Una lingua che combatte - DSpace@Unipr
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esistergli, ma difende anche da una realtà che nasconde un concentrato distruttivo totalizzante. Il rapporto tra io e natura si propone di interpretare il presente, non di ignorarlo o negarlo. 25 In una poesia del 1984 (La prossima abolizione della natura), poi inclusa, con altro titolo, in Composita solvantur, è lei a fornire ancora al poeta protezione e difesa contro l’assedio del vuoto, proponendosi come un mondo di ideali sfinito e vinto (come le utopie), ma in qualche modo salvifico: Le piccole piante mi vengono incontro e mi dicono: «Tu, lo sappiamo, nulla puoi fare per noi. Ma se vorrai entreremo nella tua stanza, rami e radici fra le carte avranno scampo». Ho detto di sì a quella loro domanda e il gregge di foglie ora è qui che mi guarda. Con le foreste riposerò e le erbe sfinite, vinte innumerabili armate che mi difendono. (Franco Fortini, Le piccole piante…, in Composita solvantur) Sebbene in questi versi si celi un sentimento semplice di appartenenza, di «solidarietà reciproca tra passati, presenti e futuri, e tra ordini e classi biologiche ed esistenziali», 26 il problema rimane: una volta fattane esperienza, il limite mette in discussione il nostro stesso essere nel mondo, ai confini del nulla. Il desiderio di coincidenza si svolge in una doppia dinamica di fissione e fusione, composizione e dissoluzione, per cui accanto al carattere onnicomprensivo della natura, si pone, in maniera problematica, la bi-logica ambigua e sfuggente del rapporto tra l’io e il mondo, nel riflesso che ci definisce e ci sgomenta. 27 Allo stesso tempo le piante, come «allegoria dell’alterità», 28 segnano sì la distanza, ma anche la prossimità di tutto ciò che non rimane irrelato e che acquista un significato nell’uomo e per l’uomo. Questo pensiero può trovare il suo giusto completamento se consideriamo altre immagini che esemplificano la lotta contro la cancellazione totale (l’abolizione, appunto): in Una facile allegoria (Poesia e errore) il «pezzo di legno secco», è «calore futuro, disgregata vivezza», perché scalderà l’uomo nei mesi invernali. Il tempo grande dell’evoluzione, sebbene appaia come un tempo 25 Tale prospettiva va dialetticamente integrata con quanto scrive Mengaldo: «la natura stessa, che occupa sempre più la poesia del Fortini anziano, non è tanto un’antistoria quanto, a guardar bene, un antipresente» (Pier Vincenzo Mengaldo, Per Franco Fortini, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit., p. 265). 26 Così Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p. 121. 27 Così Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, cit., p. 97: «quel che conta è che manca la volontà d’immedesimazione romantica con la natura: la natura resta “altra” in Fortini; il bosco è definitivamente lontano». 28 Ibidem. 188
infinito, non aspira a negare la morte, anzi, nell’ossimoro «disgregata vivezza» si concentra tutto il senso: la materia si disgrega e si rigenera in continuazione e di questo ciclo entra a far parte anche l’uomo, che partecipa della stessa sostanza («diverremo realtà compatte leggere, arderemo»). 29 Nell’allegoria io e mondo sono interagenti, il destino individuale e quello generale possono essere compresi solo se considerati parte di uno stesso sistema. La parola è contemporaneamente elemento fisico e psicologico, é logos del libro della natura, che «tutta tramuterà questa sostanza», ma è anche la poesia, che cambia la sostanza del reale rendendolo interpretabile (è il senso primo dell’allegoria), è dunque la «sillaba luminosa» (in contrasto con la «lingua non più sua» di chi «annera carte»), in cui si rispecchia la molteplicità e la complementarità delle esistenze. 30 In Un’altra allegoria (Questo muro) si riprende l’idea del ciclo inesauribile, che lega il destino dell’uomo a quello della natura, nella doppia immagine del «ramo ebete già primaverile» e del «ramo, che morì». Lo snodo centrale della comprensione sta nel doppio movimento della mente che «nega e ragiona» per trovare la verità: il destino del ramo racchiude in sé il senso ultimo di tutte le cose, ovvero è figura della totalità a cui costantemente guarda il pensiero di Fortini. Il giovane ramo è ebete perché non è cosciente della relazione che lega il suo destino a quello del ramo morto, mentre quest’ultimo sa che «è un vivace saluto l’addio», perché c’è una continuità tra la sua morte e il nuovo ramo germogliato con la primavera. Ecco allora che Le piccole piante, le piante giovani (altra figura