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copertina paura america - Cineforum del Circolo

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i quaderni <strong>del</strong> cineforum 24<br />

Il cinema racconta<br />

la società<br />

<strong>america</strong>na<br />

fra la <strong>paura</strong><br />

<strong>del</strong>l’altro<br />

e di se stessa<br />

DI CLAUDIO CASAZZA<br />

AANCCHHEE L’’America HAA<br />

PAURRA<br />

CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA


ANCHE L'AMERICA<br />

HA PAURA<br />

il cinema racconta la società <strong>america</strong>na<br />

fra la <strong>paura</strong> <strong>del</strong>l'altro e di se stessa<br />

CLAUDIO CASAZZA<br />

gennaio-febbraio 2012<br />

CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA<br />

Viale Monza 140, Milano<br />

www.cineforum<strong>del</strong>circolo.it info@cineforum<strong>del</strong>circolo.it


INTRODUZIONE<br />

Lasciatemi affermare il mio fermo convincimento che<br />

la sola cosa che dobbiamo temere è la <strong>paura</strong>.<br />

(Franklin Delano Roosvelt, politico <strong>america</strong>no)<br />

Spesso la <strong>paura</strong> di un male ci conduce ad uno peggiore.<br />

(Nicolas Boileau, poeta francese)<br />

La <strong>paura</strong> <strong>del</strong> pericolo è mille volte più terrificante<br />

<strong>del</strong> pericolo presente.<br />

(Daniel Defoe, scrittore inglese)<br />

La rassegna cercherà di sviluppare il concetto di <strong>paura</strong> attraverso il cinema e la storia degli Stati Uniti.<br />

Ma che cosa s’intende per <strong>paura</strong>? Non si parlerà solo <strong>del</strong>la <strong>paura</strong> dominata dall’istinto che ha come<br />

obiettivo la sopravvivenza ad una situazione pericolosa, ma il discorso sarà incentrato su quella<br />

<strong>paura</strong> scatenata dal timore che si possano verificare situazioni, apparentemente normalissime, ma che vengono<br />

vissute con profondo disagio.<br />

Molto spesso la <strong>paura</strong> nel corso <strong>del</strong>la Storia è stata indotta, incanalata dai media o al contrario da teorie<br />

complottiste. Nella storia <strong>america</strong>na la <strong>paura</strong> <strong>del</strong> comunismo, <strong>del</strong> terrorismo, <strong>del</strong>lo straniero, <strong>del</strong> nero, <strong>del</strong><br />

diverso, la <strong>paura</strong> <strong>del</strong>l’altro in generale è sempre stata molto viva, ha scatenato molto spesso folle giustizialiste<br />

(basti vedere l’uso spropositato ancora oggi <strong>del</strong>la pena di morte) e ha spinto molte persone a richiudersi<br />

in cerchi chiusi lontani dal “pericolo”.<br />

Il cinema <strong>america</strong>no (hollywoodiano e non) ha sempre raccontato con forza, precisione e ironia queste<br />

paure, molto spesso attraverso il cinema di genere: il western, la fantascienza e l’horror hanno molte volte<br />

utilizzato le tematiche <strong>del</strong> genere per parlare d’altro. Purtroppo la rassegna ha l’ingrato compito di mostrare<br />

solo 5 film, in una cinematografia così ampia come quella <strong>america</strong>na (tenendo presente tutti i registi<br />

europei e non che vanno a girare negli States) è un <strong>del</strong>itto restringere la scelta a soli cinque titoli. Per questo<br />

motivo la filmografia in coda al quaderno è parte integrante di questo ciclo, sono stati scelti appositamente<br />

tutti i lavori che hanno in qualche modo attinenza con il tema <strong>del</strong> “raccontare la <strong>paura</strong>”.<br />

Ho cercato di analizzare come il cinema ha raccontato la <strong>paura</strong>, collegando i film agli avvenimenti storici<br />

che hanno caratterizzato gli Stati Uniti nel loro lungo percorso. Partire perciò con The Conspirator è fondamentale<br />

per questo ragionamento. Il recente film di Robert Redford racconta <strong>del</strong>l’attentato al Presidente<br />

Abramo Lincoln poco dopo la guerra civile e <strong>del</strong>la cospirazione appunto che ha portato al suo omicidio.<br />

3


Terror, da una fotografia <strong>del</strong> Dr. Duchenne,<br />

dal libro di Charles Darwin: The Expression<br />

of the Emotions in Man and Animals.<br />

John Fitzgerald Kennedy a Dallas, poco<br />

prima <strong>del</strong>l’attentato mortale<br />

L’attentato al presidente è una costante nella storia degli<br />

States, basti pensare a Dallas 1963 e la morte di John<br />

Fitzegerald Kennedy, il fatto venne ripreso dalla televisione<br />

ed ebbe un eco incredibile in tutto il mondo, ma prima di lui<br />

James Garfield fu ucciso il 2 luglio 1881 a Washington,<br />

William McKinley ucciso il 6 settembre 1901 al Temple of<br />

Music di Buffalo. Poi ci furono attentati falliti a Theodore e a<br />

Franklin Delano Roosevelt, a Truman, Nixon, Gerald Ford,<br />

Jimmy Carter, Reagan e anche di recente Bush padre e figlio<br />

oltre che a Clinton (gli attentati falliti si vengono a sapere<br />

spesso anni dopo e spesso non vengono mai alla luce).<br />

La storia <strong>america</strong>na è purtroppo piena di uccisioni celebri:<br />

il caso tragico di Robert Kennedy, fratello minore di John<br />

F. Kennedy, assassinato nel 1968 all’Ambassador Hotel a<br />

Los Angeles, i casi Martin Luther King, John Lennon e<br />

molti altri. Il cinema le ha raccontate quasi tutte (Bobby,<br />

Nel centro <strong>del</strong> mirino, Jfk – un caso ancora aperto, U.S.A.<br />

contro John Lennon, Milk) interrogandosi sui complotti,<br />

cospirazioni, omicidi di folli isolati, Fbi o Cia dietro a tutto,<br />

poteri occulti.<br />

Questo film di Redford va oltre: oltre al racconto <strong>del</strong>l’assassinio<br />

e <strong>del</strong>la <strong>paura</strong> <strong>del</strong> popolo <strong>america</strong>no, reduce dalla guerra<br />

civile, nel vedersi ucciso il suo eroe, il film riesce a chiedersi<br />

se il più cru<strong>del</strong>e assassino, anche chi cospira per uccidere il<br />

