steso la larga testa dai denti bianchi fra le sue bianche zampe anteriori, ci<br />
aveva steso sopra anche la lingua, come non poteva a meno <strong>di</strong> fare, e ri‐<br />
maneva adagiato buono buono accanto a me. Quando sentì quel fracas‐<br />
so, fu come se capisse <strong>di</strong> che cosa si trattava: drizzò le orecchi, <strong>di</strong>grignò i<br />
denti, balzò in pie<strong>di</strong> e incominciò a ringhiare. Il fracasso s’andava sem‐<br />
pre avvicinando. Pareva che i cani <strong>di</strong> tutta la città si lamentassero, guais‐<br />
sero e abbaiassero. Io andai al cancello d’entrata per vedere un po’, e la<br />
mia padrona <strong>di</strong> casa venne là anche lei. Le domandai: – Che cosa succe‐<br />
de? – Lei mi <strong>di</strong>sse: – Sono i forzati della prigione, che girano ad ammaz‐<br />
zare i cani. I cani sono <strong>di</strong>ventati troppi, e le autorità municipali hanno<br />
dato or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> ammazzarli tutti, quanti ne trovano per la città.<br />
– Sicché, anche il mio Bulka ammazzerebbero, se gli capitasse a tiro?<br />
– No, quelli col collare non c’è or<strong>di</strong>ne d’ammazzarli.<br />
Proprio mentre <strong>di</strong>cevamo così, i forzati stavano già arrivando al no‐<br />
stro recinto.<br />
In testa a tutti procedevano dei soldati; <strong>di</strong>etro a questi, quattro forzati<br />
con le catene ai pie<strong>di</strong>. Due forzati tenevano in pugno certi lunghi uncini<br />
<strong>di</strong> ferro; gli altri due, dei grossi randelli. Dinanzi al nostro cancello uno<br />
dei forzati, col suo uncino, afferrò un cagnoletto da cortile, lo trascinò<br />
nel mezzo della strada, e là un altro forzato si mise a picchiarlo col suo
158<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
grosso randello. Il cagnoletto guaiva tremendamente, ma i forzati grida‐<br />
vano tra loro e ridevano. Il forzato con l’uncino rivoltò il cagnoletto sot‐<br />
tosopra, e quando vide che era morto, ne estrasse l’uncino, e si mise a<br />
spiare tutt’intorno, se ci fossero altri cani.<br />
In quel momento Bulka, all’impazzata, come quando s’era avventato<br />
contro l’orso, si scagliò contro quel forzato. Io mi ricordai, allora, che<br />
stava senza collare, e gli gridai: – Bulka, qua! – e insieme gridavo ai for‐<br />
zati che non toccassero Bulka. Ma il forzato più vicino aveva già avvista‐<br />
to Bulka: scoppiò in una risata e, con l’uncino, lo colpì abilmente, affer‐<br />
randolo per una coscia. Bulka cercava <strong>di</strong> slanciarsi dall’altra parte, ma il<br />
forzato lo tirò a sé, gridò al compagno: — Picchia giù! — Il compagno<br />
alzò in aria suo grosso randello, e Bulka sarebbe rimasto ucciso: ma, im‐<br />
provvisamente, <strong>di</strong>ede uno strattone, le pelle della coscia gli si squarciò,<br />
e, con la coda fra le gambe, con quella ferita rossa sulla c scia, infilò <strong>di</strong><br />
gran corsa la porticina <strong>di</strong> servizio del giar<strong>di</strong>no, e lì s’imbucò dentro casa,<br />
dove fini per ficcarsi sotto il mio letto<br />
S’era salvato soltanto perché la pelle gli s’era squarciata <strong>di</strong> netto in<br />
quel punto dov’era entrato l’uncino.<br />
Fine <strong>di</strong> Bulka e <strong>di</strong> Milton.<br />
(Racconto).<br />
Bulka e Milton finirono tutt’e due nello stesso tempo. Quel vecchio<br />
Cosacco non seppe servirsi <strong>di</strong> Milton come avrebbe dovuto. Invece <strong>di</strong><br />
farlo cacciare soltanto a penna, incominciò a portarlo contro i cinghiali.<br />
E, in quell’autunno stesso, un cinghiale <strong>di</strong> due anni, <strong>di</strong> quelli con le<br />
<strong>di</strong>fese aguzze, non ancora incurvate all’insù, gli squarciò il ventre. Nes‐<br />
suno seppe ricucirgli lo squarcio, e Milton morí.<br />
Anche Bulka poco visse, dopo essersi salvato dai forzati. Non passò<br />
molto da quel giorno, che <strong>di</strong>venne malinconico, e incominciò a leccare<br />
qualunque cosa gli capitava. Continuava a leccarmi le mani, ma in un<br />
modo <strong>di</strong>verso da quando, prima, mi faceva le feste. Me le leccava a lun‐<br />
go, e ci premeva forte la lingua: poi, a un tratto, accennava a stringerme‐<br />
le un pochino coi denti. Si capiva che sentiva bisogno <strong>di</strong> mordermi le<br />
mani, ma non voleva. Io smisi <strong>di</strong> dargli a leccare la mano. Allora lui in‐<br />
cominciò a leccare il mio stivale, una zampa del tavolo, e poi a mordere<br />
lo stivale o la zampa del tavolo. Questo durò due giorni; il terzo giorno,<br />
Bulka scomparve, e nessuno lo vide più: non se ne seppe più nulla.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 159<br />
Rubarlo non era possibile; andarsene da casa mia, era una cosa che lui<br />
non avrebbe mai fatta. La sua sparizione avvenne sei settimane dopo che<br />
quel lupo lo aveva morso alla testa. Si vede dunque che il lupo, come io<br />
pensavo, era arrabbiato. Bulka era stato preso dalla rabbia, e s’era allon‐<br />
tanato. Gli era venuto ciò che i cacciatori chiamano un ingorgo. Si <strong>di</strong>ce<br />
che la rabbia consista in questo, che alla bestia arrabbiata vengono degli<br />
spasimi in gola.<br />
Le bestie arrabbiate vogliono bere e non possono, perché con l’acqua<br />
gli spasimi <strong>di</strong>ventano più forti. Allora, dal dolore e dalla sete, impazzi‐<br />
scono, e si mettono a mordere. A Bulka, probabilmente, erano incomin‐<br />
ciati questi spasimi quando s’era messo a leccare, e poi a mordere, la mia<br />
mano e la zampa del tavolo.<br />
Girai a cavallo tutti i <strong>di</strong>ntorni domandando <strong>di</strong> Bulka, ma non riuscii a<br />
sapere dove s’era ficcato e come era morto. Se fosse corso qua e là, e a‐<br />
vesse morso la gente, come fanno i cani arrabbiati, lo avrei sentito <strong>di</strong>re<br />
da qualcuno. Penso che Bulka, invece, si sia rifugiato in qualche angolo<br />
solitario, e là, solo solo, sia morto. Dicono i cacciatori che quando a un<br />
cane intelligente viene l’ingorgo della rabbia, fugge via in campagna, o<br />
nei boschi, e là cerca una certa erba che fa per lui: si voltola fra la guazza,<br />
e così si cura da sé. Si vede che Bulka, seppure si curò, non riuscii a gua‐<br />
rire. Non fece più ritorno, e la sua vita ebbe fine.<br />
Gli uccelli e la rete.<br />
(Favola).<br />
Un cacciatore tese la rete presso un lago, e la richiuse su una gran<br />
quantità d’uccelli. Gli uccelli erano grossi: sollevarono la rete da terra e<br />
volarono via insieme con essa. Il cacciatore si mise a correre <strong>di</strong>etro agli<br />
uccelli.<br />
Un conta<strong>di</strong>no vide li cacciatore che correva, e gli <strong>di</strong>sse: — E dove cor‐<br />
ri, tu? Si può mai, a pie<strong>di</strong>, raggiungere un uccello?<br />
Il cacciatore rispose: — Se fosse stato un uccello solo, non lo avrei mai<br />
raggiunto: ma questi, ora, li raggiungerò.<br />
E così avvenne. Quando fu sera, gli uccelli vollero ritornare ai luoghi<br />
dove pernottavano sempre, e ciascuno tirava dalla parte sua: uno verso<br />
il bosco, un altro verso la palude, un terzo verso i campi. E così, tutti<br />
quanti insieme, precipitarono a terra, e il cacciatore li catturò.
160<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
L’olfatto.<br />
(Considerazioni).<br />
L’uomo esercita la vista con gli occhi, l’u<strong>di</strong>to con le orecchie, l’olfatto<br />
col naso, il gusto con la lingua, e il tatto con le <strong>di</strong>ta. Uno ha l’occhio più<br />
acuto, un altro meno. Uno ha l’u<strong>di</strong>to fine, un altro è sordo. L’olfatto d’u‐<br />
no è più forte, tanto che sente un odore fin da lontano; un altro fiuta un<br />
uovo marcio, e non sente nulla. Uno, al tatto, riconosce le varie cose; un<br />
altro non sa riconoscere nulla al tatto, non <strong>di</strong>stingue neppure il legno<br />
dalla carta. Uno, appena porta una cosa alla bocca, sente che è dolce; un<br />
altro la inghiotte, e non <strong>di</strong>stingue se è dolce o amara.<br />
Allo stesso modo, anche in un animale o nell’altro, c’è un senso o l’al‐<br />
tro che ha più forza <strong>di</strong> tutti. Ma, in tutti gli animali, l’olfatto ha più forza<br />
che nell’uomo.<br />
L’uomo, quando vuole sapere una cosa com’è, la guarda ben bene,<br />
ascolta che rumore fa, certe volte la annusa e la degusta: ma, per sapere<br />
com’è con più sicurezza, l’uomo ha bisogno soprattutto <strong>di</strong> tastarla.<br />
Gli animali, invece, nella grande maggioranza, hanno bisogno soprat‐<br />
tutto <strong>di</strong> fiutare le cose. Il cavallo, il lupo, il cane, la vacca, l’orso, non<br />
sanno come sono le cose fin tanto che non le fiutano.<br />
Quando un cavallo ha paura <strong>di</strong> qualche cosa, sbuffa: cioè, si ripulisce<br />
il naso per meglio fiutare; e non smetterà <strong>di</strong> aver paura fin tanto che non<br />
avrà fiutato ben bene.<br />
Il cane, spesso spesso, corre <strong>di</strong>etro al padrone seguendone la traccia,<br />
ma appena il padrone gli appare <strong>di</strong>nanzi agli occhi, si spaventa: non lo<br />
riconosce alla vista, e incomincia ad abbaiare, fin tanto che non riesce a<br />
fiutarlo e a riconoscere che quella cosa, che a vederla gli fa paura, è pro‐<br />
prio il padrone suo.<br />
I buoi vedono ammazzare altri buoi come loro, odono muggire questi<br />
buoi nel macello, eppure non capiscono ancora che cosa accade. Ma ba‐<br />
sta che una vacca o un bue passi in un punto dove c’è del sangue bovi‐<br />
no, e lo fiuti: subito capirà, si metterà a muggire, a pestare con le zampe,<br />
e sarà <strong>di</strong>fficile farlo spostare più da quel punto.<br />
A un vecchio s’ammalò la moglie, che era abituata a mungere la vac‐<br />
ca: il vecchio andò a mungerla da sé. La vacca sbuffò, riconobbe che non<br />
era la padrona, e non voleva dare il latte. Allora la padrona <strong>di</strong>sse al ma‐<br />
rito d’indossare il suo cappotto, e <strong>di</strong> legarsi in testa il suo fazzoletto: e<br />
subito la vacca <strong>di</strong>ede il latte. Ma poi il vecchio si sbottonò il cappotto, la<br />
vacca fiutò quell’odore <strong>di</strong>verso, e <strong>di</strong> nuovo fermò il latte.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 161<br />
I cani segugi, quando incalzano una bestia selvatica seguendone la<br />
traccia, non corrono mai proprio lungo la traccia, ma un pochino <strong>di</strong> lato,<br />
a una ventina <strong>di</strong> passi <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza. Quando un cacciatore poco pratico<br />
vuole riportare il cane sulla traccia del selvatico, e preme il naso al cane<br />
proprio contro la traccia, il cane torna sempre a balzare da un lato. Per<br />
lui, la traccia manda un odore così forte, che non riesce a <strong>di</strong>stinguere<br />
nulla quando ci sta sopra e non sa più se il selvatico è fuggito in avanti o<br />
all’in<strong>di</strong>etro. Perciò fa uno scarto da un lato, e soltanto allora può fiutare<br />
con sicurezza in quale <strong>di</strong>rezione l’odore è più forte, e si slancia <strong>di</strong>etro al‐<br />
la preda. Il cane, così, si comporta allo stesso modo che ci comportiamo<br />
noi, quando ci parlano ad alta voce proprio contro l’orecchio: noi ci sco‐<br />
stiamo, e soltanto allora, <strong>di</strong> più lontano, <strong>di</strong>stinguiamo che cosa ci <strong>di</strong>cono.<br />
O come quando abbiamo troppo vicina una cosa che cerchiamo <strong>di</strong> <strong>di</strong>‐<br />
stinguere: ci tiriamo in<strong>di</strong>etro, e allora riusciamo a <strong>di</strong>stinguerla.<br />
I cani si riconoscono tra loro e si danno in<strong>di</strong>cazioni per mezzo dell’o‐<br />
dore.<br />
E ancora più fino è l’olfatto degl’insetti. L’ape vola <strong>di</strong>ritta a quel fiore<br />
che fa per lei. Il verme s’arrampica su quella foglia che gli ci vuole. La<br />
cimice fiuta l’uomo a una <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> centinaia <strong>di</strong> migliaia dei suoi passi<br />
cimiceschi; e altrettanto fanno la pulce, la zanzara.<br />
Se sono piccole le particelle che si staccano dagli oggetti e vengono a<br />
toccare il nostro naso, quanto dovranno essere piccole quelle particelle<br />
che vanno a cadere sotto l’olfatto degl’insetti!<br />
I cani e il cuoco.<br />
(Favola).<br />
Un cuoco preparava il pranzo; i cani se ne stavano sdraiati alla porta<br />
<strong>di</strong> cucina. Il cuoco ammazzò un vitellino, e gettò le budella in cortile. I<br />
cani le presero a volo, le <strong>di</strong>vorarono, e <strong>di</strong>ssero:<br />
— Che bravo cuoco! Cucina ch’è una meraviglia.<br />
Poco dopo, il cuoco si mise a ripulire piselli, rape e cipolle, e gettò<br />
fuori gli scarti. I cani ci si avventarono sopra, storsero il muso, e <strong>di</strong>ssero:<br />
— Come s’è guastato, il nostro cuoco! Prima faceva da mangiare così<br />
bene, ma adesso non vale più niente.<br />
Il cuoco, però, non <strong>di</strong>ede ascolto ai cani, e continuò a preparare il<br />
pranzo a modo suo. Il pranzo fu consumato e lodato dai padroni, non<br />
già dai cani.
162<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
La fondazione <strong>di</strong> Roma.<br />
(Racconto storico).<br />
Nei tempi antichi c’era un re che aveva due figli: Numitore e Amulio.<br />
Quando egli morí <strong>di</strong>sse ai figlioli: — In che modo avete intenzione <strong>di</strong><br />
fare le parti tra voi? Chi dei due prenderà il regno e chi tutte le mie ric‐<br />
chezze? — Numitore prese il regno e Amulio prese le ricchezze.<br />
Quando Amulio ebbe preso le ricchezze, sentì invi<strong>di</strong>a che il fratello<br />
fosse re, e incominciò a dar regali ai soldati, incitandoli che scacciassero<br />
Numitore e ci mettessero lui al posto <strong>di</strong> re. Così fecero i soldati, e Amu‐<br />
lio <strong>di</strong>ventò re.<br />
Numitore aveva una figlia. A questa figlia nacque una coppia <strong>di</strong> ge‐<br />
melli, tutt’e due maschi. E tutt’e due erano grossi e belli.<br />
Amulio temeva che il popolo prendesse affezione a questi gemelli,<br />
quando fossero <strong>di</strong>ventati gran<strong>di</strong>, e li scegliesse come suoi re. Chiamò un<br />
servo, <strong>di</strong> nome Fàustolo, e gli <strong>di</strong>sse: — Pren<strong>di</strong> quei due bambini, e butta‐<br />
li nel fiume.<br />
Il fiume che passava <strong>di</strong> là, si chiamava Tevere.<br />
Fàustolo mise i bambini in una culla, li portò sulla riva, e là li depose.<br />
Egli era sicuro che sarebbero morti senz’altro. Ma le acque del Tevere<br />
in piena salirono fino alla riva, sollevarono quella piccola culla, la trasci‐<br />
narono lontano, e la fecero fermare sotto un albero d’alto fusto. A notte<br />
sopravvenne una lupa, e si mise a nutrire col suo latte i due gemelli.<br />
I bambini <strong>di</strong>ventarono gran<strong>di</strong>, e si fecero belli e forti. Vivevano in un<br />
bosco poco lontano dalla città dove stava Amulio; avevano imparato a<br />
uccidere le bestie selvatiche, e <strong>di</strong> queste si cibavano. Il popolo venne a<br />
sapere <strong>di</strong> loro, e prese ad amarli per la loro bellezza. Al più grande mise‐<br />
ro nome Romolo, al più piccolo Remo.<br />
Un giorno, i pastori <strong>di</strong> Numitore e d’Amulio stavano badando le pe‐<br />
core poco lontano da quel bosco, e vennero a lite. I pastori <strong>di</strong> Numito‐<br />
re 136 portarono via le greggi <strong>di</strong> Amulio. I due gemelli, a quella vista, rin‐<br />
corsero i pastori, li raggiunsero, e ritolsero loro il bestiame.<br />
Allora i pastori <strong>di</strong> Numitore andarono in collera contro i gemelli:<br />
scelsero un momento che Romolo non c’era, presero Remo, e lo condus‐<br />
sero in città, da Numitore, <strong>di</strong>cendogli; — Sono comparsi nel bosco due<br />
fratelli che portano via il bestiame e fanno i briganti. Ecco qua, ne ab‐<br />
biamo acciuffato uno, e lo abbiamo portato <strong>di</strong>nanzi a te! — Numitore<br />
or<strong>di</strong>nò che Remo fosse condotto dal re Amulio. Amulio <strong>di</strong>sse: — Costoro<br />
136 Il testo ha una svista evidente: «<strong>di</strong> Amulio», e, quin<strong>di</strong>, «<strong>di</strong> Numitore».
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 163<br />
hanno offeso i pastori <strong>di</strong> mio fratello: dunque sia mio fratello a giu<strong>di</strong>car‐<br />
li—. Così Remo fu <strong>di</strong> nuovo condotto da Numitore. E Numitore lo chia‐<br />
mò a sé, e gli domandò: — Di dove vieni, tu?<br />
Remo <strong>di</strong>sse: — Noi siamo due fratelli: quando eravamo piccolini,<br />
fummo trascinati dalle acque, dentro una culla, fino a un albero sulla ri‐<br />
va del Tevere, e là ci nutrirono bestie selvatiche e uccelli. Sempre là noi<br />
ci siamo fatti gran<strong>di</strong>. Se poi vuoi sapere chi siamo, la nostra culla si con‐<br />
serva ancora. Ci sono, sopra, delle strisce <strong>di</strong> bronzo, e sulle strisce c’è<br />
qualche cosa in iscrittura.<br />
Numitore rimase stupito, e pensò: non saranno stati i suoi nipoti? Fe‐<br />
ce lasciare Remo lì con lui, e mandò a chiamare Fàustolo, per interrogar‐<br />
lo.<br />
In quel frattempo Romolo andava in cerca del fratello, e non poteva<br />
trovarlo da nessuna parte. Quando i pastori gli <strong>di</strong>ssero che suo fratello<br />
era stato condotto in città, egli prese con sé la culla e s’avviò là. Fàustolo<br />
riconobbe subito la culla, e <strong>di</strong>sse al popolo che questi erano i nipoti <strong>di</strong><br />
Numitore, e che Amulio aveva cercato <strong>di</strong> farli annegare. Allora il popolo<br />
si sdegnò contro Amulio, e lo uccise: Romolo e Remo, invece, li fece suoi<br />
re.<br />
Ma a Romolo e a Remo non piacque <strong>di</strong> vivere in quella città: lasciaro‐<br />
no che vi regnasse il loro nonno Numitore. E loro fecero ritorno al luogo<br />
presso quell’albero, dove la lupa li aveva allattati, lungo la riva del Teve‐<br />
re: e lì costruirono una nuova città, che fu Roma.<br />
Dio vede la verità, ma non ha fretta <strong>di</strong> <strong>di</strong>rla.<br />
(Racconto).<br />
Nella città <strong>di</strong> Vladímir viveva un giovane mercante, Aksiònov. Egli<br />
aveva due botteghe e la casa.<br />
Di persona, Aksiònov era biondo, ricciuto, bello, ed era un allegrone e<br />
un canterino dei primi. Da giovanotto era stato gran bevitore, e quando<br />
aveva il vino in corpo, faceva il turbolento; ma, dacché aveva preso mo‐<br />
glie, aveva smesso <strong>di</strong> bere, e solo <strong>di</strong> rado ci ricascava.<br />
Una volta, d’estate, Aksiònov parti per la fiera <strong>di</strong> Nizni. Sul punto <strong>di</strong><br />
accomiatarsi dalla famiglia, la moglie gli <strong>di</strong>sse: — Ivàn Dmitrevič, non<br />
partire oggi: io ho fatto, su te, un brutto sogno.<br />
Aksiònov fece una risatina, e <strong>di</strong>sse:<br />
— Dunque hai sempre paura ch’io faccia baldoria, alle fiere?
164<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
— La moglie <strong>di</strong>sse: Non so neanch’io <strong>di</strong> che cosa ho paura, ma ho fat‐<br />
to un sogno così brutto: mi pareva come se tu arrivassi dalla città, ti to‐<br />
glievi il cappello, e che cosa vedevo? la testa ti s’era tutta incanutita.<br />
Aksiònov si mise a ridere.<br />
— Bah, questo è <strong>di</strong> buon augurio. Vedrai, appena ho fatto affari, che<br />
regalucci <strong>di</strong> prezzo ti porterò!<br />
E così, s’accomiatò dalla famiglia e se ne partì.<br />
A mezza strada, s’accompagnò con un mercante <strong>di</strong> sua conoscenza, e<br />
insieme con questo si fermò a pernottare. Presero il tè tutt’e due insieme,<br />
e si coricarono in due camere attigue. Ad Aksiònov non piaceva dormir<br />
molto: si svegliò a notte alta, e, per viaggiar meglio così col frescolino,<br />
destò il vetturale e gli or<strong>di</strong>nò che attaccasse. Poi andò alla baracca <strong>di</strong><br />
servizio, fece i conti col locan<strong>di</strong>ere, e partì.<br />
Dopo quaranta miglia <strong>di</strong> strada, si fermò <strong>di</strong> nuovo a governare i ca‐<br />
valli; si riposò nell’atrio dell’albergo, e, all’ora <strong>di</strong> desinare, uscì sul pia‐<br />
nerottolo d’ingresso, or<strong>di</strong>nando che gli approntassero il samovàr: e in‐<br />
tanto, pigliò la chitarra e si mise a suonare. Tutt’a un tratto, viene a fer‐<br />
marsi lì nel cortile un tiro a tre con tanto <strong>di</strong> sonagliera, e dalla carrozza<br />
scende un funzionario con due soldati, s’accosta ad Aksiònov, e gli do‐<br />
manda chi è e dove va. Aksiònov spiega tutto come sta, e poi propone<br />
all’altro se non gra<strong>di</strong>rebbe bere insieme una tazza <strong>di</strong> tè. Il funzionario,<br />
però, seguita a insistere con le domande: dove aveva albergato la notte<br />
scorsa, da solo o con un mercante; se aveva veduto il mercante a giorno<br />
nuovo; perché aveva lasciato l’albergo tanto a buonora. Aksiònov non si<br />
capacitava perché gli facessero tutte queste domande: raccontò ogni cosa<br />
com’era andata, e finalmente soggiunse: – Ma che c’è, da farmi un simile<br />
interrogatorio? Io non sono mica un ladro o un brigante qualsiasi. Sto in<br />
viaggio per i miei affari, e non è il caso d’interrogarmi a questo modo.<br />
Allora il funzionario chiamò i soldati, e <strong>di</strong>sse:<br />
– Io sono il capo della polizia del <strong>di</strong>stretto, e t’interrogo perché quel<br />
mercante, col quale tu hai albergato stanotte, è stato sgozzato. Fà vedere<br />
le tue robe: e voi, perquisitelo.<br />
Entrarono nel locale, presero la valigia e il sacco da viaggio,e si mise‐<br />
ro a slegarli e a frugarci dentro. D’improvviso, il capo della polizia tirò<br />
fuori dal sacco un coltello, e gridò:<br />
– Questo coltello, <strong>di</strong> chi è?<br />
Aksiònov <strong>di</strong>ede là un’occhiata: vide quel coltello insanguinato, che<br />
avevano cavato dal sacco suo, e si spaventò.<br />
– E come mai c’è del sangue sul coltello?<br />
Aksiònov voleva rispondere, ma non riusciva a pronunciar le parole:
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 165<br />
— Io... io non so... io... questo coltello... io... non è mio.<br />
— Allora il capo della polizia gli <strong>di</strong>sse:<br />
— Stamattina quel mercante è stato trovato sgozzato nel letto. A ec‐<br />
cezione <strong>di</strong> te, nessuno può aver fatto questo. La baracca dov’erano le<br />
camere stava chiusa dall’interno, e nella baracca, a eccezione <strong>di</strong> te, non<br />
c’era nessuno. Ed ecco che il coltello insanguinato sta qui nel sacco tuo,<br />
eppoi basta guardarti in viso. Dì su, in che modo l’hai ammazzato, e<br />
quanto danaro gli hai portato via?<br />
Aksiònov giurava che lui non aveva fatto niente, e che non aveva più<br />
veduto il mercante da quando ci aveva preso il tè insieme, e che il dena‐<br />
ro che aveva addosso erano ottomila rubli <strong>di</strong> suo, e che il coltello era <strong>di</strong><br />
chissà chi. Ma intanto la voce gli si spezzava, aveva il viso bianco, e tre‐<br />
mava da capo a pie<strong>di</strong> dal terrore, come se fosse reo.<br />
Il capo della polizia chiamò i soldati, e lo fece legare e caricar sulla te‐<br />
lèga. Quando, coi pie<strong>di</strong> legati, lo buttarono dentro alla telèga, Aksiònov<br />
si fece il segno della croce e pianse. Furono sequestrati ad Aksiònov og‐<br />
getti e danari, e fu portato alla città più vicina, e in prigione. Mandarono<br />
poi a chiedere informazioni a Vladímir che uomo fosse questo Aksiònov,<br />
e tutti i mercanti e gli altri abitanti <strong>di</strong> Vladímir <strong>di</strong>chiararono che Aksiò‐<br />
nov, da giovanotto, aveva bevuto e fatto chiasso, ma era un brav’uomo.<br />
Quin<strong>di</strong> gli fecero il processo. E fu giu<strong>di</strong>cato colpevole d’aver ucciso<br />
quel mercante <strong>di</strong> Rjazàn, e d’averlo depredato <strong>di</strong> ventimila rubli.<br />
La moglie si sentiva impazzire per via del marito, e non sapeva che<br />
cosa pensare. I figli, li aveva ancora tutti piccini, e uno al petto. Li prese<br />
tutti quanti con sé, e partí per quella città, dove suo marito era chiuso in<br />
prigione. Da principio, non la lasciarono passare, ma poi, a forza <strong>di</strong> pre‐<br />
gare le autorità, la condussero in presenza del marito. Quando lo vide<br />
vestito da galeotto, coi ceppi ai pie<strong>di</strong>, mischiato ai malfattori, stramazzò<br />
lunga per terra, e per un pezzo non poté tornare in sé. Poi si mise i bam‐<br />
bini tutti intorno, si sedette lì con lui a fianco a fianco, e incominciò a<br />
parlargli degli affari <strong>di</strong> casa, e a domandargli <strong>di</strong> tutto quello che gli era<br />
accaduto. Lui le raccontò ogni cosa. Lei <strong>di</strong>sse:<br />
— E che si può fare, adesso?<br />
Lui le rispose:<br />
— Bisogna rivolgersi allo zar. Non può essere che un innocente peri‐<br />
sca!<br />
La moglie rispose che già l’aveva mandata, una supplica allo zar, ma<br />
che la supplica non era arrivata in porto. Aksiònov non <strong>di</strong>sse più nulla:<br />
chinò gli occhi a terra, e basta. Allora <strong>di</strong>sse la moglie:
166<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
— Non per nulla quel giorno, ti ricor<strong>di</strong>?, io mi sognai che t’eri fatto<br />
canuto. Ecco qua, e ora sul serio, dal dolore, ti sei incanutito. Ah se non<br />
fossi partito da casa, quel giorno!<br />
E si faceva passar fra le <strong>di</strong>ta i suoi capelli, e gli <strong>di</strong>sse:<br />
— Vànja, mio caro, a tua moglie <strong>di</strong>lla, la verità: non sei stato tu, a<br />
commettere il fatto?<br />
Aksiònov esclamò: — Anche tu hai pensato male <strong>di</strong> me! — e si nasco‐<br />
se il viso tra le mani, e pianse. Poi venne un soldato a <strong>di</strong>re che la moglie<br />
e i bambini dovevano andarsene. E Aksiònov per l’ultima volta si acco‐<br />
miatò dalla sua famiglia.<br />
Quando la moglie si fu allontanata, Aksiònov cominciò a richiamarsi<br />
alla mente quel che avevano detto. Quando gli tornò alla mente che per‐<br />
fino la moglie aveva pensato male <strong>di</strong> lui, e gli aveva domandato se era<br />
stato lui a uccidere il mercante, egli <strong>di</strong>sse a se stesso: «Evidentemente,<br />
fuorché Id<strong>di</strong>o, nessuno può saper la verità: e solo Lui bisogna supplica‐<br />
re, e da Lui solo aspettar pietà». E, da quel momento, Aksiònov cessò <strong>di</strong><br />
scrivere suppliche, cessò <strong>di</strong> sperare, e non fece più che pregare il Signo‐<br />
re.<br />
Aksiònov era stato condannato alla fustigazione, e ad esser inviato ai<br />
lavori forzati. Così gli fu fatto.<br />
Lo fustigarono con lo knut, e poi, quando le piaghe dello knut gli si<br />
furono rimarginate, lo convogliarono via con gli altri forzati in Siberia.<br />
In Siberia, ai lavori forzati, Aksiònov ci visse ventisei anni. I capelli,<br />
sulla sua testa, erano <strong>di</strong>ventati bianchi come la neve, e la barba gli era<br />
cresciuta lunga, stretta, canuticcia. Tutta la sua allegria era passata. S’era<br />
ingobbito, aveva preso l’abitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> camminar adagio, <strong>di</strong> parlar poco,<br />
non rideva mai, e spesso pregava il Signore.<br />
In prigione, Aksiònov aveva imparato a fare il calzolaio, e coi danari<br />
guadagnati s’era comperato le Vite dei Santi, e le leggeva, quando c’era<br />
luce nella prigione; i giorni festivi, poi, andava alla chiesa della prigione,<br />
recitava gli Atti e le Epistole, e cantava nel coro: la voce gli si manteneva<br />
sempre bella. Le autorità vedevano <strong>di</strong> buon occhio Aksiònov per la sua<br />
mansuetu<strong>di</strong>ne, e anche i compagni <strong>di</strong> prigione avevano rispetto <strong>di</strong> lui, e<br />
lo chiamavano «nonnetto» e «uomo <strong>di</strong> Dio». Quando c’era da far qual‐<br />
che richiesta alle autorità per cose della prigione, i compagni mandava‐<br />
no sempre Aksiònov; e quando, tra i forzati, nascevano liti, sempre ad<br />
Aksiònov venivano ad appellarsi.<br />
Da casa, nessuno mai scriveva ad Aksiònov, ed egli non sapeva se<br />
fossero in vita la moglie e i figliuoli.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 167<br />
Furono condotti un giorno, lì ai lavori forzati, dei nuovi galeotti. A<br />
sera, tutti i vecchi galeotti si radunarono intorno ai nuovi, e si misero a<br />
interrogarli, <strong>di</strong> che città fosse ciascuno; o <strong>di</strong> che villaggio, e per quali fatti<br />
si trovassero qui. Anche Aksiònov s’era accoccolato lì sul tavolaccio po‐<br />
co lontano dai nuovi, e, col viso basso, ascoltava quel che ciascuno veni‐<br />
va raccontando. Uno dei nuovi galeotti era un alto, vigoroso vecchio sul‐<br />
la sessantina, con la barba grigia tagliata a garbo. Raccontando perché<br />
l’avessero preso, egli <strong>di</strong>sse:<br />
— Fratelli miei, così, per nulla, io mi trovo qui. A un vetturale, slegai<br />
un cavallo dalla slitta. M’acciuffano e mi <strong>di</strong>cono: l’hai rubato. Io gli ri‐<br />
spondo: volevo soltanto far il viaggio più alla svelta, tant’è vero che il<br />
cavallo l’ho rilasciato: eppoi, quel vetturale, è un mio amico! No, insisto‐<br />
no, l’hai rubato... E pensare che non lo sapevano mica, che cosa e dove<br />
avevo rubato davvero! Qualcosìna, via, l’ho fatta, e da un pezzo mi sa‐<br />
rebbe toccato <strong>di</strong> capitar quaggiú, ma non sono riusciti a trovar le prove,<br />
e adesso, invece, a torto mi ci hanno cacciato! Ma si sbagliano: son venu‐<br />
to in Siberia, ma non ci faccio <strong>di</strong>mora lunga...<br />
— O <strong>di</strong> dove sei, tu? — gli domandò uno dei forzati. — Noi siamo<br />
della città <strong>di</strong> Vladímir, artigiani del luogo. Mi chiamo Makàr, e <strong>di</strong> nome<br />
paterno, Semiònovič.<br />
Aksiònov sollevò la testa, e domandò:<br />
— Di’ un po’, Semiònovič , non hai sentito parlare, lì a Vladímir, degli<br />
Aksiònov, mercanti? Son vivi?<br />
— Altro se ne ho sentito parlare! Mercanti ricchi, benché il padre<br />
l’abbiano in Siberia. Quello, si vede, era né più né meno che noi peccato‐<br />
ri. E tu, nonnetto, che hai fatto, per star qui?<br />
Non piaceva, ad Aksiònov, parlare della sua sventura; <strong>di</strong>ede un so‐<br />
spiro e <strong>di</strong>sse:<br />
— Per i miei peccati, da ventisei anni sono qui in galera.<br />
— Makàr Semiònovič <strong>di</strong>sse:<br />
— Ma per quale sorta <strong>di</strong> peccati?<br />
Aksiònov <strong>di</strong>sse: — Bisogna proprio che me lo sia meritato, – e non<br />
volle raccontar <strong>di</strong> più; ma gli altri forzati, suoi compagni spiegarono es‐<br />
si, al nuovo, come mai Aksiònov fosse finito in Siberia. Raccontarono<br />
come, in viaggio, uno sconosciuto avesse ucciso un mercante, e avesse<br />
appiattato il coltello nella roba d’Aksiònov, e per questo, innocente, egli<br />
fosse stato condannato,<br />
Quando Makàr d’Aksiònov sentì queste cose, lanciò un’occhiata ad<br />
Aksiònov, si batté le mani sui ginocchi, e <strong>di</strong>sse:
168<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
— Oh, che combinazione! Questa si che è una combinazione! Ti sei<br />
invecchiato, però, nonno mio!<br />
Subito incominciarono a domandargli <strong>di</strong> che cosa si meravigliasse<br />
tanto, e dove avesse veduto Aksiònov.; ma Makàr Semiònovič non ri‐<br />
spondeva: <strong>di</strong>sse, soltanto:<br />
— Sono davvero combinazioni, ragazzi: guarda dov’era scritto che ci<br />
si rivedesse!<br />
E, da queste parole, nacque ad Aksiònov un pensiero: non avrà sapu‐<br />
to, quest’uomo, chi era stato l’uccisore del mercante? Gli <strong>di</strong>sse:<br />
— O che tu, Semiònyč, hai sentito altre volte parlar <strong>di</strong> questa cosa, o<br />
che m’hai già veduto altre volte!<br />
— E come non ne avrei sentito parlare! Le notizie fanno il giro della<br />
terra. Ma è un gran pezzo che la cosa è successa: quel che ho sentito, m’è<br />
caduto <strong>di</strong> mente, — <strong>di</strong>sse Makàr Semiònov.<br />
— Forse hai sentito <strong>di</strong>re chi ha ucciso il mercante? — domandò A‐<br />
ksiònov.<br />
Makàr Semiònov ruppe in una risata, e <strong>di</strong>sse:<br />
— Ma certo, è evidente: chi ha ucciso è quello, a cui s’è trovato il col‐<br />
tello nel sacco. Se anche qualcuno te l’avesse ficcato lì dentro, non è stato<br />
acchiappato, e dunque non è il ladro. Ma poi, com’era possibile ficcare il<br />
coltello nel sacco tuo? Questo ti stava, <strong>di</strong>amine, al capezzale! Te ne sare‐<br />
sti accorto.<br />
Appena Aksiònov ebbe sentito queste parole, gli venne il pensiero<br />
che proprio quest’uomo avesse ucciso il mercante. Si levò, e s’allontanò<br />
<strong>di</strong> lì. Tutta quella nottata non poté chiuder occhio. Lo aveva assalito una<br />
gran tristezza, e tante immagini gli risorgevano <strong>di</strong>nanzi: ora gli risorge‐<br />
va l’immagine della moglie, com’era quando, per l’ultima volta, lo aveva<br />
salutato sul punto <strong>di</strong> partir per la fiera: la vedeva lì come viva, vedeva il<br />
suo viso, i suoi occhi, la sentiva parlargli e ridere; poi, gli risorgevano le<br />
immagini dei bambini, tali quali erano allora: piccolini, uno con la pellic‐<br />
cetta, un altro lattante. E anche <strong>di</strong> se stesso si ricordava, com’era a quei<br />
tempi: allegro, giovanile; sì ricordava <strong>di</strong> quei momenti che stava là, sul<br />
pianerottolo dell’albergo, dove poi era stato arrestato, a suonar la chitar‐<br />
ra, e quanta allegria aveva allora nell’anima. Ed ecco tornargli a mente il<br />
palco infame, dove lo avevano fustigato: e il boia, e il popolo intorno, e i<br />
ceppi, e i forzati, e tutti questi ventisei anni <strong>di</strong> galera, e la sua vecchiaia.<br />
E tanta tristezza assaliva Aksiònov, che avrebbe alzato le mani contro<br />
se stesso.<br />
«E tutto per causa <strong>di</strong> quest’assassino!» pensava Aksiònov.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 169<br />
E finì per invaderlo un tale rancore contro Makàr Semiònov, che, a<br />
costo <strong>di</strong> perdersi, ma avrebbe voluto prenderne vendetta. Continuò a <strong>di</strong>r<br />
preghiere tutta la notte, ma non riusciva a ritrovar la calma. Il giorno se‐<br />
guente, non si avvicinò a Makàr Semiònov, e non lo guardò neppure.<br />
Così passarono due settimane. La notte, Aksiònov non poteva dormi‐<br />
re, ed era assalito da una tale tristezza, che non sapeva dove voltarsi.<br />
Una volta, così <strong>di</strong> notte, mentre camminava per la prigione, s’avvide<br />
che <strong>di</strong> sotto a un tavolaccio schizzava su della terra. Egli si fermò a<br />
guardare. Tutt’a un tratto, Makàr Semiònov saltò fuori <strong>di</strong> sotto al tavo‐<br />
laccio, e con una faccia spaventata sbirciò Aksiònov. Aksiònov voleva<br />
passar oltre, per non vederlo: ma Makàr lo afferrò pel braccio e gli <strong>di</strong>sse<br />
che lui stava scavando un passaggio sotto le mura, e la terra, giorno per<br />
giorno, la portava fuori dentro ai gambali, e la versava strada facendo,<br />
mentre li conducevano al lavoro. Poi <strong>di</strong>sse:<br />
— Purché tu stia zitto, vecchio, anche te farò fuggire. Se invece parle‐<br />
rai, a me toccheranno le verghe, ma tu pure non avrai scampo: t’ammaz‐<br />
zerò.<br />
A vedersi lì <strong>di</strong>nanzi il suo carnefice, Aksiònov cominciò a tremare tut‐<br />
to dal rancore: si svincolò col braccio, e rispose:<br />
— Fuggire, io, non saprei dove, ed essere ucciso, non me n’importa:<br />
già da un pezzo tu m’hai ammazzato. Quanto poi a denunciarti o no, fa‐<br />
rò come Id<strong>di</strong>o mi pone nell’animo.<br />
L’indomani, mentre menavano i forzati al lavoro, í soldati s’avvidero<br />
che Makàr Semiònov versava fuori dai gambali la terra: andarono a cer‐<br />
care dentro la prigione, e trovarono la buca. Il <strong>di</strong>rettore venne subito lì<br />
alla prigione, e si mise a interrogar tutti quanti, chi avesse scavato la bu‐<br />
ca. Tutti quanti negarono. Anche quelli che sapevano, si guardavano dal<br />
denunciare Makàr Semiònov, ben sapendo che, per un fatto simile, lo<br />
avrebbero bastonato fin quasi a morte. Allora, il <strong>di</strong>rettore della prigione<br />
si rivolse ad Aksiònov. Sapeva che Aksiònov era un uomo giusto, e per‐<br />
ciò gli <strong>di</strong>sse:<br />
— Vecchio, tu sei veritiero: <strong>di</strong>mmi, <strong>di</strong>nanzi a Dio, chi ha fatto questa<br />
cosa.<br />
Makàr Semiònov se ne stava lì come niente fosse, con gli occhi fissi al<br />
<strong>di</strong>rettore, e neanche li girava verso Aksiònov. Aksiònov fu preso da un<br />
tremito alle mani e alla labbra, tanto che per un pezzo non poté proferir<br />
parola. Pensava, tra sé: «Ricoprirlo? Ma perché dovrei perdonargli, se è<br />
lui che m’ha rovinato? Che paghi tutto il martirio che m’ha fatto patire!<br />
Ad accusarlo, però, è certo che sarà bastonato. E che sarebbe, se io mi<br />
sbagliassi a sospettar <strong>di</strong> lui? Eppoi, forse che a me ne verrebbe sollievo?»
