Una lingua che combatte - DSpace@Unipr
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funzione, restando come relitti dopo la distruzione. Si moltiplicano le immagini residuali dell’«uomo ombra» e dei «brandelli di Dio»: Nessun’acqua stellare sull’incaglio del nero. Nessun soffio d’ali. Che cosa può mai acquistare cadenza, fra i simulacri d’alberi (di cattedrali?), se anche l’uomo ombra è fumo nel fumo – asparizione? In aria tutto un brulichio di punti neri… Lettere stracciate?... (Giorgio Caproni, Controcanto in Il Conte di Kevenhüller) Uccelli?... O – forse – soltanto dispersi brandelli (gli ultimi) di Dio?... (Giorgio Caproni, Alzando gli occhi, in Res amissa) Ciò che può essere tracciato è il segno che ne resta, un segno incompiuto e indiretto, ma anche estremo. Si definisce così l’unica forma di utopia possibile per Caproni, quella di scrivere «poesie di una sola parola»; 43 il che non ha tuttavia i caratteri dell’immediatezza, bensì quelli dell’ansia analitica e psicologica. La parola tradotta, cioè proveniente dall’altrove (da un «codice disperso» secondo il Sereni di Un posto di vacanza) si pone per Caproni come realtà che la poesia non definisce, ma “agisce” sul foglio, portandone alla luce la fragilità ma anche l’estrema negatività dell’evidenza: 44 La Bestia che ti vivifica e uccide… …… Io solo, con un nodo in gola, 43 Si legga Giorgio Caproni, «Credo in un dio serpente», intervista rilasciata a Stefano Giovanardi, cit., p. 426: «Il mio ideale sarebbe di scrivere poesie di una sola parola». 44 Cfr. Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, cit., p. 255: «E così come, diversamente da quanto accadeva nella poesia ermetica, ove la parola era fatta accampare, isolata e assoluta, nella sua valenza rivelativa dell’arcano e dell’ineffabile, nell’ultima stagione della sua poesia, la parola di Caproni, vacillante al limite del precipizio (quelle parole nel bianco, in attesa di rima, anche imperfetta, o di una assonanza cui aggrapparsi), è fatta vivere come una forza e un assoluto pur nella sua precarietà e nella sua esilità». 194
sapevo. È dietro la Parola. (Giorgio Caproni, Io solo, in Il Conte di Kevenhüller) La parola che esaurisce se stessa, da un lato, ma che, dall’altro, continua a vibrare nell’inesauribile variazione dei temi ricorrenti, si compone di contraddizioni, riconoscimenti e allontanamenti, coincidenze e separazioni, ricerche e sparizioni, che si perpetuano, semplicemente cambiando forma. Si concretizza a livello quasi figurativo l’abbandono di ogni forma metrica, rimpiazzata da una strutturazione informale che procede per frantumazioni, in cui il rapporto tra l’io e la realtà o è assente o viene ridotto ad un gioco di specchi: Quello che tu, mio vecchio, scorgi oltre frontiera è quanto è qua. La barriera – non te ne accorgi? – è uno specchio. (Giorgio Caproni, La barriera, in Res amissa) Lo spazio è frontiera, limite invalicabile, barriera-specchio, che segna la separazione, l’impossibilità della speranza. L’immagine riflessa, lungi dal trasformarsi in visione dell’interiorità, diventa abdicazione dell’io. La lingua non è più logos, ma luogo di menzogna e ambiguità, doppiezza che dimezza, che, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, anziché favorire la comprensione di una realtà condivisa, ha come effetto quello di produrre un vuoto di senso, l’incapacità di andare in profondità. Sereni rompe lo «specchio ora uniforme e immemore» dell’imitazione e cerca una verità ulteriore, una possibilità di interpretazione; Caproni vede in questo specchio una barriera invalicabile, che cambia l’oltre nel «quanto è qua». Non c’è apertura al futuro, perché se guardare avanti è in realtà un vedere ciò che sta alle nostre spalle, ogni approdo è un ritorno, la ricerca una perdita, l’inseguito è l’inseguitore, il qui è già altrove, e il vero problema è quello ontologico: Il Nulla, spiegano, è il «non essere». E allora, come può, allora, «essere» il «non essere»? (Giorgio Caproni, Pierineria, in Res amissa) 195
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Ciò <strong>che</strong> può essere tracciato è il segno <strong>che</strong> ne resta, un segno incompiuto e indiretto, ma<br />
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43 Si legga Giorgio Caproni, «Credo in un dio serpente», intervista rilasciata a Stefano Giovanardi, cit., p. 426: «Il<br />
mio ideale sarebbe di scrivere poesie di una sola parola».<br />
44 Cfr. Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, cit., p. 255: «E così come, diversamente da quanto<br />
accadeva nella poesia ermetica, ove la parola era fatta accampare, isolata e assoluta, nella sua valenza rivelativa<br />
dell’arcano e dell’ineffabile, nell’ultima stagione della sua poesia, la parola di Caproni, vacillante al limite del<br />
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vivere come una forza e un assoluto pur nella sua precarietà e nella sua esilità».<br />
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