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28.05.2013 Views

iconoscimento, dentro di sé, di un male storico e assoluto, calato nella vita di tutti i giorni (come poi accadrà in Sarà la noia). Nella prima strofa tale movimento appare caratterizzato dall’esitazione, dal dubbio, dalla sospensione, dall’opposizione dei significati: un continuo andirivieni, un avanti e indietro tra affermazioni e negazioni, che genera una sorta di illusione prospettica al limite tra realtà ed eventualità, proiettata verso una nuova consapevolezza di sé. 81 Per Sereni la poesia è una «battaglia di immagini», 82 e questo testo ne è un esempio: esso è costellato da una serie di elementi ipotetici che dicono una realtà incerta, tenuti insieme da una fitta rete di riprese e ripetizioni («Si ravvivassero», «sembrano ravvivarsi», «non si ravvivano», «si è ravvivata»; «Purché si avesse», «Purché si avesse una storia comunque», «Purché si avesse una storia squisita»), come se l’autore cercasse di riempire il vuoto dichiarato nel titolo attraverso l’eco delle sue parole, che stabiliscono un rapporto diretto tra io e natura («io veggente di colpo nella lenta schiarita») e poi tra natura e storia (l’«aria di pioggia» e la «lenta schiarita» da una parte, la «storia squisita tra le svastiche» dall’altra): il minimo fenomeno naturale (l’«aria di pioggia»), una vaga minaccia climatica, si trasforma successivamente in disastro storico e psicologico. In questo gioco di specchi e di contrari si inserisce anche la «ressa […] di margherite e ranuncoli»: i fiori rappresentano sia la possibilità di rigenerazione della natura, sia tutti quegli ideali e dolori, di cui la storia è piena e che sembrano per un attimo illuminare la realtà interiore. Margherite e ranuncoli non sono però lì a suggerire una possibile evasione verso uno sfondo ideale di campagna e di chiare, fresche e dolci acque: sono «là fuori», mentre il poeta si trova all’interno della casa vuota. In questa spazialità irrisolta, abbozzata nei termini estremi di esterno e interno, si concentra tutto il dolore esistenziale per la separazione, il disaccordo tra ciò che si è e la possibilità di un destino diverso (il «Si ravvivassero» dell’incipit, o il «Purché si avesse»). 81 Così scrive Mengaldo in La spiaggia di Vittorio Sereni, in AA.VV., Come leggere la poesia italiana del Novecento, a cura di Stefano Carrai e Francesco Zambon, Milano, Neri Pozza, 1997, p. 90: «[…] si può dire che viaggi e transiti (anche mentali) sono in Sereni di due tipi fondamentali: quello chiuso, che non muta la situazione di partenza o anzi ad essa torna dichiaratamente, formalizzandosi come “aggiramento” (termine ben sereniano) […] e quello aperto, che si risolve per modulazione verso altra tonalità, in un luogo che può negare quello di partenza». Anche in questa poesia sembra potersi applicare l’osservazione di Mengaldo. Il poeta guarda all’esterno della casa vuota, ma se all’inizio scorgeva «margherite e ranuncoli», nel finale, «tornino o no sole e prato coperti», c’è il riconoscimento del «male» esistenziale. 82 Vittorio Sereni, Esperienza della poesia, in Gli immediati dintorni, ora in La tentazione della prosa, cit., p. 29: «Se l’idea di poesia che ogni poeta porta con sé fosse raffigurabile in uno specchio, noi vedremmo quello specchio assumere di volta in volta tutti i colori possibili, riflettere non una immagine ma una battaglia di immagini». 146