170<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il <strong>di</strong>rettore <strong>di</strong>sse un’altra volta: — Ebbene, vecchio, dì la verità: chi è<br />
stato a scavare?<br />
Aksiònov posò gli occhi su Makàr Semiònov, e <strong>di</strong>sse:<br />
— Io non ho veduto e non so niente.<br />
E così, non si venne a sapere chi avesse scavato la buca.<br />
Quando fu scesa la notte, mentre Aksiònov, coricato sul suo tavolac‐<br />
cio, stava tra veglia e sonno, sentì qualcuno che s’accostava in qua, e gli<br />
si sedeva ai pie<strong>di</strong>. Guardò fra il buio, e ravvisò Makàr.<br />
Aksiònov gli <strong>di</strong>sse:<br />
— Che altro ti serve, da me? Che stai a fare, lì?<br />
Makàr Semiònov taceva. Aksiònov si tirò su, e gli <strong>di</strong>sse: — Che vuoi?<br />
Vattene via. Altrimenti chiamo il soldato.<br />
Makàr Semiònov si curvò più accosto ad Aksiònov, e con un soffio <strong>di</strong><br />
voce gli <strong>di</strong>sse:<br />
—Ivàn Dmìtrevič, perdonami!<br />
Aksiònov <strong>di</strong>sse: — E <strong>di</strong> che, dovrei perdonarti!<br />
— Sono stato io che ho ammazzato il mercante, e io ho ficcato il col‐<br />
tello nella tua roba: anche te volevo ammazzare, ma <strong>di</strong> fuori fecero ru‐<br />
more: allora ti ficcai il coltello nel sacco, e saltai dalla finestra.<br />
Aksiònov taceva, e non sapeva che <strong>di</strong>re. Makàr Semiònov scivolò giù<br />
dal tavolaccio, si prostrò fino a terra, e <strong>di</strong>sse:<br />
— Ivàn Dmítrevič, perdonami, perdona in nome <strong>di</strong> Dio. Io <strong>di</strong>chiarerò<br />
che il mercante è stato ucciso da me, e tu sarai perdonato. Tu ritornerai a<br />
casa tua.<br />
Aksiònov rispose:<br />
— Tu fai presto a parlare: ma io, quanto ho sofferto? E dove posso<br />
andare, ormai?... La moglie m’è morta, i figliuoli m’hanno scordato: io<br />
non ho più dove andare...<br />
Makàr Semiònov non si rialzava da terra, e batteva la testa contro il<br />
piancito, e <strong>di</strong>ceva:<br />
— Ivàn Dmítrevič, perdona! Quando, con quello knut, mi fustigava‐<br />
no, non soffrivo quanto adesso a guardar te... E tu, per <strong>di</strong> più, m’hai ri‐<br />
sparmiato: sei stato zitto. Perdonami, per amore <strong>di</strong> Cristo! Perdona que‐<br />
sto assassino maledetto! — e scoppiò in singhiozzi.<br />
Quando Aksiònov senti che Makàr Semiònov piangeva, scoppiò a<br />
piangere anche lui, e gli <strong>di</strong>sse:<br />
— Il Signore ti perdoni: io, forse, sono cento volte peggiore <strong>di</strong> te!<br />
E d’improvviso, nell’anima, gli si fece una gran leggerezza. E gli pas‐<br />
sò quella nostalgia <strong>di</strong> casa sua, e non usciva mai <strong>di</strong> dentro alla prigione,<br />
e non faceva più che pensare alla sua ultima ora.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 171<br />
Makàr Semiònov non <strong>di</strong>ede retta ad Aksiònov, e confessò la sua col‐<br />
pa. Ma quando giunse, per Aksiònov, l’or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> liberazione, Aksiònov<br />
era già morto.<br />
I cristalli.<br />
(Considerazioni).<br />
Se si versa del sale nell’acqua, e si rimescola, il sale comincerà a scio‐<br />
gliersi, e alla fine sarà così ben sciolto, che nell’acqua non si vedrà più<br />
affatto il sale; ma se si verserà dell’altro sale, e dell’altro ancora, arriverà<br />
il momento che il sale smetterà <strong>di</strong> sciogliersi, e per quanto lo si rimescoli,<br />
rimarrà pur sempre nell’acqua come una polverina bianca. L’acqua è <strong>di</strong>‐<br />
venuta satura <strong>di</strong> sale, e non può riceverne più.<br />
Se però quell’acqua si riscalda, essa ne riceverà ancora: il sale, che<br />
non riusciva a sciogliersi nell’acqua fredda, in quella calda si scioglierà.<br />
Ma se si continuerà a versare altro sale, allora verrà il momento che<br />
anche l’acqua calda non potrà più ricevere sale. E se si cercherà <strong>di</strong> riscal‐<br />
dare l’acqua sempre più, finirà che l’acqua se ne andrà in vapore, e la‐<br />
scerà un resto <strong>di</strong> sale ancora più grosso. Così, per ogni sostanza che si<br />
scioglie nell’acqua, c’è una certa misura, oltrepassando la quale l’acqua<br />
non è più capace <strong>di</strong> scioglierla. Qualsiasi sostanza si scioglie in maggior<br />
quantità nell’acqua calda, piuttosto che in quella fredda: ma, una volta<br />
che l’acqua calda sarà <strong>di</strong>venuta satura, non potrà riceverne più. La so‐<br />
stanza rimarrà lì in <strong>di</strong>sparte, e l’acqua andrà in vapore.<br />
Se si saturerà l’acqua <strong>di</strong> polvere <strong>di</strong> salnitro, e poi si verserà ancora del<br />
salnitro in più, e si riscalderà tutta l’infusione, lasciando che si fred<strong>di</strong><br />
senza rimuoverla, si vedrà che quel salnitro in più non giacerà in fondo<br />
all’acqua in forma <strong>di</strong> polvere, ma si sarà tutto condensato in tante colon‐<br />
nine a sei facce, posate sul fondo e sui lati, una colonnina accanto all’al‐<br />
tra. Se, dopo aver saturato l’acqua <strong>di</strong> polvere <strong>di</strong> salnitro, la si porrà in un<br />
luogo caldo, l’acqua andrà in vapore, e il salnitro in più si condenserà<br />
allo stesso modo in tante colonnine a sei facce.<br />
Saturando l’acqua <strong>di</strong> sale da cucina, riscaldandola, e lasciando che<br />
l’acqua svapori, il sale in più si condenserà anch’esso, non in forma <strong>di</strong><br />
colonnine 137 ma in tanti cubetti. Saturando l’acqua <strong>di</strong> salnitro e <strong>di</strong> sale<br />
mischiati insieme, il <strong>di</strong>ppiú <strong>di</strong> salnitro e il <strong>di</strong>ppiú <strong>di</strong> sale non si confon‐<br />
137 Nel testo, per una svista evidente, «in forma <strong>di</strong> polvere».
172<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
deranno, e si condenseranno ognuno a proprio modo: il salnitro in co‐<br />
lonnine, il sale in cubetti.<br />
Saturando l’acqua <strong>di</strong> calce, o d’un sale <strong>di</strong>verso, o d’un’altra sostanza<br />
qualsiasi, avverrà sempre che, quando l’acqua svaporerà, ogni sostanza<br />
si condenserà a modo proprio: una in colonnine a tre facce, un’altra a ot‐<br />
to facce, un’altra in mattoncini, un’altra in stelline: ognuna, insomma,<br />
secondo il modo che è proprio ad essa. Queste <strong>di</strong>verse figure geometri‐<br />
che si formano in tutte le sostanze solide. Certe volte sono figure <strong>di</strong><br />
gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>mensioni, come un pugno d’uomo: così sono quelle che si tro‐<br />
vano in alcune pietre sotto terra. Altre volte sono figure tanto piccole,<br />
che non si <strong>di</strong>stinguono a occhio nudo. Ma ogni sostanza prende la figura<br />
sua.<br />
Provate, quando l’acqua è satura <strong>di</strong> salnitro, e le figure incominciano<br />
a condensarvisi, provate a staccare con un ago l’estremità d’una <strong>di</strong> quel‐<br />
le figure: subito, nello stesso punto, accorreranno altri pezzettini <strong>di</strong> salni‐<br />
tro, e rifaranno quell’estremità spezzata secondo la forma che deve ave‐<br />
re, <strong>di</strong> colonnina a sei facce. La stessa cosa accadrà sia col sale, sia con u‐<br />
n’altra sostanza qualunque. Tutti i più piccoli granelli della sostanza si<br />
mettono in moto, e vanno ad appiccicarsi là dove occorre.<br />
Quando si forma il ghiaccio, accade la stessa cosa.<br />
In un fiocco <strong>di</strong> neve, fin tanto che vola nell’aria, non si vede nessuna<br />
figura geometrica; ma appena viene a posarsi su una cosa scura e fredda,<br />
come una stoffa o una pelliccia, si può <strong>di</strong>stinguere la figura che ha preso:<br />
una stellina, oppure una tavolettina a sei facce. Sui vetri delle finestre il<br />
vapore non gela a casaccio: appena esso comincerà a gelare, subito si<br />
comporrà in forma <strong>di</strong> stelline.<br />
Che cos’è il ghiaccio? È acqua fredda, solida. Quando, dall’acqua li‐<br />
quida, si forma acqua solida, questa si compone in figure geometriche,<br />
ed emette calore. Lo stesso accade col salnitro: quando, dallo stato liqui‐<br />
do, il salnitro si compone in figure solide, esso emette calore. Lo stesso fa<br />
il sale, lo stesso fa il ferro fuso, quando da liquido <strong>di</strong>venta solido. Quan‐<br />
do una sostanza qualsiasi, da liquida che era, <strong>di</strong>venta solida, essa emette<br />
calore, e si compone in figure geometriche. Quando, invece, da solida<br />
<strong>di</strong>venta liquida, ogni sostanza assorbe calore, e il freddo né esce, e le sue<br />
figure si sciolgono.<br />
Pren<strong>di</strong> del ferro fuso, e lascialo freddare: pren<strong>di</strong> della pasta <strong>di</strong> pane<br />
bollente, e lasciala freddare; pren<strong>di</strong> della calce viva, e lasciala freddare:<br />
ogni volta si produrrà del calore. Pren<strong>di</strong> del ghiaccio e scioglilo: si pro‐<br />
durrà del freddo. Pren<strong>di</strong> del salnitro, del sale, una sostanza qualsiasi <strong>di</strong>
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 173<br />
quelle che nell’acqua si sciolgono, e lascia che si sciolga nell’acqua: si<br />
produrrà del freddo.<br />
Per far ghiacciare il gelato, si versa del sale nell’acqua.<br />
Il lupo e la capra.<br />
(Favola).<br />
Un lupo vide una capra che pascolava in cima a una roccia, e non c’e‐<br />
ra modo, per lui, <strong>di</strong> salire lassù. Perciò le <strong>di</strong>sse: — Perché non scen<strong>di</strong> a<br />
basso? Quaggiù il luogo è più piano, eppoi troverai dell’erba più dolce<br />
per il tuo pasto.<br />
Gli rispose la capra: — Lupo, non è per questo che tu mi chiami a<br />
basso: non è il pasto mio, ma il tuo che ti sta a cuore!<br />
Policrate <strong>di</strong> Samo.<br />
(Racconto storico).<br />
C’era un re greco che si chiamava Policrate. Egli era fortunato in ogni<br />
cosa. Aveva conquistato molte città, ed era <strong>di</strong>ventato molto ricco. Poli‐<br />
crate descrisse in una lettera tutta la sua vita fortunata, e mandò questa<br />
lettera a un amico suo, il re Amasis <strong>di</strong> Egitto. Amasis lesse la lettera e<br />
scrisse a Policrate la sua risposta <strong>di</strong>cendogli così: «Fa piacere sapere che<br />
a un amico le cose vanno bene. Ma la tua fortuna non mi persuade. Se‐<br />
condo me, è meglio quando a un uomo una faccenda va bene, un’altra<br />
no, in modo che vi sia un avvicendamento. Ascoltami e fà come ti <strong>di</strong>co:<br />
la cosa che hai più cara <strong>di</strong> tutte, tu pigliala e buttala in un posto dove<br />
nessuno possa ritrovarla. E allora tu avrai, avvicendate tra loro, felicità e<br />
infelicità».<br />
Policrate lesse la risposta e <strong>di</strong>ede ascolto al suo amico. Ed ecco che co‐<br />
sa fece. Egli aveva un anello prezioso: pigliò questo anello, radunò molta<br />
gente, e salí con tutta questa gente su una nave. Poi or<strong>di</strong>nò <strong>di</strong> salpare<br />
per l’altomare. E quando si fu spinto ben al largo della sua isola, allora,<br />
in presenza <strong>di</strong> tutta quella gente, gettò l’anello in mare, e fece ritorno a<br />
terra.<br />
Di lì a cinque giorni, capitò a un pescatore <strong>di</strong> prendere un grosso, bel‐<br />
lissimo pesce; e il pescatore pensò <strong>di</strong> portarlo in dono al re. Ecco che ar‐<br />
riva all’ingresso della reggia <strong>di</strong> Policrate, e quando Policrate gli esce in‐<br />
contro, il pescatore gli <strong>di</strong>ce: — Maestà, io ho preso questo pesce e l’ho
174<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
portato a te, perché un pesce così bello, solo il re deve mangiarlo! — Po‐<br />
licrate ringraziò il pescatore e lo invitò a pranzare con lui. Il pescatore<br />
consegnò il pesce ai servi e s’avviò dal re; e i cuochi, intanto, aprirono il<br />
pesce e ci trovarono dentro proprio quell’anello, che Policrate aveva get‐<br />
tato in mare.<br />
Quando i cuochi portarono a Policrate il suo anello, e gli <strong>di</strong>ssero come<br />
lo avevano trovato, Policrate scrisse un’altra lettera là in Egitto, al suo<br />
amico Amasis, raccontandogli come aveva gettato via l’anello, e come<br />
questo era stato ritrovato. Amasis lesse la lettera e pensò: «Non è buon<br />
segno, questo: si vede proprio che al destino non si scampa! Sarà meglio<br />
che io la tronchi con questo mio amico, se un giorno o l’altro non voglio<br />
averne chissà quanta pena!» E mandò a <strong>di</strong>re a Policrate che la loro ami‐<br />
cizia era finita.<br />
Viveva in quel tempo un tale <strong>di</strong> nome Oroites. Questo Oroites aveva<br />
rancore contro Policrate, e desiderava mandarlo in rovina. Ed ecco a<br />
quale astuzia Oroites fece ricorso. Scrisse a Policrate <strong>di</strong>cendo che il re dei<br />
Persiani, Cambise, gli aveva fatto un torto, e aveva cercato <strong>di</strong> ucciderlo,<br />
ma lui era riuscito a sfuggirgli. E Oroites <strong>di</strong>ceva a Policrate: «Io ho molte<br />
ricchezze, ma non so dove andare a stabilirmi. Accoglimi presso <strong>di</strong> te<br />
con tutte le mie ricchezze, e allora noi due <strong>di</strong>venteremo i più forti <strong>di</strong> tutti<br />
i re della terra. Se poi tu non cre<strong>di</strong> che io ho molte ricchezze, manda<br />
qualcuno ad accertarsene coi suoi occhi».<br />
Policrate, infatti, mandò uno dei suoi servi ad accertarsi se era vero<br />
che Oroites era fuggito con tante ricchezze. Ma quando il servo si fu re‐<br />
cato là per vedere quelle ricchezze, Oroites lo ingannò così: prese molte<br />
navi, le caricò tutte <strong>di</strong> pietre, e sopra le pietre, le ricolmò d’oro fino agli<br />
orli.<br />
Quando il servo <strong>di</strong> Policrate le vide, credette che tutte quelle navi fos‐<br />
sero piene rase d’oro: e così andò a riferire a Policrate.<br />
Allora Policrate senti il desiderio <strong>di</strong> recarsi lui stesso da Oroites, a ve‐<br />
dere le sue ricchezze. La notte prima della partenza, la figlia <strong>di</strong> Policrate<br />
ebbe un sogno: le pareva che il padre stesse penzoloni nell’aria. La figlia<br />
si mise a pregare il padre che non partisse per andare da Oroites: ma il<br />
padre s’inquietò, e <strong>di</strong>sse che non l’avrebbe lasciata sposare, se non aves‐<br />
se fatto silenzio imme<strong>di</strong>atamente. La figlia rispose: — Sono ben contenta<br />
<strong>di</strong> non sposare, purché tu non vada da Oroites: io ho paura che ti accada<br />
qualche <strong>di</strong>sgrazia!<br />
Il padre non le <strong>di</strong>ede retta, e partì. Quando arrivò sul posto, subito<br />
Oroites lo fece acciuffare e impiccare. In questo modo il sogno della fi‐<br />
glia s’avverò.
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 175<br />
E così accadde quello che aveva preveduto Amasis: che la grande for‐<br />
tuna <strong>di</strong> Policrate terminò con una grande sfortuna.<br />
Volgà l’eroe.<br />
(Leggenda in versi).<br />
Per quanto fitte e vivide le stelle<br />
<strong>di</strong>sseminate per il cielo brillino,<br />
per quanto luminoso nell’altissima<br />
volta risplenda il lume della luna,<br />
ben più lucente un vivo sole illumina<br />
la terra della nostra santa Russia:<br />
in Russia, nella nostra madre santa,<br />
è nato, ecco, un eroe senza paura,<br />
Volgà lo splen<strong>di</strong>do, il sire Buslàevič.<br />
Al nascere del grande pala<strong>di</strong>no<br />
ha tremato l’umida terra madre,<br />
il mare azzurro ondeggiando s’è alzato,<br />
fuggiti in fondo al mare sono i pesci,<br />
e l’impero del Turco ha vacillato.<br />
Quando Volgà ha toccato i suoi sett’anni,<br />
vasta sapienza egli ha voluto apprendere:<br />
ai saggi s’è affidato, e nelle scienze<br />
s’è approfon<strong>di</strong>to con alacre stu<strong>di</strong>o.<br />
Ha acquistato Volgà tutte le arti:<br />
maestro egli s’è fatto nella prima —<br />
l’arte <strong>di</strong> trasformarsi in uccellino;<br />
nella seconda s’è fatto maestro —<br />
l’arte <strong>di</strong> trasformarsi in pesciolino;<br />
maestro egli s’è fatto nella terza —<br />
l’arte <strong>di</strong> trasformarsi in lupo grigio.<br />
Come ha compiuto Volgà i quin<strong>di</strong>ci anni,<br />
raduna intorno a sé una compagnia:<br />
e tutti pari a lui sceglie i suoi amici,<br />
bravi giovani pieni <strong>di</strong> coraggio,<br />
trenta fratelli in tutto meno uno:<br />
appunto egli, Volgà, è quel trentesimo.<br />
Quando Volgà e i compagni si trovarono<br />
nei paraggi <strong>di</strong> Kiev su un picco ripido,
176<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
<strong>di</strong>sse allora così Volgà Buslàevič:<br />
—Oh voi, mia compagnia senza paura,<br />
trenta fratelli in tutto meno uno<br />
(appunto io, Volgà, sono il trentesimo),<br />
al fratello maggiore date ascolto,<br />
l’opera ch’egli v’or<strong>di</strong>na eseguite:<br />
intrecciate, intrecciate reti seriche,<br />
e nell’azzurro mare, poi, calatele! —<br />
Diede ascolto a Volgà la compagnia:<br />
si mise ad intrecciare reti seriche,<br />
e quin<strong>di</strong> le calò nel mare azzurro.<br />
In pesciolino Volgà si trasforma,<br />
nel pesce luccio dai denti lunghissimi,<br />
scende a nuoto nei più profon<strong>di</strong> tònfani,<br />
spaventa i pesci del color dell’iride,<br />
tutti li spinge nelle reti fitte.<br />
Quando Volgà e i compagni si trovarono<br />
nei paraggi <strong>di</strong> Kiev su un picco ripido,<br />
<strong>di</strong>sse allora così Volgà Buslàevič:<br />
—Oh voi, mia compagnia senza paura,<br />
trenta fratelli in tutto meno uno<br />
(appunto io, Volgà, sono il trentesimo),<br />
al fratello maggiore date ascolto,<br />
l’opera ch’egli v’or<strong>di</strong>na eseguite:<br />
attorcete, attorcete seriche funi,<br />
poi qua e là per il bosco <strong>di</strong>sponetele,<br />
lungo i sentieri che le fiere battono! —<br />
Diede ascolto a Volgà la compagnia:<br />
attorse tante funicelle seriche,<br />
poi qua e là per il bosco le <strong>di</strong>spose;<br />
egli in fiera, Volgà, si trasformò,<br />
in grigio lupo dalle lunghe zampe,<br />
e nei boschi remoti galoppo’,<br />
nei forteti più tetri e inaccessibili.<br />
Spaurì la selvaggina da pelliccia,<br />
spinse la selvaggina nei lacciuoli.<br />
Quando Volgà e i compagni si trovarono<br />
nei paraggi <strong>di</strong> Kiev su un picco ripido,<br />
<strong>di</strong>sse allora così Volgà Buslàevič:<br />
—Catturato noi abbiamo d’ogni pesce
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 177<br />
dentro gli abissi dell’azzurro mare;<br />
catturato le bestie da pelliccia<br />
dentro gli ombrosi boschi solitari:<br />
non si troverà, ora, un valoroso<br />
che all’impero del Turco voglia andare,<br />
dal grande imperatore Saltàn Bekètyič,<br />
a spiare i <strong>di</strong>segni suoi imperiali? —<br />
Tutti quei pro<strong>di</strong> allora s’appiattarono,<br />
il più alto alle spalle del mezzano,<br />
il mezzano alle spalle del più piccolo:<br />
né dal più piccolo venne risposta.<br />
Dice allora così Volgà Buslàevič:<br />
— Volgà in persona, dunque, andrà fin là! —<br />
E in uccellino Volgà si trasforma,<br />
alto si libra al culmine del cielo,<br />
all’impero del Turco a volo arriva,<br />
su una finestra sporgente si posa.<br />
Siede li dentro il re Saltàn Bekètyč,<br />
e accanto a lui la regina Daví<strong>di</strong>evna,<br />
e insieme si trattengono a colloquio.<br />
Dice in quel punto il re Saltàn Bekètyč:<br />
—Sai, moglie mia fra tutte pre<strong>di</strong>letta,<br />
fresca luce degli occhi miei, Daví<strong>di</strong>evna,<br />
guerra alla santa Russia io voglio muovere,<br />
Kiev, la famosa città, voglio prendere,<br />
far dono voglio d’una città russa<br />
a ciascuno dei nove figli nostri:<br />
e a te voglio portare una pelliccia<br />
<strong>di</strong> gran pregio, <strong>di</strong> zibellino can<strong>di</strong>do —.<br />
E <strong>di</strong> rimando a lui <strong>di</strong>ce Daví<strong>di</strong>evna:<br />
— Ahimè, ahimè, gran re Saltàn Bekètyč!<br />
Invano, invano tu ti stai apprestando<br />
a guerreggiar contro la terra russa!<br />
Non t’avve<strong>di</strong> tu dunque d’una cosa:<br />
che tutto in Russia, da un tempo, è mutato?<br />
Un bel sole lucente ha illuminato<br />
la gloriosa santa terra russa:<br />
è nato, ecco, un eroe senza paura,<br />
Volgà Buslàevič, il gran pala<strong>di</strong>no!<br />
E in quest’istante egli, Volgà Buslaevič,
178<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
sulla finestra s’è posato, e ascolta<br />
i colloqui fra me e te più segreti:<br />
Kiev la famosa tu non prenderai,<br />
non farai dono d’una città russa<br />
a ciascuno dei nove figli nostri:<br />
ma rovina verrà al tuo stesso capo<br />
da parte <strong>di</strong> costui, Volgà Buslàevič! —<br />
A questi detti Saltàn non vuol credere,<br />
e contro la regina il re s’a<strong>di</strong>ra:<br />
la batte egli sulla guancia can<strong>di</strong>da,<br />
caccia dal suo cospetto la Davì<strong>di</strong>evna.<br />
Ebbe un pensiero allora Volg138 Buslàevič:<br />
prese e si trasformò in un ermellino,<br />
e corse nei profon<strong>di</strong> sotterranei.<br />
Egli, là, tutte quelle corde seriche<br />
agli archi tesi a una a una rosica;<br />
ai dar<strong>di</strong> ben forgiati gli aghi ferrei<br />
sfila e poi seppellisce a uno a uno;<br />
poi <strong>di</strong> bel nuovo si muta in uccello,<br />
a volo torna in<strong>di</strong>etro fino a Kiev,<br />
raduna la sua brava compagnia,<br />
e marcia contro l’impero del Turco.<br />
L’impero è saldamente circondato<br />
da una muraglia tutta in pietra, altissima:<br />
nella muraglia una porta ben solida s’apre,<br />
ch’ è tutta d’acciaio dorato,<br />
e come chiavistelli ha arpioni bronzei,<br />
e un raro dente <strong>di</strong> pesce ha per soglia,<br />
in minuti trafori lavorato,<br />
in astrusi trafori minutissimi,<br />
che a stento una formica ci s’insinua.<br />
La compagnia, a quella vista, si scora:<br />
—Come faremo a passar la muraglia?<br />
Dovremo dunque, così pro<strong>di</strong> e giovani,<br />
perdere qui la nostra vita invano? —<br />
Ebbe un pensiero allora Volg Buslàevič:<br />
in formica se stesso trasformò,<br />
e i pro<strong>di</strong> suoi in altrettante formiche:<br />
138 Forma contratta <strong>di</strong> «Volgà» [N. d. T.].
Terzo libro <strong>di</strong> lettura 179<br />
s’insinuò, con la sua compagnia,<br />
in quella soglia <strong>di</strong> dente <strong>di</strong> pesce:<br />
quando furono dentro alla muraglia,<br />
mutò quelle formiche, Volg Buslàevič,<br />
in altrettanti pro<strong>di</strong> ben armati.<br />
E <strong>di</strong>sse allora così Volg Buslàevič:<br />
— Al fratello maggiore date ascolto,<br />
l’opera ch’egli v’or<strong>di</strong>na eseguite:<br />
in questo impero splen<strong>di</strong>do del Turco,<br />
squartate con la spada il vecchio e il piccolo!<br />
Sterminateli fino alla ra<strong>di</strong>ce:<br />
risparmiate soltanto le animucce<br />
delle trenta ragazze più leggiadre! —<br />
E Volgà stesso va in cerca del re,<br />
rinchiuso nel palazzo suo marmoreo:<br />
serrata sta quella gran porta ferrea,<br />
alla porta stan chiavistelli soli<strong>di</strong>:<br />
ma d’improvviso esclama Volg Buslàevič:<br />
— Dovessi rompermi un piede, la scàr<strong>di</strong>no! —<br />
Col piede un calcio <strong>di</strong>è alla porta ferrea,<br />
fracassò tutti i chiavistelli soli<strong>di</strong>,<br />
l’imperatore famoso del Turco<br />
prese Volgà per le sue mani can<strong>di</strong>de.<br />
E gli <strong>di</strong>sse così Volgà Buslàevič:<br />
— Eppoi si <strong>di</strong>ce che i re non si toccano!<br />
che quelli come voi non si castigano! —<br />
Sbatacchiò il re ai mattoni del piancito,<br />
e mandò il cranio <strong>di</strong> Saltàn in briciole.<br />
Quin<strong>di</strong> alla compagnia sua valorosa<br />
spartì Volgà il bottino in parti eguali:<br />
un migliaio <strong>di</strong> bei cavalli indomiti,<br />
una botte ricolma d’oro fino,<br />
e una ragazza a ognuno dei suoi pro<strong>di</strong>.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura
Il re e la camicia.<br />
(Leggenda).<br />
C’era un re che non stava bene in salute, e <strong>di</strong>sse ai suoi: — Darò la<br />
metà del mio regno a colui che saprà farmi guarire.<br />
Si riunirono tutti i sapienti e si consultarono sul modo <strong>di</strong> guarire il re.<br />
Nessuno sapeva il modo. Uno solo <strong>di</strong> quei sapienti <strong>di</strong>sse che il re si<br />
poteva far guarire. Disse che, se si trovava un uomo che era felice, basta‐<br />
va togliergli la camicia e farla indossare al re: allora il re sarebbe tornato<br />
in buona salute.<br />
Subito il re mandò a ricercare per il suo reame un uomo che fosse feli‐<br />
ce; ma i messi reali viaggiarono a lungo per tutto il reame, e non riusci‐<br />
rono a trovare un uomo felice. Non c’era nessuno che fosse contento in<br />
ogni cosa. Chi era ricco, ma in cattiva salute; chi era in buona salute, ma<br />
povero; chi era in buona salute e anche ricco, ma aveva la moglie cattiva;<br />
chi aveva cattivi i figlioli: tutti, insomma, d’una cosa o dell’altra si la‐<br />
mentavano. Un giorno, il figlio del re, passando a tarda sera fuori d’una<br />
capannella, senti che un tale, là dentro, <strong>di</strong>ceva: — Grazie a Dio, ecco qua:<br />
mi sono guadagnato la mia giornata, ho mangiato a sazietà, e ora mi<br />
metto a dormire: che cos’altro dovrei desiderare?<br />
Il figlio del re si rallegrò: or<strong>di</strong>nò che a quest’uomo si togliesse la ca‐<br />
micia, e in compenso gli fosse data qualunque somma lui pretendesse: e<br />
la camicia fosse portata al re.<br />
I messi entrarono in casa dell’uomo felice, e andarono per togliergli la<br />
camicia: ma l’uomo felice era talmente povero, che non aveva indosso<br />
neppure la camicia.<br />
Il giunco e l’olivo.<br />
(Favola).<br />
Un olivo e un giunco si misero a <strong>di</strong>scutere chi dei due fosse più<br />
resistente e più forte. L’olivo si beffò del giunco, <strong>di</strong>cendogli che<br />
qualunque vento era buono a piegarlo. Il giunco taceva.<br />
Sopravvenne la bufera: il giunco ondeggiava tutto, sbatteva <strong>di</strong> qua e<br />
<strong>di</strong> là, si piegava fino a terra – ma se la cavò senza danno. L’olivo<br />
s’irrigidì coi rami contro il vento – e ne fu schiantato.
184<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il lupo e il conta<strong>di</strong>no.<br />
(Leggenda).<br />
I cacciatori inseguivano un lupo. Il lupo, fuggendo, s’imbatté in un<br />
conta<strong>di</strong>no. Il conta<strong>di</strong>no stava tornando dall’aia, e portava con sé il<br />
correggiato e un sacco.<br />
Allora il lupo gli <strong>di</strong>sse: – Conta<strong>di</strong>no, nascon<strong>di</strong>mi: ho <strong>di</strong>etro i cacciatori<br />
che m’inseguono! – Il conta<strong>di</strong>no ebbe compassione del lupo: lo nascose<br />
dentro al sacco, e se lo caricò sulle spalle. Arrivarono i cacciatori e<br />
domandarono al conta<strong>di</strong>no se non aveva veduto un lupo.<br />
– No, non l’ho veduto.<br />
I cacciatori s’allontanarono. Il lupo saltò fuori dal sacco e s’avventò<br />
sul conta<strong>di</strong>no, per mangiarlo. Allora il conta<strong>di</strong>no <strong>di</strong>sse:<br />
– Ah, lupo, tu non hai coscienza! Io t’ho salvato, e tu, come niente<br />
fosse, mi vuoi mangiare.<br />
Gli rispose il lupo:<br />
– Quando un beneficio è passato, è bell’e scordato.<br />
– No, un beneficio passato si ricorda sempre! Prova a domandarlo a<br />
chi ti pare: chiunque ti risponderà che si ricorda sempre.<br />
– Ribatté il lupo:<br />
– Benissimo, facciamo un pezzo <strong>di</strong> strada insieme. Al primo che<br />
incontreremo, faremo questa domanda: non si ricorda più un beneficio<br />
passato, o si ricorda sempre? Se ci <strong>di</strong>ranno: si ricorda sempre, io ti<br />
lascerò andare; ma se ci <strong>di</strong>ranno: non si ricorda più, io ti mangerò.<br />
S’avviarono insieme per la strada, e incontrarono una vecchia cavalla<br />
cieca. Subito il conta<strong>di</strong>no le domanda: – Di’ un po’, cavalla: si ricorda un<br />
beneficio passato, o non si ricorda più?<br />
La cavalla <strong>di</strong>sse:<br />
– State a sentire: io sono stata col mio padrone per do<strong>di</strong>ci anni, gli ho<br />
figliato do<strong>di</strong>ci puledrini, e nello stesso tempo non ho mai smesso <strong>di</strong><br />
lavorare per lui, sia all’aratro, sia al carro. Siccome poi, l’anno scorso,<br />
sono <strong>di</strong>ventata cieca, ho continuato a lavorargli alla macina. Ma proprio<br />
in questi giorni, ecco, non ce l’ho fatta più a girare, e sono caduta contro<br />
la macina. Mi hanno battuta, battuta senza pietà, poi m’hanno trascinata<br />
per la coda fino al burrone, e scaraventata <strong>di</strong> sotto. Quando mi sono<br />
riavuta, con gran fatica mi sono cavata <strong>di</strong> là; e dove andrò ora, nemmeno<br />
io lo so.<br />
Disse il lupo:<br />
– Conta<strong>di</strong>no, lo ve<strong>di</strong>? Un beneficio passato, è bell’e scordato.<br />
Il conta<strong>di</strong>no <strong>di</strong>sse:
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 185<br />
– Aspetta, doman<strong>di</strong>amo ancora!<br />
Proseguirono oltre. Ecco che incontrarono un vecchio cane.<br />
Arrancava a stento, strascicando il sedere per terra.<br />
Il conta<strong>di</strong>no gli domandò:<br />
– Bè, cane, <strong>di</strong>cci un po’ tu: non si ricorda più un beneficio passato, o si<br />
ricorda sempre?<br />
– Eh, state a sentire: io sono stato col mio padrone per quin<strong>di</strong>ci anni,<br />
gli ho fatto la guar<strong>di</strong>a alla casa, ho abbaiato e mi sono avventato a<br />
mordere. Ora, ecco qua, sono <strong>di</strong>ventato vecchio, ho perduto i denti, e<br />
loro mi hanno cacciato via: anzi per giunta, con una stanga, mi hanno<br />
fracassato le zampe <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro. Così mi trascino per terra, senza sapere<br />
nemmeno io dove vado: mi basta <strong>di</strong> andarmene lontano, più lontano<br />
possibile dal mio padrone!<br />
Disse il lupo:<br />
– Conta<strong>di</strong>no, senti che cosa <strong>di</strong>ce?<br />
Ma il conta<strong>di</strong>no <strong>di</strong>sse:<br />
– Aspetta, ancora, finché non abbiamo fatto un terzo incontro!<br />
Ed ecco che, incontro a loro, viene una volpe. Le domanda il<br />
conta<strong>di</strong>no: – Volpe, <strong>di</strong>’ un po’: si ricorda un beneficio passato, o non si<br />
ricorda più?<br />
E la volpe gli risponde:<br />
– Perché lo vorresti sapere?<br />
E il conta<strong>di</strong>no:<br />
– Ma ecco, c’era questo lupo che fuggiva <strong>di</strong>nanzi ai cacciatori, e mi ha<br />
tanto pregato, che io ho acconsentito a nasconderlo nel mio sacco: e ora,<br />
lui, mi vorrebbe mangiare!<br />
Allora la volpe <strong>di</strong>sse: — Ma com’è possibile che un lupo tanto grosso<br />
possa entrare in un sacco tanto piccolo? Se io lo vedessi, potrei darvi una<br />
risposta.<br />
Il conta<strong>di</strong>no <strong>di</strong>sse:<br />
— No, cre<strong>di</strong> pure che c’entra dentro benissimo: eppoi, domandalo<br />
anche a lui.<br />
— Verità sacrosanta! — <strong>di</strong>sse il lupo.<br />
— Ma la volpe <strong>di</strong>sse: — Questa è una cosa che io non riesco a credere,<br />
se non la vedo coi miei occhi. Lupo, fammi vedere come hai fatto a<br />
intrufolarti li dentro!<br />
Subito il lupo ficcò la testa nel sacco, <strong>di</strong>cendo: — Ecco come ho fatto!<br />
La volpe insistette:<br />
— Tutto quanto ficcati dentro: se no, così, io non la vedo chiara!<br />
Il lupo prese e si ficcò dentro al sacco. La volpe, allora, <strong>di</strong>sse al
186<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
conta<strong>di</strong>no:<br />
— Adesso, lega a dovere! — Il conta<strong>di</strong>no legò la bocca del sacco. E la<br />
volpe gli <strong>di</strong>sse:<br />
— E adesso, conta<strong>di</strong>no, facci vedere come sei bravo quando sull’aia<br />
hai da battere il grano!<br />
Il conta<strong>di</strong>no si rallegrò tutto, e si mise a battere col correggiato sul<br />
lupo.<br />
Poi, quand’ebbe battuto ben bene, <strong>di</strong>sse: — Guarda ora, volpe, come<br />
si fa sull’aia, quando il grano dev’essere rivoltato! — E <strong>di</strong>ede una botta<br />
alla volpe sul capo, così forte che quella morí.<br />
E il conta<strong>di</strong>no, rimasto solo, <strong>di</strong>sse: — È proprio vero che un beneficio<br />
passato è bell’e scordato!<br />
I due compagni.<br />
(Favola).<br />
Andavano due compagni per un bosco: sbucò fuori un orso, e li<br />
assalí. Uno dei due fece in tempo a fuggire: s’arrampicò su un albero, e<br />
lassù si nascose; l’altro rimase lì sulla strada. Non c’era nulla da fare, per<br />
lui: si buttò lungo per terra, e fece finta d’essere morto.<br />
L’orso gli si accostò e incominciò a fiutarlo: lui smise perfino <strong>di</strong><br />
respirare.<br />
L’orso gli <strong>di</strong>ede una fiutata alla faccia, credette che fosse morto<br />
davvero, e se ne andò.<br />
Quando l’orso fu scomparso, l’altro compagno scese dall’albero, e si<br />
mise a ridere: — Bè, — gli <strong>di</strong>ceva, — cosa aveva da <strong>di</strong>rti l’orso<br />
nell’orecchio?<br />
— Sai che mi ha detto? Che sono gente da nulla quelli che, nel<br />
pericolo, fuggono via e lasciano soli i compagni.<br />
Il salto.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Una nave, che aveva fatto il giro del mondo, stava tornando in patria.<br />
Il tempo era calmo; tutti stavano in coperta. Fra gli uomini s’aggirava<br />
una grossa scimmia, e li faceva <strong>di</strong>vertire. La scimmia gesticolava,<br />
saltava, faceva tante smorfie buffe, canzonava la gente. Si capiva che<br />
anche lei sapeva che si <strong>di</strong>vertivano a guardarla, e perciò si sfrenava
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 187<br />
sempre più.<br />
Con un salto, d’improvviso, s’accostò a un ragazzo <strong>di</strong> do<strong>di</strong>ci anni, che<br />
era il figlio del capitano, gli strappo’ <strong>di</strong> testa il cappello, se lo calzò lei, e<br />
poi, svelta svelta, s’arrampicò sull’albero della nave. Tutti scoppiarono a<br />
ridere, ma il ragazzo era rimasto senza cappello, e non sapeva se doveva<br />
ridere o piangere.<br />
La scimmia s’appollaiò sul pennone più basso dell’albero, si tolse il<br />
cappello, e cominciò, coi denti e con le zampe, a sdrucirlo. Pareva che<br />
canzonasse il ragazzo: proprio a lui faceva segno, e a lui faceva le<br />
boccacce. Il ragazzo la minacciò con la mano, e la sgridò: ma quella con<br />
più rabbia <strong>di</strong> prima continuava a sdrucire il cappello. I marinai si misero<br />
a ridere più forte che mai, ma il ragazzo <strong>di</strong>ventò rosso, buttò via la<br />
giacchetta, e si lanciò verso la scimmia là sull’albero. In un minuto, su su<br />
per la fune, egli raggiunse il pennone: ma la scimmia, ancora più agile e<br />
più svelta <strong>di</strong> lui, proprio in quell’istante che il ragazzo credeva <strong>di</strong><br />
riacchiappare il suo cappello, s’arrampicò più in alto.<br />
— Non ci riesci, no, a sfuggirmi! — gridò allora il ragazzo, e anche lui<br />
s’inerpicò più in alto.<br />
La scimmia lo attirò <strong>di</strong> nuovo a sé, poi scivolò ancora più in alto: ma<br />
ormai il ragazzo ci s’era messo <strong>di</strong> puntiglio, e non le restava in<strong>di</strong>etro.<br />
Così, in un batter d’occhi, la scimmia e il ragazzo ebbero raggiunto la<br />
cima dell’albero. Quando fu proprio in cima, la scimmia si protese in<br />
fuori quant’era lunga e, tenendosi aggrappata alla fune con una delle<br />
mani posteriori 139 , appese il cappello all’estremità del pennone più alto;<br />
poi andò a rifugiarsi sulla punta dell’albero, e <strong>di</strong> lassù gesticolava,<br />
mostrava i denti e gongolava <strong>di</strong> gioia.<br />
Dall’albero all’estremità del pennone, dov’era appeso il cappello,<br />
correva circa un metro e mezzo, cosicché, per arrivare a prenderlo, ci<br />
sarebbe stato un modo solo: abbandonare con le mani la fune e l’albero.<br />
Ma il puntiglio del ragazzo cresceva sempre più. Egli staccò le mani<br />
dall’albero e, in equilibrio sui pie<strong>di</strong>, s’avanzò lungo il pennone. Giù in<br />
