Una lingua che combatte - DSpace@Unipr
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fa oracolare. Per abolire «lo stato di cose presente» l’autore deve porsi in una dimensione che sia già al di fuori, tra gli «spiriti curiosi in ascolto», da cui guardare alla vita con la sicurezza di chi ha rotto i legami con la norma e può vedere le cose libero dai condizionamenti della società. In questo senso si può interpretare la differenza linguistica tra il parlato estremamente colloquiale e abbassato di tono che troviamo in La spiaggia di Sereni e la lingua dalla «fermezza classica» 40 della poesia di Fortini, che vuole affermare delle verità «prima del sonno» della ragione. Lo sguardo si volge ai limiti stessi della parola poetica, agli ostacoli che essa incontra nel suo cammino: «Tutto è diventato gravemente oscuro», e «La verità cade fuori dalla coscienza», quindi «Non sapremo se avremo avuto ragione». Al presente si sostituisce il futuro anteriore, un futuro che in qualche modo è già stato, e che complica la dialettica tra ciò che è già e il non ancora. Attraverso una dimensione sfaccettata si anticipa un tempo diverso, in cui convivono il prima e il dopo, il passato, certo, ma anche il “futuro del futuro”, il “dopo futuro”, perché anch’esso è solo una tappa di un processo che non si esaurisce. Sottratta dunque alle forme più rigide del tempo e dell’essere che ingabbiano il reale, ridotta a puro pensiero, la scrittura stessa si rivela in tale necessaria spoliazione: 41 «Nulla che prima non sia perduto ci serve», scrive Fortini, indicando nella disappropriazione l’unica via per osservare la realtà senza infingimenti. Egli sembra volersi soprattutto liberare dalla percezione dei sensi, per attingere a una dimensione di pensiero e intelletto assoluti, che possano resistere a quel «Tutto» che è «divenuto gravemente oscuro». Il centro della poesia, anche a livello formale, è costituito dall’avversativa «Ma guarda», che lungi dall’introdurre nel dominio della vista, apre lo spazio della visione di dell’orizzonte immediato sono però la premessa di un movimento di natura diversa». Mi sovvengono, per contrasto alcuni versi dell’Idrometra di Giorgio Caproni, in cui si esprime un massimo grado di sfiducia nel futuro: «Di noi, testimoni del mondo, / tutte andranno perdute / le nostre testimonianze». L’atteggiamento di Fortini manifesta invece un intento testamentario, che è stato così descritto da Giovanni Raboni: «per non avallare il presente, che gli ripugna (e dunque, fra l’altro, per non accettare di rivolgersi, come tutti i poeti moderni, soltanto a se stesso), Fortini immagina (vuole immaginare) di rivolgersi ai posteri, che, in un futuro liberato, leggeranno i suoi versi. È chiaro che il futuro grammaticale è solo un sintomo – una spia appunto – di questa volontà. Fortini, in un certo senso, diventa egli stesso quei posteri; ne prefigura e ne adotta il punto di vista; ne simula il distacco, il raccapriccio, l’ironica comprensione, la fredda pietà» (Giovanni Raboni, La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004, cit., p. 259). 40 Romano Luperini, Il futuro di Fortini, cit., p. 16: «il classicismo è assunto […] non come innocenza o evasione o ricerca di purezza, ma, tutt’al contrario, per far stridere passato e presente e per tale via ellitticamente parlare del futuro». E si legga anche Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, cit., pp. 199- 202. 41 Cfr. Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi. Una difesa della poesia, cit., p. 85: «Credo che fosse per lui il modo di osservare il precetto del suo amato Kafka, secondo cui per scrivere è prima necessario perdere tutto. E appunto qui, nell’assenza di una diretta relazione sensibile con la realtà circostante nella solitudine di chi non possiede più nulla per sé, va trovata la percezione originaria delle cose da parte di Fortini. Una percezione del pensiero, dunque, piuttosto che dei sensi». 168