Presidente, ha diritto a un processo equo, e se il rispetto <strong>del</strong>la<br />

Costituzione degli Stati Uniti d’America e dei suoi principi<br />

fondamentali devono essere al di sopra di tutto. Redford parla<br />

di temi altissimi e fondamentali, realtà e finzione, passato e<br />

presente, e li fonde senza reticenze come in una tragedia, un<br />

film <strong>america</strong>no nel suo spirito più puro contro le complicità e<br />

le rinunce di una giustizia che si vorrebbe giusta mentre<br />

impicca, condanna o tortura i suoi nemici. Un film ingiustamente<br />

trascurato da pubblico, che per questo motivo è giusto<br />

ancora di più mostrare.<br />

Il secondo film scelto è più intimo, apparentemente non così<br />

incentrato sulla <strong>paura</strong>: Splendore nell’erba, melodramma<br />

meraviglioso ambientato durante la Grande Depressione in<br />

Kansas, profondo Midwest <strong>america</strong>no. Nel 1928 due giovani<br />

si amano, ma i genitori <strong>del</strong><br />

ragazzo gli impongono di laurearsi<br />

prima di pensare al<br />

matrimonio, l’attesa avrà conseguenze<br />

tragiche. Il film è<br />

stato scelto perché narra di un<br />

periodo importantissimo <strong>del</strong>la<br />

Storia <strong>america</strong>na e riesce a rendere<br />

benissimo l’ipocrisia di<br />

una parte <strong>del</strong>la borghesia <strong>america</strong>na,<br />

in particolare nei confronti<br />

<strong>del</strong>la sessualità e <strong>del</strong><br />

cambiamento in generale.<br />

Un periodo fondamentale <strong>del</strong>la<br />

4


storia economica e sociale <strong>del</strong> paese che mi è sembrato fondamentale inserire in quanto ci sono profonde<br />

analogie con la crisi economica attuale. È giusto ricordare che anche Orson Welles ha raccontato quegli<br />

anni con il capolavoro L’orgoglio degli Amberson, film devastato dalla produzione (Welles non aveva il<br />

controllo totale <strong>del</strong> film e la Rko preoccupata dall’esito disastroso <strong>del</strong>le proiezioni-test, massacrarono la<br />

pellicola arrivando a tagliarne 43 minuti ed a far girare a un finale più rassicurante) che comunque riesce<br />

ancor oggi a far riflettere.<br />

Parlare di Welles è perfetto per collegarsi al terzo film <strong>del</strong> ciclo, L’invasione degli ultracorpi non è un film<br />

<strong>del</strong> grande Orson ma con lui ha a che fare. Il tema <strong>del</strong> film e un episodio clamoroso che avvenne nel 1938.<br />

È necessario un passo indietro: a fine ‘800 esce nelle librerie<br />

<strong>america</strong>ne La guerra dei mondi di H.G. Wells, che rappresenta<br />

realisticamente un’invasione <strong>del</strong>la Terra da parte dei marziani.<br />

Dal romanzo fu tratto nel 1938 un geniale dramma radiofonico<br />

omonimo prodotto e interpretato proprio da Orson Welles come<br />

una radiocronaca, talmente realistica e convincente da gettare<br />

completamente nel panico milioni di ascoltatori <strong>america</strong>ni.<br />

L’invasione degli ultracorpi, di Don Siegel, narra di una città<br />

invasa da alieni che copiano perfettamente gli abitanti ai quali<br />

si sostituiscono durante il sonno. Al film furono date diverse<br />

letture politiche: fu interpretato sia come una parabola anticomunista<br />

sia antimaccartista, sicuramente è un film che riesce a<br />

rendere l’angoscia <strong>del</strong> periodo <strong>del</strong>la guerra fredda e anticipa in<br />

modo incredibile molti altri lavori sulla disumanizzazione <strong>del</strong>le<br />

persone e dei rapporti sociali. Il film fu anche anticipatore di<br />

una serie di film di fantascienza degli anni ‘50 e successivi.<br />

Siegel, molti anni dopo, affermò: «Né lo sceneggiatore, né io<br />

pensavamo a un qualunque simbolismo politico. Nostra intenzione<br />

era attaccare un’abulica concezione <strong>del</strong>la vita». Molti<br />

film in seguito invece attualizzeranno molto la fantascienza per<br />

parlare di fatti <strong>del</strong> momento, tra i quali lo stesso Maccartismo.<br />

È necessario aprire una parentesi per raccontare cosa rappresentò<br />

questa <strong>paura</strong> rossa negli Stati Uniti: fu un periodo <strong>del</strong>la<br />

storia degli Stati Uniti caratterizzato dall’intenso sospetto anticomunista,<br />

durato dai tardi anni quaranta fino a circa la metà<br />

<strong>del</strong> decennio successivo. Prende il nome da Joseph McCarthy,<br />

senatore repubblicano <strong>del</strong> Wisconsin attivo in politica in quegli<br />

anni.<br />

Il Maccartismo fu per l’epoca una forma di fascismo (parole di<br />

Eleonor Rooswelt), una serie di inchieste politico-giudiziarie<br />

tese a colpire qualunque possibile «influenza comunista» negli<br />

apparati <strong>del</strong>lo stato, e persino nei comportamenti di singoli<br />

individui. Fra di essi vi furono anche famosi personaggi <strong>del</strong>lo<br />

spettacolo, tanto che la <strong>paura</strong> di incappare nelle maglie <strong>del</strong>le<br />

inchieste anticomuniste finì per condizionare anche le scelte<br />

artistiche di scrittori, registi e produttori cinematografici. Il<br />

Maccartismo fu figlio <strong>del</strong> clima di tensione e <strong>paura</strong> creatosi a<br />