coperta, finora, tutti erano stati a guardare e a ridere delle giostre che<br />
facevano la scimmia e il figlio del capitano; ma quando videro che il<br />
ragazzo abbandonava la fune e s’avanzava in equilibrio sul pennone,<br />
dondolando le braccia, tutti restarono senza fiato dallo spavento.<br />
Bastava che il ragazzo mettesse un piede in fallo, e sarebbe venuto a<br />
fracassarsi in cento pezzi contro la tolda. Ma anche se il piede non gli<br />
fosse mancato, e fosse arrivato fino all’estremità del pennone, e avesse<br />
139 La scimmia ha quattro mani [N. d. A.].
188<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
preso il cappello, gli sarebbe riuscito ben <strong>di</strong>fficile rigirarsi in<strong>di</strong>etro, e<br />
ritornare fino all’albero. Tutti lo guardavano in silenzio, e aspettavano<br />
che cosa sarebbe accaduto.<br />
Tutt’a un tratto, uno degli uomini mandò un’esclamazione <strong>di</strong><br />
spavento. Il ragazzo, a quella voce, si riscosse, guardò in basso, e vacillò.<br />
In quel momento il capitano della nave, che era il padre del ragazzo,<br />
era uscito dalla sua cabina. Aveva in mano il fucile, perché voleva tirare<br />
ai gabbiani140 . Vide il figlio in cima all’albero, e subito lo prese <strong>di</strong> mira<br />
col fucile, gridandogli: – In acqua! Salta subito in acqua, o ti sparo! – Il<br />
ragazzo continuava a vacillare là sul pennone, ma non capiva. – Salta o ti<br />
sparo! Uno, due... – e appena il padre gridò tre, il ragazzo, slanciandosi a<br />
testa bassa, spiccò il salto.<br />
Come un proiettile <strong>di</strong> cannone, il corpo del ragazzo <strong>di</strong>ede un tonfo in<br />
mare: e ancora non era scomparso sotto le onde, che già una ventina <strong>di</strong><br />
robusti marinai s’erano buttati dalla nave in acqua.<br />
Passarono quaranta secon<strong>di</strong>, che parvero a tutti ben lunghi: ed ecco<br />
tornare a galla il corpo del ragazzo. Lo afferrarono e lo tirarono a bordo.<br />
Dopo qualche minuto, dalla bocca e dal naso l’acqua gli sgorgò fuori,<br />
e lui ricominciò a respirare.<br />
Il capitano, a quella vista, si mise improvvisamente a gridare, come se<br />
qualcuno lo strozzasse: e <strong>di</strong> corsa si ritirò nella sua cabina, per non far<br />
vedere a nessuno che piangeva.<br />
La quercia e il nocciolo.<br />
(Favola).<br />
Una vecchia quercia lasciò cadere una ghianda sotto un cespuglio <strong>di</strong><br />
nocciole. Il nocciolo <strong>di</strong>sse alla quercia: – C’è poco spazio, forse, sotto i<br />
tuoi rami? Potresti far cadere le ghiande in un posto non occupato da<br />
nessuno! Qua sto già tanto stretto coi miei polloni: pensa che neanch’io<br />
butto in terra le mie nocciole, ma le dò alla gente.<br />
– Io campo da duecento anni, – <strong>di</strong>sse <strong>di</strong> rimando la quercia, – e il<br />
querciolo che nascerà da questa ghianda camperà altrettanto a lungo.<br />
Allora il nocciolo andò in collera, ed esclamò: – Dunque io soffocherò<br />
il tuo querciolo con la mia ombra: così non camperà neanche tre giorni! –<br />
Ma la quercia non rispose nulla: or<strong>di</strong>nò al suo figliolino che si<br />
sviluppasse pure dalla ghianda.<br />
140 Uccelli marini [N. d. A.].
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 189<br />
La ghianda si macerò, scoppiò e s’aggrappo’ alla terra con l’uncino<br />
del germoglio, mentre un altro germoglio ne sbocciava verso l’alto.<br />
Il cespuglio <strong>di</strong> nocciole lo aduggiava con la sua ombra, e non gli<br />
lasciava passare un filo <strong>di</strong> sole. Ma il querciolo si protese verso l’alto, e<br />
<strong>di</strong>ventò più forte all’ombra del nocciolo. Passarono cent’anni. Il nocciolo<br />
ormai, s’era seccato da un pezzo, ma la quercia nata da quella ghianda<br />
s’era innalzata fino al cielo, e slargava tutt’intorno la sua cupola <strong>di</strong><br />
verdura.<br />
L’aria mefitica.<br />
(Racconto dal vero).<br />
Nel villaggio <strong>di</strong> Nikòlskoe, in una giornata <strong>di</strong> festa, la gente era<br />
andata in chiesa. Presso la casa dei proprietari del luogo erano rimasti<br />
soltanto la vaccaia, il fattore e lo stalliere. La vaccaia andò al pozzo ad<br />
attingere acqua. Il pozzo stava in mezzo al cortile. La donna tirò su la<br />
secchia, ma non seppe tenerla fino all’ultimo. La secchia le sfuggi, andò<br />
a battere contro la parete del pozzo, e spezzò la fune. La vaccaia tornò<br />
alla sua baracca e <strong>di</strong>sse al fattore:<br />
— Alessandro! Fa’ il favore, scen<strong>di</strong> dentro al pozzo: mi ci è caduta la<br />
secchia.<br />
Alessandro le <strong>di</strong>sse:<br />
— Tu l’hai fatta cadere, e tu tirala fuori!<br />
La vaccaia rispose che ci sarebbe scesa da sé, perché no? Bastava che<br />
lui la aiutasse a calarsi giù.<br />
Il fattore, ridendo, le ribatté:<br />
— Bè, an<strong>di</strong>amo pure. Tu ora sei a <strong>di</strong>giuno, dunque ce la farò a<br />
sorreggerti: se fosse stato dopo pranzato, eh, allora non ce l’avrei fatta!<br />
Il fattore legò un bastone alla fune; la donna si sedette a cavalcioni sul<br />
bastone, s’attaccò con le mani alla fune, e s’apprestò a scendere nel<br />
pozzo, mentre il fattore, facendo scorrere la fune sulla ruota,<br />
incominciava a calarla giù.<br />
Il pozzo non era profondo più <strong>di</strong> quattro o cinque metri, e c’era meno<br />
<strong>di</strong> un metro d’acqua. Il fattore faceva scorrere la fune pian piano, e<br />
ripeteva <strong>di</strong> continuo la domanda: — Ancora, dì? Ancora? — La vaccaia<br />
gli gridava, <strong>di</strong> laggiù: — Ancora un pezzetto!<br />
D’improvviso il fattore sentì che la fune s’era allentata: chiamò la<br />
vaccaia, ma quella non rispondeva più. Il fattore s’affacciò a guardare<br />
nel pozzo, e vide che la donna stava rovesciata con la testa nell’acqua e
190<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
le gambe per aria. Il fattore si mise a gridare, chiamando gente: ma non<br />
c’era nessuno. Accorse soltanto lo stalliere. Il fattore gli <strong>di</strong>sse <strong>di</strong> tener<br />
ferma la ruota: poi da sé tirò su la fune, saltò a cavallo del bastone, e<br />
scese nel pozzo.<br />
Non appena lo stalliere ebbe calato il fattore fino al livello dell’acqua,<br />
accadde anche al fattore la stessa cosa: egli abbandonò la fune e cadde a<br />
testa in giù sopra la donna. Lo stalliere si mise a gridare, poi corse in<br />
chiesa a chiamar gente. La messa era finita, e la gente stava uscendo <strong>di</strong><br />
chiesa. Tutti, uomini e donne, corsero al pozzo. Tutti s’affollavano lì al<br />
pozzo, e ognuno gridava la sua: ma nessuno sapeva che cosa fare. Un<br />
giovane carpentiere, Ivàn, si apri il passo tra la folla, raggiunse il pozzo,<br />
afferrò la fune, saltò a cavallo del bastone, e si fece calare giù. Ivàn, però,<br />
s’era legato alla fune con la fusciacca dei calzoni. Due uomini<br />
incominciarono a calarlo, mentre gli altri guardavano tutti dentro al<br />
pozzo, per vedere come sarebbe andata a Ivàn. Non appena egli fu<br />
vicino al livello dell’acqua, abbandonò con le mani la fune, e sarebbe<br />
caduto anche lui a testa in giù, se la fusciacca non lo avesse sostenuto.<br />
Tutti si misero a gridare: — Tiratelo su! —E Ivàn fu subito tirato su <strong>di</strong><br />
nuovo verso l’alto.<br />
Penzolava come un cadavere, così attaccato alla fusciacca: anche la<br />
testa gli penzolava, e gli sbatacchiò contro la sponda del pozzo. Il suo<br />
viso aveva un colore paonazzo livido. Lo trassero fuori dal pozzo, lo<br />
staccarono dalla fune, e lo adagiarono a terra. Credevano che fosse<br />
morto. Ma, tutt’a un tratto, mandò un profondo sospiro, gli venne da<br />
tossire, e tornò in sé.<br />
Allora altre persone proposero <strong>di</strong> scendere nel pozzo, ma ci fu un<br />
vecchio conta<strong>di</strong>no che <strong>di</strong>sse che non era possibile scendere là dentro,<br />
perché nel pozzo c’era la putizza, ossia l’aria mefitica, che è una cosa che<br />
fa morire gli uomini. I conta<strong>di</strong>ni, allora, corsero a prendere dei raffi, e<br />
con questi raffi si misero a tirare fuori il fattore e la donna. La moglie del<br />
fattore e la madre piangevano accanto al pozzo; altre persone cercavano<br />
<strong>di</strong> condurle via; i conta<strong>di</strong>ni tuffavano i raffi nel pozzo, e si sforzavano <strong>di</strong><br />
tirarne fuori i cadaveri. Due volte riuscirono a sollevare il fattore fino<br />
alla metà del pozzo, tenendolo uncinato per il vestito: ma l’uomo era<br />
pesante, il vestito si squarciava, e quello ricadeva giù. Finalmente, lo<br />
uncinarono con due raffi insieme, e così lo tirarono fuori. Poi tirarono<br />
fuori anche la vaccaia. Tutt’e due, ormai, erano morti: non si riebbero<br />
più.<br />
In seguito, quando il pozzo fu esaminato, si venne a sapere che era<br />
proprio così: nel fondo del pozzo c’era l’aria mefitica.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 191<br />
L’aria mefitica.<br />
(Considerazioni).<br />
L’aria mefitica, in certi posti, è talmente gravosa che nessun uomo o<br />
animale ci può vivere.<br />
Ci sono certi posti, sotto terra, dove quest’aria viene a raccogliersi: e<br />
chi capita in un posto <strong>di</strong> questi, subito muore. Appunto per questo, nelle<br />
miniere, adoperano delle lampade speciali, e prima <strong>di</strong> far andare gli<br />
uomini nei punti pericolosi, ci calano giù una <strong>di</strong> quelle lampade. Se la<br />
lampada si spegne, vuol <strong>di</strong>re che neppure gli uomini ci possono andare;<br />
allora mandano laggiù dell’aria pura, fino a tanto che la fiamma della<br />
lampada riesce ad ardere.<br />
Poco lontano da Napoli si trova una <strong>di</strong> queste grotte. In essa l’aria<br />
mefitica rimane sempre in basso, a circa settanta centimetri da terra: più<br />
in alto l’aria è buona. Un uomo può passeggiare in questa grotta senza<br />
sentire nessun <strong>di</strong>sturbi; ma un cane, appena entra là dentro, resta<br />
asfissiato.<br />
Di dove proviene quest’aria mefitica? Essa si forma dalla stessa aria<br />
buona che noi respiriamo.<br />
Se molte persone si radunano insieme in un locale, e si chiudono tutte<br />
le porte e le finestre in modo che non ci passi aria fresca, allora viene a<br />
formarsi un’aria uguale a quella che c’era in fondo a quel pozzo, e gli<br />
uomini vi muoiono.<br />
Alla fine del Settecento 141 , durante una guerra, gli In<strong>di</strong>ani fecero<br />
prigionieri 146 Inglesi. Li rinchiusero in una grotta sotterranea, dove<br />
l’aria non poteva passare.<br />
I prigionieri inglesi, dopo parecchie ore che stavano lì , cominciarono<br />
a sentirsi soffocare, e al termine della nottata ne erano morti 123: gli altri<br />
uscirono da quella grotta in fin <strong>di</strong> vita, e rimasero invali<strong>di</strong> per molto<br />
tempo. Da principio, nell’interno della grotta, l’aria era buona; ma<br />
quando i prigionieri avevano respirato tutta l’aria buona che c’era, e<br />
altra aria buona non ne passava, s’era formata un’aria cattiva, simile a<br />
quella che c’era in quel pozzo: e questo li aveva fatti morire.<br />
Per quale ragione l’aria buona <strong>di</strong>venta cattiva, quando molti uomini<br />
si radunano insieme?<br />
Per la ragione che gli uomini, quando respirano, assorbono l’aria<br />
buona, e rimandano fuori quella cattiva.<br />
141 Il testo ha «quasi cent’anni fa».
192<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il lupo e l’agnello.<br />
(Favola).<br />
Un lupo vide un agnello che beveva a un fiume.<br />
Subito il lupo ebbe voglia <strong>di</strong> mangiare l’agnello, e cercò <strong>di</strong> attaccarci<br />
lite: – Tu, – gli <strong>di</strong>sse, – mi intorbi<strong>di</strong> l’acqua, e non mi lasci bere!<br />
Rispose l’agnello: – Ah, lupo, come è possibile che io t’intorbidì<br />
l’acqua? Eppure, lungo questo fiume, io sto più a valle <strong>di</strong> te; eppoi, bevo<br />
appena in punta <strong>di</strong> labbra!<br />
Ma il lupo gli <strong>di</strong>sse: – Bè, dunque perché, l’anno scorso, tu hai<br />
insultato mio padre?<br />
Rispose l’agnello: – Ma se io, lupo, non ero nemmeno nato, l’anno<br />
scorso!<br />
Allora il lupo andò in collera, e <strong>di</strong>sse: – Tu la vuoi sempre vinta.<br />
Sappi, una buona volta, che io sto a <strong>di</strong>giuno: perciò, ti mangerò!<br />
Il peso specifico.<br />
(Racconto storico).<br />
Il re greco Ierone <strong>di</strong> Siracusa or<strong>di</strong>nò al suo orefice Demetrio una<br />
corona d’oro per la statua <strong>di</strong> Giove, e gli consegnò do<strong>di</strong>ci libbre d’oro.<br />
Demetrio fabbricò la corona: e quando il re la pesò, ritrovò nella<br />
corona le do<strong>di</strong>ci libbre esatte.<br />
Ma venne all’orecchio del re la voce che Demetrio aveva rubato gran<br />
parte dell’oro, e che nella corona ci aveva mescolato dell’argento. Il re<br />
volle sincerarsi se ci fosse davvero molto argento mescolato nella<br />
corona, e or<strong>di</strong>nò che la stritolassero in mille pezzi, per vedere com’era<br />
all’interno.<br />
C’era lì un uomo <strong>di</strong> grande intelligenza e dottrina, parente del re, <strong>di</strong><br />
nome Archimede. Egli <strong>di</strong>sse al re: – Non farla rompere, quella corona: è<br />
peccato mandare a male tanto lavoro! Io, senza rompere la corona, so il<br />
modo <strong>di</strong> verificare quanto argento c’è dentro e quanto oro.<br />
Il re acconsentì alla richiesta <strong>di</strong> Archimede, ed ecco Archimede come<br />
fece.<br />
Prese una libbra d’oro e una d’argento, e le pesò con una bilancia; poi<br />
le pesò <strong>di</strong> nuovo, tenendo la bilancia nell’acqua. La libbra d’oro, dentro<br />
all’acqua, sollevò un piombino in meno <strong>di</strong> prima; la libbra d’argento<br />
sollevò due piombini in meno.<br />
Poi Archimede pesò tutta la corona nell’acqua; chiamò il re, e gli
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 193<br />
<strong>di</strong>sse: – Se una libbra d’oro si pesa nell’acqua, avanza un piombino; se si<br />
pesa nell’acqua l’argento, avanzano per ogni libbra due piombini:<br />
dunque, se la corona fosse tutta d’oro puro, e ne contenesse do<strong>di</strong>ci<br />
libbre, bisognerebbe togliere dalla bilancia do<strong>di</strong>ci piombini. Ora guarda!<br />
Pose sulla bilancia un contrappeso <strong>di</strong> do<strong>di</strong>ci 142 libbre, e pesò la corona<br />
nell’acqua. La corona non sollevò do<strong>di</strong>ci libbre meno do<strong>di</strong>ci piombini,<br />
ma un peso minore. Bisognò togliere ancora degli altri piombini. E<br />
Archimede <strong>di</strong>sse: – Ecco, quanto è il peso <strong>di</strong> quest’altri piombini che si<br />
sono dovuti togliere, tanto è l’oro che Demetrio ti ha frodato.<br />
In questo modo Archimede aveva saputo con sicurezza quanto<br />
argento era stato mescolato <strong>di</strong> nascosto nella corona.<br />
Il leone, il lupo e la volpe.<br />
(Favola).<br />
Un vecchio leone malato stava sdraiato dentro una grotta. Tutti gli<br />
animali venivano a far visita al loro re: soltanto la volpe non si faceva<br />
vedere. Il lupo, tutto contento, ne approfittò per <strong>di</strong>r male della volpe<br />
<strong>di</strong>nanzi al leone.<br />
— Quella, — <strong>di</strong>ceva il lupo, — non ti stima un soldo: nemmeno una<br />
volta è venuta a visitare il suo re!<br />
Proprio mentre <strong>di</strong>ceva così, sopravvenne la volpe. Essa sentì le parole<br />
del lupo, e pensò:<br />
«Aspetta, lupo: mi ven<strong>di</strong>cherò <strong>di</strong> te».<br />
Il leone si voltò alla volpe con un ruggito. Allora lei gli <strong>di</strong>sse: — Non<br />
farmi punire, o leone: permetti che io <strong>di</strong>ca una parola. Se non sono mai<br />
venuta fino a oggi, la ragione è che non ho avuto tempo. E non ho avuto<br />
tempo per la ragione che sono corsa <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là, da un me<strong>di</strong>co<br />
all’altro, a chiedere una me<strong>di</strong>cina per te. Soltanto ora l’ho trovata, e<br />
subito mi sono affrettata qua.<br />
Domandò il leone:<br />
— E <strong>di</strong> quale me<strong>di</strong>cina si tratta?<br />
— Ecco <strong>di</strong> che si tratta: se tu scorticherai un lupo vivo, e ti metterai<br />
indosso la sua pelle calduccia calduccia...<br />
Non appena il leone ebbe steso il lupo a terra, la volpe si mise a<br />
142 Così nella prima e<strong>di</strong>zione dell’Abbecedario del 1872; in seguito, in tutte le e<strong>di</strong>‐<br />
zioni del Nuovo Abbecedario e dei Libri <strong>di</strong> lettura, il «do<strong>di</strong>ci» è sostituito da un «un<strong>di</strong>‐<br />
ci».
194<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
ridere, e <strong>di</strong>sse:<br />
—Impara, fratello: ai signori non bisogna mai suggerire il male, ma il<br />
bene!<br />
Il vestito nuovo del re.<br />
(Leggenda).<br />
C’era una volta un re molto amante <strong>di</strong> bei vestiti. Non pensava a<br />
nient’altro che a vestirsi il meglio possibile.<br />
Un giorno, gli si presentarono due sarti, e gli <strong>di</strong>ssero: — Noi siamo<br />
capaci <strong>di</strong> farti un vestito talmente bello, che mai nessuno ne ha portato<br />
l’uguale. Però, se una persona è stupida, e non è degna del posto che<br />
occupa, quella persona non riesce a vedere il nostro vestito. Chi è<br />
intelligente, lo potrà vedere; ma chi è stupido, starà lì a due passi, e non<br />
vedrà il vestito <strong>di</strong> nostra lavorazione.<br />
Il re fu tutto sod<strong>di</strong>sfatto <strong>di</strong> questi sarti, e or<strong>di</strong>nò che gli cucissero il<br />
vestito. Ai sarti fu assegnata una stanza nella reggia, e gli fu dato<br />
velluto, seta, oro, tutto quello che poteva occorrere per fare un vestito.<br />
Quando fu passata una settimana, il re mandò il suo ministro a<br />
informarsi se il vestito nuovo era pronto. Il ministro andò e chiese<br />
notizie; i sarti gli risposero che era pronto, e mostrarono al ministro uno<br />
spazio vuoto. Sapeva bene, il ministro, che se una persona era stupida, e<br />
non era degna del posto che occupava, quella persona non riusciva a<br />
vedere il vestito: perciò fece finta <strong>di</strong> vedere il vestito, e lo lodò<br />
moltissimo. Allora il re or<strong>di</strong>nò che il vestito gli fosse portato. I sarti<br />
glielo portarono, e gli mostrarono uno spazio vuoto. Il re fece finta anche<br />
lui <strong>di</strong> vedere il vestito nuovo: si tolse il vestito vecchio, e or<strong>di</strong>nò che gli<br />
mettessero indosso quello nuovo.<br />
Quando il re, col suo vestito nuovo, andò a passeggio per la città, tutti<br />
vedevano benissimo che indosso al re non c’era nessun vestito: ma tutti<br />
avevano paura <strong>di</strong> <strong>di</strong>re che non vedevano il vestito, perché avevano<br />
sentito <strong>di</strong>re che solo gli stupi<strong>di</strong> non riuscivano a vedere questo vestito<br />
nuovo. E ciascuno credeva d’essere il solo a non vedere niente, e credeva<br />
che tutti gli altri vedessero tutto a perfezione.<br />
Così il re se ne andava a passeggio per la città, e tutta la popolazione<br />
lodava moltissimo il suo nuovo vestito.<br />
D’improvviso un sempliciotto vide il re, e si mise a gridare:<br />
— Guardate, guardate: il re gira per le strade svestito!<br />
E il re si vergognò <strong>di</strong> non essere vestito, e tutti s’avvidero che,
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 195<br />
indosso al re, non c’era un bel nulla.<br />
La coda della volpe.<br />
(Favola).<br />
Un uomo acchiappo’ una volpe, e le domandò: — Chi ha insegnato<br />
alle volpi a ingannare i cani con la coda?<br />
La volpe ribatté: — Come, a ingannare? Noi non inganniamo i cani:<br />
noi non facciamo altro che fuggire <strong>di</strong>nanzi a loro, con quanta forza<br />
abbiamo.<br />
L’uomo insistette: — No, voi li ingannate con la coda! Quando i cani<br />
vi raggiungono, e stanno lì lì per acciuffarvi, voi voltate la coda da un<br />
lato: il cane fa una voltata brusca per addentare la coda, e allora voi<br />
fuggite dal lato opposto.<br />
La volpe scoppiò a ridere, e <strong>di</strong>sse: — Noi non facciamo così per<br />
ingannare i cani; facciamo così per poter voltare. Quando il cane sta per<br />
raggiungerci, e noi ve<strong>di</strong>amo che non possiamo più correre <strong>di</strong>ritte in<br />
avanti, cerchiamo <strong>di</strong> voltare da un lato: ma, per fare questa voltata,<br />
siamo costrette a spingere la coda dal lato opposto, come voi uomini fate<br />
con le mani quando correte e volete voltare. Non è una furberia nostra: è<br />
una cosa che ha pensato Dio stesso fin da quando ci ha create, per<br />
impe<strong>di</strong>re che i cani riuscissero ad acchiappare tutte le volpi dalla prima<br />
all’ultima.<br />
I bachi da seta.<br />
(Racconto).<br />
C’erano dei vecchi alberi <strong>di</strong> gelso nel mio giar<strong>di</strong>no. Erano stati<br />
piantati fin dai tempi del nonno. Alcuni amici mi <strong>di</strong>edero, d’autunno,<br />
cinque grammi <strong>di</strong> seme <strong>di</strong> baco da seta, e mi suggerirono <strong>di</strong> allevare i<br />
bachi e <strong>di</strong> ricavarne la seta. I semi erano d’un bigio scuro, e così piccolini<br />
che, in quei pochi grammi, ne potei contare cinquemilaottocentotrenta‐<br />
cinque. Erano più piccoli della più piccola capocchia <strong>di</strong> spilla. Ed erano,<br />
assolutamente, morti: soltanto a schiacciarli, davano, si, uno<br />
schioccherello.<br />
Questi semini mi restarono là, fra tant’altre cose, sul tavolo, e finirono<br />
quasi per cadermi <strong>di</strong> mente.<br />
Ma un giorno, a primavera, scesi in giar<strong>di</strong>no, e notai che la gemma
196<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
del gelso incominciava a sbocciare, mentre, a solatio, c’era già la foglia.<br />
Allora mi ricordai dei semi <strong>di</strong> baco, e, tornato in casa, mi misi a<br />
sceglierli e a spanderli un po’ più larghi. La maggior parte dei semini<br />
non era più <strong>di</strong> quel bigio scuro che avevano prima: erano d’un bigio<br />
chiaro, e alcuni ad<strong>di</strong>rittura chiarissimi, sfumati d’un bianco latte.<br />
La mattina dopo, <strong>di</strong> buon’ora, andai a guardare gli ovicini, e m’avvi<strong>di</strong><br />
che da qualcuno era uscito già il vermicciuolo, mentre gli altri s’erano<br />
gonfiati e parevano in succhio. Le bestioline, evidentemente, avevano<br />
sentito, <strong>di</strong> dentro ai loro gusci, che il foraggio era maturo per loro.<br />
I vermicciuoli erano neri, pelosi, e tanto minuscoli, da riuscir <strong>di</strong>fficile<br />
<strong>di</strong>stinguerli. Io li guardai con la lente d’ingran<strong>di</strong>mento, e scoprii che essi,<br />
dentro all’ovicino, stavano arrotolati a ciambella, e come ne uscivano,<br />
subito si raddrizzavano. Scesi in giar<strong>di</strong>no a far foglia <strong>di</strong> gelso, ne raccolsi<br />
tre manciate, me le portai in camera, sul tavolo, e m’ingegnai ad<br />
acconciar per i bachi il luogo adatto, come m’avevano insegnato.<br />
Intanto che io preparavo il cartone, i bacolini avevano annusato, lì sul<br />
tavolo, la presenza del loro foraggio, ed erano strisciati in quella<br />
<strong>di</strong>rezione. Io scostai la foglia più lontano, ed essi, come tanti cani <strong>di</strong>etro<br />
a un boccone <strong>di</strong> carne, strisciarono appresso alla foglia su per il panno<br />
del tavolo, scavalcando matite, temperini e carte. Allora io tagliai il<br />
cartone, ci feci tanti fori col temperino, ci <strong>di</strong>sposi sopra la foglia, e<br />
senz’altro, con la foglia e tutto, <strong>di</strong>sposi il cartone sui bacolini. Questi<br />
s’arrampicarono su attraverso quei forellini, riuscirono tutti a<br />
raggiunger la foglia, e via, attaccarono a mangiare.<br />
Sui bachi rimanenti, quando ebbero sgusciato, posi allo stesso modo<br />
un cartone carico <strong>di</strong> foglia, e tutti quanti, arrampicatisi attraverso i<br />
forellini, si misero a mangiare. Su ogni foglio <strong>di</strong> cartone tutti i<br />
vermicciuoli si raccoglievano insieme, e si facevano dagli orli a mangiar<br />
la foglia. Poi, quando avevano mangiato tutto, si mettevano a strisciar<br />
per il cartone e a cercar nuovo cibo. Allora io ponevo su loro nuovi fogli<br />
<strong>di</strong> cartone così bucherellato, carichi <strong>di</strong> foglia <strong>di</strong> gelso, e quelli<br />
s’arrampicavano verso il nuovo cibo.<br />
Li tenevo su un palchetto lì nella mia stanza, e quando la foglia<br />
veniva a mancare, essi strisciavano per il palchetto, e si spingevano fin<br />
proprio all’orlo, ma non accadeva mai che ne cadessero giù, sebbene i<br />
bacolini siano ciechi. Non appena una <strong>di</strong> queste bestiole arriva dove<br />
incomincia il vuoto, prima <strong>di</strong> buttarsi giù, mette fuori dalla bocca come<br />
un filino <strong>di</strong> ragnatela, s’attacca con esso all’ultima sporgenza, si cala nel<br />
vuoto, ci resta sospeso, osserva ben bene, e se gli va <strong>di</strong> scendere, scende<br />
in basso, se gli va <strong>di</strong> tornarsene in<strong>di</strong>etro, si tira su lungo la sua
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 197<br />
ragnatelina.<br />
Per ventiquattr’ore filate, i bacolini non fecero altro fuorché mangiare.<br />
E, della foglia, bisognava dargliene sempre <strong>di</strong> più, <strong>di</strong> più. Quando<br />
portavi loro della foglia fresca, e loro ci si mettevano dentro, nasceva un<br />
fruscio, come quando piove sulle fronde: erano loro che attaccavano a<br />
<strong>di</strong>vorar la foglia fresca.<br />
A questo modo, i più anziani dei bachi durarono cinque giorni.<br />
Erano, ormai, molto cresciuti, e mangiavano <strong>di</strong>eci volte più <strong>di</strong> prima.<br />
Al quinto giorno, io sapevo che si sarebbero dovuti addormentare, e<br />
stavo sempre in attesa che la cosa avvenisse. Alla sera del quinto giorno,<br />
per l’appunto, un baco degli anziani restò lì aderente al cartone, senza<br />
più mangiare né muoversi <strong>di</strong> pezzo.<br />
Nelle ventiquattr’ore successive, rimasi lunghi tratti a sorvegliarlo.<br />
Sapevo che i bachi vanno soggetti a parecchie mute, giacchè, ché<br />
<strong>di</strong>vengono via via più grossi, e quin<strong>di</strong> si trovano stretti nella pelle<br />
precedente, e ne indossano una nuova.<br />
Si montava la guar<strong>di</strong>a a turno io e un mio compagno. Verso sera, il<br />
mio compagno gridò: — Ha incominciato a spogliarsi, venite! —<br />
M’accostai là, e vi<strong>di</strong> che, infatti, il nostro vermicciuolo aveva fatto<br />
presa con la vecchia pelle contro il cartone, ci aveva aperto — presso la<br />
bocca — uno squarcio, ne aveva sporto la testa, a dagli a sforzarsi, a<br />
storcersi tutto, come se volesse cavarsene fuori, ma la vecchia camicia<br />
non lo lasciasse uscire. Stetti un pezzo a guardare come si <strong>di</strong>batteva,<br />
incapace <strong>di</strong> uscirne, e mi venne voglia <strong>di</strong> aiutarlo un po’. Lo scalfii,<br />
appena appena, con l’unghia: ma subito m’avvi<strong>di</strong> d’aver fatto una<br />
sciocchezza. Sotto l’unghia m’era rimasto qualcosa <strong>di</strong> liquido, e il<br />
vermicciuolo stava lì senza più moto. Credevo che fosse sangue, quello;<br />
ma poi seppi che i bachi, sotto la pelle, hanno un umore acquoso,<br />
destinato a lubrificare e a render più agevole la muta. Con l’unghia,<br />
probabilmente, io avevo guastato la nuova camicia, giacché il baco,<br />
sebbene venisse alla luce, poco dopo morí.<br />
Gli altri, mi guardai bene dal toccarli, e tutti, allo stesso modo,<br />
s’arrabattarono a uscire dalle loro camicie: soltanto pochi andarono a<br />
male: quasi tutti, pur soffrendoci un pezzo, riuscirono però a tirarsi fuori<br />
dalle vecchie camicie.<br />
Finita la muta, i bachi si <strong>di</strong>edero a mangiare più forte <strong>di</strong> prima, e la<br />
foglia andava via ancora <strong>di</strong> più. In capo a quattro giorni, <strong>di</strong> nuovo<br />
s’addormentarono, e <strong>di</strong> nuovo si fecero a uscir dalla pelle. La foglia<br />
andava via sempre <strong>di</strong> più, e le bestiole avevano ormai una lunghezza <strong>di</strong><br />
mezzo centimetro. Poi, <strong>di</strong> lì a sei giorni, daccapo s’addormentarono, e
198<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
daccapo uscirono fuori con un’altra pelle da quella vecchia, ed erano<br />
ormai ben lunghi e ben grossi, tanto che noi stentavamo a dar loro la<br />
foglia necessaria.<br />
Nove giorni dopo, i bachi più anziani cessarono del tutto <strong>di</strong><br />
mangiare, e incominciarono a strisciar per le mensole e su su per le<br />
colonnine del palchetto. Io li radunai insieme, e ammannii loro della<br />
foglia fresca, ma essi torcevano la testa dall’altra parte, e strisciavano<br />
via. Mi tornò a mente, allora, che quando i bachi s’accingono ad<br />
avvolgersi nei bozzoli, cessano del tutto <strong>di</strong> mangiare, e s’inerpicano<br />
verso l’alto.<br />
Li lasciai fare, e mi misi a osservare che cosa avrebbero fatto. I più<br />
anziani s’inerpicarono fin sulla mensola più alta, si <strong>di</strong>lungarono ognuno<br />
per conto suo, strisciando, e, giunti a una certa <strong>di</strong>stanza, incominciarono<br />
a tendere un filino, e poi un altro, ogni volta in <strong>di</strong>rezioni <strong>di</strong>verse. Io<br />
tenni <strong>di</strong>etro a uno. Questo andò a posarsi in un angolo, emise sei fili,<br />
d’una lunghezza <strong>di</strong> cinque centimetri, tesi in tutte le <strong>di</strong>rezioni, ci si<br />
sospese sopra, si piegò in due, a ferro <strong>di</strong> cavallo, e incominciò a prillar<br />
col capo su se stesso, <strong>di</strong> continuo emettendo un filo <strong>di</strong> seta, <strong>di</strong>modoché il<br />
filo gli si veniva aggomitolando intorno. A sera, esso era già come in una<br />
nebbia, dentro alla sua ragnatela. Si e no che ne traspariva: e, quando fu<br />
mattina, non ne traspariva più nulla, <strong>di</strong> dentro alla ragnatela: s’era tutto<br />
avvoltolato <strong>di</strong> seta, e continuava pur sempre ad avvoltolarcisi.<br />
Per tre giorni continuò così: poi smise <strong>di</strong> voltolarsi, e restò come<br />
morto.<br />
In seguito io son venuto a sapere quale sia la lunghezza del filo, che il<br />
baco emette in queste tre giornate. A sgomitolare tutto quel filo, ne<br />
risulta a volte più d’un chilometro, e <strong>di</strong> rado si resta al <strong>di</strong> sotto. E se si<br />
calcola quante volte il baco deve aver voltolato la testa nel corso <strong>di</strong><br />
queste tre giornate, per metter fuori tutto il suo filo, si troverà che esso<br />
gira su se stesso, in queste tre giornate, trecentomila volte. Vuol <strong>di</strong>re,<br />
cioè, che, senza un attimo <strong>di</strong> sosta, esso compie ogni secondo un giro.<br />
S’intende bene perché, dopo un simile lavoro, quando andammo a<br />
prendere qualcuno <strong>di</strong> quei bozzoli, e li sfasciammo, ci trovammo dentro<br />
dei vermicciuoli completamente essiccati, bianchi, come <strong>di</strong> cera.<br />
Sapevo, si, che da questi bozzoli, con quei cerei, bianchi cadaveri<br />
dentro, dovevano uscire delle farfalle: ma, guardandoli, non ci potevo<br />
credere. Tuttavia, a <strong>di</strong>spetto d’ogni apparenza, quando furono passati<br />
venti giorni, mi feci a osservare se accadesse qualche cosa a quelli che<br />
avevo lasciati intatti.<br />
Nel ventesimo giorno, infatti, sapevo che ci doveva essere un
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 199<br />
cambiamento. Ma nulla si dava a vedere; e già io pensavo che le cose<br />
non andassero a modo, quando, improvvisamente, notai che uno <strong>di</strong> quei<br />
bozzoli, in punta, s’era un po’ annerito e inumi<strong>di</strong>to. Ne avevo già tratto<br />
la conclusione che si fosse marcito, e stavo per gettarlo via. Ma poi<br />
riflettei: «non sarà così che incomincia? », e mi misi a osservare che cosa<br />
accadesse. E <strong>di</strong>fatti, da quel punto così umido, ecco bucicare un non so<br />
che. Per un pezzo mi fu impossibile <strong>di</strong>stinguere <strong>di</strong> che cosa si trattasse.<br />
Ma poi, apparve una cosa che rassomigliava a un capino con dei<br />
balletti.. I balletti si movevano. Poi, ancora, notai una zampetta che<br />
sbucava fuori da una fessurina, poi un’altra: ed ecco che le zampette<br />
cercavano presa e s’arrovellavano a cavarsi dal bozzolo. Non so bene<br />
che cosa, veniva scoprendosi sempre più largamente: e infine io <strong>di</strong>stinsi,<br />
tutta bagnata, una farfallina. Quando si furono cavate tutt’e sei le<br />
zampette, anche il deretano venne in luce: la farfalla si trascinò fuori, e lì<br />
restò accoccolata. Quando fu ben rasciutta, <strong>di</strong>venne bianca, spiegò le ali,<br />
fece una svolazzata, girò a tondo, e andò a posarsi sulla finestra.<br />
Di lì a due giorni, la farfalla, là sul davanzale della finestra, depose<br />
delle uova, e ce le incollò. Quegli ovicini erano gialli. Venticinque<br />
farfalle deposero le uova: e io raccolsi cinquemila ovicini.<br />
L’anno seguente, allevai maggior numero <strong>di</strong> bachi, e fu maggiore la<br />
quantità <strong>di</strong> seta che ne sbozzolai.<br />
Il re e gli elefanti.<br />
(Favola).<br />
Un re in<strong>di</strong>ano or<strong>di</strong>nò che si radunassero tutti i ciechi: e quando i<br />
ciechi furono arrivati alla reggia, fece mostrare a loro i suoi elefanti. Uno<br />
tastò le zampe, un altro la punta della coda, un terzo la ra<strong>di</strong>ce della<br />
coda, un quarto il ventre, un quinto il groppone, un sesto le orecchie, un<br />
settimo le zanne, un ottavo la proboscide. Poi il re chiamò a sé quei<br />
ciechi, e domandò: — Come sono fatti i miei elefanti?<br />
Uno dei ciechi <strong>di</strong>sse: — I tuoi elefanti somigliano a colonne! — Era il<br />
cieco che aveva tastato le zampe.<br />
Un altro cieco <strong>di</strong>sse: — Somigliano a scopette! — Era quello che aveva<br />
tastato la punta della coda.<br />
Un terzo <strong>di</strong>sse: — Somigliano a rami! — Era quello che aveva tastato<br />
la ra<strong>di</strong>ce della coda.<br />
Quello che aveva tastato il ventre, <strong>di</strong>sse: — Gli elefanti somigliano a<br />
un mucchio <strong>di</strong> terra! — Quello che aveva tastato i fianchi, <strong>di</strong>sse:
200<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
— Somigliano a un muraglione! — Quello che aveva tastato il<br />
groppone, <strong>di</strong>sse: — Somigliano a una montagna! — Quello che aveva<br />
tastato le orecchie, <strong>di</strong>sse: — Somigliano a fazzoletti! — Quello che aveva<br />
tastato la testa, <strong>di</strong>sse: — Somigliano a un gran mortaio! — Quello che<br />
aveva tastato le zanne, <strong>di</strong>sse: — Somigliano a corna! — Quello che aveva<br />
tastato la proboscide, <strong>di</strong>sse: — Somigliano a una grossa fune!<br />
E tutti quei ciechi si misero a <strong>di</strong>scutere e a litigare fra loro.<br />
A caccia d’orsi.<br />
(Racconto d’un cacciatore) 143 .<br />
Eravamo a caccia d’orsi. Al mio compagno capitò un orso a tiro: lo<br />
colpì, ma nelle parti molli. Rimase un po’ <strong>di</strong> sangue sulla neve, e l’orso<br />
fuggi.<br />
Ci radunammo nel bosco, e incominciammo a <strong>di</strong>scutere che cosa fare:<br />
andare adesso alla ricerca dell’orso, o aspettare tre giorni, finché l’orso si<br />
fosse rimesso al covo.<br />
Ci facemmo a domandare ai conta<strong>di</strong>ni cacciatori d’orsi 144 se si poteva<br />
o no fare adesso il giro dell’orso. Un vecchio cacciatore <strong>di</strong>sse: — È<br />
impossibile: bisogna dar tempo all’orso <strong>di</strong> calmarsi; fra cinque giorni il<br />
giro si può fare, ma andargli <strong>di</strong>etro adesso, non servirebbe che a<br />
spaventarlo: e nemmeno si riaccoverebbe.<br />
Ma un giovane cacciatore d’orsi contrad<strong>di</strong>sse al vecchio, e affermava<br />
che il giro si poteva fare adesso. — Con questa neve, —<strong>di</strong>ceva, — l’orso<br />
lontano non va: è una bestia grassa. Oggi stesso quello si riaccova. E caso<br />
mai non si riaccovasse, io con le racchette lo arriverei.<br />
Anche il compagno mio non voleva far subito il giro, e consigliava <strong>di</strong><br />
star ad aspettare.<br />
Io, allora, <strong>di</strong>co: — Ma perché <strong>di</strong>scutere tanto? Voi fate come volete: io<br />
e Damiano ce n’andremo traccia traccia. Se riusciamo a far la girata,<br />
bene; se non ci riusciamo, tanto ormai non c’è più da far nulla, e ancora<br />
non è tar<strong>di</strong>.<br />
E così facemmo.<br />
Gli altri se ne tornarono alle slitte, e via al paese; io e Damiano ci<br />
143 Il titolo originale del racconto è costituito da un proverbio, che si potrebbe tra‐<br />
durre: «quel che si fa per gusto, non si fa per forza» (ma in russo c’è anche un gioco<br />
<strong>di</strong> parole fra «gusto» e «caccia»).<br />
144 Medvežatniki, professionisti – e guide – della caccia all’orso.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 201<br />
prendemmo un po’ <strong>di</strong> pane, e restammo al bosco. Quando tutti se ne<br />
furono andati, io e Damiano esaminammo i fucili, ci rimboccammo le<br />
pellicce a cintola, e ci avviammo traccia traccia.<br />
Il tempo era buono: freddo sotto zero, e niente vento. Ma avanzate<br />
con le racchette era fatica: la neve era profonda e farinosa. Non si<br />
trovavano strati <strong>di</strong> neve indurita, così nel bosco; e, per giunta, n’era<br />
caduta un po’ anche il giorno prima, cosicché le racchette se n’andavano<br />
sotto neve quattro <strong>di</strong>ta, e a tratti anche più.<br />
La traccia dell’orso risaltava fin da lontano. Si vedeva chiaro come<br />
l’orso aveva camminato, come qua e là era sprofondato fine al ventre, e<br />
aveva mandato sossopra tutta la neve. Noi, da principio, c’inoltrammo<br />
in vista della traccia, tra gli alti fusti; ma poi come la traccia s’addentrò<br />
in un macchione <strong>di</strong> giovani abeti, Damiano si fermò. — Bisogna, —<br />
<strong>di</strong>sse, — lasciare la traccia. Di sicuro lì dentro, si riaccova. Cominciava<br />
già a posarsi ogni momento: la neve parla chiaro. Scostiamoci dalla<br />
traccia, e <strong>di</strong>amo principio alla girata: ma bisogna camminare più piano,<br />
senza gridare, senza tossire: sennò, si spaventa.<br />
Ci avviammo, scostandoci dalla traccia verso sinistra. Avremo fatto<br />
cinquecento passi, guar<strong>di</strong>amo: la traccia dell’orso ci sta un’altra volta<br />
davanti. Allora ripigliammo lungo traccia, e la traccia ci condusse a una<br />
strada. Sulla strada noi ci fermammo, e ci mettemmo a osservare da che<br />
parte l’orso fosse andato. In certi punti, lì per la strada, spiccava netta la<br />
zampa, con le <strong>di</strong>ta e tutto, come l’orso l’aveva stampata; in altri punti,<br />
era come se con le cioce un conta<strong>di</strong>no fosse passato lungo la strada. Era<br />
evidente che l’orso era andato in <strong>di</strong>rezione del paese.<br />
Ci avviammo anche noi verso il paese. E Damiano mi fa: — Ora c’è<br />
poco da guardare alla strada: dove scende dalla strada, a destra o a<br />
sinistra, si vedrà dalla neve. Prima o dopo, svolterà: non andrà mica fino<br />
al paese!<br />
Seguitammo così, strada strada, per un miglio circa: eccoci <strong>di</strong>nanzi,<br />
d’improvviso, una traccia che scende giù dalla strada. Guar<strong>di</strong>amo: oh<br />
questa è curiosa! La traccia è d’un orso, ma non va dalla strada verso il<br />
bosco: dal bosco viene verso la strada, con le <strong>di</strong>ta voltate in qua. Io <strong>di</strong>co:<br />
È un altr’orso Damiano guarda meglio, pensa un po’: — No, — <strong>di</strong>ce,<br />
— è proprio lui; soltanto, ha incominciato a fare i trucchi. È sceso dalla<br />
strada a parte in<strong>di</strong>etro —. Seguimmo la traccia: era proprio così. L’orso,<br />
evidentemente, s’era allontanato dalla strada per <strong>di</strong>eci passi così<br />
all’in<strong>di</strong>etro, poi era salito su un pino, s’era rigirato, e aveva proseguito<br />
<strong>di</strong>retto. Damiano si fermò e <strong>di</strong>sse: — Ormai si può star sicuri che lo<br />
giriamo. Non gli resta altro luogo da posarsi, fuorché in questa palude.
