Una lingua che combatte - DSpace@Unipr
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In Ritorno il deittico “là” introduce la disarticolazione logico-spaziale di un io al quale non preesiste un passato o un luogo della memoria e di conseguenza è negata la salvezza del poter dire razionalmente la realtà. La poesia non può essere veggenza, ma solo rivelazione dell’evidenza negativa: il «bicchiere / mai riempito» è figura di quel vuoto che assedia la storia e che conduce all’annullamento di sé. Senza un diaframma tra lo sguardo e l’invenzione (finzione) poetica, tutto partecipa di una vita psichica che ne potenzia il significato in una dimensione surreale e metafisica. 3 Il disastro è allora qualcosa che è già stato e che si ripete attraverso il nonsense di affermazioni e negazioni. Il nostos si capovolge nel suo contrario e gli oggetti simultaneamente reali e irreali annullano la visione del presente in uno sguardo che viene meno, in un mancamento su cui si proietta un futuro di macerie: 4 Resteremo in pochi. Raccatteremo le pietre e ricominceremo. A voi, portare ora a finimento distruzione e abominio. Saremo nuovi. Non saremo noi. Saremo altri, e punto per punto riedificheremo il guasto che ora imputiamo a voi. (Palingenesi, in Il franco cacciatore) La poesia di Caproni tende a ridurre il proprio peso moltiplicandosi in testi brevi, risolti in uno scatto, in un effetto paradossale o in una corsa verso la fine, come se ci permettesse di mettere un piede dentro all’anticamera dell’apocalisse: le bianche figure vane che vanno… … le articolazioni morte del loro passo… … È certo Inseguendo 3 Cfr. Giacinto Spagnoletti, Il cammino di Caproni, in Poesia italiana contemporanea, Milano, Spirali, 2003, pp. 363-364. 4 Così EnricoTesta, Per interposta persona, cit., p. 81: «l’infinita ripetizione dell’uguale, che, se ridà vita a chi insegue la parola per proferirla, lo fa solo per avvolgerlo nuovamente nel suo vuoto». 78
che allora l’introvabile appare nel suo scomparire. (Passeggiata, in Il Conte di Kevenhüller) I tre libri che egli mette insieme tra il 1975 e il 1986 si presentano come partiture fatte di brevi lettere poetiche inviate dal deserto. Si è perso ogni significato sicuro e definitivo del mondo, e il pensiero del disastro non si pone come glossa marginale ad altri temi, ma diventa materia stessa del fare poetico, o, meglio ancora, antimateria. La poesia va cercata tagliando, ferendo, delimitando, nullificando, negando, fino alle estreme conseguenze della Res amissa: la cosa o il bene perduto, che è la parola e la vita. Il disastro si definisce nell’avvicinamento a quel male esistenziale che la filosofia ha presentato come la morte di Dio, la fine della solidità e oggettività del mondo, del linguaggio e della solidarietà civile. La ricerca si risolve nella cancellazione, la presenza nella sparizione: Ora dov’è, dov’è la bella compagnia d’allora – la gaia gente pronta a spartire il vino (il cuore) e l’amicizia? Io non vedo più niente. Solo scempio e nequizia. 2.3.1. Una calma disperazione (Arietta di rimpianto, in Il Conte di Kevenhüller) Già dal 1956 Caproni dà forma ad un pensiero che sarà destinato a fare sentire la sua eco, secondo infinite variazioni, anche nei decenni successivi: l’occhio s’è chiuso, e nel cuore la pena del futuro s’è aperta 79 (Sirena, in Il passaggio d’Enea) Chiusa ogni possibilità di uno sguardo positivo e conoscitivo, si delinea più precisamente il dolore dell’io poetico, come dolore esistenziale che riguarda il senso di un destino che non può essere cambiato. L’estrema consapevolezza viene raggiunta per
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Cfr. Giacinto Spagnoletti, Il cammino di Caproni, in Poesia italiana contemporanea, Milano, Spirali, 2003, pp.<br />
363-364.<br />
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Così EnricoTesta, Per interposta persona, cit., p. 81: «l’infinita ripetizione dell’uguale, <strong>che</strong>, se ridà vita a chi<br />
insegue la parola per proferirla, lo fa solo per avvolgerlo nuovamente nel suo vuoto».<br />
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