partire dai tardi anni quaranta, ma con i suoi processi accusatori<br />

e la sua caccia spesso immotivata al traditore, finì per essere<br />

al tempo stesso moltiplicatore di tale clima di <strong>paura</strong>, grazie<br />

anche alla risonanza che tali vicende avevano presso i mass<br />

media. L’ambiente di Hollywood, dove lavoravano molti euro-<br />

pei, fu particolarmente colpito, Charlie Chaplin fu una <strong>del</strong>le<br />

persone accusate di attività anti-<strong>america</strong>ne e l’FBI fu coinvolta<br />

nel fare in modo che venisse cancellato il suo visto di rientro,<br />

5<br />

Illustrazione tratta da La guerra dei<br />

mondi, di H.G. Wells


quando lasciò gli USA per un soggiorno in Europa nel 1952. Edward Dmytryk ed Elia Kazan furono obbligati<br />

a denunciare i propri colleghi.<br />

Sulla fantascienza e sull’horror avendo poco spazio ho preferito lasciare la parola a due studiosi che hanno<br />

approfondito la questione. Ho scelto di allegare un estratto dagli atti <strong>del</strong> convegno Governare la <strong>paura</strong>,<br />

curato dall’Università di Bologna, dove Giorgio Cremonini e Claudio Bisoni analizzano molti film trovando<br />

spunti sorprendenti e molto interessanti, a mio avviso soprattutto l’analisi Cloverfield- Redacted è molto<br />

importante. Invito alla lettura anche <strong>del</strong> successivo articolo Gli Alieni siamo noi di Emiliano Morreale che<br />

approfondisce e analizza molta fantascienza made in Usa e la sua evoluzione nella storia degli Stati Uniti.<br />

Proseguendo con la storia <strong>america</strong>na non poteva mancare un film ambientato negli anni ‘70. Il cinema ha<br />

raccontato quegli anni che sono stati caratterizzati dalle rivolte studentesche, dal Vietnam, dal Watergate.<br />

C’è da ricordare che in anni di contestazione, nel 1968, gli <strong>america</strong>ni elessero come Presidente il repubblicano<br />

Richard Nixon (ex componente tra l’altro <strong>del</strong>la commissione McCarthy) e poi lo rielessero anche nel<br />

1972 prima che venisse coinvolto nello scandalo Watergate. Gli <strong>america</strong>ni che votarono per Nixon furono<br />

generalmente chiamati la “maggioranza silenziosa”, cittadini che, non partecipando attivamente alla vita<br />

politica, non esprimeva la propria opinione sulle grandi scelte <strong>del</strong> paese, prima fra tutte la guerra <strong>del</strong><br />

Vietnam. Questa parte <strong>del</strong>la popolazione era rappresentata soprattutto dal ceto medio conservatore e provinciale,<br />

che viveva lontano dalle grandi città e che, pur prevalendo numericamente su quanti si opponevano<br />

con petizioni, articoli di giornale, manifestazioni di piazza e altre forme di protesta, non faceva sentire<br />

la propria voce verosimilmente a favore <strong>del</strong>le scelte governative.<br />

Sopra: una fra le immagini più<br />

drammatiche e famose <strong>del</strong>la guerra<br />

in Vietnam. Bambini fuggono dopo<br />

un bombardamento con il napalm.<br />

In basso: Richard M. Nixon, 37° presidente<br />

statunitense. Sotto la sua<br />

presidenza gli <strong>america</strong>ni si ritirarono<br />

dal Vietnam ponendo così fine<br />

alla guerra.<br />

6


Molti film che raccontano le paure <strong>del</strong> periodo rimangono nella memoria (Taxi Driver, I tre giorni <strong>del</strong> condor,<br />

La conversazione, Tutti gli uomini <strong>del</strong> presidente), in quegli anni iniziano a far cinema Coppola e<br />

Scorsese solo per citare due registi e De Niro, Pacino, Redford iniziano a sfondare come attori rappresentando<br />

lo spaesamento <strong>del</strong>la nazione. Il film che ho scelto è Sos Summer of Sam- panico a New York di Spike<br />

Lee. Non è stato girato ovviamente in prossimità degli eventi ma 20 anni dopo ed è molto interessante perché<br />

riesce a ricostruire perfettamente un’epoca. Il film è ambientato nella comunità italo<strong>america</strong>na di New<br />

York dove scorrazza un omicida plurimo. Il tema <strong>del</strong> razzismo è sempre presente nei suoi film, in Summer<br />

of Sam anche se non ci sono neri il capro espiatorio, l’accusato è sempre un diverso. Spike Lee fa un discorso<br />

che va al di là <strong>del</strong>la sola ricerca <strong>del</strong> serial killer e si interroga su una città, un quartiere, la diversità che<br />

fa <strong>paura</strong>, la famiglia, l’appartenenza a un gruppo.<br />

Per chiudere il ciclo ci sarà il film definitivo degli anni 2000: A History of Violence di David Cronenberg.<br />

L’attentato alle Torri Gemelle ha scosso tutta l’America e le leggi che sono seguite per individuare e perseguire<br />

il terrorismo e altri crimini (l’Homeland Security Act <strong>del</strong> 2002, lo Usa Patriot Act) hanno cercato<br />

di rispondere a un bisogno di sicurezza e alle paure post attentato anche invadendo la vita privata dei cittadini<br />

e restringendo libertà personali.<br />

Il film non è assolutamente collegato all’11/9 ma è un’eccezionale racconto <strong>del</strong> mondo di <strong>paura</strong>, disagio<br />

che viviamo, l’ambiguità <strong>del</strong>l’animo umano, la <strong>paura</strong> <strong>del</strong>la normalità, la violenza, il passato e le sue conseguenze<br />

sull’oggi.<br />

I DIVERSI GRADI DI PAURA<br />

La <strong>paura</strong> ha differenti gradi di intensità a seconda <strong>del</strong> soggetto: persone che vivono intensi stati di <strong>paura</strong> hanno<br />

sovente atteggiamenti irrazionali. La <strong>paura</strong> come la rabbia è una risposta al dolore o alla sua percezione: nella<br />