202<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Attacchiamo la girata.<br />
Iniziammo la girata, per un’abetina fitta. Io già ero stracco, eppoi, <strong>di</strong> lì<br />
innanzi, <strong>di</strong>ventò più faticoso avanzar, sulle racchette. Ora andavi a<br />
montare su un cespuglio <strong>di</strong> ginepro, e ti c’impigliavi; ora fra i pie<strong>di</strong> ti<br />
scattava all’insù un pollone <strong>di</strong> pino; ora la racchetta ti si torceva in fuori<br />
per mancanza <strong>di</strong> pratica; ora impuntavi in una ra<strong>di</strong>ce, in un tronco sotto<br />
neve. Cominciavo a sentirmi davvero sfinito. M’ero tolto la pelliccia, e il<br />
sudore mi colava giù a rigagnoli. E Damiano, invece, pareva che<br />
scivolasse via su una barchetta. Quasi che, sotto a lui, le racchette si<br />
movessero conto loro. Non gli s’impuntavano mai, non gli si storcevano.<br />
Anche la mia pelliccia s’era buttata a tracolla, e continuava a farmi<br />
coraggio.<br />
Percorremmo un cerchio <strong>di</strong> tre miglia, sempre tenendoci torno torno<br />
alla palude. Io, ormai, cominciavo a restar in<strong>di</strong>etro: le racchette mi si<br />
storcevano ogni momento, le gambe mi s’imbrogliavano. Tutt’a un<br />
tratto, avanti a me, Damiano si ferma, e mi fa segno con la mano. Io<br />
m’avvicinai. Damiano mi si curvò all’orecchio, mi bisbigliò qualche cosa,<br />
e in<strong>di</strong>cava verso un punto: — Ecco, quella gazza su quell’albero secco,<br />
senti come gracchia: l’uccello, da lontano, sente il suo odore. C’è lui!<br />
Pigliammo un po’ al largo, percorremmo ancora un miglio, e<br />
sboccammo <strong>di</strong> nuovo sulla traccia vecchia. Dimodoché, con un circolo<br />
completo, noi avevamo aggirato l’orso, e l’orso era rimasto all’interno<br />
del nostro circolo. Ci fermammo finalmente. Io mi tolsi anche il berretto,<br />
e mi sbottonai tutto: sentivo un caldo, come a essere in un bagno a<br />
vapore, e da capo a pie<strong>di</strong> ero fra<strong>di</strong>cio come un sorcio intinto nell’acqua.<br />
Anche Damiano s’era fatto rosso affocato, e con la manica s’andava<br />
asciugando. — Bè, — mi fa, — padrone: il dover nostro l’abbiamo fatto:<br />
ora bisogna che ci riposiamo.<br />
E già, fra il bosco, incominciava a trasparire il rosso del tramonto. Ci<br />
sedemmo sulle racchette a riposare. Cavammo fuori dal sacco il pane e il<br />
sale: io prima mangiai un po’ <strong>di</strong> neve, e poi il pane. E mi parve, quello,<br />
un pane così gustoso, come se in vita mia non ne avessi mai mangiato <strong>di</strong><br />
simile. Così seduti, ci attardammo un po’; incominciava, ormai, a<br />
imbrunire. Domandai a Damiano se c’era molto al paese. — Una<br />
dozzina <strong>di</strong> miglia, ci sarà. Arriveremo a notte; ma adesso bisogna che ci<br />
riposiamo. Infilati la pelliccia, padrone, altrimenti ti pigli un raffreddore.<br />
Spezzò, Damiano, dei rami d’abete, ne scrollò la neve, li stese a mò <strong>di</strong><br />
letto, e lì ci coricammo a fianco a fianco, le mani intrecciate <strong>di</strong>etro la<br />
testa. Non ricordo neanch’io come presi sonno. Mi svegliai due ore<br />
dopo. S’era sentito uno schianto.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 203<br />
Così fondo era stato il mio sonno, che non sapevo più dove mi fossi<br />
addormentato. Girai intorno lo sguardo: che miracolo era questo? Dove<br />
mi trovavo? Non so che saloni bianchi mi stavano intorno, e colonne<br />
bianche, e dappertutto un luccichio <strong>di</strong> lustrini. Guardai in alto: arabeschi<br />
bianchi, e attraverso gli arabeschi una specie <strong>di</strong> volta d’un nero–<br />
giavazzo, e lumi <strong>di</strong> tanti color che ci sfavillano. Tornai a orientarmi, mi<br />
resi conto che stavamo nel bosco, e che erano alberi rivestiti <strong>di</strong> neve e <strong>di</strong><br />
brina quelli che m’erano parsi saloni, mentre quei lumi erano le stelle<br />
che dal de lo tremolavano fra i rami.<br />
A notte era caduta la brina: brina sui rami, brina sulla pelliccia mia,<br />
Damiano da capo a pie<strong>di</strong> sotto brina, e ancora brina che pioveva<br />
dall’alto. Destai Damiano. Montammo sulle racchette, a ci avviammo.<br />
Gran silenzio, nel bosco: si sentiva, soltanto, il rumore delle nostre<br />
racchette che tra la neve molle affondavano, e qua o là un albero che<br />
dava uno schianto pel gelo, e in tutto il bosco se ne spandeva il<br />
rimbombo. Una volta sola qualche cosa <strong>di</strong> vivo sfruscio vicinissimo a<br />
noi, e via a precipizio. Io pensai ad<strong>di</strong>rittura che fosse l’orso. Ci<br />
accostammo a quel punto, <strong>di</strong> dove s’era sentito sfrusciare, e vedemmo<br />
tracce <strong>di</strong> lepre, e polloni <strong>di</strong> tremula rosicchiati torno torno. Erano lepri<br />
che andavano in cerca <strong>di</strong> cibo,<br />
Quando fummo riusciti sulla strada, ci legammo le racchette a<br />
rimorchio, e ci mettemmo lungo la strada. Camminare, qui, era<br />
<strong>di</strong>ventato facile. Dietro a noi le racchette, sulla strada battuta dalle slitte,<br />
sobbalzano e tambureggiano; quel poco <strong>di</strong> neve, sotto gli stivali,<br />
scricchiola; la brina fredda, in faccia, s’appiccica come piuma. E intanto<br />
le stelle, sui rami lungo le prode, pare che ti corrano incontro: danno<br />
sprazzi, si spengono, come se tutto il cielo fosse in movimento.<br />
Il mio compagno dormiva: io lo svegliai. Gli raccontammo che<br />
avevamo aggirato l’orso, e or<strong>di</strong>nammo al padrone dell’albergo che, per<br />
domattina, ci facesse trovar pronti i battitori. Cenammo, e andammo a<br />
letto.<br />
Io, dalla stanchezza, avrei seguitato a dormire fino all’ora <strong>di</strong> pranzo:<br />
ma il compagno mi svegliò. Salto su, guardo: il compagno è già vestito,<br />
tramena intorno al fucile.<br />
— E Damiano dov’è? — Da un pezzo sta al bosco. Ha già trovato<br />
tempo, anzitutto <strong>di</strong> verificare il cerchio, poi <strong>di</strong> fare una corsa qui: e<br />
adesso è ripartito coi battitori, per <strong>di</strong>sporli ai loro posti.<br />
Mi lavai, mi vestii, caricai i miei fucili; montammo in slitta, e<br />
partimmo.<br />
Il gelo reggeva sempre ben crudo; ferma l’aria, il sole nascosto: la
204<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
nebbia ristagnava alta, e la brina s’era posata.<br />
Si percorsero tre miglia su strada, e si giunse nei paraggi del bosco.<br />
Ecco là: da una bassura spicca un fumo azzurrognolo, e c’è gente<br />
intorno, uomini e donne con grossi randelli.<br />
Noi smontammo dalla slitta e ci avvicinammo alla gente. Stavano lì<br />
accoccolati, quei conta<strong>di</strong>ni, a cuocer qualche patata sotto la cenere, e a<br />
ridere con le donne.<br />
C’era anche Damiano con loro. E subito si tirarono su, e Damiano li<br />
guidò ad appostarsi in cerchio lungo il nostro giro <strong>di</strong> iersera. Si<br />
snodarono in fila uomini e donne uno <strong>di</strong>etro l’altro, in tutto trenta<br />
persone (soltanto dalla vita in su spuntavano fuori), e s’imbucarono nel<br />
bosco; appresso, c’incamminammo noialtri, io e il mio compagno,<br />
seguendo la traccia loro.<br />
Lo stradello, benché pesticciato, era faticoso a camminarci; in<br />
compenso, però, cadere non era possibile da nessun lato: era come se<br />
s’avanzasse fra due muri.<br />
Avevamo fatto a questo modo un mezzo miglio, che già ecco<br />
Damiano, da un’altra parte, correre verso noi sulle racchette, facendo<br />
segno che andassimo là da lui.<br />
Gli andammo vicino, e lui c’in<strong>di</strong>cò dove dovevamo appostarci. Io mi<br />
misi al posto mio, e mi guardai intorno.<br />
Sulla mia sinistra, c’è un’abetina alta, che lascia passar la vista<br />
lontano: e, <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro ai fusti, mi trasparisce il nero d’un battitore. Di<br />
faccia, un’abetina giovane, a statura d’uomo: e i rami, in quest’abetina,<br />
stanno aggrondati e incollati insieme sotto la neve. Per mezzo<br />
all’abetina, c’è uno stradello seppellito dalla neve: uno stradello che<br />
viene <strong>di</strong>ritto verso <strong>di</strong> me. Sulla mia destra, un’abetina fitta, e al margine<br />
<strong>di</strong> questa, una piccola radura. E appunto in questa piccola radura vedo<br />
che Damiano fa appostare il mio compagno.<br />
Die<strong>di</strong> un’occhiata ai miei due fucili, alzai i cani, e mi feci a riflettere<br />
dov’era più conveniente che mi collocassi. Alle mie spalle, tre passi<br />
<strong>di</strong>stante, c’era un grosso pino. «Fammi assestare lì sotto al pino, così<br />
potrò anche appoggiarci il secondo fucile». Mi trascinai fino al pino,<br />
sprofondando fin sopra ai ginocchi; pestai sotto il pino una piazzola <strong>di</strong><br />
poco più d’un metro, e lì mi sistemai. Un fucile lo presi tra mano, l’altro<br />
(coi cani già alzati) lo appoggiai contro il pino. Poi tirai su il coltellaccio<br />
dal fodero e lo rimisi a posto, per provare se, in caso <strong>di</strong> bisogno, fosse<br />
agevole a sfoderarsi.<br />
M’ero appena sistemato, che sento gridare Damiano pel bosco: —<br />
Avanti! Avanti! In marcia! — E, <strong>di</strong> rimando ai richiami <strong>di</strong> Damiano,
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 205<br />
cominciarono in cerchio a gridare i conta<strong>di</strong>ni, con voci <strong>di</strong>verse: —<br />
Avanti! Avanti! Uuuu! — gridavano gli uomini. — Ahi! I– ih! —<br />
gridavano le donne con le voci acute.<br />
L’orso stava là in mezzo al cerchio. Damiano lo incalzava. Per tutto il<br />
cerchio gridavano i battitori; solo io e il mio compagno restavamo qua<br />
ritti in silenzio, senza muoverci <strong>di</strong> pezzo, in attesa dell’orso. Io sto così<br />
su due pie<strong>di</strong>, scruto, tendo l’orecchio, e il cuore, dentro, mi batte forte.<br />
M’aggrappo al fucile, e ogni tanto ho un sussulto. Or ora, penso, salta<br />
fuori, piglio la mira, sparo, cade giù...D’improvviso, da sinistra, che<br />
sento? C’è come un franare <strong>di</strong> neve, ma lontano. Girai lo sguardo<br />
all’abetina alta: cinquanta passi <strong>di</strong>stante, <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro a quei fusti, sta ferma<br />
una cosa nera, ben grossa. Imbraccio il fucile, e aspetto. Chissà, penso,<br />
che non si spinga più in qua? Lo vedo, a un tratto, scrollar le orecchie,<br />
rigirarsi, e in<strong>di</strong>etro <strong>di</strong> dov’era venuto. Di fianco, mi s’era scoperto in<br />
pieno. Magnifico bestione! Mirai alla cieca: pànfete! Ma lo sento al<br />
rumore: è andata a ficcarsi in un albero, la mia pallottola. Guardo tra il<br />
fumo: il mio orso galoppava via verso i battitori, e sparì nel bosco.<br />
«Bah, — <strong>di</strong>co fra me, — non mi resta più nulla da fare; ormai, non<br />
verrà più a sbucare da questa parte: o toccherà al compagno <strong>di</strong> tirargli, o<br />
andrà a passar frammezzo ai conta<strong>di</strong>ni: certo, però, non più qua da me».<br />
Intanto, rimango lì ritto, ricarico il fucile, e tendo l’orecchio. Da tutte<br />
le parti i battitori gridano, ma da destra, poco oltre il mio compagno,<br />
sento gridare in modo sfrenato una donna: — Eccolo, eccolo, eccolo! Di<br />
qua, <strong>di</strong> qua! Ohi, ohi! Ahi, ahi, ahi!<br />
Evidentemente, ha l’orso in vista. Ma io, ormai, non m’aspetto che<br />
l’orso venga qua da me, e guardo là a destra, al mio compagno. Ecco:<br />
Damiano, con un bastoncello, senza racchette, vien <strong>di</strong> corsa per lo<br />
stradello verso il mio compagno: gli s’accuccia a fianco, e col bastone<br />
gl’in<strong>di</strong>ca qualche cosa, fa atto <strong>di</strong> prender la mira. Vedo il mio compagno<br />
che imbraccia il fucile, mira in quella <strong>di</strong>rezione dove Damiano gli va<br />
insegnando. Pànfete: ha sparato. Via, penso io, l’ha ammazzato... Però,<br />
guarda: non corre mica, il compagno, là dall’orso. A quanto pare, lo ha<br />
spadellato, o l’ha colpito male. E adesso, continuo a pensare, l’orso<br />
s’allontanerà là in<strong>di</strong>etro, e qua da me non verrà più a sbucare!<br />
Che succede? Di faccia a me, tutt’a un tratto, sento che a precipizio,<br />
come un turbine, s’avvicina qualcuno: gli si spande, tutt’intorno, la neve,<br />
e stronfia. Punto gli occhi in avanti: ed eccolo, <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong>ritto alla mia<br />
volta, lì per quello stradello tra l’abetina fitta, che galoppa all’impazzata,<br />
e — si vede chiaro — dallo spavento non capisce più nulla. Sta già a<br />
cinque passi da me, mi si scopre tutto: il petto nero, il testone enorme
206<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
striato <strong>di</strong> rossiccio. Si precipita <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong>ritto verso me a testa bassa, e<br />
spande la neve da tutti i versi. E io capisco, dagli occhi dell’orso, che lui<br />
non mi vede mica, ma così, dal gran terrore, galoppa in avanti a<br />
per<strong>di</strong>fiato, dove prima gli capita. Senonchè la <strong>di</strong>rezione che ha preso è<br />
proprio quella del pino, dove sto io... Io imbraccio il fucile, sparo: ma lui<br />
m’è ancora più vicino. Capisco <strong>di</strong> non averlo colpito, la pallottola è<br />
andata <strong>di</strong>lungo: e intanto lui non ha neanche sentito, galoppa su me, e<br />
continua a non vedermi. Allora abbasso il fucile, quasi glielo appoggio<br />
addosso, contro la testa. Pànfete! L’ho colpito, lo vedo: ma non l’ho<br />
ammazzato.<br />
Sollevò la testa, aguzzò le orecchie, <strong>di</strong>grignò i denti, e <strong>di</strong>filato su me.<br />
Afferrai, io, l’altro fucile: ma non lo avevo ancora tra le mani, che già<br />
quello mi s’era avventato sopra, m’aveva rovesciato sulla neve, e m’era<br />
balzato oltre.<br />
Bè, penso, fortuna che m’ha lasciato. Faccio per rialzarmi: che sento?<br />
Qualche cosa mi preme sopra, mi tiene stretto... L’orso, nell’aire della<br />
corsa, non s’era potuto arrestare in tempo, mi aveva sorpassato d’un<br />
balzo, ma poi s’era rigirato su se stesso, e mi si era rovesciato addosso<br />
con tutto il petto. Io sento che mi sta sopra un gran peso, sento un caldo<br />
sul viso, e sento che ecco, cerca <strong>di</strong> prendermi tutto il viso dentro alle<br />
fauci. Il naso me lo tiene già in bocca, me ne accorgo al caldo ardente e al<br />
puzzo <strong>di</strong> sangue che manda. Con le zampe mi schiaccia alle spalle, e io<br />
non posso muovermi <strong>di</strong> pezzo. L’unica cosa che faccio, è <strong>di</strong><br />
rannicchiarmi con la testa verso il petto, cercando <strong>di</strong> tirar fuori da quelle<br />
fauci il naso e gli occhi. Ma lui mira proprio ad addentarmi lì agli occhi<br />
e al naso. Lo sento: m’ha afferrato, coi denti della mascella <strong>di</strong> sopra, alla<br />
fronte, all’attaccatura dei capelli, e con la mascella <strong>di</strong> sotto agli zigomi,<br />
sotto gli occhi: serra i denti, e incomincia a far forza. È come se tanti<br />
coltelli mi tagliassero in testa: mi <strong>di</strong>vincolo, cerco <strong>di</strong> strapparmi alla<br />
presa, ma quello più che mai s’affretta, come un cane che rosica un osso:<br />
ciàncica, ciàncica. Io riesco a sfuggirgli un istante: lui <strong>di</strong> nuovo<br />
m’azzanna. Bah, penso, la fine mia è arrivata. D’improvviso, mi sento un<br />
po’ alleggerire. Guardo: non c’è più, m’è sbalzato <strong>di</strong> dosso, ed è fuggito<br />
via.<br />
Quando il mio compagno e Damiano avevano veduto che l’orso mi<br />
rovesciava giù fra la neve, e m’azzannava, s’erano slanciati verso me. Il<br />
mio compagno, con l’intenzione <strong>di</strong> guadagnar tempo, aveva commesso<br />
un errore: invece <strong>di</strong> correre pel sentierino battuto, aveva tagliato in qua<br />
senza strada, ed era caduto. Intanto che s’arrabattava a cavarsi su dalla<br />
neve, l’orso continuava ad azzannarmi. Ma Damiano, come stava, senza
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 207<br />
fucile, con un frustino e basta, s’era gettato per lo stradello, gridando:<br />
— Sta a sbranare il padrone! Sta a sbranare il padrone! – Correva, e<br />
intanto gridava all’orso: – Ah brutto balordo! Guarda che fa! Molla!<br />
Molla!<br />
Lo aveva u<strong>di</strong>to l’orso, m’aveva mollato, e via a scappare. Quando mi<br />
raddrizzai, sulla neve c’era una pozza <strong>di</strong> sangue come se avessero<br />
sgozzato un agnello, e sugli occhi la pelle mi penzolava a brindelli: ma,<br />
così a sangue caldo, non sentivo dolore.<br />
Arrivò, <strong>di</strong> corsa, il mio compagno; si radunò gente; mi guardarono la<br />
ferita, me la umettarono. Ma neanche ci pensavo più, io, alla ferita;<br />
domandavo: – Dov’è l’orso? da che parte è andato? – Quand’ecco<br />
sentiamo: – Eccolo! Eccolo! – e ve<strong>di</strong>amo l’orso che ci corre incontro.<br />
Agguantammo i fucili, ma non fece in tempo nessuno a sparare: già<br />
quello era fuggito al largo. L’orso s’era inferocito: aveva voglia<br />
d’azzannare ancora, ma vedendo che la gente era tanta, aveva avuto<br />
paura. Alla traccia, si poté vedere che la testa dell’orso perdeva sangue.<br />
Volevamo inseguirlo, ma a me incominciò a dolere il capo, e<br />
partimmo per la città in cerca d’un dottore.<br />
Il dottore mi cucì le ferite con filo <strong>di</strong> seta, e le ferite incominciarono a<br />
rimarginarsi.<br />
Un mese dopo, tornammo ancora alla caccia del medesimo orso: ma a<br />
me non si offrì l’occasione <strong>di</strong> finirlo. L’orso non usciva dal cerchio dei<br />
battitori, e continuava a girare a tondo, mugliando con voce terribile. Fu<br />
Damiano a finirlo. L’orso, da quel colpo che gli avevo tirato io, aveva<br />
avuto fracassata la mascella <strong>di</strong> sotto, e spezzato un dente.<br />
Era un orso <strong>di</strong> statura enorme, e aveva una magnifica pelliccia nera.<br />
Io lo feci impagliare: e così, adesso, mi sta in casa, in salotto. Le ferite<br />
sulla fronte mi si sono rimarginate benissimo, tanto che appena appena<br />
si <strong>di</strong>stingue più dove erano.<br />
La chioccia e i pulcini.<br />
(Favola).<br />
Una chioccia aveva fatto uscire dall’uovo i suoi pulcini, e non sapeva<br />
come proteggerli dai pericoli. Perciò <strong>di</strong>sse ai pulcini: – Rimettetevi den‐<br />
tro ai vostri gusci: quando voi sarete dentro ai guscio, io mi accovaccerò<br />
sopra <strong>di</strong> voi, come quando vi covavo, e così vi proteggerò da ogni peri‐<br />
colo.
208<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
I pulcini obbe<strong>di</strong>rono alla chioccia, e andarono per rimettersi nei loro<br />
gusci, ma non riuscirono in nessun modo a rientrarci dentro: non fecero<br />
altro che sgualcirsi le ali. Allora uno dei pulcini <strong>di</strong>sse alla madre:<br />
– Se noi dovevamo rimanere sempre dentro al guscio, era meglio che<br />
tu non ci avessi fatto uscire dall’uovo!<br />
I gas.<br />
(Considerazioni).<br />
I.<br />
L’aria può essere composta in <strong>di</strong>versi mo<strong>di</strong>, benché resti sempre invi‐<br />
sibile e trasparente alla luce.<br />
L’acqua svapora nell’aria, <strong>di</strong>viene gassosa: e quando nell’aria c’è mol‐<br />
ta acqua, l’aria è umida, quando ce n’è poca, è asciutta. Quando in un<br />
luogo chiuso c’è molta gente che respira, l’aria <strong>di</strong>venta cattiva, malsana;<br />
invece, nei luoghi aperti o nei boschi, l’aria è salutevole, buona. Questo<br />
<strong>di</strong>pende dal fatto che, in una stanza chiusa, all’aria normale si aggiunge<br />
quell’aria cattiva, che esce dai polmoni degli uomini e <strong>di</strong> tutti gli anima‐<br />
li.<br />
Dunque l’aria è composta <strong>di</strong> parti <strong>di</strong>verse, che noi, coi nostri occhi,<br />
non possiamo <strong>di</strong>stinguere: e tutte queste parti sono simili all’aria norma‐<br />
le. Queste <strong>di</strong>verse sostanze, questi <strong>di</strong>versi gas, stanno mischiati con l’aria<br />
allo stesso modo che l’acqua si mischia con l’aceto o col vino. Se si versa<br />
nell’acqua un po’ <strong>di</strong> acquavite, l’acqua e l’acquavite si mischiano tra loro<br />
tanto bene, che non si <strong>di</strong>stingue più se c’è acquavite nell’acqua, e se ce<br />
n’è molta o poca. Ma basterà fiutare quel liquido, e allora si potrà capire.<br />
Così anche nell’aria ci può essere una mescolanza o l’altra, e con gli<br />
occhi non è possibile vederne nulla: ma quando in quell’aria si sarà re‐<br />
spirato per un pezzo, allora sarà possibile accorgersene. Respirare<br />
nell’aria buona è piacevole e salutevole; respirare in quella cattiva è pe‐<br />
noso e a volte dannoso.<br />
Fra tutte le parti che compongono l’aria, la più necessaria per la respi‐<br />
razione è una che si chiama ossigeno. Se si raccoglie questo gas separato<br />
dagli altri, e vi s’immerge un fiammifero, subito il fiammifero prende<br />
fuoco. È l’ossigeno che fa bruciare con più forza il legno e qualunque al‐<br />
tra cosa. Ma se nell’aria non c’è ossigeno, e in quest’aria senza ossigeno<br />
s’immerge un fiammifero, il fiammifero si spegnerà.<br />
L’aria è necessaria per il fuoco appunto perché contiene ossigeno. Per<br />
far <strong>di</strong>vampare il fuoco, ci si soffia sopra, ci si fa vento; se invece si vuole
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 209<br />
che un oggetto che brucia si spenga, bisogna fare in modo che, intorno a<br />
quell’oggetto, non ci sia più aria. Bisogna ricoprirlo, pigiarlo da tutte le<br />
parti, e allora il fuoco resterà soffocato.<br />
Un’altra parte che compone l’aria è l’azoto. In questo gas non è possi‐<br />
bile respirare, e gli oggetti non possono prendervi fuoco.<br />
Una terza parte dell’aria è il gas che si chiama acido carbonico. Anche<br />
questo non è buono né per la respirazione, né per il fuoco, Questo gas<br />
sta nell’aria in piccola quantità, ma ce n’è dappertutto un pochino.<br />
Quando si raccoglie in grande quantità, esso scende e si addensa in<br />
basso, giacché è più pesante degli altri gas.<br />
Una quarta parte dell’aria sono i vapori acquei, cioè l’acqua in forma<br />
gassosa.<br />
Quando noi respiriamo, l’ossigeno viene assorbito dal nostro corpo, e<br />
così, nell’aria che riman<strong>di</strong>amo fuori dai polmoni, c’è meno ossigeno che<br />
nell’aria normale, e c’è più acido carbonico. Ecco perché l’aria <strong>di</strong>venta<br />
cattiva quando è stata respirata,<br />
Gli alberi, l’erba, tutte le piante, respirano anche loro: esse, però, non<br />
respirano l’aria come facciamo noi coi polmoni, ma la assorbono con le<br />
foglie e con la corteccia tenera. E anche da tutte le loro foglie l’aria viene<br />
rimandata fuori in modo impercettibile; e anche quest’aria non è compo‐<br />
sta come quella normale: contiene meno acido carbonico e più ossigeno.<br />
Ciò vuol <strong>di</strong>re che alle piante è necessario l’acido carbonico che invece<br />
non è necessario, anzi è dannoso agli animali.<br />
Ecco perché, nei boschi, l’aria è tanto salutevole: l’acido carbonico, là<br />
fra gli alberi, si trova in quantità minore, e l’ossigeno in quantità mag‐<br />
giore.<br />
Se in un secchio pieno d’acqua si gettano sassolini, sugheri, paglia,<br />
legna secca e legna umida, e poi vi si spande sopra sabbia, argilla, sale, e<br />
vi si mesce olio e acquavite, e tutte queste cose si frullano e si mescolano<br />
ben bene, e finalmente si guarda che cosa accade: si vedrà che i sassolini,<br />
l’argilla, la sabbia andranno in fondo; la legna secca, la paglia, il sughe‐<br />
ro, l’olio, verranno a galla; il sale e l’acquavite si scioglieranno e non si<br />
vedranno più. Da principio tutte queste cose avranno girato insieme nel‐<br />
l’acqua, si saranno agitate, si saranno urtate fra loro; ma poi ogni cosa<br />
troverà il posto suo, e si sistemerà in <strong>di</strong>sparte dalle altre: quelle che pe‐<br />
II.
210<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
sano <strong>di</strong> più, s’affretteranno a scendere in basso, quelle che sono più leg‐<br />
gere, s’affretteranno a salire in alto.<br />
Allo stesso modo, anche nell’aria che sta al <strong>di</strong> sopra della terrai gas si<br />
separano uno dall’altro.<br />
Quelli che sono più pesanti dell’aria, si posano in basso; quelli che<br />
sono più leggeri, si sollevano in alto; quelli che sono capaci <strong>di</strong> sciogliersi,<br />
si spandono per tutta l’atmosfera.<br />
Se i gas non si formassero <strong>di</strong> continuo, non si mischiassero con altri<br />
gas, non si scambiassero <strong>di</strong> posto, l’aria rimarrebbe immobile al <strong>di</strong> sopra<br />
della terra, e non si agiterebbe mai: sarebbe come l’acqua in un secchio<br />
quando s’è ben posata. Ma al <strong>di</strong> sopra della terra si formano <strong>di</strong> continuo<br />
nuovi gas, e quelli che già ci sono, si mischiano con altre sostanze.<br />
Ogni uomo, ogni animale, quando respira, prende dall’aria<br />
l’ossigeno, lo mischia con le sostanze che stanno dentro al suo corpo, e lo<br />
rimanda fuori trasformato in un gas <strong>di</strong>verso. Ogni pianta (erba o albero)<br />
assorbe l’acido carbonico e rimanda fuori l’ossigeno. In un luogo,<br />
l’acqua passa dallo stato liquido allo stato gassoso, <strong>di</strong>venta vapore ac‐<br />
queo, invisibile all’occhio, in un altro luogo, dallo stato gassoso l’acqua<br />
passa allo stato liquido. Così, nell’aria, girano sempre tanti gas <strong>di</strong>versi:<br />
quelli più leggeri vanno in alto, quelli più pesanti scendono in basso, e<br />
c’è un giro continuo <strong>di</strong> gas, come quello che fanno sostanze <strong>di</strong>verse<br />
nell’acqua d’un secchio.<br />
Ma l’aria si agita e gira soprattutto perché, dovunque essa si riscalda,<br />
tende a sollevarsi verso l’alto, e non appena si raffredda, tende a scende‐<br />
re verso il basso. Quando, in una giornata serena, il sole batte <strong>di</strong> sghem‐<br />
bo alla finestra, si vedono nei raggi del sole roteare e scattare verso l’alto<br />
e verso il basso tanti granellini <strong>di</strong> polvere. È l’aria calda e fredda che ro‐<br />
tea, trascinando con sé quei leggerissimi granellini <strong>di</strong> polvere.<br />
Il leone, l’asino e la volpe.<br />
(Favola).<br />
Un leone, un asino e una volpe uscirono in cerca <strong>di</strong> preda. Acchiap‐<br />
parono molte bestie selvatiche, e il leone or<strong>di</strong>nò all’asino <strong>di</strong> fare le parti.<br />
L’asino fece tre parti uguali, e <strong>di</strong>sse: —E ora, prendete!<br />
Il leone andò in collera, mangiò l’asino, e or<strong>di</strong>nò alla volpe <strong>di</strong> rifare<br />
lei le parti. La volpe raccolse tutto in un mucchio solo, lasciando per sé<br />
soltanto poche briciole.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 211<br />
Il leone <strong>di</strong>ede un’occhiata alla roba così spartita, e <strong>di</strong>sse: – Tu si che<br />
hai il cervello fino! Ma chi ti ha insegnato a fare tanto bene, le parti?<br />
Rispose la volpe: – E dell’asino, scusa, che ne è stato?<br />
Il vecchio pioppo.<br />
(Racconto).<br />
Per cinque anni il nostro giar<strong>di</strong>no era rimasto abbandonato. Io presi<br />
degli operai a giornata, con accette e con zappe, e mi misi a lavorare an‐<br />
ch’io insieme con loro intorno al giar<strong>di</strong>no.<br />
Sra<strong>di</strong>cammo e mondammo il seccume e il selvaticume, e tutto il <strong>di</strong>p‐<br />
piú <strong>di</strong> cespugli e d’alberi che ci era cresciuto. Soprattutto i pioppi e i ma‐<br />
raschi avevano avuto un grande sviluppo, e soffocavano le altre piante.<br />
Il pioppo spunta su <strong>di</strong>rettamente da tutte le <strong>di</strong>ramazioni delle ra<strong>di</strong>ci,<br />
e quin<strong>di</strong> non può essere sra<strong>di</strong>cato d’un colpo: bisogna tagliare le ra<strong>di</strong>ci<br />
sotto terra. Accanto al laghetto sorgeva un pioppo enorme, da volerci<br />
due persone per abbracciarlo. Intorno si stendeva una piccola radura.<br />
Questa piccola radura s’era tutta riempita <strong>di</strong> polloni <strong>di</strong> pioppo.<br />
Io <strong>di</strong>ssi agli uomini <strong>di</strong> tagliarli: volevo che il posto <strong>di</strong>ventasse più al‐<br />
legro, e soprattutto volevo dare sollievo a quel vecchio pioppo, giacché<br />
pensavo che tutti quegli alberelli giovani, venendo su dalle sue ra<strong>di</strong>ci,<br />
gli succhiassero la linfa. Mentre noi tagliavamo i giovani pioppetti, mi<br />
faceva pena, a momenti, veder tagliare sotto terra le loro ra<strong>di</strong>ci piene <strong>di</strong><br />
linfa, e poi doverci mettere in quattro a tirare, senza riuscire a svellere il<br />
piccolo pioppo già intaccato dalle accette. L’alberello resisteva con tutte<br />
le forze, e non voleva a nessun costo morire. Allora mi venne il pensiero:<br />
si vede che sarà necessario che vivano, se con tanta tenacia <strong>di</strong>fendono la<br />
loro vita! Ma bisognava tagliarli, e io li feci tagliare. Soltanto in seguito,<br />
quando era troppo tar<strong>di</strong>, capii che non si sarebbe dovuto <strong>di</strong>struggerli.<br />
Io avevo creduto che i polloni succhiassero la linfa al vecchio pioppo;<br />
e invece era accaduto il contrario. Al momento che li tagliai, il vecchio<br />
pioppo stava già per morire. Quando sbocciarono le foglie, mi avvi<strong>di</strong><br />
che uno dei suoi rami (l’albero s’era biforcato in due rami) rimaneva nu‐<br />
do: e, in quella stessa estate, si seccò. Dunque, già da un pezzo il vecchio<br />
pioppo s’avvicinava alla morte, e lo sapeva, e aveva voluto trasmettere a<br />
quei polloni la sua vita.<br />
Per questo essi erano cresciuti tanto in fretta. Io, invece, con l’inten‐<br />
zione <strong>di</strong> dargli sollievo, avevo ucciso tutti i suoi figlioli.