Nella seconda strofa il vissuto individuale partecipa di una più ampia dimensione storica, che collega direttamente un difficile passato con un altrettanto complicato presente. «Un improvviso inciso prosastico, d’impronta, per così dire, “generazionale”», 83 come lo definisce Garboli, introduce il ricordo della conferenza di Monaco del settembre 1938. 84 La storia entra nella poesia di Sereni contemporaneamente al manifestarsi della quotidianità, attraverso un sistema di stratificazioni e di corrispondenze. Il discorso interiore del poeta si pone comunque ai margini di questa storia, ribadisce la lontananza rispetto agli eventi: i fatti di Monaco sono ricordati attraverso un’immagine scipita («e intanto Monaco di prima mattina sui giornali»). La storia viene abbassata ad una quotidianità stanca, trita, banale, di cui è emblema il mascheramento prosastico del male per mezzo di una stridente colloquialità («ah meno male» 85 ). Questo avvilimento investe tutta la realtà, e si rispecchia anche nell’andamento nominale, che riduce a vera e propria didascalia teatrale l’indicazione meteorologica e stagionale che chiude la seconda strofa («sotto la pioggia un settembre»). L’uso dell’articolo indeterminativo («un settembre») porta con più forza il lettore nel presente, prescindendo dal dato storico determinato: le «svastiche dei tempi torbidi» (così recita la prima stesura), non sono solo quelle del ’38, ma tutte quelle altre svastiche che sono apparse dopo, nel silenzio, nell’inconsapevolezza collettiva o nella tacita accettazione del male. Nel distico che chiude e sigilla la poesia, si passa dall’indeterminatezza dell’iniziale «Si ravvivassero mai» e poi dell’ipotetico «Purché si avesse», alla perentorietà asseverativa dell’«Oggi si è – e si è comunque male, / parte del male tu stesso». Il male di cui qui si parla è un radicale e profondo male d’esistere calato nella sua concreta quotidianità, una realtà psicologica e gnoseologica rivelata o svelata al poeta, che alla 83 Cesare Garboli, In una casa vuota. Commento, cit., p. 32. 84 A questo proposito si potrebbe anche ricordare una lettera di Sereni a Parronchi, in cui gli elementi del passato si confondono con un presente di preoccupazioni: «Qui spira una brutta aria; un’aria tipo 1938 (di un 1938 visto da uno che allora non capiva di camminare lungo l’abisso e che ha il raccapriccio quando pensa che ci camminava e non se ne accorgeva)». Ora in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit., lettera 71, p. 206. 85 Si può ricordare Nel vero anno zero (Gli strumenti umani), in cui si sviluppava il tema della ferocia delle «nuove belve», cioè di coloro che ignorano il passato e che sviliscono e annullano la memoria nella superficialità frutto del disinteresse: «Meno male lui disse, il più festante: che meno male c’erano tutti. / Tutti alle Case dei Sassoni – rifacendo la conta. / Mai stato in Sachsenhausen? Mai stato. / A mangiare ginocchio di porco? Mai stato. / Ma certo, alle case dei Sassoni. / Alle Case dei Sassoni, in Sachsenhausen, cosa c’è di strano? / Ma quante Sachsenhausen in Germania, quante case. / Dei Sassoni, dice rassicurante / caso mai svicolasse tra le nebbie / un’ombra di recluso nel suo gabbano. / No non c’ero mai stato in Sachsenhausen. // E gli altri allora – mi legge nel pensiero – / quegli altri carponi fuori da Stalingrado / mummie di già soldati / dentro quel sole di sciagura fermo / sui loro anni aquilonari… dopo tanti anni / non è la stessa cosa? // Tutto ingoiano le nuove belve, tutto – / si mangiano cuore e memoria queste belve onnivore. / A balzi nel chiaro di luna s’infilano in un night». 147

Nella seconda strofa il vissuto individuale partecipa di una più ampia dimensione<br />

storica, <strong>che</strong> collega direttamente un difficile passato con un altrettanto complicato<br />

presente. «Un improvviso inciso prosastico, d’impronta, per così dire,<br />

“generazionale”», 83 come lo definisce Garboli, introduce il ricordo della conferenza di<br />