<strong>paura</strong> l'eccitazione si ritira (nella nuca), mentre nella rabbia si dirige verso la fonte <strong>del</strong> dolore, sia questo reale o<br />

immateriale. Se un individuo impaurito è costretto ad attaccare si arrabbia e non ha più <strong>paura</strong>. In tal senso alcuni<br />

atteggiamenti derivanti dagli stati di <strong>paura</strong> possono essere considerati pericolosi, quando si tramutano in rabbia.<br />

La <strong>paura</strong> può essere descritta con termini differenti a seconda <strong>del</strong> suo grado di intensità: timore, ansia, <strong>paura</strong>,<br />

panico e terrore<br />

Il timore è la forma meno intensa <strong>del</strong>la <strong>paura</strong> e si determina quando una situazione promette piacere ma, al<br />

tempo stesso, anche dolore: c'è la percezione <strong>del</strong>la possibilità di perdere il piacere atteso ma ci si muove ancora<br />

verso di esso. L'ansia è in questo caso la minaccia <strong>del</strong> dolore e quella <strong>del</strong> piacere si equivalgono generando una<br />

situazione di conflitto nell'attesa di qualche indizio capace di far pendere la bilancia da una parte piuttosto che dall'altra<br />

La <strong>paura</strong> emerge quando il contesto è dominato dalla minaccia <strong>del</strong> dolore o dalla sua percezione: in questo caso<br />

si è pervasi dal desiderio di scappare o comunque di allontanarsi dalla fonte di dolore, sia questo reale o immaginaria.<br />

Nel momento in cui la <strong>paura</strong> diviene travolgente, si determina il panico. L'impulso è sempre quello di scappare ma<br />

è talmente forte che si decide di allontanarsi dalla (probabile) fonte <strong>del</strong> dolore correndo via alla cieca. La situazione<br />

di panico è correlata alla claustrofobia.<br />

Il terrore è la forma più estrema <strong>del</strong>la <strong>paura</strong>, di intensità ancora maggiore al panico, dove l'impulso a scappare è<br />

talmente elevato da ricercare una soluzione immediata: in questo caso l'individuo sceglie di ritirarsi dentro se stesso.<br />

Il terrore è una vera propria fuga verso l'interno, la muscolatura si paralizza nel tentativo di ridurre la sensibilità<br />

<strong>del</strong>l'organismo nell'agonia finale.<br />

7


RACCONTARE LA PAURA.<br />

STORIE E VISIONI FRA LETTERATURA E CINEMA<br />

Estratto da Governare la Paura, convegno organizzato da Università di Bologna - Dipartimento di Politica,<br />

Istituzioni, Storia [Comitato scientifico: Maria Laura Lanzillo, Francesco Cerrato (coordinatore), Matteo<br />

D’Alfonso, Marina Lalatta, Silvia Rodeschini, Federica Zullo].<br />

Giorgio Cremonini, «Il cinema, la <strong>paura</strong>, l’orrore: meccanismi d’identificazione»<br />

Molte <strong>del</strong>le riflessioni sul cinema fantastico finiscono per confrontarsi sia con la definizione di<br />

orrore sia con quella, apparentemente conseguente, ma in realtà solo a volte complementare, di<br />

<strong>paura</strong>. In effetti, i due termini procedono per così dire tenendosi per mano, intrecciandosi e<br />

sovrapponendosi, ma conservando anche alcune differenze di partenza essenziali. Innanzitutto, il termine<br />

orrore definisce una sensazione prevalentemente scopica e quindi iconica (compete quindi in primo luogo<br />

all’immagine e allo sguardo), mentre la <strong>paura</strong> rivela una competenza narrativa destinata a instillare nello<br />

spettatore una sensazione d’insicurezza e di pericolo che lo riguarda da vicino, anche laddove gli è sempre<br />

chiara la distanza dal racconto e dalla sua natura di spettacolo e di finzione. Inoltre, il termine orrore (ma<br />

più ancora la versione anglo-<strong>america</strong>na di horror) definisce, spesso con scarsa precisione, un genere ai<br />

limiti <strong>del</strong> fiabesco e <strong>del</strong> fantastico, mentre la <strong>paura</strong> attraversa generi diversi: proviamo <strong>paura</strong> in un thriller,<br />

in una fiaba, in un horror, in un melodramma, e persino, con tutte le cautele <strong>del</strong> caso, in un film comico.<br />

I freaks non fanno <strong>paura</strong><br />

Il mostro in Frankeinstein<br />

Tipiche dei film horror sono quelle immagini che evocano in noi la percezione di qualcosa di mostruoso,<br />

di aberrante, se non, come direbbe Freud, di perturbante. Di fronte a mostri come i vari Dracula,<br />

Frankenstein o molti personaggi <strong>del</strong>la fantascienza spaziale (Alien, La guerra dei mondi, ecc), la percezione<br />

<strong>del</strong>l’orrore è immediata, più di quanto non accada nell’omologa letteratura <strong>del</strong>l’orrore; il cinema possiede<br />

infatti una disposizione che la parola non può raggiungere, ma solo evocare facendo appello alla fantasia<br />

<strong>del</strong> lettore (magari una suggestione letteraria può risultare più efficace di un’immagine, ma il cinema<br />

possiede una capacità di mostrare che la parola non ha). Per fare qualche esempio, fra i molti possibili, la<br />

pletora di aggettivi disseminati tra le pagine di H.P.Lovecraft, la ripetizione quasi ossessiva <strong>del</strong> termine<br />

“mostro” in Frankenstein di Mary Shelley o in Dracula di Bram Stoker, fino alla puntigliosa descrizione<br />

con cui Victor Hugo ci presenta il Quasimodo di Notre Dame de Paris non reggono il confronto con le<br />

immagini di Freaks o con l’impatto visivo di Boris Karloff e il suo make-up. La parola offre uno spunto<br />

allusivo ed emotivo che il cinema sostituisce con una concretezza fisica variabile a seconda <strong>del</strong>le interpre-<br />