212<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il marasco selvatico.<br />
(Racconto).<br />
Un marasco era cresciuto sullo stradello allo sbocco della piantagione<br />
dei noccioli, e soffocava tutti i loro cespugli. Io restai in dubbio per un<br />
pezzo se tagliarlo o non tagliarlo: mi faceva compassione. Questo mara‐<br />
sco non era cresciuto a forma <strong>di</strong> cespuglio, ma <strong>di</strong> albero, d’una dozzina<br />
<strong>di</strong> centimetri <strong>di</strong> <strong>di</strong>ametro e d’otto metri d’altezza, pieno <strong>di</strong> biforcazioni,<br />
ricciuto, tutto rivestito <strong>di</strong> fiori vivi<strong>di</strong>, bianchi, odorosi. Da un buon tratto<br />
lontano, il suo profumo si faceva sentire. Io non mi sarei deciso a tagliar‐<br />
lo, ma uno degli operai (al quale avevo detto in precedenza <strong>di</strong> tagliare<br />
tutti i maraschi selvatici) incominciò a tagliarlo a mia insaputa. Quando<br />
arrivai io, l’accetta era già entrata nel legno per una profon<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> sei<br />
centimetri, e la linfa schizzava sotto la lama quando il taglio imbroccava<br />
due volte la stessa intacca. «Niente da fare: si vede che era destino!» <strong>di</strong>s‐<br />
si tra me; impugnai l’accetta anch’io, e mi misi a tagliare insieme col con‐<br />
ta<strong>di</strong>no.<br />
Di qualunque lavoro si tratti, lavorare dà sempre allegria; e dà alle‐<br />
gria anche tagliare un albero.<br />
Dà allegria far entrare ben a fondo, obliquamente, l’accetta, e poi, con<br />
colpetti perpen<strong>di</strong>colari, far saltare via il legno già tagliato, e a mano a<br />
mano affondare sempre più addentro nel tronco.<br />
Io m’ero scordato completamente del marasco, e non pensavo più ad<br />
altro che al modo <strong>di</strong> buttarlo presto a terra. Quando mi sentii senza fiato,<br />
deposi l’accetta, m’attaccai: all’albero insieme col conta<strong>di</strong>no, e cercai <strong>di</strong><br />
buttarlo giù. Tutt’e due <strong>di</strong> buon accordo, gli demmo uno strattone: l’al‐<br />
bero fremette con tutto il fogliame, e sulle nostre teste ne cadde qualche<br />
goccia <strong>di</strong> rugiada, mentre intorno si spandevano per l’aria i bianchi, o‐<br />
dorosi petali dei fiori.<br />
Nello stesso momento, ci fu una specie <strong>di</strong> grido: era l’interno del<br />
tronco, che aveva dato uno scricchiolio. Noi facemmo forza con tutto il<br />
nostro peso, e allora, come se scoppiasse a piangere, l’interno ebbe uno<br />
schianto, e l’albero crollò a terra.<br />
S’era schiantato all’altezza del taglio, e, oscillando, s’era adagiato sul‐<br />
l’erba coi rami e coi fiori. Tremarono ancora un po’, dopo la caduta, le<br />
cimette e i fiori: poi rimasero immobili.<br />
– Eh, gran bella pianta! – esclamò il conta<strong>di</strong>no. – Proprio ti fa stringe‐<br />
re il cuore!<br />
E io, infatti, mi sentivo il cuore così stretto, che in fretta me ne andai<br />
<strong>di</strong> lì, a guardare gli altri operai.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 213<br />
In che modo camminano gli alberi.<br />
(Racconto).<br />
Una volta, stavamo ripulendo uno stradello inselvatichito del giar<strong>di</strong>‐<br />
no, sulla costa accanto al laghetto. Avevamo già abbattuto con le accette<br />
una gran quantità <strong>di</strong> pruni, <strong>di</strong> salci, <strong>di</strong> pioppi: poi venne la volta d’un<br />
marasco selvatico. Era cresciuto, questo marasco, proprio nel mezzo del‐<br />
la strada, ed era così vecchio e grosso, che non poteva avere meno <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>eci anni. Eppure, cinque anni prima, io sapevo che il giar<strong>di</strong>no era stato<br />
ripulito. Non riuscivo a capire come mai un marasco così vecchio poteva<br />
star piantato in quel punto.<br />
Noi lo tagliammo e procedemmo più avanti. Più avanti, in un’altra<br />
foltaia, era cresciuto un altro marasco simile a quello, anzi ancora più<br />
grosso. Io osservai le sue ra<strong>di</strong>ci, e scoprii che era nato sotto un vecchio<br />
tiglio. Il tiglio, coi suoi rami, gli toglieva l’aria, e il marasco s’era allunga‐<br />
to a fior <strong>di</strong> terra col suo fusto nudo e liscio per circa quattro metri: quan‐<br />
do poi era sboccato allo scoperto, aveva drizzato la testa, e aveva caccia‐<br />
to fuori rami, foglie e fiori. Io, con l’accetta, lo tagliai alla ra<strong>di</strong>ce, e mi<br />
meravigliai che l’albero fosse tanto vegeto, mentre la ra<strong>di</strong>ce era fra<strong>di</strong>cia.<br />
Quando lo ebbi tagliato, mi misi coi conta<strong>di</strong>ni a trascinarlo via; ma<br />
per quanto noi tirassimo, non riuscivamo a spostarlo: pareva che fosse<br />
rimasto attaccato là. Io <strong>di</strong>ssi: – Guardate un po’ se ci fossimo incastrati<br />
con qualche altra pianta! – Un operaio, allora, s’insinuò sotto al marasco,<br />
e gridò: – Ma quest’albero ha un’altra ra<strong>di</strong>ce, qua sulla strada! – Io lo se‐<br />
guii, e vi<strong>di</strong> che era vero.<br />
Il marasco, per non restare soffocato da quel tiglio, era venuto a tra‐<br />
piantarsi sulla strada, a più <strong>di</strong> due metri dalla prima ra<strong>di</strong>ce. La ra<strong>di</strong>ce<br />
che io avevo tagliata era fra<strong>di</strong>cia e secca, ma la nuova era fresca e vegeta.<br />
L’istinto aveva detto al marasco che là sotto il tiglio non poteva vive‐<br />
re: prima s’era proteso da un lato, poi s’era aggrappato con un ramo alla<br />
terra, aveva trasformato il ramo in una nuova ra<strong>di</strong>ce, e la prima ra<strong>di</strong>ce<br />
l’aveva abbandonata.<br />
Soltanto allora io capii come aveva fatto a crescere quel primo mara‐<br />
sco. Anche quello doveva aver fatto la stessa cosa: ma, ormai, aveva avu‐<br />
to il tempo <strong>di</strong> <strong>di</strong>sfarsi completamente della ra<strong>di</strong>ce vecchia, e così io non<br />
avevo potuto trovarla più.
214<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il re <strong>di</strong> quaglie e la sua femmina.<br />
(Favola).<br />
Il re <strong>di</strong> quaglie aveva fatto il nido in un prato e, al tempo della fiena‐<br />
tura, la sua femmina covava già le uova.<br />
Una mattina <strong>di</strong> buonora, i conta<strong>di</strong>ni arrivarono al prato, si tolsero le<br />
giacche, arrotarono le falci, e incominciarono, uno <strong>di</strong>etro l’altro, a taglia‐<br />
re l’erba e ad accomodarla in tante file. Il re <strong>di</strong> quaglie volò fuori a guar‐<br />
dare che facevano i falciatori. Quando vide che uno dei conta<strong>di</strong>ni alzava<br />
la falce e tagliava una serpe in due pezzi, si rallegrò tutto, tornò a volo<br />
dalla sua femmina, e le <strong>di</strong>sse: – Non aver paura <strong>di</strong> quei conta<strong>di</strong>ni: sono<br />
venuti qui a fare a pezzi le serpi; da quanto tempo, per colpa <strong>di</strong> queste<br />
bestiacce, noialtri non potevamo più campare! – Ma gli rispose la fem‐<br />
mina: – I conta<strong>di</strong>ni tagliano l’erba, e insieme con l’erba tagliano via qua‐<br />
lunque cosa gli capita a portata <strong>di</strong> mano: sia una serpe, sia un nido come<br />
il nostro, o sia magari la testa d’un re <strong>di</strong> quaglie. Il cuore mi <strong>di</strong>ce brutte<br />
cose: ma che posso fare? Non posso più né portar via queste uova, né<br />
volarmene lontano dal nido: le uova mi si ghiaccerebbero!<br />
Quando i conta<strong>di</strong>ni furono arrivati al nido del re <strong>di</strong> quaglie, uno alzò<br />
in aria la falce e troncò netta la testa alla femmina. Le uova se le mise in<br />
petto, e poi le <strong>di</strong>ede ai ragazzi, che ci giocassero.<br />
Come si fabbricano i palloni aerostatici.<br />
(Considerazioni).<br />
Se pren<strong>di</strong>amo una vescica gonfiata d’aria, la immergiamo nell’acqua,<br />
e poi la lasciamo libera, la vescica balzerà su verso la superficie dell’ac‐<br />
qua, e ci resterà a galla. Allo stesso modo, se facciamo bollire un reci‐<br />
piente metallico pieno d’acqua, avverrà che in fondo al recipiente, pro‐<br />
prio sul fuoco, l’acqua si trasformerà in vapore, in gas: e quando un po‐<br />
chino <strong>di</strong> questo vapor acqueo si sarà raccolto, subito balzerà verso l’alto<br />
in forma <strong>di</strong> bollicine. Da principio balzerà verso l’alto una sola bollicina,<br />
poi un’altra; e quando tutta l’acqua si sarà riscaldata a sufficienza, le bol‐<br />
licine frulleranno in su una dopo l’altra senza interruzione. Allora si <strong>di</strong>ce<br />
che l’acqua bolle.<br />
Come queste bollicine, gonfie <strong>di</strong> vapor acqueo, frullano dall’acqua<br />
verso l’alto perché sono più leggere dell’acqua, allo stesso modo, dall’a‐<br />
ria che sta intorno a noi, frulla verso gli strati d’aria più alti una vescica<br />
che sia stata gonfiata col gas chiamato idrogeno, oppure con aria ben
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 215<br />
calda. Infatti, l’aria calda è più leggera <strong>di</strong> quella fredda; e l’idrogeno, poi,<br />
è il più leggero <strong>di</strong> tutti i gas.<br />
I palloni aerostatici si possono fabbricare o con l’idrogeno o con l’aria<br />
calda. Con l’idrogeno si fabbricano così: si prepara una grossa camera<br />
d’aria a forma <strong>di</strong> sfera, la si lega per mezzo <strong>di</strong> funi a tanti pioli, e dentro<br />
vi si immette l’idrogeno. Appena le funi vengono sciolte; la sfera vola<br />
verso l’alto, e continua a salire fin tanto che non esce da quegli strati del‐<br />
l’aria che sono più pesanti dell’idrogeno. Quando poi sarà arrivata al <strong>di</strong><br />
sopra, nell’aria leggera, incomincerà a galleggiare in quell’aria come una<br />
vescica sull’acqua.<br />
Con l’aria calda i palloni si fabbricano così: si prepara un grosso invo‐<br />
lucro vuoto a forma <strong>di</strong> sfera, con un collo verso il basso, simile a una<br />
brocca capovolta, e all’imboccatura <strong>di</strong> quel collo si applica un ciuffo <strong>di</strong><br />
stoppa: si imbeve la stoppa <strong>di</strong> spirito, e ci si dà fuoco. Per effetto del fuo‐<br />
co, l’aria si scalda dentro l’involucro, e <strong>di</strong>venta più leggera dell’aria fred‐<br />
da: perciò l’involucro tenderà a innalzarsi, come fa una bollicina nell’ac‐<br />
qua che sta per bollire. E sempre continuerà a volare verso l’alto, fin<br />
quando non sarà arrivato dove l’aria è ancora più leggera dell’aria calda<br />
contenuta nell’involucro.<br />
Alla fine del Settecento 145 , dei Francesi, i fratelli Montgolfier, inventa‐<br />
rono i palloni aerostatici. Provarono a fabbricare una sfera <strong>di</strong> tela e carta,<br />
e ci fecero entrare dell’aria calda: il pallone volò via. Allora fabbricarono<br />
un’altra sfera più grossa, ci legarono sotto un agnello, un gallo e un’oca,<br />
e li lasciarono andare. Il pallone si levò in aria, e si riabbassò felicemente.<br />
Poi applicarono sotto la sfera una navicella, e in questa navicella pre‐<br />
se posto un uomo. Il pallone volò a tanta altezza, che scomparve alla vi‐<br />
sta; infine, dopo un lungo volo, cicalò felicemente a terra. Più tar<strong>di</strong> si<br />
pensò <strong>di</strong> riempire le sfere con l’idrogeno, e così fu possibile volare anco‐<br />
ra più in alto e più rapidamente.<br />
Per compiere dei voli in pallone, vi si lega sotto una navicella, dove<br />
prendono posto due, tre, perfino otto persone, portando con sé da man‐<br />
giate e da bere.<br />
Per poter abbassarsi e risollevarsi quando si vuole, al pallone sta ap‐<br />
plicata una valvola: chi vola può tirare, con una funicella, questa valvo‐<br />
la, e aprirla o richiuderla. Se il pallone si solleverà troppo in alto, e chi<br />
vola vorrà farlo abbassare, aprirà la valvola, il gas ne uscirà, la sfera <strong>di</strong>‐<br />
venterà più floscia, e incomincerà ad abbassarsi. Inoltre, si portano sem‐<br />
145 Il testo ha «quasi cent’anni fa».
216<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
pre sul pallone dei sacchetti <strong>di</strong> sabbia: gettando via uno <strong>di</strong> questi sac‐<br />
chetti, il pallone dovrà sostenere meno peso, e quin<strong>di</strong> andrà più in alto.<br />
Quando chi vola ha deciso <strong>di</strong> ricalare a terra, e vede che il luogo sotto<br />
<strong>di</strong> lui non è adatto, essendoci in quel punto un fiume o un bosco, farà<br />
uscire un po’ <strong>di</strong> sabbia dai sacchetti: allora il pallone si farà più leggero,<br />
e tornerà a salire.<br />
Racconto d’un aeronauta.<br />
(Racconto).<br />
Molta folla s’era raccolta per vedere il volo che io dovevo fare. Il pal‐<br />
lone era pronto. Esso, ogni tanto, fremeva, tirava i quattro cavi che lo<br />
reggevano, protendendosi verso l’alto, e ora si raggrinziva, ora s’inturgi‐<br />
<strong>di</strong>va. Io salutai i miei cari, montai sulla navicella, verificai se tutte le mie<br />
provviste erano a posto, e gridai: — Mollate!<br />
I cavi furono tagliati, e il pallone si sollevò verso l’alto, da principio<br />
tranquillamente (sembrava quando un puledro spezza i legacci e s’attar‐<br />
da a guardarsi intorno): poi d’improvviso ebbe un’impennata, e volò in<br />
su con tanto impeto, che la navicella vibrò tutta e si mise a dondolare.<br />
Giù a terra battevano le mani, gridavano e agitavano fazzoletti e cap‐<br />
pelli. Io, <strong>di</strong> rimando, sventolai il berretto: e non avevo ancora fatto in<br />
tempo a ricalzarmelo in testa, che già ero talmente in alto, da <strong>di</strong>stinguere<br />
si e no la gente. lì per lì ne sentii raccapriccio, e un brivido mi corse per<br />
le vene; ma poi, a un tratto, mi venne un tale senso <strong>di</strong> gioia, che non<br />
pensai più ad aver paura. Ormai, percepivo appena il rumore della città.<br />
Ronzavano come api gli uomini là in basso. Le vie, le case, il fiume, i<br />
giar<strong>di</strong>ni della città, m’apparivano laggiù come in un quadro. Mi pareva<br />
<strong>di</strong> essere il re <strong>di</strong> tutta quella città e <strong>di</strong> tutta quella gente, tanta era la gioia<br />
<strong>di</strong> trovarmi così in alto. Intanto continuavo a sollevarmi rapidamente:<br />
soltanto le corde della navicella fremevano, e a un certo punto fui inve‐<br />
stito da un colpo <strong>di</strong> vento, che mi fece rigirare due volte su me stesso;<br />
ma poi tutto tornò così tranquillo, che non si poteva capire se volavo o<br />
stavo immobile. Soltanto a una cosa m’accorgevo <strong>di</strong> volare: che la scena<br />
della città, sotto <strong>di</strong> me, <strong>di</strong>ventava sempre più piccola, e nuovi sfon<strong>di</strong> lon‐<br />
tani mi si scoprivano alla vista. La terra, sotto <strong>di</strong> me pareva che cresces‐<br />
se: <strong>di</strong>ventava sempre più larga, sempre più larga: e d’improvviso<br />
m’avvi<strong>di</strong> che, sotto <strong>di</strong> me, la terra era <strong>di</strong>ventata simile a una ciotola. Gli<br />
orli erano rigonfi: nel fondo della ciotola, stava la città. Io mi sentivo<br />
sempre più pieno <strong>di</strong> gioia. Respirare era gioioso e facile, e ti veniva vo‐
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 217<br />
glia <strong>di</strong> cantare. Infatti intonai una canzone: ma la mia voce era talmente<br />
debole, che re stai meravigliato e spaventato della mia stessa voce.<br />
Il sole stava ancora alto, ma a ponente c’era una fascia <strong>di</strong> nuvolo, che<br />
d’improvviso venne a coprire il sole. Io ebbi <strong>di</strong> nuovo un momento <strong>di</strong><br />
raccapriccio: e, per trovare un’occupazione qualsiasi, tirai fuori il baro‐<br />
metro e lo osservai. Dal barometro seppi che m’ero già sollevato a un’al‐<br />
tezza <strong>di</strong> quattro chilometri. Mentre rimettevo il barometro a posto, qual‐<br />
che cosa <strong>di</strong>ede un frullo vicino a me, e scorsi un piccione. Mi ricordai,<br />
allora, che avevo prese con me quel piccione per rimandarlo a terra con<br />
un biglietto. Scrissi su un foglietto che ero vivo e sano, a quattro chilo‐<br />
metri <strong>di</strong> altezza: e legai il foglietto al collo del piccione. La bestiola stava<br />
appollaiata sulla sponda della navicella, e guardava verso <strong>di</strong> me coi suoi<br />
occhi rossicci. A me pareva che mi pregasse <strong>di</strong> non buttarla giù. Da<br />
quando il cielo s’era rannuvolato, nulla più si <strong>di</strong>stingueva in basso. Ma<br />
non c’era altro da fare: bisognava mandare il piccione a terra. Quando lo<br />
presi in mano, tremava con tutte le penne. Io stesi in fuori il braccio, e lo<br />
lasciai. Sbattendo in fretta le ali, lui volò via <strong>di</strong> sghembo, come una pie‐<br />
tra, giù verso il basso. Io allungai ancora un’occhiata al barometro. Mi<br />
trovavo, ormai, a cinque chilometri d’altezza, ed ebbi la sensazione che<br />
l’aria mi mancava: il respiro mi si faceva affrettato. Tirai la cor<strong>di</strong>cella per<br />
far uscire il gas e abbassarmi: ma, o che mi ero indebolito, o che c’era<br />
qualche guasto, la valvola non si apriva. Restai <strong>di</strong> sasso. Non m’accorge‐<br />
vo <strong>di</strong> sollevarmi, tutto pareva immobile: ma intanto il respiro mi si face‐<br />
va sempre più penoso. «Se non riesco a fermare il pallone, — pensai, —<br />
scoppierà, e io sono perduto!»<br />
Per accertarmi se continuavo a salire, o stavo fermo, gettai fuori dalla<br />
navicella qualche pezzetto <strong>di</strong> carta. I pezzetti <strong>di</strong> carta, come pietre, spro‐<br />
fondarono in basso. Voleva <strong>di</strong>re che io volava in su come una freccia.<br />
Con tutte le forze, allora, m’aggrappai alla cor<strong>di</strong>cella e tirai. Per for‐<br />
tuna, la valvola s’aprì, si senti una specie <strong>di</strong> fischio. Provai <strong>di</strong> nuovo a<br />
gettare un pezzetto <strong>di</strong> carta: la carta mi volò attorno, poi se ne andò<br />
all’insù. Dunque, io mi stavo abbassando. Verso il basso non era visibile<br />
ancora nulla: c’era solo un gran mare <strong>di</strong> nebbia, che si stendeva sotto <strong>di</strong><br />
me. Calai in mezzo a quella nebbia: erano nuvole. Poi si mise a soffiare il<br />
vento, mi trasportò in chissà quale <strong>di</strong>rezione, e ben presto il sole si riaf‐<br />
facciò, e io rivi<strong>di</strong> sotto <strong>di</strong> me la ciotola della terra. Ma non c’era più la<br />
nostra città: c’erano delle estensioni <strong>di</strong> bosco, e due strisce turchine, che<br />
erano fiumi. Di nuovo mi nacque nell’anima una gran gioia, e non avrei<br />
voluto più ricalare a terra; ma, tutt’a un tratto, mi sentii accanto un fru‐<br />
scio: e vi<strong>di</strong> un’aquila.
218<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Con occhi stupiti l’aquila mi fissò un istante, e si fermò sulle ali tese.<br />
Io, come una pietra, sprofondavo in basso. Mi <strong>di</strong>e<strong>di</strong> a scaricare zavor‐<br />
ra, per frenare un po’ la <strong>di</strong>scesa.<br />
Di lì a poco mi <strong>di</strong>vennero visibili i campi lavorati, un bosco, e presso<br />
il bosco un villaggio: verso il villaggio stava tornando un branco <strong>di</strong> pe‐<br />
core. Io percepivo le voci della gente e delle bestie.<br />
Il mio pallone <strong>di</strong>scendeva dolcemente. Si avvidero <strong>di</strong> me. Gridai e<br />
gettai giù delle funi. Si radunò <strong>di</strong> corsa molta gente. Vi<strong>di</strong> che un ragaz‐<br />
zetto era il primo ad agguantare una fune. Poi anche altri le afferrarono,<br />
legarono il pallone a un albero, e io smontai dalla navicella.<br />
Ero stato in volo soltanto tre ore. Il villaggio dove ero sceso si trovava<br />
a 250 chilometri dalla mia città.<br />
La vacca e il caprone.<br />
(Leggenda).<br />
Una vecchia aveva una vacca e un caprone. Vacca e caprone stavano<br />
insieme nella stessa stalla. La vacca, quando la mungevano, si agitava e<br />
si rigirava <strong>di</strong> continuo. Una sera, la vecchia portò con sé un po’ <strong>di</strong> pane e<br />
sale, lo <strong>di</strong>ede alla vacca, e le <strong>di</strong>ceva ad alta voce: — Ma sta’ ferma una<br />
buona volta, figlia mia! Su, su... Te ne porterò dell’altro, purché tu stia<br />
ferma e buona.<br />
La sera dopo, al ritorno dal pascolo, il caprone passò innanzi alla vac‐<br />
ca, <strong>di</strong>varicò le zampe, e si piantò davanti alla padrona. La vecchia lo<br />
scacciò con l’asciugamano, ma il caprone se ne stava sempre lì, senza<br />
muoversi <strong>di</strong> pezzo. Si ricordava che la vecchia aveva promesso dell’altro<br />
pane alla vacca, purché stesse ferma e buona. La vecchia vide che il ca‐<br />
prone non si toglieva <strong>di</strong> mezzo: afferrò un bastone, e lo picchiò.<br />
Quando il caprone si fu scostato, la vecchia si mise <strong>di</strong> nuovo a dar da<br />
mangiare del pane alla vacca, e a persuaderla con le buone maniere.<br />
«Non c’è giustizia, negli uomini! — pensò il caprone. — Io sono stato<br />
più fermo e buono <strong>di</strong> lei, eppure mi sono toccate le busse!»<br />
Si tirò in<strong>di</strong>etro a una certa <strong>di</strong>stanza, prese la rincorsa, venne a cozzare<br />
con le corna contro il secchio della mungitura, versò tutto il latte per ter‐<br />
ra e conciò male la vecchia.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 219<br />
Il cornacchione e i cornacchini.<br />
(Favola).<br />
Un cornacchione fece il nido su un’isola, e quando i cornacchini furo‐<br />
no usciti dall’uovo, incominciò a trasportarli uno per uno dall’isola sul<br />
continente. Prese dunque fra le unghie il primo dei cornacchini, e si <strong>di</strong>‐<br />
resse a volo con lui al <strong>di</strong> sopra del mare. Quando il vecchio cornacchio‐<br />
ne, volando così, fu arrivato in mezzo al mare, si sentì sfinito dalla stan‐<br />
chezza, si mise a battere più <strong>di</strong> rado le ali, e pensò: «Ora io sono forte e<br />
lui è debole, e perciò lo trasporto così al <strong>di</strong> sopra del mare; ma quando<br />
lui sarà <strong>di</strong>ventato grande e forte, e io debole per la vecchiaia, chissà se si<br />
ricorderà più delle mie fatiche, e se mi trasporterà così da un luogo<br />
all’altro?»<br />
E il vecchio cornacchione domandò al cornacchino: — Quando io sarò<br />
debole, e tu forte, mi porterai così? Dimmi la verità! — Il cornacchino<br />
ebbe timore che il padre lo lasciasse cadere in mare, e rispose: — Si che ti<br />
porterò! — Ma il vecchio cornacchione non credette al figliolo, aprì le<br />
unghie e lasciò andare il cornacchino. Il cornacchino, come un gomitolo,<br />
piombò giù e affondò dentro al mare.<br />
Il vecchio cornacchione, rimasto solo, tornò in<strong>di</strong>etro al <strong>di</strong> sopra del<br />
mare verso la sua isola. Là prese un altro dei cornacchini e, allo stesso<br />
modo del primo, lo portò via con sé al <strong>di</strong> sopra del mare. E anche stavol‐<br />
ta, quando fu in mezzo al mare, egli si sentì sfinito, e domandò al figliolo<br />
se, in vecchiaia, lo avrebbe portato così da un luogo all’altro. Il figlio si<br />
spaventò, pensando che il padre poteva buttarlo <strong>di</strong> sotto, e perciò gli ri‐<br />
spose: — Si che ti porterò!<br />
Ma il padre non credette neppure a quest’altro figlio, e lo lasciò cade‐<br />
re dentro al mare. Quando fu <strong>di</strong> ritorno al suo nido, gli restava in tutto<br />
un cornacchino solo. Prese quest’ultimo figlio, e con lui s’avviò a volo al<br />
<strong>di</strong> sopra del mare.<br />
Quando, così volando, fu arrivato fin nel mezzo del mare, e si sentì<br />
sfinito, fece ancora una volta quella domanda: — Sarai <strong>di</strong>sposto, nella<br />
mia vecchiaia, a darmi da mangiare e a trasportarmi così da un luogo al‐<br />
l’altro?<br />
Il terzo cornacchino rispose: — No, non sarò <strong>di</strong>sposto! — E perché? —<br />
domandò il padre.<br />
— Perché, quando tu sarai vecchio, e io sarò grande, avrò il mio nido<br />
e i miei cornacchini, e dovrò nutrire e trasportare così i figli miei.<br />
Allora il vecchio cornacchione pensò: «Questo ha detto la verità! Per<br />
ricompensa farò ancora uno sforzo e lo porterò al <strong>di</strong> là del mare».
220<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
E il vecchio cornacchione non lasciò cadere il terzo cornacchino, ma<br />
con l’ultime forze che gli restavano, riprese a battere le ali e lo trasportò<br />
fin sul continente, in modo che qui potesse fare il suo nuovo nido e alle‐<br />
vare i figli che gli sarebbero nati.<br />
Il sole è il calore.<br />
(Considerazioni).<br />
Esci <strong>di</strong> casa, d’inverno, in una giornata <strong>di</strong> gelo senza vento, e quando<br />
arrivi tra i campi, o nei boschi, guarda intorno a te, e ten<strong>di</strong> l’orecchio:<br />
dappertutto, intorno intorno, c’è la neve: i fiumi sono ghiacciati: qualche<br />
filo d’erba secca spunta fuori dalla neve: gli alberi s’alzano spogli: nulla<br />
si muove.<br />
Guarda lo stesso posto in estate: i fiumi corrono, in ogni pozza d’ac‐<br />
qua le rane gracidano, gorgogliano; gli uccelli svolazzano qua e là, fi‐<br />
schiano, cantano; le mosche e le zanzare volteggiano, ronzano; gli alberi<br />
e le erbe si espandono, oscillano.<br />
Fà ghiacciare un secchio <strong>di</strong> ferro pieno d’acqua: <strong>di</strong>venterà come una<br />
pietra. Poni quel secchio così ghiacciato sul fuoco: il ghiaccio si spacche‐<br />
rà, si scioglierà, si metterà in moto; l’acqua comincerà a ondeggiare, a fa‐<br />
re tante bollicine; poi, quando sarà arrivata al bollore, manderà un rom‐<br />
bo, si metterà a girare su se stessa. La medesima cosa accade, col calore,<br />
anche nella natura. Se il calore non c’è, tutto è morto; se c’è il calore, tut‐<br />
to si muove e vive. Poco calore, poco movimento; maggior calore, mag‐<br />
gior movimento; molto calore, molto movimento; moltissimo calore,<br />
moltissimo movimento.<br />
Di dove viene, nella natura, il calore? Il calore viene dal sole. Quando<br />
il sole, d’inverno, gira basso, <strong>di</strong> fianco, e non investe <strong>di</strong>ritto coi raggi la<br />
terra, nulla si muove. Quando il sole viene a girare più alto sopra la ter‐<br />
ra, allora tutta la natura si riscalda e si mette in moto.<br />
Allora la neve incomincia a sciogliersi, il ghiaccio incomincia gonfiar‐<br />
si nei fiumi, l’acqua corre a ruscelli giù dalle alture, s’innalzano dall’ac‐<br />
qua i vapori e formano le nubi, cade la pioggia. Chi fa accadere tutte<br />
queste cose? Il sole.<br />
I semi delle piante si macerano, cacciano fuori i germogli; i germogli<br />
s’aggrappano alla terra; dalle ra<strong>di</strong>ci vecchie spuntano i nuovi polloni; in‐<br />
cominciano a crescere alberi ed erbe. Chi ha fatto accadere questo? Il so‐<br />
le.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 221<br />
Si riscuotono dal letargo gli orsi, le talpe; si ridestano le mosche, le<br />
api; nascono le zanzare, nascono i pesci dalle piccole uova toccate dal ca‐<br />
lore. Chi ha fatto accadere tutto questo? Il sole.<br />
Si riscalda l’aria in un dato punto, si solleva verso l’alto, e al suo po‐<br />
sto sopravviene aria più fredda: si produce, così, il venticello. Chi ha fat‐<br />
to accadere questo? Il sole.<br />
S’innalzano le nubi, incominciano a riunirsi insieme e a separarsi:<br />
scoppia il fulmine. Chi ha prodotto questo fuoco? Il sole.<br />
Crescono le erbe, i grani, i frutti, gli alberi; si saziano gli animali, si<br />
nutriscono gli uomini: raccolgono cibo e legna per l’inverno, costruisco‐<br />
no case, costruiscono ferrovie e città. Chi ha procurato tutte queste cose?<br />
Il sole.<br />
L’uomo si è costruito una casa. Con che cosa l’ha fatta? Con tronchi e<br />
travi. Questi tronchi e travi sono stati tagliati dagli alberi; gli alberi, li ha<br />
fatti crescere il sole.<br />
Si accende la stufa con la legna. Chi ha fatto crescere la legna? Il sole.<br />
L’uomo mangia il grano, le patate. Chi li ha fatti crescere? Il sole.<br />
L’uomo mangia la carne. Chi ha nutrito gli animali, gli uccelli? Le er‐<br />
be. E le erbe, le ha fatte crescere il sole.<br />
L’uomo costruisce una casa in muratura, con mattoni e con calce. I<br />
mattoni e la calce sono stati cotti a legna. La legna è stata procurata dal<br />
sole.<br />
Tutte le cose che servono agli uomini, che riescono utili a loro, sono<br />
procurate dal sole: e in tutte passa una gran quantità <strong>di</strong> calore solare.<br />
Appunto tutti hanno bisogno <strong>di</strong> grano, perché è stato il sole che lo ha<br />
fatto crescere, ed esso contiene una gran quantità <strong>di</strong> calore solare. Il gra‐<br />
no riscalda colui che lo mangia.<br />
E appunto è necessaria la legna da ardere, perché contiene una gran<br />
quantità <strong>di</strong> calore. Chi compera legna per l’inverno, compera calore so‐<br />
lare: e durante l’inverno, ogni volta che vorrà, accenderà quella legna e<br />
farà spandere il calore solare nelle sue stanze. Quando poi c’è il calore,<br />
allora c’è anche il movimento. Qualunque movimento ci sia, viene sem‐<br />
pre dal calore: o <strong>di</strong>rettamente dal calore solare, oppure dal calore <strong>di</strong><br />
qualche cosa che è stata prodotta dal sole, come il carbone, la legna, il<br />
grano, l’erba.<br />
I cavalli, i buoi, trasportano carichi; gli uomini lavorano: chi è che li fa<br />
muovere? È il calore. Ma <strong>di</strong> dove è venuto, a loro, il calore? E venuto dal<br />
cibo. E il cibo, lo ha prodotto il sole.<br />
I mulini ad acqua e quelli a vento girano e macinano. Chi li fa muove‐<br />
re? Il vento e l’acqua. Ma il vento, chi è che lo spinge? È il calore. E chi è
222<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
che spinge l’acqua? È il calore, nient’altro. È stato il calore che ha fatto<br />
innalzare l’acqua in forma <strong>di</strong> vapore verso il cielo: e se non fosse avve‐<br />
nuto questo, l’acqua non sarebbe ricaduta in basso. Una macchina lavo‐<br />
ra, mossa dal vapore: ma il vapore, chi lo produce? La legna. E nella le‐<br />
gna c’è il calore solare.<br />
Il calore produce il movimento, e il movimento produce il calore. E<br />
sia il calore, sia il movimento, sono prodotti dal sole.<br />
Di dove viene il male a questo mondo.<br />
(Favola).<br />
Un eremita viveva in un bosco, e le bestie selvatiche non avevano<br />
paura <strong>di</strong> lui. Lui e le bestie parlavano fra loro e si capivano a vicenda.<br />
Una sera, l’eremita si coricò sotto un albero, e un corvo, un colombo,<br />
un cervo e un serpente si raccolsero insieme a passare la notte in quello<br />
stesso luogo. Le bestie si misero a <strong>di</strong>scutere <strong>di</strong> dove viene il male a que‐<br />
sto mondo.<br />
Disse il corvo: — Il male a questo mondo viene dalla fame. Quando<br />
tu hai mangiato a sazietà, te ne stai appollaiato sopra un ramo, fai una<br />
gracchiatina ogni tanto, e tutto ti pare allegro, tutto bello, tutto ti slarga il<br />
cuore; ma basta che stai a <strong>di</strong>giuno un giorno o due, e tutto ti <strong>di</strong>venta<br />
talmente o<strong>di</strong>oso, che non ti va più neanche <strong>di</strong> guardarlo, questo mondo!<br />
E ti piglia una smania <strong>di</strong> andartene chissà dove, e svolazzi da un po‐<br />
sto all’altro, e non trovi mai pace. Se poi avvisti un pezzo <strong>di</strong> carne, peg‐<br />
gio che mai l’uggia ti cresce: pren<strong>di</strong> e t’avventi là, senza badare più a<br />
nulla.<br />
Certe volte ti lanciano addosso bastoni e sassi, o ad<strong>di</strong>rittura i lupi e i<br />
cani ti afferrano, ma tu non ce<strong>di</strong> quel pezzo <strong>di</strong> carne, non fuggi lontano.<br />
Eh, a quanti <strong>di</strong> noialtri la fame fa perdere la vita! Tutto il male viene<br />
dalla fame.<br />
Disse il colombo: – Secondo me, invece, non è dalla fame elle viene il<br />
male: tutto il male viene dall’amore. Se noi campassimo ognuno per<br />
proprio conto, ben pochi dolori ci toccherebbero. Chi è solo, bene o male,<br />
s’arrangia, e seppure non trova modo d’arrangiarsi, è solo a soffrire.<br />
Noialtri, al contrario, viviamo sempre a coppie. E ti ci affezioni tanto,<br />
alla tua compagna, che non hai mai pace, pensi sempre a lei: avrà man‐<br />
giato abbastanza? starà ben calda? E se appena appena la tua compagna<br />
ti si scosta dal fianco, tu sei bell’e sperduto: stai sempre con quel pensie‐<br />
ro che un falco la porti via, o che gli uomini la acchiappino; e finisce che
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 223<br />
anche tu voli a cercarla, e così incappi davvero in qualche <strong>di</strong>sgrazia, o<br />
sotto gli artigli d’un falco, o nel laccio d’un cacciatore. Ché se poi la <strong>di</strong>‐<br />
sgrazia tocca alla tua compagna, allora non ci tieni più neanche te a que‐<br />
sta vita. Non mangi più, non bevi, non fai altro che andare in cerca <strong>di</strong> lei,<br />
e piangere, piangere. Quanti <strong>di</strong> noialtri perdono così la vita! Tutto il ma‐<br />
le, a questo mondo, non viene dalla fame, viene dall’amore.<br />
Disse il serpente: – No, il male non viene dalla fame, e non viene dal‐<br />
l’amore: il male viene dal malanimo. Se noi campassimo in pace, senza<br />
arrabbiarci l’uno contro l’altro, tutto ci andrebbe a gonfie vele. Invece,<br />
appena qualche cosa non va come tu vorresti, ti riempi <strong>di</strong> rabbia, tanto<br />
che niente più ti attira. Non pensi più che al modo <strong>di</strong> ven<strong>di</strong>carti della tua<br />
rabbia su qualcun altro, Arrivi al punto che per<strong>di</strong> l’intelletto, ribolli tut‐<br />
to, e ti metti a strisciare via in cerca <strong>di</strong> qualcuno da poter mordere. Nes‐<br />
suno più ti fa pietà: e la rabbia ti accieca talmente, che tu stesso vai in‐<br />
contro alla tua rovina. Tutto il male, a questo mondo, viene dal malani‐<br />
mo.<br />
Disse il cervo: – No, non dal malanimo, non dall’amore, non dalla<br />
fame viene tutto il male a questo mondo: il male viene dalla paura. Se<br />
fosse possibile non aver paura <strong>di</strong> nulla, tutto andrebbe magnificamente.<br />
Le gambe, noi, le abbiamo veloci; <strong>di</strong> forza ne abbiamo molta. Dalle<br />
fiere piccine, bastano le corna a liberarci; da quelle grosse, si fugge. Ma<br />
non si riesce a non avere paura. Basta che scricchioli per il bosco un ra‐<br />
metto, o che sfrusci una frasca, subito tu sussulti dalla paura, il cuore ti<br />
comincia a palpitare come se volesse balzar fuori, e ti precipiti via <strong>di</strong><br />
gran corsa, con quanto fiato hai in corpo. Certe volte passa una lepre,<br />
frulla un uccello, un ramo secco si spezza, e tu pensi: «Una fiera!» e così<br />
corri incontro davvero a qualche fiera. Oppure scappi da un cane, e in‐<br />
cappi in un uomo. Spesso accade che, dal grande spavento, fuggi, fuggi<br />
senza sapere dove, e dal troppo impeto finisci per precipitare giù da un<br />
<strong>di</strong>rupo, e t’ammazzi. E perfino quando dormi tieni chiuso un occhio so‐<br />
lo: sempre in ascolto, sempre in timore. Non c’è mai un istante <strong>di</strong> pace.<br />
Tutto il male viene dalla paura.<br />
Allora l’eremita <strong>di</strong>sse:<br />
— Non dalla fame, non dall’amore, non dal malanimo, non dalla pau‐<br />
ra, vengono tutte le nostre sofferenze: tutto dal nostro corpo viene il ma‐<br />
le <strong>di</strong> questo mondo. Dal nostro corpo, appunto, vengono sia la fame, sia<br />
l’amore, sia il malanimo, sia la paura.