Monaco del settembre 1938. 84 La storia entra nella poesia di Sereni<br />

contemporaneamente al manifestarsi della quotidianità, attraverso un sistema di<br />

stratificazioni e di corrispondenze. Il discorso interiore del poeta si pone comunque ai<br />

margini di questa storia, ribadisce la lontananza rispetto agli eventi: i fatti di Monaco<br />

sono ricordati attraverso un’immagine scipita («e intanto Monaco di prima mattina sui<br />

giornali»). La storia viene abbassata ad una quotidianità stanca, trita, banale, di cui è<br />

emblema il mas<strong>che</strong>ramento prosastico del male per mezzo di una stridente colloquialità<br />

(«ah meno male» 85 ). Questo avvilimento investe tutta la realtà, e si rispecchia an<strong>che</strong><br />

nell’andamento nominale, <strong>che</strong> riduce a vera e propria didascalia teatrale l’indicazione<br />

meteorologica e stagionale <strong>che</strong> chiude la seconda strofa («sotto la pioggia un<br />

settembre»). L’uso dell’articolo indeterminativo («un settembre») porta con più forza il<br />

lettore nel presente, prescindendo dal dato storico determinato: le «svasti<strong>che</strong> dei tempi<br />

torbidi» (così recita la prima stesura), non sono solo quelle del ’38, ma tutte quelle altre<br />

svasti<strong>che</strong> <strong>che</strong> sono apparse dopo, nel silenzio, nell’inconsapevolezza collettiva o nella<br />

tacita accettazione del male.<br />

Nel distico <strong>che</strong> chiude e sigilla la poesia, si passa dall’indeterminatezza dell’iniziale<br />

«Si ravvivassero mai» e poi dell’ipotetico «Purché si avesse», alla perentorietà<br />

asseverativa dell’«Oggi si è – e si è comunque male, / parte del male tu stesso». Il male<br />

di cui qui si parla è un radicale e profondo male d’esistere calato nella sua concreta<br />

quotidianità, una realtà psicologica e gnoseologica rivelata o svelata al poeta, <strong>che</strong> alla<br />

83 Cesare Garboli, In una casa vuota. Commento, cit., p. 32.<br />

84 A questo proposito si potrebbe an<strong>che</strong> ricordare una lettera di Sereni a Parronchi, in cui gli elementi del passato<br />

si confondono con un presente di preoccupazioni: «Qui spira una brutta aria; un’aria tipo 1938 (di un 1938 visto da<br />

uno <strong>che</strong> allora non capiva di camminare lungo l’abisso e <strong>che</strong> ha il raccapriccio quando pensa <strong>che</strong> ci camminava e non<br />

se ne accorgeva)». Ora in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), cit.,<br />

lettera 71, p. 206.<br />

85 Si può ricordare Nel vero anno zero (Gli strumenti umani), in cui si sviluppava il tema della ferocia delle<br />

«nuove belve», cioè di coloro <strong>che</strong> ignorano il passato e <strong>che</strong> sviliscono e annullano la memoria nella superficialità<br />

frutto del disinteresse: «Meno male lui disse, il più festante: <strong>che</strong> meno male c’erano tutti. / Tutti alle Case dei Sassoni<br />

– rifacendo la conta. / Mai stato in Sachsenhausen? Mai stato. / A mangiare ginocchio di porco? Mai stato. / Ma certo,<br />

alle case dei Sassoni. / Alle Case dei Sassoni, in Sachsenhausen, cosa c’è di strano? / Ma quante Sachsenhausen in<br />

Germania, quante case. / Dei Sassoni, dice rassicurante / caso mai svicolasse tra le nebbie / un’ombra di recluso nel<br />

suo gabbano. / No non c’ero mai stato in Sachsenhausen. // E gli altri allora – mi legge nel pensiero – / quegli altri<br />

carponi fuori da Stalingrado / mummie di già soldati / dentro quel sole di sciagura fermo / sui loro anni aquilonari…<br />

dopo tanti anni / non è la stessa cosa? // Tutto ingoiano le nuove belve, tutto – / si mangiano cuore e memoria queste<br />

belve onnivore. / A balzi nel chiaro di luna s’infilano in un night».<br />

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