9


Dracula di Bram Stoker,<br />

di Francis Ford Coppola<br />

Il mostro <strong>del</strong>la laguna nera,<br />

di Jack Arnold<br />

tazioni, ma sempre precisa. Al posto degli epiteti, spesso<br />

solo genericamente qualificativi, oltre che quasi sempre<br />

mediati dallo sguardo d’un personaggio che osserva l’orrore,<br />

il cinema offre una visione diretta, teoricamente oggettiva,<br />

in cui lo sguardo è diretto: siamo noi spettatori che<br />

vediamo, senza altro intermediario che la macchina da<br />

presa. Conseguentemente, ciò che vediamo non è un epiteto,<br />

una qualità, ma una presenza, una caricatura <strong>del</strong>l’umano<br />

cosiddetto “normale”, una variazione che non rinuncia<br />

mai alla sua rassomiglianza con lo standard affermato<br />

come dominante, cioè con noi. Come nella comicità analizzata<br />

da Michail Bachtin, nel mostro vediamo un “doppio<br />

parodico”, privato <strong>del</strong>la sua componente consapevolmente<br />

comica.<br />

Il concetto di “normalità”, per quanto ambiguo e discutibile,<br />

è essenziale: se l’uomo “normale” ha una testa, due<br />

gambe, due occhi, ecc, sarà mostruoso un essere che abbia<br />

due teste, tre gambe, tre occhi, ecc – oppure che mescoli le<br />

proprie qualità umane con quelle animali (i centauri, i<br />

minotauri, le sirene, ecc). La tradizione dei mostri nello<br />

spettacolo è di lunga data. Senza andare alla ricerca di radici<br />

molto lontane e fermandoci alla loro moderna visibilità<br />

collettiva, è noto il successo circense e popolare dei freaks,<br />

sviluppatosi industrialmente nel XIX secolo. Come ha<br />

scritto Leslie Fiedler, “il baraccone è diventato non soltanto<br />

parte integrante <strong>del</strong>la cultura popolare <strong>america</strong>na, ma un<br />

tipico simbolo <strong>del</strong>l’interdipendenza tra illusione e realtà,<br />

tra piacere e sofferenza, tra ripugnanza e rispetto”. È un<br />

atteggiamento facilmente collegabile all’ossimoro, perché<br />

siamo di fronte ad esseri che da un lato definiamo umani e<br />

dall’altro rompono una buona parte – quella più superficiale<br />

– dei loro legami di riconoscibilità. La loro diversità<br />

fisionomica e anatomica attira il pubblico mostrandogli ciò<br />

che non è umano (o che non è pensabile che lo sia), ma al<br />

tempo stesso ribadisce la loro appartenenza allo stesso<br />

genere umano cui apparteniamo noi. La “mostruosità”<br />

<strong>del</strong>le donne cannone o barbute, <strong>del</strong>le sirene, dei gemelli<br />

siamesi, persino dei feti deformi nelle loro vasche di formaldeide<br />

ci pone di fronte a una immagine doppia, in cui<br />

lo spettatore vede confermata sia la propria “normalità” (io<br />

non sono quello), sia la labilità <strong>del</strong> confine che lo separa<br />

dall’altro (anch’io potrei essere come quello). La contraddizione<br />

lo porta a uno shock visivo che nemmeno gli specchi<br />

deformanti, già molto in voga nelle fiere <strong>del</strong>l’epoca,<br />

potevano dargli, né tanto meno possono farlo i resoconti<br />

giornalistici o i libri.<br />

Il film horror gioca spesso sulla qualità solo apparente e<br />

sulla precarietà di questo confine e fa di un essere mostruoso<br />

l’antagonista di esseri “normali”, così come la loro storia<br />

ha spesso tutte le connotazioni narrative di un normale<br />

film d’avventura o d’amore. In Il mostro <strong>del</strong>la laguna nera<br />

un essere che è in parte umano e in parte pesce o rettile, è<br />

protagonista di una <strong>del</strong>le tante variazioni mélo sul tema<br />

<strong>del</strong>la bella e la bestia, con tutto il suo erotismo impossibi-<br />

10


le e disperato. Poco conta che le sue intenzioni siano equivalenti al desiderio per una bella ragazza che<br />

prova anche uno dei protagonisti; anzi, è proprio questo suo erotismo, coniugato con la diversità, ad essere<br />

insieme innaturale e impossibile (l’orrore nasce appunto da questa possibilità nell’impossibilità contronatura).<br />

Persino la Creatura <strong>del</strong>le varie versioni di Frankenstein ha in sé qualcosa di umano (in fondo è il<br />

prodotto di una rudimentale ingegneria biologica), ma anche inumana, perché sappiamo che i morti non<br />

vivono e tutto in lui ci ricorda questa non-vita: le cicatrici, gli elettrodi, la testa piatta, l’assenza di parola,<br />

l’incedere da morto che cammina. In Dracula di Bram Stoker vediamo sì il noto vampiro sciogliersi in un<br />

grumo di ratti, ma lo vediamo anche amare e sedurre la bella Mina, meglio di quanto sappia fare il suo<br />

omologo borghese, il marito Jonathan.<br />

Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi, ma la struttura è sempre quella di una definizione di<br />

umano/non umano fondata sull’incomunicabilità dei due sistemi (uno “realistico” e uno “fantastico”, per<br />

semplificare) e, prima ancora, sulla visività <strong>del</strong> mostruoso, una vera e propria altra natura. E tuttavia il<br />

freak e le contaminazioni non fanno <strong>paura</strong> in sé; semmai si limitano a suscitare quello che chiamiamo fascino<br />

<strong>del</strong>l’orrore, sullo spettatore come sui personaggi. E’ necessario che siano immessi in circuiti narrativi<br />

fondati sul pericolo e l’aggressione, ma in questo caso il discorso si sposta su un versante che non richiede<br />

la discriminante <strong>del</strong>la mostruosità: essa può essere presente anche in molti film non classificabili come<br />

horror, così come altri film possono esserlo a prescindere dall’evidenziazione iconica. Per esempio, l’alieno<br />

di E.T. non suscita orrore, pur essendo la versione distorta di un bambino o dei suoi pupazzi e bambole<br />