224<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Il galvanismo.<br />
(Considerazioni).<br />
C’era uno scienziato italiano, Galvani, che aveva una macchina elet‐<br />
trica, e con questa mostrava ai suoi allievi che cos’è l’elettricità. Egli stro‐<br />
picciava energicamente un vetro con un pezzo <strong>di</strong> seta unta <strong>di</strong> grasso, e<br />
poi applicava sul vetro una punta conica <strong>di</strong> rame, che vi si poteva inca‐<br />
strare dentro: allora, dal vetro, una scintilla veniva a guizzare nella pun‐<br />
ta <strong>di</strong> rame. Galvani spiegava agli allievi che una scintilla simile a questa<br />
si sprigionava anche dalla ceralacca e dall’ambra. Mostrava come delle<br />
piccole piume, o dei pezzettini <strong>di</strong> carta, certe volte si attraggono fra loro<br />
a causa dell’elettricità, altre volte si respingono: e spiegava per quale ra‐<br />
gione avviene così. Faceva molti esperimenti d’ogni genere con l’elettri‐<br />
cità, e mostrava tutto agli allievi.<br />
Un giorno la moglie gli s’ammalò. Egli chiamò il dottore e gli chiese<br />
in che modo conveniva curarla. Il dottore gli <strong>di</strong>sse <strong>di</strong> farle una zuppa<br />
con le rane. Galvani fece pescare delle rane buone da mangiare. Le rane,<br />
pescate e uccise, furono deposte sul suo tavolo.<br />
Aspettando che la cuoca venisse a prendere quelle rane, Galvani con‐<br />
tinuava a mostrare agli allievi la sua macchina elettrica, e a provocarne<br />
scintille.<br />
D’improvviso egli s’avvide che quelle rane morte, lì sul tavolo, con‐<br />
traevano le zampe. Le osservò ben bene, e notò che ogni volta che faceva<br />
sprizzare una scintilla dalla macchina elettrica, le rane contraevano le<br />
zampe. Allora Galvani raccolse altre rane, e continuò a fare esperimenti<br />
su esse. E ogni volta si ripeteva la stessa cosa: appena faceva sprizzare<br />
una scintilla, le rane morte, come se fossero vive, incominciavano a<br />
muovere le zampe.<br />
Questo fatto fece pensare a Galvani che forse le rane vive contraevano<br />
le zampe perché in esse passava l’elettricità. Egli sapeva già che l’elettri‐<br />
cità c’era anche nell’aria: sapeva che nella ceralacca, nell’ambra, nel ve‐<br />
tro, essa si manifestava più chiaramente, ma che dovunque era <strong>di</strong>ffusa<br />
nell’atmosfera, e che il tuono e il fulmine sono prodotti dall’elettricità<br />
atmosferica.<br />
E così, volle sperimentare se le rane morte avrebbero mosso le zampe<br />
anche per effetto dell’elettricità atmosferica. Per accertarsi <strong>di</strong> questo, pre‐<br />
se alcune rane, le scorticò, tagliò via le teste e le zampe davanti, e le ap‐<br />
pese con uncini <strong>di</strong> filo <strong>di</strong> rame al tetto, sotto la gronda <strong>di</strong> ferro. Pensava<br />
che, quando sarebbe venuto un temporale, e ci sarebbe stata nell’aria
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 225<br />
molta elettricità, quei fili <strong>di</strong> rame avrebbero fatto passare l’elettricità<br />
dentro le rane, e queste avrebbero incominciato a muoversi.<br />
Accadde però che, parecchie volte <strong>di</strong> seguito, ci fu il temporale, eppu‐<br />
re le rane non si muovevano. Galvani decise, senz’altro, <strong>di</strong> toglierle <strong>di</strong> là:<br />
ma, proprio mentre le staccava, fece urtare la zampa d’una rana contro<br />
la gronda: e subito la zampa si contrasse. Galvani staccò tutte le rane, e<br />
provò a fare in un altro modo: legò a quegli uncini <strong>di</strong> rame un fil <strong>di</strong> fer‐<br />
ro, e con questo fil <strong>di</strong> ferro toccava le zampe delle rane. E le zampe si<br />
contraevano ogni volta.<br />
Allora Galvani concluse che tutti gli animali erano vivi per una sola<br />
ragione: perché in essi c’era l’elettricità. L’elettricità si trasmetteva dal<br />
cervello alla carne, e così gli animali si muovevano.<br />
A quell’epoca nessuno aveva ancora sperimentato a fondo questa<br />
questione, e non se ne sapeva molto: perciò tutti credettero a Galvani.<br />
Ma, in quello stesso tempo, un altro scienziato, Volta, fece degli espe‐<br />
rimenti a modo suo, e <strong>di</strong>mostrò a tutti che Galvani s’era sbagliato. Volta<br />
provò a toccare le rane in modo <strong>di</strong>verso da come aveva fatto Galvani,<br />
non già con un uncino <strong>di</strong> rame legato a un fil <strong>di</strong> ferro, ma con un filo <strong>di</strong><br />
rame legato a un uncino <strong>di</strong> rame, oppure con un fil <strong>di</strong> ferro legato a un<br />
uncino <strong>di</strong> ferro: e le rane non si muovevano. Le rane si muovevano sol‐<br />
tanto quando Volta le toccava con un fil <strong>di</strong> ferro legato a un altro <strong>di</strong> ra‐<br />
me.<br />
Volta pensò, quin<strong>di</strong>, che l’elettricità non stesse nella rana morta, ma<br />
stesse nel ferro e nel rame. Fece degli esperimenti, e vide che era appun‐<br />
to così: appena riuniva insieme il ferro e il rame, si formava l’elettricità;<br />
ed era questa elettricità che faceva contrarre le zampe alle rane morte.<br />
Volta cercò se fosse possibile produrre l’elettricità in qualche altro<br />
modo da come s’era fatto fino allora. Fino allora, l’elettricità era stata<br />
prodotta strofinando un pezzo <strong>di</strong> vetro o <strong>di</strong> ceralacca. Volta, invece, in‐<br />
cominciò a produrla unendo insieme del ferro e del rame. Provò a unire<br />
insieme del ferro, del rame e degli altri metalli, e tanto fece che alla fine,<br />
con la semplice unione <strong>di</strong> alcuni metalli, come argento, zinco, stagno,<br />
ferro, riuscì a provocare regolarmente scintille elettriche.<br />
Dopo Volta, si trovò il modo <strong>di</strong> rafforzare ancora più l’elettricità ver‐<br />
sando fra un metallo e l’altro varie specie <strong>di</strong> liqui<strong>di</strong>: acqua e aci<strong>di</strong>. Con<br />
questi liqui<strong>di</strong>, l’elettricità <strong>di</strong>venne ancora più forte, tanto che non ci fu<br />
più bisogno <strong>di</strong> ricorrere a strofinazioni per produrla, come si era fatto<br />
fino allora; bastava, ormai, mettere in una tazza alcuni pezzi <strong>di</strong> metallo,<br />
e versarci sopra alcuni liqui<strong>di</strong>: e subito, in quella tazza, si formava l’elet‐<br />
tricità, e per mezzo d’un filo ne uscivano le scintille.
226<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Quando fu inventato questo modo <strong>di</strong> formare l’elettricità, se ne fecero<br />
molte applicazioni pratiche: s’inventò la doratura e l’argentatura elettri‐<br />
ca, s’inventò la luce elettrica, e s’inventò il modo <strong>di</strong> trasmettere da un<br />
posto all’altro, con l’elettricità, dei segnali a gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>stanze.<br />
Per ottenere questo, si pongono dei pezzi <strong>di</strong> metalli <strong>di</strong>versi in una<br />
specie <strong>di</strong> bicchierini, nei quali si mescono dei liqui<strong>di</strong>. Così, dentro i bic‐<br />
chierini, viene a formarsi l’elettricità, e questa elettricità, per mezzo d’un<br />
filo, si conduce al luogo che si desidera: poi da quel luogo si conduce il<br />
filo a terra. L’elettricità, attraverso la terra, torna in<strong>di</strong>etro fin dove si tro‐<br />
vano i bicchierini, e si solleva da terra fino ad essi lungo un altro filo. In<br />
questo modo, fra quei due luoghi, l’elettricità circola seguendo una spe‐<br />
cie <strong>di</strong> anello: lungo il primo filo scende a terra, e qui torna in<strong>di</strong>etro; poi<br />
<strong>di</strong> nuovo si solleva sul secondo filo, e <strong>di</strong> nuovo torna a terra. Se, per un<br />
filo <strong>di</strong> ferro, si fa passare l’elettricità, e il filo viene avvolto intorno a un<br />
pezzo <strong>di</strong> ferro, questo ferro si trasforma in calamita, e attira a sé gli altri<br />
pezzi <strong>di</strong> ferro.<br />
Il telegrafo si fa così: si fa passare l’elettricità in un filo, e questo filo si<br />
avvolge intorno a una spina <strong>di</strong> ferro. Al <strong>di</strong> sopra della spina si applica<br />
un martelletto <strong>di</strong> ferro, sospeso in equilibrio. Quando l’elettricità passa<br />
per il filo, la spina <strong>di</strong> ferro, avvolta dal filo, attira a sé il martelletto. Ap‐<br />
pena, all’altra estremità (fosse pure a cento chilometri <strong>di</strong> <strong>di</strong>stanza), si to‐<br />
glie il contatto ai capi del filo, l’elettricità smette <strong>di</strong> circolare, e la spina <strong>di</strong><br />
ferro cessa <strong>di</strong> essere una calamita, cosicché il martelletto se ne <strong>di</strong>stacca.<br />
Quando i capi del filo sono posti <strong>di</strong> nuovo a contatto, il martelletto<br />
torna a essere attirato. In questo modo <strong>di</strong>viene possibile far battere il<br />
martelletto anche da una stazione all’altra. E appunto questi piccoli colpi<br />
costituiscono dei segnali prestabiliti.<br />
Il conta<strong>di</strong>no e lo spirito del fiume.<br />
(Favola).<br />
Un conta<strong>di</strong>no fece cadere l’accetta nel fiume. Dal <strong>di</strong>spiacere, s’acco‐<br />
vacciò sulla riva, e si mise a piangere.<br />
Lo sentì lo spirito del fiume: ebbe pietà del conta<strong>di</strong>no, uscì dall’acqua<br />
portandogli un’accetta d’oro, e gli <strong>di</strong>sse: — È tua quest’accetta?<br />
Il conta<strong>di</strong>no <strong>di</strong>sse: — No, non è la mia.<br />
Lo spirito uscì dall’acqua con una seconda accetta, questa volta d’ar‐<br />
gento.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 227<br />
Il conta<strong>di</strong>no <strong>di</strong>sse <strong>di</strong> nuovo: — Non è l’accetta mia. Allora lo spirito<br />
gli portò la sua vera accetta.<br />
Il conta<strong>di</strong>no <strong>di</strong>sse: — Questa si ch’è l’accetta mia!<br />
Lo spirito regalò al conta<strong>di</strong>no tutt’e tre le accette, perché era stato così<br />
veritiero.<br />
Tornato a casa, il conta<strong>di</strong>no fece vedere le tre accette agli amici, e rac‐<br />
contò tutto quello che gli era accaduto.<br />
Ed ecco che uno <strong>di</strong> quei conta<strong>di</strong>ni pensò <strong>di</strong> fare la stessa cosa: andò al<br />
fiume, buttò giù a bella posta la sua accetta nell’acqua, s’accovacciò sulla<br />
riva e si mise a piangere.<br />
Lo spirito del fiume venne fuori con l’accetta d’oro, e gli domandò: —<br />
È questa la tua accetta?<br />
Il conta<strong>di</strong>no, tutto contento, si mise subito a gridare: — E la mia, è la<br />
mia!<br />
Lo spirito, allora, non solo non gli <strong>di</strong>ede l’accetta d’oro, ma nemmeno<br />
quella sua gli rese più, giacché era stato così bugiardo.<br />
Il corvo e la volpe.<br />
(Favola).<br />
Un corvo era riuscito a procurarsi un boccone <strong>di</strong> carne, e s’appollaiò<br />
su un albero. Alla volpe venne voglia <strong>di</strong> gustare quella carne: s’avvicinò,<br />
e gli <strong>di</strong>sse:<br />
— Eh, corvo mio, quando io vedo le bellezze che hai, mi pare proprio<br />
che tu dovresti essere un re, niente <strong>di</strong> meno! E un re, senza dubbio, <strong>di</strong>‐<br />
venteresti, purché avessi la voce adatta.<br />
Il corvo spalancò la bocca e urlò a squarciagola. Il boccone <strong>di</strong> carne<br />
cascò a terra. Fu svelta la volpe a ghermirlo, e <strong>di</strong>sse:<br />
— Ah, corvo mio, se tu avessi, in più <strong>di</strong> tutto il resto, anche il cervello<br />
fino, saresti per davvero un re coi fiocchi!<br />
Prigioniero nel Caucaso.<br />
(Racconto d’un ufficiale).<br />
I.<br />
Era in servizio nel Caucaso, come ufficiale, un possidente <strong>di</strong> nome Ží‐<br />
lin.
228<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Gli arrivò, un giorno, una lettera da casa. La vecchia madre gli scri‐<br />
veva: «Io, ormai, sono <strong>di</strong>ventata vecchia, e prima <strong>di</strong> morire ho desiderio<br />
<strong>di</strong> rivedere il mio caro figliuolo. Vieni, che possiamo darci l’ultimo salu‐<br />
to; mettimi sotterra, e poi, con l’aiuto <strong>di</strong> Dio, torna pure al tuo servizio.<br />
Ma sappi che io t’ho trovata anche una fidanzata: è intelligente, è bella, e<br />
ha roba. Può darsi che ti piaccia, e che la sposi, e che ti fermi qui defini‐<br />
tivamente».<br />
Žílin rifletté: «È proprio vero: è malandata, ormai, la mia vecchietta;<br />
chissà che io non abbia a rivederla più. An<strong>di</strong>amo: e se poi la fidanzata è<br />
bella, potrei anche ammogliarmi».<br />
Si presentò al comandante del reggimento, ottenne la licenza, salutò i<br />
colleghi, pagò ai suoi soldati quattro secchi d’acquavite in segno<br />
d’ad<strong>di</strong>o, e si mise in viaggio.<br />
Nel Caucaso, a quei tempi, si stava in guerra. Per le strade non c’era<br />
transito libero né <strong>di</strong> giorno né <strong>di</strong> notte. Non appena qualcuno dei Russi<br />
s’allontanava, a cavallo o a pie<strong>di</strong>, dalla sua fortezza, i Tartari o lo am‐<br />
mazzavano, o lo portavano via tra le montagne. E così, s’era messa la re‐<br />
gola che due volte la settimana, da una fortezza all’altra, andava una<br />
scorta <strong>di</strong> soldati, e in mezzo a questi viaggiava la gente.<br />
Si era d’estate. A punta d’alba, i carri si misero in fila sotto la fortezza;<br />
uscirono fuori i soldati <strong>di</strong> scorta, e il convoglio mosse lungo la strada. Ží‐<br />
lin andava a cavallo, mentre il carro con le sue cose veniva <strong>di</strong>etro col<br />
convoglio.<br />
La tappa era <strong>di</strong> venticinque miglia. Il convoglio procedeva lento: ora i<br />
soldati fanno sosta, ora a uno dei carri salta via una ruota, o un cavallo<br />
s’impunta, e allora tutti quanti fermi ad aspettare.<br />
Il sole aveva già passato il colmo del cielo, e il convoglio aveva per‐<br />
corso soltanto la metà della strada. Polvere, afa; il sole cuoceva: e nessun<br />
luogo da ripararsi. Tutta steppa nuda; non un alberello, non un cespu‐<br />
glio lungo la strada.<br />
S’era spinto innanzi, Žílin, a cavallo: si fermò, e aspettava che il con‐<br />
voglio sopravvenisse. Sentì a un tratto, <strong>di</strong> là <strong>di</strong>etro, il suono del corno:<br />
segno che, ancora una volta, s’erano fermati. Žílin allora pensò: «E se me<br />
ne partissi solo solo, senza scorta?. Ho sotto un buon cavallo: seppure<br />
incappassi nei Tartari, riuscirò a svignarmela. O sarà meglio non anda‐<br />
re...?»<br />
Stava lì fermo, incerto fra le due. Ed ecco che gli s’accosta, a cavallo,<br />
un altro ufficiale, Kostýlin, con tanto <strong>di</strong> fucile, e gli <strong>di</strong>ce:<br />
— An<strong>di</strong>amocene, Žílin, da soli. Non ne posso più: tra la fame, e que‐<br />
sto caldo... La camicia che ho indosso mi si può strizzare!
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 229<br />
Era infatti, quel Kostýlin, un uomo greve, grosso: rosso affocato,<br />
grondava <strong>di</strong> sudore. Žílin rifletté un momento, e <strong>di</strong>sse:<br />
— Il fucile, lo hai carico?<br />
— Carico.<br />
— Bah, dunque an<strong>di</strong>amo. Un patto, però: non <strong>di</strong>scostarci mai.<br />
E così, s’avviarono innanzi lungo la strada. Cavalcano per quella<br />
steppa, scambiano qualche parola ogni tanto, e allungano qualche oc‐<br />
chiata <strong>di</strong> qua e <strong>di</strong> là. Giro giro, è tutto aperto alla vista.<br />
Ma come venne a terminare la steppa, la strada si <strong>di</strong>resse fra due<br />
montagne, verso una gola. Disse Žílin:<br />
— Bisogna che col cavallo saliamo in alto, a scoprir paese: altrimenti,<br />
come nulla, ci saltano fuori da questi monti senza che noi ce ne accor‐<br />
giamo.<br />
Rispose Kostýlin: — Cosa vuoi guardare? Tiriamo innanzi.<br />
Žílin non gli <strong>di</strong>ede retta.<br />
— No, — <strong>di</strong>ce, — tu aspettami quaggiú: quanto do un’occhiata —. E<br />
spinse il cavallo a sinistra, verso l’alto.<br />
Quello che Žílin aveva sotto, era un cavallo <strong>di</strong> lusso (lo aveva pagato<br />
cento rubli quand’era ancora alla mandria, puledrino, e se lo era adde‐<br />
strato da sé): come sull’ali lo trasportò su per l’erta. Quando si fu allon‐<br />
tanato un po’, guarda, e proprio là <strong>di</strong>nanzi a loro, a un paio <strong>di</strong> cento me‐<br />
tri, vede fermi dei Tartari a cavallo, una trentina d’uomini. Appena li<br />
avvistò, <strong>di</strong>ede in<strong>di</strong>etro, ma anche i Tartari lo avevano avvistato, si slan‐<br />
ciarono verso <strong>di</strong> lui, e intanto che galoppano, sfilano su dalle fonde i fu‐<br />
cili. Žílin s’avventò giù dall’erta pancia a terra; grida a Kostýlin: — Tira<br />
fuori il fucile! — e <strong>di</strong>ce tra sé, al cavallo: «Amore mio, cavami <strong>di</strong> qui, non<br />
imbrogliarti coi pie<strong>di</strong>: se incespichi, son perduto. Se posso arrivare fin là<br />
al fucile, non mi arrenderò a costoro!»<br />
Kostýlin però, invece d’aspettarlo, come vide i Tartari, via <strong>di</strong> gran<br />
corsa verso la fortezza. Col frustino flagella il cavallo ora da un fianco,<br />
ora dall’altro. Tra il polverone si <strong>di</strong>stingue soltanto il <strong>di</strong>meno <strong>di</strong> quella<br />
coda.<br />
Žílin vede che le cose vanno male. Il fucile se n’è andato; con la sola<br />
sciabola, non c’è nulla da fare. Slanciò il cavallo in<strong>di</strong>etro, verso i soldati,<br />
credendo <strong>di</strong> riuscire a sfuggire: quand’ecco, a tagliargli la strada, ne<br />
vengono sei <strong>di</strong> galoppo. Lui ha sotto un buon cavallo, ma quelli ne han‐<br />
no d’ancora più buoni, eppoi son <strong>di</strong>retti in quel senso <strong>di</strong> tagliargli la<br />
strada. Incominciò a scorciar l’angolo, fece per tornare in<strong>di</strong>etro, ma or‐<br />
mai il cavallo s’era sfrenato, non si regge più, vola <strong>di</strong>ritto là incontro a
230<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
quelli. Ecco: gli s’avvicina, con la barba tinta <strong>di</strong> rosso, un Tartaro su un<br />
cavallo grigio. Stride, <strong>di</strong>grigna i denti, ha il fucile imbracciato.<br />
«Ah, — pensa Žílin, — vi conosco, demoni: se mi prendono vivo, mi<br />
ficcano dentro una fossa, mi tempestano <strong>di</strong> nerbate. Vivo, non mi arren‐<br />
derò...»<br />
E veramente, benché non fosse grande <strong>di</strong> statura, Žílin era coraggio‐<br />
so. Sfoderò la sciabola, spinse il cavallo proprio alla volta del Tartaro<br />
rosso, e <strong>di</strong>ce tra sé: «O col cavallo me lo schiaccio sotto, o lo butto giù a<br />
sciabolate».<br />
Lo spazio fino all’altro cavallo non era stato percorso da Žílin, che gli<br />
furono sparate addosso, <strong>di</strong> schiena, parecchie fucilate, e restò colpito il<br />
cavallo suo. Stramazzò a terra in piena corsa la bestia, e si rovesciò sulla<br />
gamba a Žílin.<br />
Lui fece per rialzarsi, ma già due <strong>di</strong> quei Tartari maledetti gli stanno<br />
sopra, gli legano <strong>di</strong>etro la schiena le braccia. Si <strong>di</strong>vincolò, si scrollò <strong>di</strong><br />
dosso i Tartari: ma ne balzarono giù <strong>di</strong> cavallo altri tre, e incominciarono<br />
a picchiarlo coi calci dei fucili sulla testa. Gli s’annebbiarono gli occhi, e<br />
barcollò. Allora i Tartari lo afferrarono, staccarono dalle selle i sottopan‐<br />
cia <strong>di</strong> riserva, gli legarono strette le braccia <strong>di</strong>etro la schiena, gliele assi‐<br />
curarono coi loro no<strong>di</strong> alla tartara, lo trascinarono a ridosso d’una sella.<br />
Il berretto gli fu strappato <strong>di</strong> testa, gli stivaloni tratti via dai pie<strong>di</strong>; lo<br />
rovistarono tutto, danaro, orologio gli vennero tolti, tutti gl’indumenti<br />
lacerati. Girò lo sguardo, Žílin, al suo cavallo. Quello, poverino, com’era<br />
caduto sul fianco, così era rimasto <strong>di</strong>steso: non faceva che annaspar con<br />
le zampe, senz’arrivare a toccar terra; in testa aveva un buco, e da quel<br />
buco gli fischiava fuori un sangue nero: per un raggio <strong>di</strong> quasi un metro<br />
la polvere se n’era inzuppata.<br />
Uno dei Tartari s’avvicinò al cavallo, e si fece a toglier la sella. Sicco‐<br />
me quello continuava ad annaspare, l’uomo estrasse il pugnale, e gli se‐<br />
gò la gola. Si sentí fischiare lì <strong>di</strong> dentro alla gola uno scossone; e il caval‐<br />
lo <strong>di</strong>ede l’ultimo fiato.<br />
Tolsero via, i Tartari, sella e finimenti. Montò a cavallo il Tartaro dalla<br />
barba rossa, e gli altri accomodarono Žílin <strong>di</strong>etro a lui, contro la sella.<br />
Affinché, poi, non cadesse, lo strinsero, con corregge alla vita, a ridos‐<br />
so del Tartaro: e così lo portarono fra le montagne.<br />
Se ne sta lì seduto, Žílin, alla spalle del Tartaro, dondolando <strong>di</strong> qua e<br />
<strong>di</strong> là, dando <strong>di</strong> picchio col viso in quella schiena <strong>di</strong> tartaro maledetta.<br />
Non vede nulla, <strong>di</strong>nanzi a sé, fuorché quella robusta schiena <strong>di</strong> tarta‐<br />
ro, e quel collo muscoloso, e quella nuca rasata che <strong>di</strong> sotto al berretto ha<br />
un color turchiniccio. Žílin ha la testa fracassata; il sangue gli s’è coagu‐
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 231<br />
lato sotto gli occhi. E non gli è possibile né rassestarsi sul cavallo, né ter‐<br />
gersi il sangue. Le braccia gli stanno legate così strette, che si sente rom‐<br />
pere le clavicole.<br />
Cavalcarono a lungo da montagna a montagna, traversarono a guado<br />
un fiume, sboccarono su una strada, e seguirono un fondovalle.<br />
Avrebbe voluto, Žílin, prender nota della strada dove lo portavano:<br />
ma gli occhi, li aveva intorbidati <strong>di</strong> sangue, e rigirarsi, non gli era possi‐<br />
bile.<br />
Incominciava a imbrunire. Traversarono ancora un fiumicello: poi a<br />
mano a mano presero altezza su su per una montagna pietrosa, si sentí<br />
un odore <strong>di</strong> fumo, giunse un abbaiar <strong>di</strong> cani.<br />
Erano arrivati all’aúl 146 . I Tartari smontarono da cavallo; s’affollarono<br />
i piccoli tartari del villaggio, circondarono Žílin, squittivano, facevano<br />
festa, incominciarono, coi sassi, a prenderlo <strong>di</strong> mira.<br />
Il Tartaro scacciò i ragazzi, tolse Žílin da cavallo, e chiamò un suo<br />
garzone. Venne qua uno <strong>di</strong> quelli del Nogàj, grosso <strong>di</strong> zigomi, in camicia<br />
e nient’altro: la camicia tutta strappata, il petto scoperto. Il Tartaro gli<br />
comandò qualche cosa. Quello tornò portando i ceppi: un paio <strong>di</strong> toppi<br />
<strong>di</strong> quercia attaccati ad anelli <strong>di</strong> ferro, e in uno degli anelli, tanto <strong>di</strong> naset‐<br />
to e <strong>di</strong> serratura.<br />
Sciolsero a Žílin le braccia, gli misero i ceppi, e lo condussero a una<br />
rimessa: con uno spintone lo cacciarono dentro, e richiusero la porta. Ží‐<br />
lin cadde sul letame. Rimase per un po’ così <strong>di</strong>steso, poi tastoni, fra il<br />
buio, cercò dove fosse un po’ più morbido, e lì si coricò.<br />
II.<br />
Per tutta quella notte, Žílin quasi non dormí. Le nottate erano corte.<br />
Ecco, da una fessura, che incomincia a far giorno. Žílin si tirò su, al‐<br />
largò un pochino la fessura, e affacciò l’occhio.<br />
Gli si scopre, da quella fessura, la strada: va in <strong>di</strong>scesa, e sulla destra<br />
c’è una casupola tartara, con due alberi accanto. Un cane nero sta acco‐<br />
vacciato sulla soglia; passa una capra coi capretti, che sbattono le co<strong>di</strong>ne.<br />
Poi ecco: da valle viene su una Tartara ancor giovanissima, con la<br />
camicia forata, <strong>di</strong>scinta, in calzoni alla zuava e stivaloni, la testa coperta<br />
con un caffettano, e sulla testa una gran brocca <strong>di</strong> stagno piena d’acqua.<br />
146 Villaggio tartaro [N. d. A. ].
232<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Viene su, con la schiena oscillante, flessuosa, e per mano tiene intanto<br />
un tartaruccio rapato, con la sola carnicina indosso. Entrò la giovane con<br />
l’acqua là nella casupola, e ne uscí il Tartaro <strong>di</strong> iersera, quello rosso <strong>di</strong><br />
barba, in bešmèt <strong>di</strong> seta, a cintola un pugnale d’argento, gli scarpini ai<br />
pie<strong>di</strong> nu<strong>di</strong>. In testa, un berrettone alto, <strong>di</strong> pelle d’agnello, nero, acciacca‐<br />
to all’in<strong>di</strong>etro. Esce fuori, si stiracchia, s’alliscia la sua barba rossa. Stette<br />
un po’ lì, comandò qualche cosa al garzone, e se n’andò pei fatti suoi.<br />
Vennero quin<strong>di</strong> a passare, a cavallo, due ragazzi <strong>di</strong> ritorno dall’abbe‐<br />
veratoio. I cavalli avevano le froge bagnate. E sbucarono fuori, ancora,<br />
dei bambini rapati, con indosso le camicine sole, senza calzoni: s’attrup‐<br />
parono in molti, s’accostarono qua alla rimessa, pigliarono una bacchet‐<br />
tina e la ficcarono dentro alla fessura. Žílin fece loro uh: ruppero in strilli<br />
i ragazzetti, si precipitarono a correr via, che si vedevan soltanto i ginoc‐<br />
chietti nu<strong>di</strong> lustrare.<br />
Ma a Žílin, intanto, è venuta sete, ha la gola secca: se almeno, pensa,<br />
venissero a veder <strong>di</strong> lui. Ascolta: stanno aprendo la rimessa. Era il Tarta‐<br />
ro rosso, e insieme un altro, più piccolo <strong>di</strong> statura, piuttosto moretto: oc‐<br />
chi neri, lucenti, bell’incarnato, barba piccola, tagliata corta: una faccia<br />
allegra, sempre al riso. È vestito, il moretto, ancora meglio dell’altro: un<br />
bešmèt <strong>di</strong> seta, turchino, con un galloncino che ci corre torno torno; un<br />
pugnale, a cintola, grande, d’argento; scarpini rossi, <strong>di</strong> marocchino, ri‐<br />
camati pure d’argento. E su quei sottilissimi scarpini ne porta un altro<br />
paio, massicci. Il copricapo ben alto, <strong>di</strong> agnello bianco.<br />
Entrò il Tartaro rosso, pronunciò alcune parole, come se insultasse, e<br />
ristette lì: appoggiato allo stipite della porta, s’andava gingillando col<br />
pugnale, e come un lupo, <strong>di</strong> sbieco, sogguardava verso Žílin. Il moretto,<br />
invece — rapido, vivace, da parer che si movesse tutto a forza <strong>di</strong> molle<br />
— s’accostò senz’altro qua a Žílin, s’accoccolò con le gambe in croce, fa<br />
biancicare i denti, gli batte sulla spalla. E incominciò fitto fitto a cianciu‐<br />
gliare a modo suo, ammiccando con gli occhi, facendo schioccar la lin‐<br />
gua, ripetendo ogni momento: — Bono,urús! bono, urús147 !<br />
Non ci capiva, niente Žílin, e <strong>di</strong>ceva: — Da bere, datemi dell’acqua da<br />
