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28.05.2013 Views

tentativo di avvicinamento ad una realtà alternativa al tempo lineare dell’«effimero sole», verso quel limite in cui non c’è più il tempo, inteso come processo di evoluzione dalla natura alla storia, ma ci sono la natura, la fisicità, l’eros, in un insieme totale, simultaneo e circolare. In questo modo la scrittura à rebours di Penna può vincere la morte, o almeno può strappare al tempo quel poco che nelle poesie è detto: i versi riscrivono la vita, danno un’altra chance alla quotidianità umile e marginale dell’autore. Ne risulta un’immagine mentale di assoluta rêverie e speranza, 39 in cui gli oggetti, i paesaggi, i fanciulli escono dal loro tempo, per entrare in una dimensione sospensiva. Ciò che il desiderio fissa nella mente prende forma nel linguaggio della poesia, che ne esprime l’essenza e la claritas, la luminosità, ma anche la fragilità e il vuoto intorno. 39 Ancora Daniela Marcheschi, Sandro Penna fra poesia e prosa, in AA.VV., Sandro Penna. Una diversa modernità, cit., p. 111: «in Penna è proprio la Natura, la potenza del suo essere corporalmente in atto, la presenza del desiderio e del piacere carnale a farsi tempo, perciò a divenire coscienza di esso nel ricordo. La natura assume su di sé la storia e non viceversa». E sempre di Daniela Marcheschi si legga anche Sandro Penna. Corpo, tempo e narratività, cit., p. 30: «Al “primitivo” Penna non sarebbe quindi interessata la dimensione ideologica, una rivisitazione razionale astratta della realtà, condotta secondo criteri prestabiliti, ma piuttosto abitare un preciso tipo di tempo, tutto speciale: quello ciclico e cosmico del corpo, della pendolarità senza scampo fra piacere e dolore, possesso e perdita ineluttabile della vita; e quello del ritorno del medesimo proprio del bisogno naturale o desiderio». 76

2.3. GIORGIO CAPRONI: LA «PENA DEL FUTURO» Il pensiero del disastro attraversa come un fiume carsico l’opera di Giorgio Caproni, per affiorare secondo due direttive complementari: da una parte le poesie sono le macerie di un day after tanto grottesco quanto politicamente attuale, sono i prodotti residuali di un’apocalisse che non ammette palingenesi; dall’altra sono esse stesse lo strumento e l’origine della fine del mondo, percorrono «l’orlo del disastro», per dirla con Blanchot, in un instabile equilibrio tra ciò che è già avvenuto e ciò che deve ancora accadere: Noi siamo sull’orlo del disastro senza che lo si possa situare nell’avvenire: esso è piuttosto sempre già passato, e tuttavia ne siamo sull’orlo e sotto la minaccia, espressioni, queste, che implicherebbero tutte l’avvenire se il disastro non fosse ciò che non viene. 1 A partire dal Muro della terra e attraverso versi scabri ed essenziali tale pensiero dà forma a scenari di frontiera, a non-luoghi di perdizione e transito che tracciano i contorni di una «guerra / d’unghie» (Anch’io) condotta con la «coscienza del carattere erosivo del segno». 2 L’io è una presenza ambigua, che assume le forme più disparate e scava dentro di sé rinvenendo quegli oggetti destinati a diventare concretizzazioni della propria condizione esistenziale: Sono tornato là dove non ero mai stato. Nulla, da come non fu, è mutato. Sul tavolo (sull’incerato a quadretti) ammezzato ho ritrovato il bicchiere mai riempito. Tutto è ancora rimasto quale mai l’avevo lasciato. 77 (Ritorno, in Il muro della terra) 1 Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, Milano, SE, 1990, p. 11, e prosegue «Non sarai tu a parlare; lascia parlare in te il disastro, non importa se attraverso l’oblio o il silenzio» e poi ancora «Altri si rapporta a me come se io fossi l’Altro e mi fa allora uscire dalla mia identità, opprimendomi sino all’annientamento, allontanandomi, sotto la pressione di un’infinita prossimità, dal privilegio di essere in prima persona». 2 Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999, p. 79.

2.3.<br />

GIORGIO CAPRONI:<br />

LA «PENA DEL FUTURO»<br />

Il pensiero del disastro attraversa come un fiume carsico l’opera di Giorgio Caproni,<br />

per affiorare secondo due direttive complementari: da una parte le poesie sono le<br />

macerie di un day after tanto grottesco quanto politicamente attuale, sono i prodotti<br />

residuali di un’apocalisse <strong>che</strong> non ammette palingenesi; dall’altra sono esse stesse lo<br />

strumento e l’origine della fine del mondo, percorrono «l’orlo del disastro», per dirla<br />

con Blanchot, in un instabile equilibrio tra ciò <strong>che</strong> è già avvenuto e ciò <strong>che</strong> deve ancora<br />

accadere:<br />

Noi siamo sull’orlo del disastro senza <strong>che</strong> lo si possa situare<br />

nell’avvenire: esso è piuttosto sempre già passato, e tuttavia ne siamo<br />

sull’orlo e sotto la minaccia, espressioni, queste, <strong>che</strong> impli<strong>che</strong>rebbero tutte<br />

l’avvenire se il disastro non fosse ciò <strong>che</strong> non viene. 1<br />

A partire dal Muro della terra e attraverso versi scabri ed essenziali tale pensiero dà<br />

forma a scenari di frontiera, a non-luoghi di perdizione e transito <strong>che</strong> tracciano i<br />

contorni di una «guerra / d’unghie» (Anch’io) condotta con la «coscienza del carattere<br />

erosivo del segno». 2 L’io è una presenza ambigua, <strong>che</strong> assume le forme più disparate e<br />

scava dentro di sé rinvenendo quegli oggetti destinati a diventare concretizzazioni della<br />

propria condizione esistenziale:<br />

Sono tornato là<br />

dove non ero mai stato.<br />

Nulla, da come non fu, è mutato.<br />

Sul tavolo (sull’incerato<br />

a quadretti) ammezzato<br />

ho ritrovato il bicchiere<br />

mai riempito. Tutto<br />

è ancora rimasto quale<br />

mai l’avevo lasciato.<br />

77<br />

(Ritorno, in Il muro della terra)<br />

1 Maurice Blanchot, La scrittura del disastro, Milano, SE, 1990, p. 11, e prosegue «Non sarai tu a parlare; lascia<br />

parlare in te il disastro, non importa se attraverso l’oblio o il silenzio» e poi ancora «Altri si rapporta a me come se io<br />

fossi l’Altro e mi fa allora uscire dalla mia identità, opprimendomi sino all’annientamento, allontanandomi, sotto la<br />

pressione di un’infinita prossimità, dal privilegio di essere in prima persona».<br />

2 Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999, p. 79.

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