(se non <strong>del</strong> gatto di Rambaldi che ne ha ricreato le fattezze); oppure, il Jack Nicholson di Shining non<br />

suscita orrore in sé, ma solo grazie al suo comportamento, la cui rottura di regole e confini perviene ad un<br />

giudizio per così dire “morale”. Il fare è diverso dall’essere, o almeno dall’apparire.<br />

Problemi d’identificazione<br />

Fermiamoci comunque all’orrore attivato da una funzione immediatamente iconico-scopica, quella per cui<br />

i mostri sono visivamente mostruosi, come quelli che potremmo osservare – anche se dall’esterno e di lontano<br />

– nei baracconi o nelle illustrazioni, disegni o fotografie che siano, visto che la mostruosità può essere<br />

inanimata, quanto la bellezza. Esso non implica in sé <strong>paura</strong>, ma è solo grazie alla narrazione che siamo<br />

spinti di volta in volta a provare, oltre all’orrore, anche <strong>paura</strong>, oppure compassione o simpatia. La <strong>paura</strong>,<br />

che si leghi o meno all’orrore, nasce solo quando scatta un secondo meccanismo che s’inserisce nella visione,<br />

arricchendola e non esaurendola. Si potrebbe concludere, almeno per il momento, che l’orrore, per la<br />

sua natura esclusivamente scopica, appartiene all’identificazione primaria - mentre la <strong>paura</strong> è narrativa e<br />

compete all’identificazione secondaria. La distinzione è nota ed è stata già oggetto di lunghe elaborazioni<br />

teoriche: qui sarà il caso di riassumerne solo alcuni punti essenziali, senza considerare le implicazioni e<br />

complicazioni che nella valutazione apportano le altre componenti <strong>del</strong> linguaggio audiovisivo, quali,<br />

essenzialmente, la parola e la musica.<br />

Quando guardiamo un film, il nostro sguardo è guidato dalla macchina da presa: questa guarda per noi e<br />

noi vediamo solo ciò che essa ha guardato. La nostra identificazione con la macchina è primaria ed essenziale:<br />

il suo sguardo è allo stesso tempo il narratore e lo spettatore. Rispetto a ciò che ha visto/costruito la<br />

macchina da presa possiamo tuttalpiù operare una sottrazione (non vedere, rimuovere, ecc), ma questo non<br />

è un mutamento prospettico. Ciò che conta è che, salvo rare eccezioni (le soggettive, il camera look - o<br />

sguardo in macchina), l’identificazione primaria ci relega ad un ruolo di testimoni invisibili di azioni in cui<br />

non possiamo interferire, perché sono staccate da noi e la loro appartenenza al mondo <strong>del</strong>la visione si<br />

coniuga con la nostra estraneità di spettatori. Siamo sempre consapevoli <strong>del</strong>la natura fictional di un film,<br />

cioè di assistere ad uno spettacolo in cui il distacco eteroguidato ci inchioda a una funzione di spettatori<br />

che nulla possono fare contro o entro quella storia. Tuttavia, poiché lo sguardo non è solo una registrazione<br />

passiva, ma, al contrario, ha legami indissolubili col cervello, ecco che quest’ultimo interviene a dare<br />

alla visione implicazioni che la sola fisicità <strong>del</strong> vedere non potrebbe avere. Ogni mutamento di prospettiva,<br />

di distanza, di composizione ha, almeno in teoria, un senso e tocca a noi rielaborarlo mentalmente: se<br />

la macchina da presa inquadra dal basso la creatura di Frankenstein, questo punto di vista – anche senza<br />

essere una vera e propria soggettiva - ci pone in una condizione d’inferiorità fisica, come se fossimo proprio<br />

di fronte ad una statura gigantesca. Nel nostro ruolo primario di testimoni esterni si apre una crepa,<br />

attraverso la quale penetriamo empaticamente nella storia.<br />

Come sembrano dimostrare le più recenti ricerche sulla dinamica neuronale <strong>del</strong>la visione ricordate da Luca<br />

Casadio, “la percezione non può essere considerata al pari di una lettura semantica, ma ci appare basata su<br />

11


un coinvolgimento empatico<br />

e corporeo <strong>del</strong>lo spettatore”,<br />

ovvero su “una<br />

sorta di contagio emozionale”,<br />

per cui, “osservando<br />

una scena (anche filmica),<br />

si mettono in moto<br />

gli stessi centri preposti<br />

all’esecuzione concreta<br />

<strong>del</strong>l’azione” e siamo<br />

coinvolti in una sorta di<br />

“straniamento empatico”,<br />

grazie al quale vediamo, ma al tempo stesso diventiamo ciò che vediamo.<br />

Per quanto ridicole ci possano apparire certe sequenze adrenaliniche tipiche di tanti film degli ultimi anni<br />

(mostri che si combattono fra i grattacieli, inseguimenti e scontri automobilistici, sparatorie urbane che<br />

sarebbero già eccessive in un film di guerra, ecc), non possiamo non partecipare emotivamente e fisicamente<br />

agli impulsi dettati da quella concitazione auditiva e sonora.<br />

E tuttavia non basta. Un film non è solo una successione di immagini e movimenti, perchè queste mettono<br />

in scena azioni che costruiscono una storia, un ambiente e dei personaggi e non mi riferisco solo ai film<br />

narrativi, la cosa vale anche per molti documentari: le uniche eccezioni sembrano essere i film astratti o,<br />

più in generale, molte <strong>del</strong>le opere legate alle avanguardie. Grazie al movimento e al montaggio, in un film<br />

non vediamo solo l’essere o l’apparire (come potrebbe essere in una serie di diapositive), ma soprattutto il<br />

fare o il poter fare: solo che ciò che accade o potrebbe accadere, dati i presupposti, sullo schermo finisce<br />

sempre, in misura maggiore o minore, per non lasciarci indifferenti: siamo portati a identificarci, per così<br />

dire in seconda battuta, con tutte le suggestioni <strong>del</strong> caso, per esempio, con l’uno o l’altro dei personaggi.<br />