bere.<br />
Il moretto ride. — Bono, urús — e continua a cianciugliare a modo<br />
suo.<br />
Allora Žílin con le labbra e con le mani fece segno che gli dessero da<br />
bere.<br />
147 Buono, russo!
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 233<br />
Il moretto intese: fece una risata, sbirciò fuor della porta, e chiamò: —<br />
Dina!<br />
Accorse una ragazzetta, snella snella, magrolina, che avrà avuto tre‐<br />
<strong>di</strong>ci anni, e che <strong>di</strong> viso somigliava al moretto. Si vedeva ch’era sua figlia.<br />
Anche lei, due occhi neri, lucenti, e bei tratti <strong>di</strong> viso. Aveva indosso<br />
una camicia lunga, azzurra, larga <strong>di</strong> maniche e senza cinta. All’orlo in<br />
basso, sul petto, e alle maniche, c’era una filettatura rossa. Ai pie<strong>di</strong>, cal‐<br />
zoni alla zuava e scarpini, e sopra agli scarpini un altro paio, con alti tac‐<br />
chi; al collo, una collana tutta <strong>di</strong> monete russe da mezzo rublo d’argento.<br />
La testa scoperta, la treccia nera, fra la treccia un nastro: e, pendenti<br />
dal nastro, rondelle metalliche e un rublo d’argento.<br />
Il padre le or<strong>di</strong>nò qualche cosa. Quella corse via e fu <strong>di</strong> ritorno, por‐<br />
tando una brocchetta <strong>di</strong> stagno. Porse qua l’acqua, e si accoccolò con le<br />
gambe in croce; si rannicchiò tutta così, tanto che le spalle le scesero più<br />
basse dei ginocchi. Sta lì ferma, con tanto d’occhi spalancati, e guarda Ží‐<br />
lin che beve, come fosse chissà che bestia feroce.<br />
Žílin le porse <strong>di</strong> rimando la brocca. Lei, in<strong>di</strong>etro d’un balzo, che nep‐<br />
pure una capra selvatica. Perfino il padre si mise a ridere. Poi le or<strong>di</strong>nò<br />
qualche altra cosa. Essa prese la brocca, corse via, portò qua del pane az‐<br />
zimo su un’assicella tonda, e <strong>di</strong> nuovo s’accoccolò, si rannicchiò tutta,<br />
con gli occhi intenti a guardare.<br />
Se ne riandarono i Tartari, chiusero <strong>di</strong> nuovo la porta. Passato un po’<br />
<strong>di</strong> tempo, vien qua da Žílin quel garzone del Nogàj, e gli <strong>di</strong>ce: — Ajda!<br />
padrone, aj‐da!<br />
Non sapeva neanche lui il russo. Tutto quello che Žílin capì, fu che gli<br />
or<strong>di</strong>nava <strong>di</strong> andare in qualche posto.<br />
S’avviò, Žílin, coi suoi ceppi: zoppicava, non riusciva a camminare,<br />
ad ogni passo torceva il piede in fuori. Uscí per la strada <strong>di</strong>etro al garzo‐<br />
ne. Ecco, intorno a lui, il villaggio tartaro: una <strong>di</strong>ecina <strong>di</strong> case, e una<br />
chiesa delle loro, con quella torricella. Presso una delle case stanno tre<br />
cavalli sellati: dei ragazzetti li tengono a cavezza. Sbucò fuori, proprio<br />
da quella casa, il Tartaro moretto, e accennò con la mano che là da lui<br />
andasse Žílin. Intanto ride, <strong>di</strong>ce sempre <strong>di</strong> quelle cose a modo suo, e tor‐<br />
na dentro.<br />
Finalmente Žílin arrivò alla casa. Una bella stanza rialzata da terra; al‐<br />
le pareti, un intonaco d’argilla ben levigato. Lungo la parete <strong>di</strong> fronte,<br />
cuscini variopinti sono <strong>di</strong>sposti sul piancito; ai lati, pendono tappeti <strong>di</strong><br />
pregio; sui tappeti, fucili, pistole, sciabole, tutta roba damaschinata in<br />
argento. A una delle pareti, una stufa piccoletta, a livello del piancito. Il<br />
piancito è <strong>di</strong> terra battuta, pulito come un’aia, e tutto lo spazio lungo la
234<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
parete <strong>di</strong> fronte è ricoperto <strong>di</strong> stuoie <strong>di</strong> feltro: sul feltro, tappeti, e sui<br />
tappeti, i cuscini <strong>di</strong> piuma. E là su quei tappeti, con gli scarpini soli ai<br />
pie<strong>di</strong>, siedono parecchi Tartari: il moretto, il rosso, e tre ospiti. Dietro la<br />
schiena hanno tutti <strong>di</strong> quei cuscini <strong>di</strong> piuma acconciati a sostegno, e <strong>di</strong>‐<br />
nanzi, su un tondo <strong>di</strong> legno, focaccine azzime e burro sciolto in una cio‐<br />
tola, e birra tartara — la buzà — in una brocchettina. Mangiano con le<br />
mani, e hanno le mani tutte burrose.<br />
Corse qua il moretto, or<strong>di</strong>nò che Žílin fosse fatto accomodare un po’<br />
in <strong>di</strong>sparte, non sui tappeti, ma sul piancito nudo, poi se ne tornò là sui<br />
tappeti, e riprese a offrire agli ospiti focaccine e buzà. Pensò il garzone a<br />
sistemare Žílin al posto suo; per proprio conto, si tolse le scarpe <strong>di</strong> sopra,<br />
le pose accanto alla porta in fila con l’altre che già ci stavano, e si sedette<br />
su un feltro a poca <strong>di</strong>stanza dai padroni: guardava come mangiavano, e<br />
risucchiava dentro la saliva. Quando i Tartari ebbero mangiato le focac‐<br />
cine, entrò una donna con la camicia uguale a quella della ragazzetta, e<br />
anche lei in calzoni alla zuava: la testa, la aveva coperta da un fazzoletto.<br />
Sparecchiò il burro, le focaccine, e portò una bacinella buona, con una<br />
brocca <strong>di</strong> becco stretto. I Tartari si fecero a lavarsi le mani; poi giunsero<br />
le mani palmo contro palmo, si misero in ginocchio, soffiarono in tutte le<br />
<strong>di</strong>rezioni, e recitarono le preghiere. Quand’ebbero <strong>di</strong>scorso un po’ nella<br />
loro lingua, un Tartaro <strong>di</strong> quei tre ch’erano ospiti si rivolse a Žílin, e in‐<br />
cominciò a parlargli in russo.<br />
– Tu, – gli <strong>di</strong>sse, – sei stato preso da Kazi– Muhamed, – e in<strong>di</strong>cava<br />
quel Tartaro rosso, – e lui ti ha venduto a Abdul– Murat, – e in<strong>di</strong>cava il<br />
moretto. – Abdul– Murat, adesso, è il tuo padrone.<br />
Žílin non aprì bocca.<br />
Intervenne, allora, Abdul– Murat, e <strong>di</strong> continuo faceva cenno a Žílin,<br />
e rideva, e ripeteva: – Soldato urús, bono urús.<br />
L’interprete riferì: – Egli ti or<strong>di</strong>na <strong>di</strong> scrivere a casa una lettera, perché<br />
spe<strong>di</strong>scano il prezzo del tuo riscatto. Non appena arriveranno i danari, ti<br />
lascerà libero. ..<br />
Žílin rifletté, poi <strong>di</strong>sse: – E vuole molto, per il riscatto? Discorsero fra<br />
loro i Tartari, e l’interprete riferì:<br />
— Tremila monete148 .<br />
— No, – <strong>di</strong>ce Žílin, – io, questo, non posso pagarlo.<br />
Saltò su Abdul, si mise a gesticolare, a parlar con Žílin, sempre cre‐<br />
dendo che quest’ultimo lo intendesse. L’interprete tradusse, <strong>di</strong>cendo: – E<br />
tu, quanto daresti?<br />
148 Per rubli.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 235<br />
Žílin rifletté un momento, e <strong>di</strong>sse: – Cinquecento rubli.<br />
Qui i Tartari attaccarono a <strong>di</strong>scorrere fitto, tutti in una volta. Abdul<br />
aggredì il rosso a voce alta, e tanto cianciugliò che la saliva gli sprizzava<br />
<strong>di</strong> bocca. Ma il rosso, da parte sua, non faceva che aggrottare gli occhi e<br />
schioccar la lingua.<br />
S’azzittirono finalmente: e allora l’interprete <strong>di</strong>sse:<br />
— Al padrone par poco, un riscatto <strong>di</strong> cinquecento rubli. Per te, <strong>di</strong> ta‐<br />
sca sua, ne ha già versati duecento. Kazi–Muhamed gli era debitore. Egli<br />
ti ha preso a sconto del debito. Tremila rubli: per meno, non ti può la‐<br />
sciare. E se poi tu non vuoi scrivere, sarai ficcato dentro una fossa, e pu‐<br />
nito con la frusta.<br />
«Eh, – pensa Žílin, – con costoro, più ti mostri intimorito, peggio è!»<br />
Si drizza in pie<strong>di</strong>, e risponde:<br />
— E tu <strong>di</strong>gli, a questo cane, che se vuol farmi paura, neppure un cen‐<br />
tesimo gli darò, e non scriverò per niente. Non ho avuto mai paura, e<br />
mai l’avrò, <strong>di</strong> voialtri, cani!<br />
Tradusse l’interprete, e <strong>di</strong> nuovo quelli tornarono a <strong>di</strong>scorrere tutti<br />
insieme.<br />
Per un pezzo cianciugliarono così; poi saltò su il moro, e venne ad ac‐<br />
costarsi a Žílin.<br />
— Urús, – <strong>di</strong>ce, – džighít, džighít urús!<br />
Džighít, nella loro lingua, significa «valoroso». E intanto ride, e <strong>di</strong>ce<br />
qualcosa all’interprete, e l’interprete spiega: – Darai mille rubli.<br />
Žílin tenne il punto: – Più <strong>di</strong> cinquecento rubli, non darò. E se poi mi<br />
ammazzerete, allora non piglierete un bel nulla.<br />
Si consultarono i Tartari, mandarono il garzone in qualche posto, e in‐<br />
tanto allungavano occhiate ora a Žílin, ora alla porta. Fu <strong>di</strong> ritorno il<br />
garzone, e lo seguiva un uomo (chissà chi era), grosso, scalzo, lacero, an‐<br />
che lui coi ceppi al piede.<br />
Restò a bocca aperta Žílin: aveva riconosciuto Kostýlin: era stato cat‐<br />
turato anche lui. Li fecero sedere uno a fianco dell’altro; essi incomincia‐<br />
rono a raccontarsi a vicenda: e i Tartari, zitti zitti, li osservavano. Rac‐<br />
contò, Žílin, come gli erano andate le cose; Kostýlin raccontò che il caval‐<br />
lo gli s’era fermato sotto, e il fucile gli aveva fatto cilecca: e appunto<br />
quell’Abdul lì presente lo aveva raggiunto e catturato.<br />
Saltò su Abdul, accenna a Kostýlin, <strong>di</strong>ce qualcosa. L’interprete tra‐<br />
dusse che loro, adesso, sono tutt’e due d’un padrone, e chi per primo a‐<br />
vrebbe dato il riscatto, per primo sarebbe stato liberato.<br />
– Ecco, – <strong>di</strong>ceva a Žílin, – tu sempre vai in collera, mentre il compa‐<br />
gno tuo è così manso: lui l’ha scritta, la lettera a casa, e gli manderanno
236<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
cinquemila monete. Così, a lui, si darà da mangiar bene, e non gli sarà<br />
torto un capello.<br />
Žílin risponde:<br />
— Il mio compagno può far come vuole: lui, forse, è ricco, ma io non<br />
sono ricco. Io, – <strong>di</strong>ce, – come ho detto, così sarà. Se volete, ammazzatemi:<br />
poco guadagno ne avrete; ma per più <strong>di</strong> cinquecento rubli, non scriverò.<br />
Rimasero un momento in silenzio. D’improvviso, Abdul saltò su, ca‐<br />
vò fuori un bauletto, ne trasse una penna, un pezzetto <strong>di</strong> carta e un ca‐<br />
lamaio, li <strong>di</strong>ede a Žílin, gli batté sulla spalla, gli fece segno: – Scrivi –.<br />
S’era accontentato <strong>di</strong> cinquecento rubli.<br />
– Aspetta, ancora! – <strong>di</strong>ce Žílin all’interprete. – Bada <strong>di</strong> <strong>di</strong>rgli che ci <strong>di</strong>a<br />
da mangiar bene, ci vesta e ci calzi come si deve, e che ci tenga insieme:<br />
si starà un po’ più allegri; eppoi, che ci tolga i ceppi! – Guarda al padro‐<br />
ne, intanto, e ride. Ride anche il padrone. Dopo aver sentito l’interprete,<br />
quello risponde:<br />
– Li vestirò come meglio non si può: giubba circassa e stivaloni, roba<br />
da sposi. Mangiare, li farò come principi. E se proprio vogliono star in‐<br />
sieme, stiano lì nella rimessa. Ma i ceppi, non gli si possono togliere:<br />
scapperebbero. Soltanto la notte glieli farò togliere —. Balzò qua, gli bat‐<br />
té sulla spalla: — Bono tuo, bono mio!<br />
Žílin scrisse la lettera, ma sopra la lettera ci scrisse sbagliato, apposta<br />
perché non arrivasse. E tra sé pensava: «Scapperò».<br />
Furono condotti tutt’e due, Žílin e Kostýlin, alla rimessa, e là fu porta‐<br />
ta loro della foglia secca <strong>di</strong> granturco, dell’acqua in uria brocca, del pa‐<br />
ne, due vecchie giubbe circasse, e certi stivali sdruciti da soldato. Dove‐<br />
vano averli sfilati dai pie<strong>di</strong> a soldati morti.<br />
Tolsero loro i ceppi per la notte, e li chiusero dentro alla rimessa.<br />
III.<br />
Vissero a questo modo, Žílin e il suo compagno, per un mese intero. Il<br />
padrone rideva sempre: — Bono tuo, Ivàn, bono mio, Abdul —. Ma intanto,<br />
li nutriva male: non dava a mangiare nient’altro che pane azzimo <strong>di</strong> fa‐<br />
rina <strong>di</strong> miglio, cotto in forma <strong>di</strong> focaccine, e a volte ad<strong>di</strong>rittura quella<br />
pasta senza cuocere.<br />
Kostýlin scrisse un’altra volta a casa; aspettava sempre che arrivasse‐<br />
ro i danari, e s’annoiava. Le giornate intere stava lì accucciato nella ri‐<br />
messa, a calcolare i giorni che mancavano all’arrivo della lettera, o a
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 237<br />
dormire. Žílin, invece, sapeva che la sua lettera non sarebbe andata a de‐<br />
stinazione: ma un’altra, non ne scriveva.<br />
«Come farebbe la mamma, — pensava, — a trovar tanti danari, da<br />
sborsare per me! Essa, per vivere, avrà dovuto spendere più <strong>di</strong> quanto io<br />
le ho mandato. Se ora dovesse raccapezzare cinquecento rubli, sarebbe<br />
costretta a rovinarsi completamente. A Dio piacendo, anche da solo me<br />
la caverò».<br />
E, da parte sua, sta sempre a osservare, a stu<strong>di</strong>ar le occasioni, come<br />
potrebbe fare a fuggire. Va in giro pel villaggio, fischiettando; oppure, se<br />
resta fermo, fa qualche lavoretto manuale: ora, con l’argilla, modella<br />
qualche fantoccio, ora intreccia qualche canestro <strong>di</strong> verga. Infatti, per<br />
qualsiasi lavoro manuale, Žílin era maestro.<br />
Una volta, modellò un fantoccio con tanto <strong>di</strong> naso, <strong>di</strong> braccia e <strong>di</strong><br />
gambe, vestito d’una camicia alla tartara, e pose questo fantoccio sopra<br />
un tetto.<br />
Passarono le Tartare che andavano per acqua. La figlia del padrone,<br />
la piccola Dina, s’avvide del fantoccio, chiamò le altre ragazzette. De‐<br />
pongono le brocche, guardano, ridono. Žílin tirò giù il fantoccio, e glielo<br />
offre. Quelle ridono, ma non ar<strong>di</strong>scono prenderlo. Lui lasciò là il fantoc‐<br />
cio, se n’andò alla rimessa, e stette a guardare che cosa avrebbero fatto.<br />
Di corsa, s’accostò là Dina, si <strong>di</strong>ede un’occhiata intorno, afferrò il fan‐<br />
toccio e, sempre <strong>di</strong> corsa, s’allontanò.<br />
La mattina dopo, guarda: appena giorno, Dina è uscita sulla soglia <strong>di</strong><br />
casa col suo fantoccio. Lo ha già parato con dei brindelli <strong>di</strong> stoffa rossa, e<br />
lo culla come un bambino, cantandogli a modo suo la ninnananna. S’af‐<br />
facciò una vecchia, si mise a rimproverarla, le strappo’ il fantoccio, lo<br />
ruppe in cento pezzi, e mandò via Dina al lavoro.<br />
Allora Žílin fece un altro fantoccio ancora più bello, e lo regalò a Di‐<br />
na. Venne qua Dina, un giorno, a portargli la brocca; la posò in terra,<br />
s’accoccolò, e lo guardava, lo guardava: rideva, intanto, e gli accennava<br />
alla brocca.<br />
«Di che cosa si rallegra tanto?» pensa Žílin. Piglia la brocca e si mette<br />
a bere. Pensava che fosse acqua, e invece era latte. Bevve giù quel latte e<br />
<strong>di</strong>sse: — Buono! — Allora si che Dina si rallegrò davvero.<br />
— Buono, Ivàn, buono! — e balzò su, batté le palme delle mani, gli<br />
strappo’ la brocca, e via <strong>di</strong> corsa.<br />
Da quella volta, cominciò a portargli tutti i giorni, <strong>di</strong> nascosto, un po’<br />
<strong>di</strong> latte. Se poi i Tartari facevano, col latte <strong>di</strong> capra cagliato, delle focac‐<br />
cine, e le seccavano sul tetto, subito lei veniva qua a portare a lui, <strong>di</strong><br />
soppiatto, queste focaccine. Così pure, quando il padrone ammazzò un
238<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
agnello, subito lei gli portò un pezzetto <strong>di</strong> quella carne d’agnello dentro<br />
la manica. Getta qua, e fugge via.<br />
Ci fu, un giorno, un temporale forte, e la pioggia, per un’ora <strong>di</strong> segui‐<br />
to, cadde a <strong>di</strong>rotto. Gonfiarono tutti i torrenti, e dove per solito si gua‐<br />
dava, in quei punti l’acqua era cresciuta fino a più <strong>di</strong> due metri, e rotola‐<br />
va giù i macigni. Dappertutto colava acqua a ruscelli; il rombo stava so‐<br />
speso fra i monti. Passato il temporale, per tutto il villaggio i ruscelli<br />
continuavano a correre. Žílin chiese al padrone un coltelluccio, ci lavorò<br />
un piccolo asse girevole, delle tavolettine, c’imperniò una ruota, e alla<br />
ruota, ai due mozzi, ci adattò due fantoccini.<br />
Gli fu portato dalle ragazzette qualche brincello <strong>di</strong> stoffa, e lui ci vestì<br />
i fantoccini: uno da uomo, l’altro da donna; li assicurò al loro posto, e<br />
collocò la ruota in un ruscello. La ruota gira, e i fantoccini ballano.<br />
Si radunò tutto il villaggio: maschietti, femminelle, donne gran<strong>di</strong>;<br />
perfino gli uomini vennero lì, e facevano schioccar la lingua:<br />
— Aj, urús! Aj, Ivàn!<br />
Possedeva, Abdul, un orologio russo sconquassato. Mandò i chiama‐<br />
re Žílin: glielo mostra, fa schioccar la lingua. Žílin gli <strong>di</strong>ce:<br />
— Da’ qua, te l’accomodo io.<br />
Pigliò, lo smontò con un coltelluccio, lo esaminò ben bene: lo rimise<br />
su, glielo restituì.<br />
L’orologio camminava.<br />
Fu tutto contento, il padrone: gli portò qua un bešmèt dei suoi, vec‐<br />
chio, tutto a brindelli, e glielo regalò. C’era poco da fare: lo accettò; già<br />
anche quello veniva buono per coprirsi la notte.<br />
Da quel momento, si <strong>di</strong>ffuse la voce che Žílin era un mastro <strong>di</strong> quelli<br />
fini. Incominciarono fin dai villaggi lontani a venir qua, con le cavalcatu‐<br />
re: chi gli portava una piastra <strong>di</strong> fucile o una pistola da raccomodare, chi<br />
un orologio. Il padrone gli aveva procurato gli arnesi: tenaglie e trivella<br />
e limetta.<br />
Una volta che un Tartaro cadde ammalato, ricorsero qua a Žílin: –<br />
Vieni tu a curarlo –.Žílin non ne sapeva nulla, <strong>di</strong> come si cura la gen‐<br />
te. Andò, <strong>di</strong>ede un’occhiata, e pensa: «Speriamo che guarirà da sé». Si<br />
ritirò nella rimessa, prese dell’acqua, della sabbia, e le mischiò. Poi là al‐<br />
la presenza dei Tartari bisbigliò qualche cosa sull’acqua, e la <strong>di</strong>ede a be‐<br />
re. Guarì completamente, per sua buona fortuna, quel Tartaro... Ormai,<br />
Žílin aveva imparato, alla meglio, a intendere la loro lingua. E anche al‐<br />
cuni dei Tartari avevano fatto l’abitu<strong>di</strong>ne a lui, e quando ne avevan bi‐<br />
sogno, lo chiamavano: – Ivàn, Ivàn! – Ma ce n’erano altri, pur sempre,<br />
che lo sbirciavano <strong>di</strong> traverso, come una fiera.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 239<br />
Il Tartaro rosso, per esempio, non aveva simpatia per Žílin. Come lo<br />
vede, aggrotta gli occhi e si gira <strong>di</strong> là, o magari gli manda qualche im‐<br />
properio. C’era poi, lì da loro, un vecchio, che non abitava dentro al vil‐<br />
laggio, ma veniva su da valle. Žílin lo vedeva soltanto quando veniva<br />
alla moschea a pregare Id<strong>di</strong>o. Di statura era piccolo; sul suo copricapo<br />
c’era un asciugatoio bianco avvoltolato; barbetta e baffi tagliati a garbo,<br />
can<strong>di</strong><strong>di</strong> come piuma; la faccia, invece, rugosa e rossa come un mattone.<br />
Il naso a becco come quello d’un falco, gli occhi grigi, cattivi, denti<br />
niente: due canini soli. Eccolo che passa, ogni tanto, col suo turbante in<br />
testa, appoggiandosi a una stampella, guatandosi intorno come un lupo.<br />
Appena avvista Žílin, si mette a sbuffare e si gira <strong>di</strong> là.<br />
Scese una volta, Žílin, verso la valle, a guardare dove abitasse il vec‐<br />
chio. Andò giù giù per la viottola finché vide un orticello, col recinto <strong>di</strong><br />
pietre: <strong>di</strong> là dal recinto, viscioli, susini, e una casupola piatta. Si fece più<br />
accosto: vede là delle arnie <strong>di</strong> paglia intrecciata, con l’api che volano e<br />
ronzano intorno. E il vecchio se ne sta li inginocchiato, che s’arrovella a<br />
far qualche cosa accanto a una dell’arnie. Žílin s’era alzato un po’ più<br />
sulla punta dei pie<strong>di</strong>, per guardar meglio: e sferragliò coi ceppi. Il vec‐<br />
chio girò in qua un’occhiata, e lanciò uno strido: si sfilò dalla cintura la<br />
pistola, e fece fuoco su Žílin. Lui fece giusto in tempo a ripararsi <strong>di</strong>etro<br />
una pietra.<br />
Il vecchio si presentò dal padrone a far le sue lamentele. Il padrone<br />
chiamò Žílin: ride, al solito suo, e gli domanda:<br />
– Che sei andato a fare, tu, dal vecchio?<br />
— Io, – <strong>di</strong>ce lui, – del male non gliene ho fatto. Volevo dar<br />
un’occhiata come sta sistemato –. E così tradusse il padrone. Ma il vec‐<br />
chio si stizzisce, ribolle tutto, smozzica qualche parola, <strong>di</strong>grigna i suoi<br />
canini, gesticola contro Žílin.<br />
Žílin non comprese ogni cosa: comprese, soltanto, che il vecchio co‐<br />
mandava al padrone d’ammazzare i Russi, anziché tenerli al villaggio.<br />
Poi il vecchio se n’andò.<br />
Allora Žílin domandò al padrone: chi era, quel vecchio? E il padrone<br />
gli <strong>di</strong>ce:<br />
— Quello è un pezzo grosso! È stato un guerriero dei primi, ne ha uc‐<br />
cisi tanti dei Russi, aveva gran<strong>di</strong> ricchezze. Aveva tre mogli e otto fi‐<br />
gli.<br />
Abitavano tutti nello stesso villaggio. Arrivarono i Russi, <strong>di</strong>strussero<br />
il villaggio, e gli uccisero sette dei figli. Un figlio solo gli rimase, e passò<br />
dalla parte dei Russi. Il vecchio andò, e anche lui passò ai Russi. Stette<br />
con loro tre mesi, finché trovò, là, il suo figliuolo, <strong>di</strong> propria mano lo uc‐
240<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
cise, e fuggì. Da quel giorno, ha smesso <strong>di</strong> combattere: è andato alla<br />
Mecca, e prega il Signore. Apposta, in capo, ha quel turbante. Chi è stato<br />
alla Mecca, prende il nome <strong>di</strong> Chagi, e porta il turbante. Non vi ha in<br />
simpatia, voialtri Russi. Lui comanderebbe <strong>di</strong> ucciderti; ma io non ti<br />
posso mica uccidere: io, per te, ho sborsato tanto <strong>di</strong> quattrini; eppoi, I‐<br />
vàn, mi ti sono affezionato: altro che ucciderti, non ti lascerei neppur ri‐<br />
partire, se non avessi dato la parola... – Fà una risata, e ripete, in russo,<br />
quel suo ritornello: – tuo buono, Ivàn, mio buono, Abdul!<br />
IV.<br />
Passò a questo modo, Žílin, una mesata. Di giorno va in giro per il<br />
villaggio, o fa qualche lavoruccio; citando poi viene la notte, e pel villag‐<br />
gio non si sente più gente, allora lui, nella sua rimessa, bada a scavare.<br />
Era <strong>di</strong>fficile scavare per via delle pietre, ma lui, le pietre, le consuma‐<br />
va con la lima, e tanto fece che riuscì a scavare, lì sotto al muro, una buca<br />
da passarci giusto giusto, «Purché io, — pensava, — potessi conoscere i<br />
luoghi per benino, da saper da che parte devo pigliare. Già, i Tartari,<br />
non c’è caso che ti <strong>di</strong>cano niente».<br />
Ed ecco che scelse un momento che il padrone, a cavallo, era uscito: e<br />
se n’andò, <strong>di</strong> pomeriggio, fuor del villaggio, verso monte: voleva, <strong>di</strong> las‐<br />
sù, scoprir paese. Quando, però, il padrone era partito, aveva raccoman‐<br />
dato al figliolino <strong>di</strong> star appresso a Žílin, <strong>di</strong> non perderlo d’occhio. Corse<br />
dunque, il ragazzetto, appresso a Žílin, gridando:<br />
— Non t’allontanare! Il babbo ha lasciato detto <strong>di</strong> no. Or ora chiamo<br />
gente!<br />
Žílin cercò <strong>di</strong> persuaderlo.<br />
— Io, — gli fa, — lontano non ci vo: arrivo soltanto su quell’altura: c’è<br />
un’erba che mi bisogna <strong>di</strong> trovare, per curar appunto voi del villaggio.<br />
Vieni anche tu con me: con questo po’ po’ <strong>di</strong> ceppi, vedrai che non<br />
scappo. E a te, domani, farò un arco e le frecce.<br />
Riuscì a persuadere il ragazzo, e s’avviarono. A guardarla, quell’altu‐<br />
ra, non era lontana, ma, con questi ceppi, era fatica: cammina, cammina,<br />
fin tanto che, sulle forze, ne venne a capo. S’accucciò a terra Žílin, e si<br />
mise a osservare i luoghi. Verso mezzogiorno, <strong>di</strong> là da certe tettoie, un<br />
fondovalle, un branco <strong>di</strong> cavalli che ci traversa, e un villaggio sconosciu‐<br />
to, che spunta da un incavo del terreno. Da quel villaggio, incomincia<br />
un’altra montagna, ancor più ripida <strong>di</strong> questa, e <strong>di</strong>etro a quella monta‐<br />
gna, un’altra ancora. Tra mezzo alle due montagne, si vede un turchino,
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 241<br />
e laggiú, nuove montagne, che s’alzano sempre più in alto, più in alto. E<br />
più in alto <strong>di</strong> tutte, bianche come <strong>di</strong> zucchero, ci sono le montagne sotto<br />
neve. Isolata, una montagna nevosa, più alta dell’altre, sta là come un<br />
cappello.<br />
Verso levante e verso ponente, montagne, sempre montagne; qua e là,<br />
qualche villaggio <strong>di</strong> Tartari fuma <strong>di</strong> dentro alle gole. «Ah, — <strong>di</strong>ce fra sé,<br />
— anche questo, è tutto territorio loro».<br />
Allora si mise a guardare verso il territorio russo. Ecco, qua sotto ai<br />
pie<strong>di</strong>, il fiumicello, il villaggio suo, gli orticelli attorno. Sul fiumicello,<br />
come fantoccini minuscoli, si vedono delle donne ferme a riva, che lava‐<br />
no i panni. Oltre il villaggio, più a valle, una montagna, e <strong>di</strong> là da questa,<br />
due altre montagne, coperte <strong>di</strong> bosco; ma, tra mezzo a quelle due mon‐<br />
tagne, s’intravede, turchiniccia, una pianura: e nella pianura, lontano<br />
lontano, pare che un fumo rampichi su. Žílin cercò <strong>di</strong> rammentarsi, da<br />
quando: era <strong>di</strong> residenza alla fortezza, dove sorgesse il sole e dove tra‐<br />
montasse. Si, vede proprio che è così: appunto in quella bassura dev’es‐<br />
serci la fortezza nostra. E laggiù, tra mezzo a quelle due montagne, biso‐<br />
gna fuggire.<br />
Il sole incominciava a calare. Le montagne nevose, <strong>di</strong> bianche che e‐<br />
rano, incominciavano a farsi carnicine; dove le montagne erano nere,<br />
imbruniva: dai fondovalli il fumo saliva più alto, e perfino quella bassu‐<br />
ra, dove doveva essere la nostra fortezza, venne ad accendersi come <strong>di</strong><br />
fuoco alla luce del tramonto. Žílin aguzzò l’occhio: balugina un non so<br />
che in quella bassura, come un fumo <strong>di</strong> camini. E gli s’affaccia il pensie‐<br />
ro che quella, per l’appunto, sia la fortezza russa.<br />
Ormai, s’era fatto tar<strong>di</strong>. Si sentiva fin qua il mullà che mandava il suo<br />
grido. Ecco il bestiame che torna dal pascolo: le vacche mugliano. Il ra‐<br />
gazzo continua a richiamarlo: — Su, an<strong>di</strong>amo —; ma a Žílin non va ne‐<br />
anche <strong>di</strong> muoversi <strong>di</strong> lì .<br />
Tornarono a casa. «Suvvia, — vien pensando Žílin, — ora i luoghi li<br />
so: bisogna che scappi». E voleva fuggire quella notte stessa. Le nottate<br />
erano buie: si era fra una luna e l’altra. Per <strong>di</strong>sdetta, a sera tornarono i<br />
Tartari. Costoro, <strong>di</strong> solito, quando arrivavano, si spingevano innanzi il<br />
bestiame razziato, e arrivavano allegri. Ma, stavolta, non avevano nulla<br />
da spingersi innanzi: riportavano invece, sopra una sella, il cadavere<br />
d’uno dei loro, fratello del Tartaro rosso. Arrivarono incolleriti, si radu‐<br />
narono tutti per la sepoltura. Andò là anche Žílin a vedere.<br />
Avvoltolarono il morto in un lenzuolo, senza cassa; lo trasportarono<br />
sotto i platani fuor del villaggio; lo deposero sull’erba. Sopravvenne il<br />
mullà, e tutti s’accovacciarono in fila sui calcagni, <strong>di</strong> fronte al morto.
242<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Dinanzi a tutti il mullà, <strong>di</strong>etro a questo tre vecchioni col turbante, e<br />
più in<strong>di</strong>etro, gli altri Tartari.<br />
S’accovacciarono, chinarono la faccia verso terra, e fecero silenzio. Per<br />
un pezzo durarono a far silenzio. Poi alzò la testa il mullà, e <strong>di</strong>sse:<br />
— Allà! (che significa Id<strong>di</strong>o).<br />
Disse soltanto questa parola, e <strong>di</strong> nuovo abbassarono le teste, e un al‐<br />
tro pezzo fecero silenzio: stavano accovacciati li senza dare un crollo. Poi<br />
daccapo alzò la testa il mullà:<br />
—Allà! — e tutti ripeterono: — Allà, — e tornarono a far silenzio.<br />
Il morto stava là steso sull’erba: non si sentiva un fiato: anche loro ri‐<br />
manevano immobili come tanti morti. Non ce n’era uno che accennasse<br />
il più piccolo movimento. Unico rumore, le foglie dei platani, che si ri‐<br />
mescolavano a un filo d’aria. Finalmente, il mullà recitò una preghiera,<br />
tutti si drizzarono, sollevarono il morto a braccia, lo trasportarono via.<br />
Lo portarono, così, fino alla fossa.<br />
La fossa non era una semplice buca, ma era stata scavata sotto terra a<br />
mò <strong>di</strong> grotta. Presero il morto sotto le ascelle e per le caviglie, lo calarono<br />
giù — così piegato — adagino adagino, lo addossarono là sotto la grotta<br />
in atto <strong>di</strong> star seduto, gli accomodarono le mani sul ventre.<br />
Un garzone <strong>di</strong> quelli del Nogàj aveva trascinato qua dei giunchi fre‐<br />
schi: sparsero <strong>di</strong> giunchi la fossa, la ricoprirono alla svelta <strong>di</strong> terra, la pa‐<br />
reggiarono, e dov’era la testa del morto, piantarono ritta una pietra. Cal‐<br />
carono la terra coi pie<strong>di</strong>, e tornarono ad accovacciarsi in fila <strong>di</strong> fronte alla<br />
tomba. Per un pezzo rimasero così in silenzio.<br />
— Allà! Allà! Allà! — sospirarono, e si levarono.<br />
Il rosso <strong>di</strong>stribuì del danaro ai vecchi: poi s’alzò, afferrò un frustino,<br />
ci si batté per tre volte la fronte, e s’avviò a casa.<br />
La mattina dopo, che cosa vede Žílin? Il rosso conduce a cavezza una<br />
cavalla fuor del villaggio, e tre dei Tartari gli vanno <strong>di</strong>etro. Usciti dal vil‐<br />
laggio, il rosso si tolse il bešmét, si rimboccò le maniche (un par <strong>di</strong> brac‐<br />
cioni grossi così), sguainò il pugnale, e si mise ad affilarlo sulla cote.<br />
Quegli altri tirarono alla cavalla la testa all’insù: il rosso s’accostò là,<br />
segò la gola, fece stramazzar la cavalla, e incominciò a scuoiarla, che con<br />
quelle manacce, la pelle, la strappava via come una fodera. Sopravven‐<br />
nero donne e ragazze, e si fecero a lavar le frattaglie e l’interno della be‐<br />
stia. Poi la cavalla fu fatta a pezzi, e i pezzi trasportati in casa. E tutto<br />
quanto il villaggio si radunò lì dal rosso a cantar le lamentazioni del<br />
morto.<br />
Tre giorni <strong>di</strong> seguito mangiarono <strong>di</strong> quella cavalla, bevvero della bu‐<br />
zà, e cantarono le lamentazioni.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 243<br />
Tutti gli uomini, in questi giorni, erano rimasti in casa. Il quarto gior‐<br />
no, Žílin li vede, sull’ora del desinare, che vanno in qualche posto a fare<br />
una riunione. Furono menati là dei cavalli, furono fatti dei preparativi, e<br />
partirono in <strong>di</strong>eci: anche il rosso era partito: soltanto Abdul era rimasto a<br />
casa. La luna nuova aveva fatto appena appena: le nottate erano ancora<br />
buie.<br />
«Suvvia, — pensa Žílin, — stasera stessa bisogna fuggire», e va a <strong>di</strong>r‐<br />
lo a Kostýlin. Ma Kostýlin si inombrì.— E come vuoi fare a fuggire? Noi<br />
non sappiamo neppure la strada.<br />
— Io, la strada, la so.<br />
— Ma non possiamo arrivare in salvo, in nottata.<br />
— Se anche non arrivassimo in salvo, pernotteremo tra i boschi. Ecco,<br />
io ho già provveduto un po’ <strong>di</strong> focaccine. Del resto, che scopo avresti a<br />
restartene qua? Va bene se mandassero i danari: ma potrebbe anche dar‐<br />
si che non riuscissero a metterli insieme. E i Tartari, ormai, si sono incat‐<br />
tiviti, ché uno dei loro è stato ucciso dai Russi. A quanto si sente <strong>di</strong>re,<br />
hanno intenzione <strong>di</strong> uccider noialtri.<br />
Kostýlin stette lì a pensare, a pensare.<br />
— Bah, dunque an<strong>di</strong>amo!<br />
V.<br />
Žílin s’intrufolò in quella buca che aveva fatta, a scavarla un po’ più<br />
larga, in modo che anche Kostýlin ci potesse passare; e se ne stanno tut‐<br />
t’e due fermi lì , aspettando che non si senta più nulla per il villaggio.<br />
Quando per il villaggio non si sentì più anima viva, Žílin strisciò sot‐<br />
to il muro, e sbucò dall’altra parte. Di là, bisbiglia a Kostýlin: — Ora pas‐<br />
sa tu —. Passò anche Kostýlin, ma impuntò in una pietra col piede, e fe‐<br />
ce rumore. Il padrone teneva, per guar<strong>di</strong>a, un cane pezzato, cattivo da<br />
non <strong>di</strong>rsi: si chiamava Uljàšin. Žílin, però, aveva già pensato in prece‐<br />
denza a dargli qualche boccone ogni tanto. Appena Uljàšin sentì quel<br />
rumore, abbaiò e s’avventò in qua, e gli altri cani <strong>di</strong>etro. Žílin gli fece un<br />
fischio leggero leggero, e gli gettò un pezzetto <strong>di</strong> focaccina: Uljàšin lo ri‐<br />
conobbe, sco<strong>di</strong>nzolò, e smise d’abbaiare.<br />
Il padrone, che aveva u<strong>di</strong>to, aizzava là <strong>di</strong> dentro alla sua casupola: —<br />
Sotto! sotto! Uljàšin!<br />
Ma Žílin, intanto, Uljàšin grattava sopra all’orecchio. Sta zitto il cane,<br />
gli si sfrega contro le gambe, e giù a sco<strong>di</strong>nzolare.
244<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
S’erano accucciati lì <strong>di</strong>etro a uno spigolo. Tutto era tornato calmo; u‐<br />
nico rumore, qualche pecora che si sforza a tossire da una stalla, e in<br />
basso l’acqua che mormora fra i ciottoli. Buio pesto; le stelle stanno alte<br />
alte in cielo; sulle montagne la luna nuova s’è tinta <strong>di</strong> rosso, e, coi corni<br />
all’insù, sta calando. Nei fondovalli la nebbia, da parer latte, biancica.<br />
Si rizzò Žílin, e <strong>di</strong>sse al compagno: — Bè, fratello, aj−da!<br />
Si mossero; ma s’erano appena allontanati, ecco il mullà che intona a<br />
cantare <strong>di</strong> sopra ai tetti: — Allà! Besmillà! Ilrachman!<br />
Questo voleva <strong>di</strong>re che il popolo andava alla moschea. S’accucciarono<br />
un’altra volta, rimpiattati a ridosso d’un muro. E per un pezzo stettero<br />
accucciati così, aspettando che il popolo terminasse <strong>di</strong> passare. Poi tutto<br />
tornò silenzio.<br />
— Suvvia, con l’aiuto <strong>di</strong> Dio! — Si fecero il segno della croce, e s’av‐<br />
viarono.<br />
Attraversarono un recinto che <strong>di</strong>vallava verso il fiume, passarono il<br />
fiume, e s’incamminarono pel fondovalle. La nebbia era fitta, ma restava<br />
in basso: sul loro capo, le stelle si vedevano ch’era una meraviglia. Ap‐<br />
punto dalle stelle Žílin si regola da che parte andare. Così tra la nebbia<br />
fa fresco, camminare non è fatica, ma gli stivali son tutt’altro che agili,<br />
sformati come sono. Žílin se li sfilò, li gettò via, e seguitò scalzo. Va sal‐<br />
tellando da un sasso all’altro, e intanto non perde d’occhio le stelle. Ko‐<br />
stýlin cominciò a restargli in<strong>di</strong>etro.<br />
— Un po’ più piano, — <strong>di</strong>ce, — va’ un po’ più piano: questi stivali,<br />
maledetti, m’hanno spellato tutti i pie<strong>di</strong>.<br />
— E tu levateli: vedrai che sollievo.<br />
Provò, Kostýlin, a seguitare scalzo: peggio che mai. Si tagliava tutti i<br />
pie<strong>di</strong> fra le pietre, e restava sempre in<strong>di</strong>etro. Žílin gli <strong>di</strong>ceva:<br />
— Se i pie<strong>di</strong> ti si scorticano, ti si rifaranno, ma se quelli ci arrivano, ci<br />
ammazzeranno: mi pare peggio!<br />
Kostýlin non rispondeva; veniva innanzi, e rompeva in lamenti.<br />
Camminarono così per fondovalle un buon tratto <strong>di</strong> tempo.<br />
D’improvviso, alla loro destra, si senti un abbaiar <strong>di</strong> cani.<br />
Žílin si fermò, si guardò intorno, s’arrampicò per una costa, tastoni.<br />
— Eh, — <strong>di</strong>sse, — ci siamo sbagliati: troppo a destra abbiamo preso.<br />
Qui c’è un altro villaggio, io l’ho veduto su da montagna; bisogna<br />
tornar ad<strong>di</strong>etro, e poi salire verso sinistra. Là ci dev’essere un bosco.<br />
Ma, Kostýlin <strong>di</strong> rimando, gli fa:<br />
— Aspetta un momentino, lasciami riprender fiato: ho i pie<strong>di</strong> tutti in‐<br />
sanguinati.<br />
— Eh, fratello, ti si rifaranno: bada <strong>di</strong> saltar più leggero. Ecco, così.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 245<br />
E <strong>di</strong> corsa Žílin tornò sui suoi passi, poi a sinistra, verso la montagna<br />
e il bosco.<br />
Kostýlin continuava sempre a restar in<strong>di</strong>etro, e a piagnucolare. Žílin<br />
lo zittiva, lo zittiva, e intanto tirava dritto.<br />
Incominciarono a salire. Proprio così: il bosco c’era. Entrarono nel bo‐<br />
sco, e tra quelle spine si strapparono gli ultimi panni che avevano indos‐<br />
so. Sboccarono su una viottola sottobosco. Si unsero per quella.<br />
— Ferma! — S’era sentito un calpestio <strong>di</strong> zoccoli lungo la viottola.<br />
Si fermarono, tesero l’orecchio. Era stato come un calpestio <strong>di</strong> cavallo,<br />
poi era cessato. Si mossero, e ricominciò il calpestio. Si fermarono, e<br />
quello si ferma. Allora Žílin strisciò pian piano in avanti, guarda dove<br />
c’è un chiaro lungo la viottola: là, fermo, sta un non so che. Cavallo, non<br />
è cavallo; eppoi, su quella specie <strong>di</strong> cavallo, c’è una cosa bizzarra, che un<br />
uomo non è davvero. Ecco che ha mandato uno sbuffo, s’è sentito fin<br />
qua. «Oh che stranezza!» Žílin provò a dare un fischio leggero leggero:<br />
subito quello frullò via dalla viottola nel folto, e s’alzò un crepitio per il<br />
bosco, come quando passa un uragano, che schianta i rami.<br />
Kostýlin era caduto a terra dallo spavento. Ma Žílin si mise a ridere, e<br />
gli <strong>di</strong>sse:<br />
— Era un cervo. Non senti, con le corna, come schianta il bosco? Noi<br />
abbiamo paura <strong>di</strong> lui, e invece lui ha paura <strong>di</strong> noi.<br />
Continuarono a inoltrarsi. Già le Pleia<strong>di</strong> incominciavano a calare: non<br />
c’era molto a far giorno. E intanto, fosse giusta la <strong>di</strong>rezione in cui anda‐<br />
vano, o fosse sbagliata, loro non lo sapevano. Aveva l’impressione, si,<br />
Žílin, che proprio per questa strada lo avessero trasportato a cavallo, e<br />
che, per arrivare dai Russi, ci fossero ancora una <strong>di</strong>ecina <strong>di</strong> miglia; ma<br />
segnali sicuri non c’erano, eppoi era notte: non ti raccapezzavi in nessun<br />
modo. Sboccarono in una radura. Kostýlin si accosciò giú, e <strong>di</strong>ce:<br />
— Fa’ come vuoi, ma io non ci arrivo: i pie<strong>di</strong> non mi vanno più.<br />
Per quanto Žílin lo spronasse:<br />
— No, — <strong>di</strong>ce, — non ci arrivo, non ce la faccio più.<br />
Andò in collera Žílin, fece uno sputacchio, lo assalí con male parole.<br />
— Allora me ne vado via da solo: ad<strong>di</strong>o!<br />
Kostýlin saltò su, si rimise in cammino. Fecero ancora, così, quattro<br />
miglia. La nebbia, pel bosco, s’era accovata più fitta <strong>di</strong> prima: non ci si<br />
vedeva a quattro passi, e le stelle, ormai, si vedevano si e no.<br />
D’improvviso, sentono, <strong>di</strong>nanzi a loro, un tonfeggiar <strong>di</strong> cavallo. Si<br />
sente benissimo: coi ferri incespica nelle pietre. Žílin si stese a panciasot‐<br />
to, e mise contro terra l’orecchio.
246<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
— Proprio così: da questa parte, in <strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> noialtri, un uomo a<br />
cavallo s’avanza.<br />
Di corsa, si scansarono dalla viottola, s’acquattarono fra i cespugli, e<br />
stettero lì in sospeso. Poi Žílin, pian piano, striscia fitto in proda alla<br />
viottola, guarda: a cavallo, un Tartaro viene in qua, spingendosi innanzi<br />
una vacca, e intanto, sotto i baffi, si mugola un motivetto. Passò oltre il<br />
Tartaro. Žílin si voltò a Kostýlin.<br />
— Bah, Dio ce l’ha mandata buona: alzati, an<strong>di</strong>amo.<br />
Kostýlin fece per alzarsi, e ricadde.<br />
— Non ce la faccio: com’è vero Dio, non ce la faccio: non ho più un fi‐<br />
lo <strong>di</strong> forza.<br />
Uomo greve, bofficione, s’era tutto inzuppato <strong>di</strong> sudore: e appena era<br />
stato sorpreso, così dentro al bosco, da quella nebbia ghiaccia, coi pie<strong>di</strong>,<br />
per giunta, scorticati a quel modo, s’era afflosciato come un cencio. Žílin<br />
provò <strong>di</strong> forza a tirarlo su. Allora Kostýlin si mise a gridare:<br />
— Ah, mi fai male!<br />
Žílin trasalí .<br />
— Ma che gri<strong>di</strong>? Quel Tartaro è ancora vicino, ci può sentire! — E in‐<br />
tanto, tra sé, pensa: «È proprio vero che ha perso le forze: che farò <strong>di</strong> lui?<br />
Abbandonare un compagno, non sta bene».<br />
— Su, — gli <strong>di</strong>ce, — alzati, montami a cavalluccio, ti porterò io, se<br />
proprio tu non ce la fai.<br />
Si pigliò sulle spalle Kostýlin, gl’infilò le braccia sotto le cosce, rientrò<br />
nella viottola, e si trascinava là là.<br />
—Soltanto, — gli <strong>di</strong>ce, — non soffocarmi così con le mani alla gola,<br />
per carità! Reggiti alle mie spalle.<br />
Era gran fatica, per Žílin: i pie<strong>di</strong> li aveva anche lui che facevano san‐<br />
gue, e si sentiva spossato. Si rannicchia, si rassesta, si scrolla, in modo da<br />
sistemarsi un po’ più alto sulle spalle Kostýlin, e lo trascina su su per la<br />
viottola.<br />
Di certo quel Tartaro aveva sentito, quando Kostýlin s’era messo a<br />
gridare. Žílin s’accorge che viene qualcuno, a cavallo, alle loro spalle,<br />
chiamando a quel modo dei Tartari. Žílin si gettò fra i cespugli. Il Tarta‐<br />
ro staccò il fucile, fece fuoco. Sbagliò il colpo; lanciò quello strido come<br />
usano loro, e <strong>di</strong> galoppo s’allontanò per la viottola.<br />
Ahi, — <strong>di</strong>sse Žílin, — siamo rovinati, fratello! Quel cane, adesso, va a<br />
radunare altri Tartari per inseguir noialtri. Se non riusciamo ad allonta‐<br />
narci ancora <strong>di</strong> tre miglia, siamo perduti —. E intanto pensa tra sé:<br />
«Quale <strong>di</strong>avolo m’avrà messo l’idea <strong>di</strong> portarmi <strong>di</strong>etro questo tronco?<br />
Da solo, sarei fuori da un pezzo».
