Una lingua che combatte - DSpace@Unipr
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La mia “sfiducia” non è sfiducia assoluta nell’uomo, ma nella società così<br />
com’è andata conformandosi. La religione e le ideologie scricchiolano e si<br />
conservano in piedi o con la forza o per ipocrisia. 26<br />
Il preticello è la figura più emblematica di questa sfiducia, rappresenta una poesia<br />
<strong>che</strong> non può proporre soluzioni nuove, ma <strong>che</strong> vuole testimoniare una piccola lezione di<br />
decenza contro l’irreligione dell’avere, in un mondo <strong>che</strong> sembra aver perduto il vero<br />
senso della solidarietà, del sostegno umano e spirituale. La sua speranza è per un Dio<br />
<strong>che</strong> deve venire, una deità mancante nel presente e sposata nel futuro:<br />
prego (e in ciò consiste<br />
– unica! – la mia conquista)<br />
non, come accomoda dire<br />
al mondo, perché Dio esiste:<br />
ma, come uso soffrire<br />
io, perché Dio esista.<br />
(Lamento (o boria) del preticello deriso, in Congedo…)<br />
La tensione verso un Dio <strong>che</strong> si sa bene <strong>che</strong> non c’è e <strong>che</strong> tuttavia si vuole <strong>che</strong> ci sia è<br />
un segno di quella resistenza della poesia contro l’inferno della quotidianità, <strong>che</strong> con la<br />
forza ottusa delle cose umilia ogni slancio nell’orizzontalità del tempo storico. 27<br />
Occorre prendere una posizione continuando caparbiamente a pregare un Dio da far<br />
esistere, per contrapporlo all’inaccettabile disumanità di un mondo <strong>che</strong> trova nel<br />
guadagno l’unico scopo della vita e nella violenza l’unico mezzo:<br />
Ho spesso avuto desiderio di Dio, come giustizia, remunerazione,<br />
garanzia. Ma è stato un desiderio sempre insoddisfatto. Dio, se c’è, è un dio<br />
serpente, un dio <strong>che</strong> non remunera, non redime. 28<br />
Ma non basta emendarsi nell’understatement, non è questo un modo per lavarsi le<br />
mani. Caproni nel Muro della terra patisce la sciagura storica an<strong>che</strong> nell’angoscia del<br />
26 Ibidem.<br />
27 Vengono in mente le parole con cui Calvino concludeva Le città invisibili: «L’inferno dei viventi non è<br />
qualcosa <strong>che</strong> sarà; se ce n’è uno, è quello <strong>che</strong> è già qui, l’inferno <strong>che</strong> abitiamo tutti i giorni, <strong>che</strong> formiamo stando<br />
insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino<br />
al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper<br />
riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (Italo Calvino, Le città<br />
invisibili, in Romanzi e racconti, vol. 2, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno<br />
Falcetto, Milano, Mondadori «i Meridiani»,1995, pp. 497-498).<br />
28 Giorgio Caproni, «Credo in un dio serpente», cit., intervista rilasciata a Stefano Giovanardi. Ma si legga an<strong>che</strong><br />
Divagazioni sul tradurre, in La scatola nera, cit., pp. 59-66, dove Caproni parla della poesia di André Frénaud: «Il<br />
suo religioso ateismo, ma soprattutto il suo stoicismo (a volte ironico, a volte addirittura sarcastico) nel rincorrere in<br />
moto perpetuo, come i suoi Re Magi la Stella, una speranza già negata sul nascere e comunque sempre fuggitiva, in<br />
una maratona resa ancor più spossante dalla coscienza <strong>che</strong> la Stella, appunto, è irraggiungibile, e <strong>che</strong> – come afferma<br />
uno dei tre Re nella chiusa del poème – insensato è per l’uomo, ma proprio per questo irresistibile, il richiamo:<br />
“Siamo persi… Ci han dato false informazioni. / Fin dall’inizio del viaggio. / Non ce n’era strada. Non ce n’è,<br />
luce…”».<br />
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