ciò che avverrà, ma che è già realtà agli occhi della mente di Fortini, che osserva da una dimensione altra della storia, e supera i limiti del reale (inteso come insieme di percezioni sensibili). 42 Il significato non è limitato alla contemporaneità della scrittura, ma si rivolge soprattutto a chi prenderà il nostro posto («già stendono le loro stuoie / attraverso la tua stanza»), a chi stabilirà nuove regole, forse anche una nuova concezione del bene e del male («distribuiscono le loro masserizie», «spartiscono il loro bene»): a tutti coloro che verranno dopo di noi la «nostra verità» si offrirà come cibo e nutrimento. Nella contemplazione delle sorti dell’uomo tutto tende verso un punto limite in cui il presente è figura del futuro, ma simultaneamente lo sguardo si immerge nella profondità storica e mitica di un tempo lontanissimo. In questo processo dinamico dei tempi dentro al tempo gioca un ruolo centrale quel meccanismo poetico, che Mandel’štam chiamava reversibilità o retrovertibilità, per cui, come in un ciclo continuo, il passato produce i suoi effetti sul presente e questo sul futuro. Per Fortini la reversibilità si sviluppa in senso etico e politico, poiché «ognuno di noi è composto di morti e di venturi, dunque attraversato da una corresponsabilità universale», 43 in cui «la scala di valori per la quale si agisce nel presente trova la sua legittimità»: 44 Anassagora giunse ad Atene che aveva da poco passati i trent’anni. Era amico d’Euripide e Pericle. Parlava di meteore e arcobaleni. Ne resta memoria nei libri. Si ascolti però quel che ora va detto. Anche la grandissima Unione Sovietica e la Cina esistono, o l’Africa; e le radio ogni notte ne parlano. Ma per noi, per noi che poco da vivere ci resta, che cosa sono l’Asia immensa, il tuono dei popoli e i meravigliosi nomi degli eventi, se non figure, simboli dei desideri immutabili dolorosi? Eppure – si ascolti ancora – i desideri immutabili dolorosi che mordono il cuore nei sonni 42 Si potrebbe parlare di insofferenza nei confronti della realtà (Cfr. Giovanni Raboni, La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004, cit., p. 258). Si legga anche Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi. Una difesa della poesia, cit., p. 86: «Fortini vede il qui soltanto in relazione al là, l’adesso in relazione al poi, il nunc al tunc, come un eretico di una religione della storia. A suo modo vede doppio, stravede per eccesso di pensiero». 43 Franco Fortini, Di tutti a tutti, in L’ospite ingrato secondo, ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 1073. Ma si legga anche Franco Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di Paolo Jachia, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 45. 44 Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p. 16. 169
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ciò <strong>che</strong> avverrà, ma <strong>che</strong> è già realtà agli occhi della mente di Fortini, <strong>che</strong> osserva da una<br />
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ma si rivolge soprattutto a chi prenderà il nostro posto («già stendono le loro stuoie /<br />
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bene»): a tutti coloro <strong>che</strong> verranno dopo di noi la «nostra verità» si offrirà come cibo e<br />
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Nella contemplazione delle sorti dell’uomo tutto tende verso un punto limite in cui il<br />
presente è figura del futuro, ma simultaneamente lo sguardo si immerge nella profondità<br />
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al tempo gioca un ruolo centrale quel meccanismo poetico, <strong>che</strong> Mandel’štam chiamava<br />
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suoi effetti sul presente e questo sul futuro. Per Fortini la reversibilità si sviluppa in<br />
senso etico e politico, poiché «ognuno di noi è composto di morti e di venturi, dunque<br />
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Era amico d’Euripide e Pericle.<br />
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un cavaliere Jedi. <strong>Una</strong> difesa della poesia, cit., p. 86: «Fortini vede il qui soltanto in relazione al là, l’adesso in<br />
relazione al poi, il nunc al tunc, come un eretico di una religione della storia. A suo modo vede doppio, stravede per<br />
eccesso di pensiero».<br />
43 Franco Fortini, Di tutti a tutti, in L’ospite ingrato secondo, ora in Saggi ed epigrammi, cit., p. 1073. Ma si<br />
legga an<strong>che</strong> Franco Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di Paolo Jachia, Roma, Editori Riuniti, 1991,<br />
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44 Paolo Jachia, Franco Fortini. Un ritratto, cit., p. 16.<br />
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