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 247<br />
— Disse Kostýlin: — Vattene tu solo: perché dovresti rovinarti per<br />
causa mia?<br />
No, non me ne andrò: non sta bene abbandonare un compagno. Se lo<br />
accollò <strong>di</strong> nuovo sulle spalle, e lo issò in aria. A questo modo percorse<br />
circa un miglio. Sempre bosco da ogni parte, che non se ne vede l’uscita.<br />
La nebbia, d’altronde, aveva incominciato a sciogliersi, e come tante<br />
piccole nuvole s’erano messe a passare, <strong>di</strong> modo che non si vedevano<br />
più affatto le stelle. Žílin non ne poteva più.<br />
Arrivò a un punto dove, <strong>di</strong> fianco alla strada, c’era una piccola sor‐<br />
gente, con un giro <strong>di</strong> pietre intorno. lì si fermò, e pose giù Kostýlin.<br />
— Voglio riposarmi un po’ — <strong>di</strong>ce, — levarmi la sete. Daremo un<br />
morso alle nostre focacce. Non dev’esserci più tanta strada. S’era appena<br />
chinato per bere, che ecco un tonfeggiar <strong>di</strong> zoccoli alle loro spalle. Di<br />
nuovo si gettarono fra i cespugli, sulla destra, su per un costone, e s’al‐<br />
lungarono a terra.<br />
Ecco le voci dei Tartari: s’erano fermati, i Tartari, proprio in quel pun‐<br />
to dove loro erano scesi giù dalla viottola. Parlarono un po’, poi si senti‐<br />
rono far quel verso, come se aizzassero dei cani. Ecco: un croscio fra i ce‐<br />
spugli, e, <strong>di</strong>ritto verso loro, un cane sconosciuto, <strong>di</strong> chissà che villaggio.<br />
Il cane si fermò, e attaccò a latrare.<br />
S’arrampicarono allora anche i Tartari, anch’essi d’un villaggio sco‐<br />
nosciuto: li afferrarono, li legarono, li accomodarono sui cavalli, e li por‐<br />
tarono via.<br />
Avevano percorso tre miglia, incontrano Abdul, il padrone, che veni‐<br />
va con altri due del villaggio. Scambiarono qualche parola con quest’al‐<br />
tri Tartari, li trasbordarono sui cavalli loro, e così li riportarono al villag‐<br />
gio.<br />
Abdul, adesso, non rideva più, e non <strong>di</strong>ceva parola con loro.<br />
Arrivarono al villaggio sul far del giorno, e li scaricarono lì in mezzo<br />
alla strada. Accorsero i ragazzetti. Con pietre, con frustini li battono, e<br />
intanto mandano stri<strong>di</strong>.<br />
Si radunarono i Tartari in circolo; anche il vecchio era salito su da val‐<br />
le. Incominciarono a parlare. Žílin sente che si consigliano su loro, come<br />
debbono trattarli. Certi <strong>di</strong>cono: — Bisogna portarli più all’interno fra le<br />
montagne —; ma il vecchio <strong>di</strong>ce: — Bisogna ammazzarli —. Abdul gli<br />
s’oppone, ribatte: — Io, per essi, ho sborsato tanto <strong>di</strong> quattrini, e per essi<br />
intascherò il riscatto —. Il vecchio risponde: — Nulla ti pagheranno, non<br />
ti procureranno altro che guai! Ed è anche peccato, mantenere in vita dei<br />
Russi, Si ammazzino, e sia finita.
248<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
L’assemblea si sciolse. Il padrone venne qua da Žílin, e incominciò a<br />
parlargli.<br />
– Se, – <strong>di</strong>ce, – non mi spe<strong>di</strong>scono il vostro riscatto, io, fra due settima‐<br />
ne, vi spellerò a forza <strong>di</strong> nerbate. E se poi v’attentate un’altra volta a fug‐<br />
gire, v’ammazzerò come cani. Scrivete ai vostri, scrivete con tutte le re‐<br />
gole!<br />
Portarono dei fogli <strong>di</strong> carta, ed essi scrissero le lettere. Furono rimessi<br />
ai ceppi, e condotti <strong>di</strong> là dalla moschea. Là, c’era una fossa tre metri e<br />
mezzo profonda: e dentro quella fossa furono calati.<br />
VI.<br />
Da quel giorno, la loro vita <strong>di</strong>venne durissima. I ceppi, non glieli to‐<br />
glievano più, e non li lasciavano uscir mai <strong>di</strong> là dentro. Gettavano loro,<br />
là dentro, un po’ <strong>di</strong> pasta cruda, come ai cani, e in una brocca calavano<br />
giù l’acqua da bere. C’era fetore in quella fossa, afa, umi<strong>di</strong>tà. Kostýlin<br />
finì con l’ammalarsi del tutto: si gonfiò, gli vennero dolori alle ossa da<br />
capo a pie<strong>di</strong>; passava tutto il tempo a lamentarsi o a dormire. E anche<br />
Žílin s’era avvilito: vedeva che la faccenda aveva preso una brutta piega.<br />
E non sapeva davvero come tirarsene fuori.<br />
S’era provato a fare un pochino <strong>di</strong> scavo, ma poi, la terra, non c’era<br />
dove gettarla; se n’era avveduto il padrone, e aveva minacciato <strong>di</strong> ucci‐<br />
derlo.<br />
Un giorno, se ne stava seduto, con le gambe incrociate, in fondo alla<br />
fossa, e pensava alla vita libera, e sentiva una gran malinconia. D’im‐<br />
provviso, dritta dritta in grembo, venne a cadergli una focaccina, un’al‐<br />
tra, e poi una pioggia <strong>di</strong> visciole. Alzò gli occhi, e lassù vide Dina. Quel‐<br />
la gli <strong>di</strong>ede un’occhiata, ruppe a ridere, e scappo’ via. Allora Žílin ebbe<br />
l’idea: «Non potrebbe venirci un aiuto da Dina?»<br />
Nettò ben bene, lì nella fossa, un cantuccio, ne cavò fuori <strong>di</strong> quell’ar‐<br />
gilla, e si <strong>di</strong>ede a modellarci dei fantoccini. Fece delle persone, dei caval‐<br />
li, dei cani, sempre con quell’idea: «Quando torna Dina, glieli tiro lassù».<br />
Senonchè, il giorno dopo, Dina non si vide. E Žílin sente un calpestio<br />
<strong>di</strong> cavalli, sente passare non si sa che cavalieri, e i Tartari che si raduna‐<br />
no nella moschea, e <strong>di</strong>scutono, gridano, menzionano i Russi. E sente an‐<br />
che la voce del vecchio. Proprio <strong>di</strong>stinte le parole gli arrivano, ma indo‐<br />
vina che i Russi son venuti poco lontano, e che i Tartari hanno paura che<br />
si spingano fin qua al villaggio, e non sanno che fare dei prigionieri.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 249<br />
Parlarono, parlarono, poi se n’andarono. Tutt’a un tratto, che sfruscia<br />
qualche cosa dall’alto. Guarda: Dina s’è accucciata lì all’orlo, con le<br />
gambe incrociate, i ginocchietti che spiccano più alti della testa, e si<br />
sporge nel vuoto, le monete della collana le spenzolano, le tintinnano<br />
sopra la fossa. Gli occhietti le lustrano come stelline: si cava fuori dalla<br />
manica due <strong>di</strong> quelle focaccine col latte <strong>di</strong> capra, e gliele butta giù.<br />
Žílin le prese, e <strong>di</strong>sse: – Come mai è tanto tempo che non vieni? Io,<br />
per te, avevo fatto dei giocattoli. Ecco, – e incominciò a tirarglieli uno al‐<br />
la volta.<br />
Ma quella tentenna la testa, non li guarda nemmeno. – Non si può, –<br />
<strong>di</strong>ce. Stette un pochino così, accoccolata in silenzio, poi <strong>di</strong>ce: – Ivàn! ti<br />
vogliono ammazzare –. E intanto, con la mano, si fa segno al collo.<br />
— Chi mi vuole ammazzare?<br />
— Mio padre, sono i vecchi che glielo comandano. Ma io ci ho pena<br />
<strong>di</strong> te.<br />
Žílin subito le risponde:<br />
— Se tu ci hai pena <strong>di</strong> me, dunque portami un bastone lungo. Lei ten‐<br />
tenna la testa, per <strong>di</strong>re che «non si può». Allora lui giunse le mani, sup‐<br />
plicandola:<br />
— Dina, sii buona! Dínuška, bada <strong>di</strong> portarmelo!<br />
— Non si può, – <strong>di</strong>ce lei, – vedrebbero: sono tutti in casa, – e se n’an‐<br />
dò.<br />
Ecco che se ne sta li accovacciato, Žílin, mentre s’è fatta sera, e pensa:<br />
«Che sarà <strong>di</strong> me?» Di continuo dà occhiate verso l’alto. Le stelle si ve‐<br />
dono già, ma la luna non è ancora uscita. Il mullà ha mandato il suo gri‐<br />
do, e il silenzio ha avvolto ogni cosa. Ormai Žílin incomincia ad assopir‐<br />
si, pensando: «La ragazzetta avrà paura».<br />
D’improvviso, sul suo capo, un po’ d’argilla piovve giù; sbirciò verso<br />
l’alto: una pertica lunga, da quell’orlo della fossa, beccheggiava <strong>di</strong> pun‐<br />
ta. Beccheggiò così <strong>di</strong> punta, poi incominciò a calare, e scivolò per la pa‐<br />
rete della fossa. Gran gioia ne ebbe Žílin: la afferrò nella mano, la trasse<br />
giù fino al fondo: era una pertica robusta. Già in passato egli aveva a‐<br />
docchiato questa pertica sul tetto del padrone.<br />
Voltò in su lo sguardo: le stelle, alte in cielo, scintillano; e appena so‐<br />
pra alla fossa, come quelli d’un gatto, gli occhi <strong>di</strong> Dina, nel buio, tralu‐<br />
cono. S’era piegata col viso fino all’orlo della fossa, e bisbiglia: – Ivàn,<br />
Ivàn! – e intanto con le mani, accanto al viso, continua a far gesti, come<br />
per <strong>di</strong>re:<br />
«Piano, per carità».<br />
– Che c’è? – le domanda Žílin.
250<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
— Sono partiti tutti, due soli son rimasti a casa.<br />
Allora Žílin <strong>di</strong>ce:<br />
— Su, Kostýlin, an<strong>di</strong>amo: tentiamo per l’ultima volta: ti porterò io<br />
sulla schiena.<br />
Ma Kostýlin non vuol sentirne nulla.<br />
– No, – ripete, – è destino, ormai, ch’io non esca <strong>di</strong> qui... Dove vuoi<br />
che vada, se neppure per rigirarmi le forze mi bastano più.<br />
– Bè, dunque ad<strong>di</strong>o, e non volermene male –. E tutt’e due si baciaro‐<br />
no.<br />
S’aggrappo’ alla pertica, raccomandò a Dina che la reggesse, s’arram‐<br />
picò. Due volte ricadde: i ceppi lo impacciavano. Lo sostenne, <strong>di</strong> sotto,<br />
Kostýlin, e riuscì, in qualche modo, a sbucar su. Dina, con le sue piccole<br />
mani, lo tira a sé per la camicia con quanta forza ha, e intanto ride.<br />
Žílin prese la pertica e le <strong>di</strong>sse:<br />
— Riportala a posto, Dina, altrimenti capiranno tutto, e ti picchieran‐<br />
no.<br />
Quella trascinò via la pertica, e Žílin s’avviò verso il fondovalle.<br />
Quando fu sceso un pezzo giù, <strong>di</strong>ede <strong>di</strong> piglio a una pietra aguzza, e<br />
cercò <strong>di</strong> far saltare la serratura dei ceppi. Ma la serratura era forte: non<br />
c’è via che gli riesca <strong>di</strong> romperla, tanto più che lavorava così scomodo.<br />
Sente, a un tratto, qualcuno che <strong>di</strong> corsa vien giù per la costa, a balzi<br />
leggeri leggeri. Pensa: «Sarà <strong>di</strong> nuovo Dina». Di corsa Dina s’accostò<br />
qua, prese la pietra, e <strong>di</strong>sse:<br />
— Lascia fare a me.—<br />
Si mise lì sui suoi ginocchietti, e incominciò a forzare la serratura. Ma<br />
aveva certi braccini sottili, che parevano bastoncelli: <strong>di</strong> forza non ne a‐<br />
veva punto. Lasciò cader la pietra, e scoppiò a piangere. Provò un’altra<br />
volta Žílin a combatter con quella serratura, mentre Dina gli stava accoc‐<br />
colata accanto con le gambe in croce, tenendolo per una spalla. Žílin, a<br />
un tratto, si guardò intorno, e che cosa vede? Da sinistra, <strong>di</strong> <strong>di</strong>etro alle<br />
montagne, s’è acceso un riverbero rosso: è la luna che sorge. «Via, – pen‐<br />
sa, – prima che esca la luna, bisogna che io abbia passato il fondovalle, e<br />
sia arrivato al bosco». Si levò in pie<strong>di</strong>, buttò via la pietra. Magari coi<br />
ceppi, ma bisogna andare.<br />
– Ad<strong>di</strong>o, – <strong>di</strong>ce, –Dìnuška. In eterno mi ricorderò <strong>di</strong> te.<br />
Dina s’era aggrappata a lui: gli fruga addosso con le mani, cerca un<br />
posto dove ficcargli un po’ <strong>di</strong> focaccine. Lui le prese quelle focaccine.<br />
– Grazie, – <strong>di</strong>ce, – testolina d’oro. Chi ti farà le bambole, ora che io<br />
non ci sono più? – E la accarezzava sul capo.
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 251<br />
Scoppiò a piangere Dina, si coprí il viso con le mani, corse via su per<br />
l’erta, saltellando come una capretta. Si u<strong>di</strong>vano soltanto, in quel buio, le<br />
monete attaccate alla treccia, che le tintinnavano contro la schiena.<br />
Žílin si fece il segno della croce, e reggendosi con la mano la catena<br />
dei ceppi, che non sferragliasse, si mise in cammino: strascicava in fretta<br />
i pie<strong>di</strong>, e con gli occhi stava sempre a sbirciare verso quel riverbero, do‐<br />
ve veniva sorgendo la luna. La strada la riconosceva benissimo. Doveva<br />
andar sempre <strong>di</strong>ritto per otto miglia. Purché potesse arrivare al bosco<br />
prima che la luna fosse spuntata in pieno! Traversò il fiumicello: era già<br />
sbiancata, la luce, là <strong>di</strong>etro ai monti. S’inoltrò ancora per fondovalle;<br />
cammina, e continua a dar occhiate lassù: la luna non si vede ancora. Ma<br />
ormai il riverbero s’è fatto più luminoso, e su un versante della vallata la<br />
luce si stende sempre più viva. L’ombra si ritira sotto i monti, e man<br />
mano la luce s’avvicina a lui.<br />
Cammina Žílin, sempre badando <strong>di</strong> tenersi nell’ombra. Lui affretta il<br />
passo, ma la luna è ancora più svelta a salire: anche qua a destra, ormai,<br />
le vette degli alberi si sono illuminate. Era arrivato nei paraggi del bosco,<br />
quando la luna sbucò fuori dai monti: un biancore, un chiarore, né più<br />
né meno che se fosse giorno. Sugli alberi spiccava ogni foglia. Un gran<br />
silenzio, in quel chiarore, dominava sui monti: pareva che tutto fosse,<br />
morto. Unico rumore, in basso, il fiumicello che gorgoglia.<br />
Finalmente raggiunse il bosco, senz’aver incontrato nessuno. lì nel<br />
bosco, Žílin si scelse un posticino un po’ allo scuro, e s’accomodò a ripo‐<br />
sare.<br />
Si riposò, mangiò <strong>di</strong> quelle focaccine. Poi trovò una pietra, e <strong>di</strong> nuovo<br />
si provò a rompere i ceppi. Si ruppe tutte le mani, ma quelli non riuscì a<br />
romperli. Si levò, si rimise in cammino. Aveva percorso ancora un mi‐<br />
glio, le forze lo abbandonarono: si sentiva spezzate le gambe. Faceva<br />
<strong>di</strong>eci passi, e si fermava. «Poche storie, – <strong>di</strong>ce tra sé; – mi trascinerò fin‐<br />
ché mi reggo in pie<strong>di</strong>. Se mi siedo, non m’alzo più. Fino alla fortezza,<br />
non ci posso arrivare; ma quando farà giorno, m’acquatterò dentro al<br />
bosco, passerò così la giornata, e a notte, <strong>di</strong> nuovo in cammino!»<br />
Tutta la notte continuò a andare innanzi. Gli unici che gli si parassero<br />
incontro, furono due Tartari a cavallo, ma lui fin da lontano li aveva u<strong>di</strong>‐<br />
ti, e s’era nascosto <strong>di</strong>etro a un albero.<br />
Già la luna incominciava a spalli<strong>di</strong>re, cadeva la guazza, mancava po‐<br />
co a far giorno, e Žílin non era ancora arrivato alla fine del bosco. «Su, —<br />
pensa, — ancora trenta passi in avanti, poi svolto tra il fitto, e mi corico<br />
giù».
252<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Fece quei trenta passi, e che vede? Il bosco finiva lì. Si spinse fin sul<br />
margine: giorno alto, là fuori: e <strong>di</strong>nanzi a lui, come sul palmo della ma‐<br />
no, ecco la steppa e la fortezza, e a sinistra <strong>di</strong> questa, più sotto alla mon‐<br />
tagna, fuochi <strong>di</strong> bivacco che palpitano, che si spengono, e il fumo ne<br />
rampica su, e presso i fuochi c’è gente.<br />
Aguzza gli occhi, e vede benissimo: ci sono fucili che lustrano: sono<br />
cosacchi, soldati.<br />
Gran gioia ne venne a Žílin: raccolse le ultime forze, e giù per la <strong>di</strong>‐<br />
scesa. Tra sé pensava, intanto: «Dio non voglia che qui, allo scoperto,<br />
m’avvisti qualche cavaliere tartaro: benché resti poco, non si scampereb‐<br />
be».<br />
Aveva appena pensato così, guarda: a sinistra, su un monticello, stan<br />
fermi tre Tartari, a una <strong>di</strong>stanza <strong>di</strong> cinquecento metri, Lo avvistarono, e<br />
gli si slanciarono contro. Lui sentì il cuore squarciarglisi in petto. Si mise<br />
ad agitar le braccia, a gridare con quanto fiato aveva:<br />
— Fratelli miei! Salvatemi! Fratelli!<br />
Lo u<strong>di</strong>rono i nostri: balzarono fuori dei cosacchi a cavallo. Si slancia‐<br />
rono in qua, in modo da tagliar la strada ai Tartari.<br />
Lontani erano i cosacchi, e i Tartari vicini. Ma Žílin aveva raccolto le<br />
sue ultime forze, si reggeva con la mano i ceppi, e correva incontro ai co‐<br />
sacchi, fuori <strong>di</strong> sé, facendosi il segno della croce e gridando:<br />
— Fratelli miei! fratelli! fratelli!<br />
Erano, i cosacchi, una quin<strong>di</strong>cina.<br />
Si spaventarono i Tartari: a mezza strada da lui, si videro rallentare e<br />
fermarsi. E Žílin, <strong>di</strong> corsa, raggiunse i cosacchi.<br />
I cosacchi lo circondarono, domandandogli chi era, che cosa faceva, <strong>di</strong><br />
dove veniva. Ma Žílin, fuori <strong>di</strong> sé, piangeva e continuava a ripetere:<br />
— Fratelli miei! fratelli!<br />
Corsero fuori i soldati russi, s’affollarono intorno a Žílin: chi gli dà un<br />
pezzo <strong>di</strong> pane, chi un po’ <strong>di</strong> minestra, chi un sorso d’acquavite; questo<br />
gli butta addosso il mantello, quell’altro bada a spezzargli i ceppi.<br />
Fu riconosciuto dagli ufficiali, fu condotto in fortezza. Si rallegrarono<br />
i suoi soldati, e i colleghi si raccolsero a festeggiarlo. Žílin raccontò tutto<br />
quello che gli era accaduto, e concluse: — E pensare ch’ero partito per<br />
andarmene a casa, a prender moglie! Macché, si vede proprio che non è<br />
quello il mio destino. E rimase a prestar servizio nel Caucaso.<br />
Quanto a Kostýlin solo un mese più tar<strong>di</strong> fu rilasciato, a prezzo <strong>di</strong><br />
ben cinquemila rubli. Era a malapena vivo, quando lo riportarono.
Uscito è il gran Volgà coi suoi compagni<br />
per borghi e per città a prender tributi,<br />
dai conta<strong>di</strong>ni a prelevar le decime;<br />
uscito è egli, il sire, in campo aperto:<br />
e, in campo aperto, ode un aratore.<br />
Ecco: sta arando il conta<strong>di</strong>no, e fischia;<br />
lontan lontano, ecco, l’aratro scricchiola;<br />
contro le pietre il vomere, ecco, stride:<br />
ma in tutto il pian non si scorge aratore.<br />
All’aratore allora il suo cavallo<br />
drizza Volgà, e va da mattina a sera,<br />
ma giungere non può colui che ara.<br />
Ancora un giorno da mattina a sera,<br />
Volgà cavalca, e l’arator non giunge.<br />
Ecco: sta arando il conta<strong>di</strong>no, e fischia;<br />
lontan lontano, ecco, l’arato scricchiola;<br />
contro le pietre il vomere, ecco, stride:<br />
ma in tutto il pian non si scorge aratore.<br />
Il terzo giorno ancor Volgà cavalca,<br />
a mezzo il dì raggiunge l’aratore.<br />
È un conta<strong>di</strong>no che sta arando, e incita<br />
la bestia, e il solco apre da un capo all’altro,<br />
e sassi e raffiche volta col vomere:<br />
quando arriva all’estremità del solco,<br />
da quest’altra non lo <strong>di</strong>scerni più.<br />
L’aratore ha un aratro tutto d’acero,<br />
d’acciaio damaschinato è il vomere,<br />
ed ha annodati finimenti serici,<br />
fra le stanghe la cavalla è saura.<br />
Rompe allora Volgà in queste parole:<br />
— Ehi là, il mio conta<strong>di</strong>no! Dio t’aiuti,<br />
che con l’aiuto Suo tu possa arare,<br />
arare e l’arti <strong>di</strong> campagna fare,<br />
e ben largo il tuo solco rivoltare,<br />
e sassi e ra<strong>di</strong>che farne schizzare!<br />
E <strong>di</strong>ce <strong>di</strong> rimando il conta<strong>di</strong>no:<br />
— Grazie, Volgà, molto ti ringraziamo:<br />
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 253<br />
Mikúlscka Seljanínovič.<br />
(Leggenda in versi).
254<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
<strong>di</strong> Dio l’aiuto, a noi, davvero occorre,<br />
<strong>di</strong> Dio l’aiuto, ecco, per arare,<br />
arare e l’arti <strong>di</strong> campagna fare!<br />
Ma tu lontano vai, coi tuoi compagni?<br />
Lontano Dio ti mena? Ove sei avviato? –<br />
E rompe allor Volgà in queste parole:<br />
— Io, conta<strong>di</strong>no, vò coi miei compagni<br />
per borghi e per città a prender tributi,<br />
dai conta<strong>di</strong>ni a prelevar le decime.<br />
Su, seguimi anche te come compagno! —<br />
Pigliò e piantò l’aratro dentro al solco<br />
il conta<strong>di</strong>no, i finimenti serici<br />
pigliò e slegò, poi la sua cavallina<br />
dall’aratro pigliò e staccò, e lui stesso<br />
sulla bestia s’issò, montò a bisdosso,<br />
e con Volgà s’avviò come compagno.<br />
Ma <strong>di</strong>ce d’improvviso il conta<strong>di</strong>no:<br />
— C’è il guaio ch’io, Volgà, là dentro al solco<br />
l’aratro mio ho lasciato incusto<strong>di</strong>to:<br />
bisognerebbe cavarlo da terra,<br />
dal vomere la terra scrollar giù,<br />
e metterlo al riparo d’un cespuglio —.<br />
Mandò allora Volgà <strong>di</strong>eci suoi pro<strong>di</strong><br />
che dalla terra l’aratro cavassero,<br />
che la terra dal vomere scrollassero,<br />
che a riparo scegliessero un cespuglio.<br />
E all’aratro quei pro<strong>di</strong> s’accostarono,<br />
dai bei destrieri nel solco balzarono,<br />
misero mano a quell’aratro d’acero:<br />
ma da terra l’aratro non si leva.<br />
Coi finimenti quell’aratro tirano,<br />
a tondo su se stesso lo rigirano,<br />
ma da terra non possono cavarlo,<br />
non possono dal vomere la terra<br />
scrollare, e ripararlo in un cespuglio.<br />
Manda allora Volgà tutta la banda,<br />
che da tetra l’aratro sia cavato,<br />
dal vomere la terra sia scrollata,<br />
e sia messo a riparo d’un cespuglio.<br />
E tutta, come un sol uomo, lo afferra
Quarto libro <strong>di</strong> lettura 255<br />
la banda, afferra quell’aratro d’acero,<br />
ma non fa altro che girarlo a tondo:<br />
non può da terra l’aratro cavare,<br />
non può dal vomere la terra scrollare,<br />
e metterlo a riparo d’un cespuglio.<br />
S’appressò finalmente il conta<strong>di</strong>no,<br />
l’abitator delle campagne: scese<br />
egli <strong>di</strong> groppa alla cavalla saura,<br />
s’accostò egli al suo aratruccio d’acero,<br />
con una mano l’agguantò, tirò,<br />
e da terra su su cavò l’aratro,<br />
dal vomere la terra scrollò giú,<br />
dal ceppo raschiò via tutte l’erbacce,<br />
e l’aratro appiattò <strong>di</strong>etro un cespuglio.<br />
Sui bei destrieri tutti rimontarono<br />
allora, e si rimisero in cammino.<br />
Andarono a sboccare su una strada:<br />
va al passo la cavalla al conta<strong>di</strong>no,<br />
e già il destriero <strong>di</strong> Volgà galoppa;<br />
la cavalla si mette al trotterello,<br />
e <strong>di</strong> Volgà il destriero è già staccato.<br />
Cavalca innanzi il conta<strong>di</strong>no, placido,<br />
mentre Volgà lo insegue a spron battuto.<br />
E si mise a gridare allor Volgà,<br />
e il suo alto berretto a sventolare:<br />
— Ehi là, buon aratore, ferma, aspetta:<br />
<strong>di</strong>etro a te, conta<strong>di</strong>no, non si regge! —<br />
Si voltò il conta<strong>di</strong>no, guardò in<strong>di</strong>etro<br />
verso Volgà, trattenne la cavalla:<br />
e per la strada al passo proseguirono.<br />
Ruppe allora Volgà in queste parole:<br />
—Tu, conta<strong>di</strong>no, hai una buona cavalla:<br />
se fosse, la tua bestia, uno stallone,<br />
varrebbe almeno cinquecento rubli!<br />
E a lui così rispose il conta<strong>di</strong>no:<br />
— Eppur sei sciocco, Volgà, e sciocco parli!<br />
La cavallina mia sotto la madre<br />
io l’ho presa e, lattònzola com’era,<br />
l’ho già pagata cinquecento rubli:<br />
fosse stallone, non avrebbe prezzo! —
256<br />
L. N. Tolstoj, I quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
Ruppe allora Volgà in queste parole:<br />
— Ma qual è, conta<strong>di</strong>no, il nome tuo,<br />
con quale patronimico ti acclamano? —<br />
E gli rispose così il conta<strong>di</strong>no:<br />
— Quando sarà che mieterò la segale,<br />
farò i covoni, li carreggerò<br />
sulla mia aia, poi li batterò,<br />
e ne farò la birra, e i conta<strong>di</strong>ni<br />
chiamerò dai <strong>di</strong>ntorni: e i conta<strong>di</strong>ni<br />
così si metteranno ad acclamarmi:<br />
«Viva a te, buon Mikula, a te Mikúluscka,<br />
buon Mikúluscka nostro Seljanínovič149 ! —<br />
149 Seljanínovič è l’espressivo patronimico del conta<strong>di</strong>no, «figlio <strong>di</strong> Seljanín», os‐<br />
sia del Borghigiano (da selò, borgo <strong>di</strong> campagna).
Bibliografia<br />
I Quattro libri <strong>di</strong> lettura nelle prime e<strong>di</strong>zioni in russo<br />
TOLSTOJ LEV NICOLAEVIČ, Azbuka, S. Peterburg, Tip. Zamyslovskij, 1872.<br />
ID., Novaja azbuka, Moskva, Tip. Torleckij i Terichov, 1875.<br />
ID., Russkie knigi dlja čtenija, Moskva, Tip. Ris, 1875.<br />
Principali e<strong>di</strong>zioni italiane dei Quattro libri <strong>di</strong> lettura<br />
TOLSTOJ LEV NICOLAEVIČ, I quattro libri <strong>di</strong> lettura, Milano, Monanni, 1928.<br />
ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, Torino, Einau<strong>di</strong>, 1964.<br />
ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, Firenze, La Nuova Italia, 1967.<br />
ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, Napoli, Liguori, 1981.<br />
ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, Milano, TEA, 1989.<br />
ID., I quattro libri <strong>di</strong> lettura, Torino, Einau<strong>di</strong>, 1994.<br />
Letture critiche ∗<br />
BERLIN ISAIHA, Tolstoi e l’educazione del popolo, in «Tempo presente», fasc. 9–10,<br />
settembre–ottobre 1960.<br />
DECROLY OVIDE, La funzione <strong>di</strong> globalizzazione e l’insegnamento, Firenze, La Nuova<br />
Italia, 1962.<br />
ID., Una scuola per la scuola attraverso la vita, Torino, Loescher, 1963.<br />
HUGO VICTOR, I miserabili, Milano, Mondadori, 1991.<br />
MAKARENKO ANTON SEMËNOVIČ, Poema pedagogico, Mosca, Raduga, 1985.<br />
E. MEDOLLA, Realismo pedagogico e letterario nei Quattro libri <strong>di</strong> lettura <strong>di</strong> Tolstoj,<br />
Facoltà <strong>di</strong> Lettere e Filosofia dell’Università degli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Roma «La Sapien‐<br />
za», Tesi <strong>di</strong> laurea in Pedagogia, (Relatore Chiar.mo prof. Nicola Siciliani de<br />
Cumis, Correlatore Chiar.mo prof. Aldo Visalberghi), A.a. 1996/97.<br />
PIAGET JEAN, La psicologia del bambino, Torino, Einau<strong>di</strong>, 1966.<br />
PROPP VLADIMIR JACOVLEVIČ, La fiaba russa, Torino, Einau<strong>di</strong>, 1990.<br />
SHAKESPEARE WILLIAM, Il mercante <strong>di</strong> Venezia, Milano, Mondadori, 2000.<br />
STOPPOLONI AURELIO, La scuola <strong>di</strong> Jasnaja Poljana, in «Rivista d’Italia», fasc. 1,<br />
1903.<br />
TOLSTOJ LEV NICOLAEVIČ, La scuola <strong>di</strong> Jasnaja Poljana in novembre e <strong>di</strong>cembre, in U.<br />
ZANDRINO (a cura <strong>di</strong>) La scuola <strong>di</strong> Jasnaja Poljana e altri scritti pedagogici, Ber‐<br />
gamo, Minerva Italica, 1965.<br />
∗<br />
La presente bibliografia contiene anche alcuni testi ritenuti utili per la ricerca,<br />
ma non consultati <strong>di</strong>rettamente.
258<br />
Bibliografia<br />
ID., Tutti i romanzi, Firenze, Sansoni E<strong>di</strong>tore, 1967.<br />
ID., L’istruzione pubblica, in GAETANO SANTOMAURO (a cura <strong>di</strong>) Scritti pedagogici,<br />
Bari, Adria<strong>di</strong>ca, 1972.<br />
ID., Lettere, Milano, Longanesi, 1977– 1978.<br />
ID., Appello allo Zar e ai suoi aiutanti, in IGOR SIBALDI (a cura <strong>di</strong>) Perchè la gente si<br />
droga?: e altri saggi su società, politica e religione, Milano, Mondadori, 1988.<br />
ID., Sulla scienza, in IGOR SIBALDI (a cura <strong>di</strong>) Perchè la gente si droga?: e altri saggi<br />
su società, politica e religione, Milano, Mondadori, 1988.<br />
SANTAMARIA EMILIA, Le idee pedagogiche <strong>di</strong> Tolstoj, Bari, Laterza, 1904.<br />
VOLPICELLI LUIGI, A scuola da Tolstoj, Roma, Armando, 1977.<br />
Sitografia<br />
http://www.ecologiasociale.org/pg/qualescuola.html, (Consultato il giorno 08/10/2006).
Ovviamente non è compreso il<br />
nome <strong>di</strong> L. N. Tolstoj.<br />
I corsivi si riferiscono ai perso‐<br />
naggi.<br />
ABDUL, 31<br />
ABDUL‐MURAT, 234 sgg.<br />
ADE, XX<br />
AFANASJEV ALEKSANDR NICOLAEVIČ, XI<br />
AKULINA, 140‐141<br />
AKSIÒNOV IVÀN DMITREVIČ, XXXII, 163<br />
sgg.<br />
ALLÀ, 242, 244<br />
ALESSANDRO, 189<br />
AMICO, XIII, 70‐71<br />
AMASIS, XXIII, 173 sgg.<br />
AMULIO, 162‐163<br />
ANDERSEN CHRISTIAN, XI‐XII<br />
ANDRÈIČ IVÀN, 36<br />
ARCHIMEDE, 192‐193<br />
ATLANTE, XX<br />
BABINO, 41 sgg.<br />
BEKÈTYČ SALTÀN, XIV, 177 sgg.<br />
BERLIN ISAIHA, XI<br />
BETTA, 41 sgg.<br />
BULKA, XIV, XLV, 147 sgg., 152, 154 sgg.<br />
BUSLÀEVIČ VOLGÀ, XLV, 175 sgg.<br />
BOB, XII, 12<br />
BORI PIER CESARE, XIV, 3<br />
CAMBISE, XXI, XLIV, 94‐95<br />
CATERINA, XXII, 26‐27<br />
CARLETTI TOMMASO, XXVIII<br />
CERKASCENIN MICHELACCIO, 101<br />
CORVINO, 86 sgg.<br />
CRESO, 95<br />
In<strong>di</strong>ce dei nomi<br />
CRISTO (ve<strong>di</strong> GESÙ), XXI, 100, 125, 170<br />
DAMIANO, 200 sgg.<br />
DAVÍDIEVNA, 177<br />
DECROLY OVIDE, XXXIX, 257<br />
DEMETRIO, 192‐193<br />
DEWEY JOHN, XXXVIII<br />
DINA, 233, 237, 248 sgg.<br />
ERODOTO, X, XXI<br />
ESOPO, X, XII<br />
FÀUSTOLO, 162‐163<br />
FED’KA, XXIV, XXXVI<br />
FILO DI LINO, XLII, 24 sgg.<br />
FILOMELA, XXI<br />
GALVANI, 224‐225<br />
GESÙ (ve<strong>di</strong> CRISTO), XXXI<br />
GHERASIM, 141, 142<br />
GIOVANNI, XXXI<br />
GIOVANNINO, 32‐33<br />
GOETHE JOHANN WOLFGANG, XXXIV<br />
GREENWOOD GRACE, XII<br />
GRIMM JACOB LUDWING KARL, XI, XVIII<br />
GRIMM WILHELM KARL, XI, XVIII<br />
HUANG‐CI, 23<br />
HUGO VICTOR, XI, XXIV, 257<br />
IERONE DI SIRACUSA, 192<br />
ITI, XXI<br />
IVÀN IL TERRIBILE, 100<br />
IVÀN KOLZÒV, 104 sgg.<br />
IVÀNIČ DON, XLIII, 58<br />
IVÀNIČ SCIAT, XLIII, 58
260<br />
KAZI‐MUHAMED, 234‐235<br />
KONDRASKA KOSTÝLIN, 141‐142<br />
LUPORINI MARIA BIANCA, XXII<br />
MAGNETE, 84<br />
MAMETKÚL, 103‐104, 106<br />
MARIETTA, 8, 20‐21<br />
MARIOLINA, 91 sgg.<br />
MATRIÒNA, 142<br />
MAKARENKO ANTON SEMËNOVIČ, XXXII,<br />
257<br />
MEDOLLA ELISA, VI, XI‐XII, XVII, XIX‐<br />
XX, XXVI sgg., XXXI sgg., XXXV,<br />
257<br />
MESCERIÀK, 105<br />
MICHELUCCIO, 17<br />
MIGNOLINO, XLV, 37 sgg.<br />
MIKULA, XX, 48, 256<br />
MILTON, XIV, XLV, 152 sgg., 158<br />
MONTGOLFIER, 215<br />
NAHIM, 31<br />
NEFIÒD, 139‐140<br />
NICOLA, 35<br />
NINO, 20‐21<br />
NUMITORE, 162‐163<br />
OROITES, 174<br />
PARÀSCIA, 29‐30<br />
PASQUETTA, 41 sgg.<br />
PETRÒV IVÀN, 53‐54<br />
PIAGET JEAN, XL, 257<br />
PERSEFONE, XX<br />
PIETRO III, 29<br />
PIETRO, 35<br />
PIETRO IL GRANDE, XX, XXII, XLIII, 70<br />
PIETRUCCIO, 20<br />
PIMEN DI TIMOTEO, 86 sgg.<br />
In<strong>di</strong>ce dei nomi<br />
PINO, 26‐7<br />
PLUTARCO, X, XXI<br />
PROGNE, XXI<br />
PROPP VLADIMIR JAKOVLEVIČ, XIII, 257<br />
PSAMMENITE, XXI, XLIV, 94‐95<br />
PUGACIÒV EMILIANO, XX, XXII, XLII, 31<br />
REMO, 162‐163<br />
ROMOLO, 162‐163<br />
ROSSEAU JEAN‐JACQUES, XXVIII<br />
RUMJANCEV, XVI<br />
SANTAMARIA EMILIA, XXIX, 258<br />
SANTOMAURO GAETANO, XXVI, XXXIII,<br />
257<br />
SELJANÍNOVIČ MIKÚLUSKA, 256<br />
SEMIÒNOV MAKAR, 167 sgg.<br />
SËMKA, XXIV<br />
SHAKESPEARE WILLIAM, XIX, 257<br />
SIBALDI IGOR, XXV sgg., 258<br />
SICILIANI DE CUMIS NICOLA, VI, XI, 257<br />
SI‐LING‐CI, 23<br />
SIMEONE, 92‐93<br />
STOPPOLONI AURELIO, XXVIII, 257<br />
STRÒGONOV, 100 sgg.<br />
SVJATAGÒR, 47‐48<br />
TAUZÍK, 103<br />
TEREO, XXI<br />
TOLSTAJA ALEKSANDRA ANDREEVNA, X<br />
TROFÍMOVNA ANNA, XXII, 29 sgg.<br />
ULJÀŠIN, 243<br />
VASUSA, XLIII, 78<br />
VISALBERGHI ALDO, XI<br />
VISPETTO, XXIX‐ XXX, 66 sgg.<br />
VOLGA, XLIII, 78<br />
VOLTA, 225‐226<br />
VOLPICELLI LUIGI, XVI, XXIX, 228
ZANDRINO UGO, XXI, 257<br />
ZECCHINO, 137‐138<br />
In<strong>di</strong>ce dei nomi 261<br />
ŽÍLIN, XVIII, 227 sgg.
Finito <strong>di</strong> stampare nel mese <strong>di</strong> febbraio 2007<br />
dal Centro Stampa Nuova Cultura, Roma