Una lingua che combatte - DSpace@Unipr
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paradossale, che non si apre al futuro ma a una reversibilità prospettica che può trasmettere solo una conoscenza imperfetta: Ma la distorsione del tempo il corso della vita deviato su false piste l’emorragia dei giorni del varco del corrotto intendimento (Vittorio Sereni, Quei bambini che giocano, in Gli strumenti umani) Sono già morto e qui torno? O sono il solo vivo nella vivida e ferma nullità di un ricordo? (Vittorio Sereni, Di passaggio, in Gli strumenti umani) La poesia di Caproni e Sereni si trova sempre più spesso a rappresentare lo scacco dell’io rispetto al tempo, senza risolvere (o risolvendo dolorosamente e negativamente) il rapporto tra passato, presente e futuro. La precarietà del tempo diviene precarietà della percezione e sua rappresentazione nella poesia: Non vorrai dirmi che tu sei tu o che io sono io. Siamo passati come passano gli anni. Altro di noi non c’è qui che lo specimen anzi l’imago perpetuantesi a vuoto – e acque ci contemplano e vetrate, ci pensano al futuro: capofitti nel poi, postille sempre più fioche multipli vaghi di noi quali saremo stati. (Vittorio Sereni, Altro posto di lavoro, in Stella variabile) A questa crisi aveva cercato di rispondere Caproni con Il seme del piangere, in cui al ricordo e alla memoria si sostituisce la finzione creatrice di un passato che preesiste all’io poetico e che non si sovrappone al presente, ma vi si sostituisce temporaneamente attraverso il dono miracoloso della riscrittura. La parola si fa emozione alternativa alla realtà propriamente detta, e reinventa se stessa insieme alla madre e alla città («Livorno, tutta invenzione», Né ombra né sospetto): l’utopia trova spazio nella libertà di una vita immaginaria che precede le rovine. Per salvare dalla catastrofe ciò che ha di più caro l’io capovolge la propria natura nella metamorfosi da figlio a fidanzato: Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 144: «La memoria non ha corrispondenze con il presente della propria biografia, in quanto non è “divinazione”, non è (più) il pensiero che apre la strada a ciò che deve venire». 30
Anche se io, così vecchio, non potrò darti mano, tu mórmorale all’orecchio (più lieve del mio sospiro, messole un braccio in giro alla vita) in un soffio ciò ch’io e il mio rimorso, pur parlassimo piano, non le potremmo mai dire senza vederla arrossire. Dille chi ti ha mandato: suo figlio, il suo fidanzato. D’altro non ti richiedo. Poi, va’ pure in congedo. (Giorgio Caproni, Ultima preghiera, in Il seme del piangere) Il fallimento è inevitabile e in quella dimensione fuori dal flusso temporale l’io non può trovare nessuna salvezza. Il tempo sospeso oltre i limiti della memoria, nell’incanto di una parola poetica creatrice, attraverso la fantasia e la finzione («sii magra e sii poesia / se vuoi essere vita», Battendo a macchina), si deve confrontare con il presente in cui si profilano le ombre luttuose del futuro. Il tempo perduto, che l’imperfetto indicativo sembrava aver recuperato e salvato dalla distruzione, viene sostituito da un presente che rompe l’incanto che la fantasia poetica aveva permesso momentaneamente di sfiorare: Annina è nella tomba, Annina ormai è un’ombra. (Giorgio Caproni, Epilogo, in Il seme del piangere) Il presente è il tempo della morte, prima presentita poi subita come evento intimo (la scomparsa della madre) e collettivo (l’annunciarsi della guerra); è il tempo del transito verso un futuro, non solo incerto, ma negativo e senza speranza. Nel Congedo diventa chiara l’impossibilità di quel recupero e si sgretola l’illusione del ritorno: Sono stato là dove non si può tornare. Tutto è come fu. C’è il mare ancora, che pare penetrare l’asfalto (par trasparire - nel nero - dalle rose delle facciate), e ancora verde c’è l’Orologio, fermo - con Giano - sulla stessa ora. (Giorgio Caproni, Toba, in Congedo del viaggiatore cerimonioso) 31
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paradossale, <strong>che</strong> non si apre al futuro ma a una reversibilità prospettica <strong>che</strong> può<br />
trasmettere solo una conoscenza imperfetta:<br />
Ma la distorsione del tempo<br />
il corso della vita deviato su false piste<br />
l’emorragia dei giorni<br />
del varco del corrotto intendimento<br />
(Vittorio Sereni, Quei bambini <strong>che</strong> giocano, in Gli strumenti umani)<br />
Sono già morto e qui torno?<br />
O sono il solo vivo nella vivida e ferma<br />
nullità di un ricordo?<br />
(Vittorio Sereni, Di passaggio, in Gli strumenti umani)<br />
La poesia di Caproni e Sereni si trova sempre più spesso a rappresentare lo scacco<br />
dell’io rispetto al tempo, senza risolvere (o risolvendo dolorosamente e negativamente)<br />
il rapporto tra passato, presente e futuro. La precarietà del tempo diviene precarietà<br />
della percezione e sua rappresentazione nella poesia:<br />
Non vorrai dirmi <strong>che</strong> tu<br />
sei tu o <strong>che</strong> io sono io.<br />
Siamo passati come passano gli anni.<br />
Altro di noi non c’è qui <strong>che</strong> lo specimen<br />
anzi l’imago perpetuantesi<br />
a vuoto –<br />
e acque ci contemplano e vetrate,<br />
ci pensano al futuro: capofitti nel poi,<br />
postille sempre più fio<strong>che</strong><br />
multipli vaghi di noi quali saremo stati.<br />
(Vittorio Sereni, Altro posto di lavoro, in Stella variabile)<br />
A questa crisi aveva cercato di rispondere Caproni con Il seme del piangere, in cui al<br />
ricordo e alla memoria si sostituisce la finzione creatrice di un passato <strong>che</strong> preesiste<br />
all’io poetico e <strong>che</strong> non si sovrappone al presente, ma vi si sostituisce temporaneamente<br />
attraverso il dono miracoloso della riscrittura. La parola si fa emozione alternativa alla<br />
realtà propriamente detta, e reinventa se stessa insieme alla madre e alla città («Livorno,<br />
tutta invenzione», Né ombra né sospetto): l’utopia trova spazio nella libertà di una vita<br />
immaginaria <strong>che</strong> precede le rovine. Per salvare dalla catastrofe ciò <strong>che</strong> ha di più caro<br />
l’io capovolge la propria natura nella metamorfosi da figlio a fidanzato:<br />
Giorgio Caproni e di Vittorio Sereni, cit., p. 144: «La memoria non ha corrispondenze con il presente della propria<br />
biografia, in quanto non è “divinazione”, non è (più) il pensiero <strong>che</strong> apre la strada a ciò <strong>che</strong> deve venire».<br />
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