L’identificazione secondaria è una specie di partecipazione emotiva a vite che non sono le nostre: ci trascina<br />

all’interno <strong>del</strong> mondo <strong>del</strong> racconto, ci spinge a viverlo per interposta persona (l’eroe ostacolato, l’eroina<br />

perseguitata, ecc). Quella storia che sappiamo non essere nostra diventa almeno in parte nostra, per una<br />

sorta di contiguità empatica: questa è <strong>del</strong> resto l’ambiguità prospettica di ogni narrazione; non siamo mai<br />

l’io narrante, né il narratore onnisciente, né il testimone vero di una storia, ma possiamo almeno in parte<br />

essere - cioè sentirci come - un personaggio che la vive; e infatti questo grimal<strong>del</strong>lo agisce anche quando<br />

leggiamo un romanzo.<br />

Per quanto riguarda il cinema, s’instaura in questo modo una contraddizione fra il vedere fisico e il vedere<br />

mentale, fra distacco e partecipazione: siamo fuori e dentro allo stesso tempo. Vorrei soffermarmi, a questo<br />

proposito, su un esempio rivelatore a livello metalinguistico, anche se anomalo. Nella sequenza culminante<br />

de Il silenzio degli innocenti la protagonista si ritrova chiusa in una cantina insieme al serial killer<br />

cui sta dando la caccia; non vediamo il dibattersi terrorizzato <strong>del</strong>la protagonista per cui abbiamo parteggiato<br />

per tutto il film come se fosse un avvenimento esterno, di scena, ma lo vediamo attraverso gli occhi <strong>del</strong><br />

12<br />

Anthony Hopkins ne Il silenzio degli<br />

innocenti, di Jonathan Demme<br />

Jack Ncholson in Shining, di Stanley<br />

Kubrick


killer (e già saremmo coinvolti); la soggettiva di questi, che diventa il nostro sguardo, accentua la <strong>paura</strong><br />

per il destino <strong>del</strong>la seconda, l’eroina per cui parteggiamo, ma al tempo la altera. La contraddizione non solo<br />

ribadisce lo stato d’incertezza in cui la prospettiva empatica (identificazione secondaria) ha la meglio su<br />

quella informativa <strong>del</strong>lo sguardo (identificazione primaria), ma ci pone provocatoriamente in una posizione<br />

che non ci compete, quella <strong>del</strong>l’assassino. Se proviamo <strong>paura</strong> o angoscia o suspense, è solo perché<br />

vediamo un nostro essere visti, non il nostro guardare: il noi virtuale invece <strong>del</strong> noi visivo.<br />

Dalla <strong>paura</strong> all’ossessione<br />

Il silenzio degli innocenti è un caso limite, una riflessione sui possibili giochi prospettici e di distanza <strong>del</strong>lo<br />

sguardo, e quindi su quella doppiezza istituzionale <strong>del</strong>lo sguardo che è propria <strong>del</strong> cinema e, in generale,<br />

di ogni linguaggio composito dei media: chi guarda è allo stesso tempo guardato, soggetto e oggetto contemporaneamente,<br />

invisibile o nascosto oppure palese e visibile, a seconda dei casi. Ma questo non vale<br />

solo per una sequenza volutamente autoriflessiva, bensì per tutto il linguaggio audiovisivo e non possiamo<br />

non riconoscervi un’evoluzione sintomatica di quella crisi d’identità, incertezza, spaesamento che segna il<br />

nostro tempo. Se possiamo essere chiamati in causa, a livello empatico o neuronale, da uno spettacolo che<br />

morfologicamente ci lascia fuori, significa che il processo di comunicazione è in sé ambiguo: ci chiama a<br />

sé come soggetti guardanti e partecipanti allo stesso tempo. Il mondo <strong>del</strong>la finzione non è più là, sullo o<br />

dentro lo schermo, ma è attorno o dentro di noi. E allora come possiamo definire il nostro ruolo di spettatori-destinatari?<br />

Il cinema alimenta questa contraddizione e al tempo stesso ne è figlio; non introduce nella storia un nuovo<br />

soggetto, per quanto limitato e particolare possa essere, ma sviluppa in una direzione apertamente contraddittoria<br />

una soggettività già incrinata e un generale processo di de-soggettivazione. Dal punto di vista <strong>del</strong>lo<br />

sguardo siamo uno spettatore, ma non lo siamo interamente più da quello <strong>del</strong>la partecipazione emotiva.<br />

Sappiamo di essere di fronte ad un gioco di finzione, come nei giochi dei bambini o in un tunnel <strong>del</strong>l’orrore<br />

di un luna park, ma, al tempo stesso, malgrado questa consapevolezza, c’è almeno un momento in cui<br />

non siamo più la nostra ragione, bensì solo la <strong>paura</strong> che proviamo per un altro che non esiste se non come<br />

finzione. E’ un surplus emozionale che rivela e colma il manque razionale. La sostituzione, per quanto parziale<br />

e apparentemente marginale, ci spodesta dal nostro ruolo di soggetti e, grazie alla reiterazione, genera<br />

una vera e propria psicosi – nascosta – che opera a nostra insaputa.<br />

Ciò che vale in generale per i media e in particolare per il cinema, si può applicare a maggior ragione per<br />

la televisione, che si presenta come una finestra aperta sul mondo: ciò che la differenzia soprattutto dal<br />

cinema è la diretta, cioè il mondo qui ed ora, in simultanea con la nostra vita. La tv sbandiera ripetutamente<br />

il proprio ruolo informativo e, dunque, “realistico”, tranne ovviamente nel caso in cui trasmetta film o<br />

telefilm: qui è semmai la dimensione quotidiana e casalinga <strong>del</strong>la visione a indurre altre suggestioni. Se<br />

alla fine di un film possiamo riacquistare la nostra coscienza di spettatori, malgrado le ferite che esso può<br />

avervi lasciato, e se abbiamo tremato durante la visione, ma ne siamo comunque fuori e possiamo considerarlo<br />

come un brutto sogno di due ore, di fronte alla televisione, soprattutto quella d’informazione, non<br />

ci sono soluzioni di continuità: essa dichiara continuamente e ossessivamente di parlarci <strong>del</strong>la realtà e riba-<br />