dell’erede, cioè del venturo), esprimo la consapevolezza che un tale sapere custodisce la salvezza; sapere e salvezza che si raggiungono solo «tra le carte», ossia nella poesia che ragiona dialetticamente per negazioni e contrapposizioni: solo considerando l’essenza generale mediata da una forma particolare si può cogliere il nesso tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Nel pensiero che diventa parola ciò che è complesso si fa dicibile e rappresentabile attraverso forme semplici, il senso del mondo può schiudersi in una rosa, o in un ramo. Anziché assistere ad un moltiplicarsi degli emblemi della divisione e dell’annullamento di ogni rapporto positivo, Fortini guarda alla complementarità tra l’io e il mondo: l’uno 29 Come ha scritto Lenzini «la poesia trova il suo senso nella fine, così come il “pezzo di legno” nel fuoco» (Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, cit., p. 113). 30 E secondo Fortini bisognerà «evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia di credere che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. […] Un al di là dell’uomo può essere solo un al di là dell’uomo presente, non quello della specie. […] Fino al punto di saper leggere e interpretare nel libro del nostro medesimo corpo tutto quel che gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo, le tracce del passaggio della specie umana sopra una terra che non lascerà traccia» (Franco Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci, cit., p. 42). 189
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ignorarlo o negarlo. 25 In una poesia del 1984 (La prossima abolizione della natura), poi<br />
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protezione e difesa contro l’assedio del vuoto, proponendosi come un mondo di ideali<br />
sfinito e vinto (come le utopie), ma in qual<strong>che</strong> modo salvifico:<br />
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«Tu, lo sappiamo, nulla puoi fare per noi.<br />
Ma se vorrai entreremo nella tua stanza,<br />
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Ho detto di sì a quella loro domanda<br />
e il gregge di foglie ora è qui <strong>che</strong> mi guarda.<br />
Con le foreste riposerò e le erbe sfinite,<br />
vinte innumerabili armate <strong>che</strong> mi difendono.<br />
(Franco Fortini, Le piccole piante…, in Composita solvantur)<br />
Sebbene in questi versi si celi un sentimento semplice di appartenenza, di «solidarietà<br />
reciproca tra passati, presenti e futuri, e tra ordini e classi biologi<strong>che</strong> ed esistenziali», 26<br />
il problema rimane: una volta fattane esperienza, il limite mette in discussione il nostro<br />
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doppia dinamica di fissione e fusione, composizione e dissoluzione, per cui accanto al<br />
carattere onnicomprensivo della natura, si pone, in maniera problematica, la bi-logica<br />
ambigua e sfuggente del rapporto tra l’io e il mondo, nel riflesso <strong>che</strong> ci definisce e ci<br />
sgomenta. 27 Allo stesso tempo le piante, come «allegoria dell’alterità», 28 segnano sì la<br />
distanza, ma an<strong>che</strong> la prossimità di tutto ciò <strong>che</strong> non rimane irrelato e <strong>che</strong> acquista un<br />
significato nell’uomo e per l’uomo. Questo pensiero può trovare il suo giusto<br />
completamento se consideriamo altre immagini <strong>che</strong> esemplificano la lotta contro la<br />
cancellazione totale (l’abolizione, appunto): in <strong>Una</strong> facile allegoria (Poesia e errore) il<br />
«pezzo di legno secco», è «calore futuro, disgregata vivezza», perché scalderà l’uomo<br />
nei mesi invernali. Il tempo grande dell’evoluzione, sebbene appaia come un tempo<br />
25 Tale prospettiva va dialetticamente integrata con quanto scrive Mengaldo: «la natura stessa, <strong>che</strong> occupa sempre<br />
più la poesia del Fortini anziano, non è tanto un’antistoria quanto, a guardar bene, un antipresente» (Pier Vincenzo<br />
Mengaldo, Per Franco Fortini, in La tradizione del Novecento. Quarta serie, cit., p. 265).<br />
26 Così Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p. 121.<br />
27 Così Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, cit., p. 97: «quel <strong>che</strong> conta è <strong>che</strong><br />
manca la volontà d’immedesimazione romantica con la natura: la natura resta “altra” in Fortini; il bosco è<br />
definitivamente lontano».<br />
28 Ibidem.<br />
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