13<br />

Immagine tratta da La seconda guerra<br />

civile <strong>america</strong>na, di Joe Dante (1997)


disce sempre la propria aderenza al mondo, per quanto possa essere falsa.<br />

Consideriamo ora il fatto che il messaggio informativo (teoricamente strutturato come messaggio primario)<br />

è in realtà quasi sempre strutturato come se fosse un messaggio narrativo. Nella maggior parte dei casi<br />

le notizie appartenenti alla cronaca sono tese a presentare il mondo come una sorta di grande sineddoche<br />

o metonimia e non in quanto enunciato astratto, come forse richiederebbe una comunicazione statistica.<br />

Ciascuna notizia è in sé il mondo – non solo la storia dei signori X, Y, Z – ma anche la nostra storia. Tutto<br />

nell’informazione insiste su questa contiguità, su questa possibile identificazione secondaria. Percepiamo<br />

l’informazione come un fatto vero perché si trova all’interno di un medium che si ammanta di verosimiglianza,<br />

ma anche – in parziale conseguenza - come racconto in cui possiamo riconoscerci. Infatti, anziché<br />

mirare a una globalità oggettiva, l’informazione si distribuisce e si organizza in microstorie che, in quanto<br />

tali, sollecitano, a volte ossessivamente, la nostra identificazione secondaria e, attraverso questa, la<br />

nostra conoscenza dei fatti, ormai trasformate in sequenze narrative, frammenti di una storia che ci vede<br />

co-protagonisti. Quanto mi viene raccontato potrebbe accadere anche a me – anzi, è proprio come se accadesse<br />

a me. La <strong>paura</strong> è contagiosa e va alimentata.<br />

La <strong>paura</strong> è sempre stata un’arma di potere e di sicura presa emotiva; negli ultimi anni questo suo secondo<br />

aspetto è cresciuto a dismisura, quantitativamente parlando, magari a scapito <strong>del</strong> primo, oppure spesso in<br />

concomitanza. In entrambi i casi supporta o sostituisce il rispetto <strong>del</strong>le regole, condivisibili o meno che<br />

siano. Spesso è la <strong>paura</strong> suggerita dall’informazione a rendere accettabili, se non desiderabili, quelle regole<br />

o la loro sostituzione con altre e, naturalmente, ciò accade quando l’informazione è strutturata allo<br />

scopo, ovvero diventa suggestione.<br />

Anche qualora in un paese la criminalità dovesse ridursi, magari non in modo considerevole e rassicurante,<br />

ma a livelli statisticamente accettabili, questi sarebbero resi a loro volta inaccettabili dal continuo richiamo<br />

degli organi d’informazione a ciò che vive attorno a noi, alle storie/cronache che si sviluppano nel<br />

nostro stesso mondo e di cui potremmo noi stessi essere chiamati ad diventare protagonisti – o, meglio, vittime.<br />

L’ostentazione spettacolare e ossessiva <strong>del</strong>l’insicurezza fa sì che l’identificazione secondaria (narrazione)<br />

sgombri definitivamente il campo da quella primaria (informazione), per fare di noi non tanto degli<br />

osservatori e testimoni, quanto <strong>del</strong>le vittime virtuali. L’out there che da decenni ossessiona i protagonisti<br />

dei telefilm <strong>america</strong>ni è diventato il nostro out there, ma non grazie a film e telefilm, dichiaratamente fictional,<br />

bensì grazie all’informazione.<br />

La cronaca è sempre selettiva, può andare a periodi, seguendo – alla lettera – l’onda degli immigrati albanesi,<br />

africani, rumeni, ma questi sono numeri e non lasciano il segno di parole e volti che invece ci assomigliano<br />

(il top <strong>del</strong>la propaganda non ha coinciso con il top <strong>del</strong>le immigrazioni, ma l’ha preceduto, quel<br />

tanto che basta ad atterrire un elettorato, e quindi a guidarlo). Ogni giorno stampa e televisione raccontano,<br />

in prima pagina o in ampie pagine centrali, le imprese di <strong>del</strong>inquenti, meglio se extracomunitari o addirittura<br />

zingari; se sono italiani, il loro spazio se lo guadagnano egualmente, ma lo stereotipo perde corpo e<br />

quindi anche spazio, si tratta, insomma, un caso particolare. E’ la versione ripetitiva o tutt’al più aggiornata<br />

<strong>del</strong>l’uomo nero di tradizione fiabesca, moderno orco di una società non proprio moderna. In un mondo<br />

lacerato da crisi d’identità non è difficile trovare ciò che dall’esterno offre l’illusione di riunificarci in un<br />

corpo sociale reso omogeneo da un altro che incombe concretamente su di noi come in un qualunque racconto<br />

o film <strong>del</strong>l’orrore.<br />

In un’informazione alla perenne ricerca di shock da infliggerci (cioè di spettacolo-visione che si consuma<br />

in se stessa), l’identificazione secondaria ci trascina in un racconto che intreccia le storie più diverse e ci<br />

rende facile preda di quelli che, in altri tempi e altre circostanze, Vance Packard chiamava i “persuasori<br />

occulti”. A suo tempo – e ancora oggi – dovevamo comprare merci, mentre nel presente dobbiamo acquisire<br />

idee-<strong>paura</strong>: chi organizza questo gioco al massacro sembra convinto che abbiamo bisogno, per sentirci<br />

vivi e nel mondo, di adrenalina a getto continuo, e si scusa – quando lo fa – trincerandosi dietro il diritto<br />

di cronaca. Questa è la grande differenza che separa un’informazione tendenziosa dalle fiabe, che pure<br />

intendono svolgere la loro funzione pedagogica attraverso una narrazione di <strong>paura</strong>: la struttura metaforica<br />

<strong>del</strong> messaggio fiabesco e fantastico si oppone nettamente a quella metonimica <strong>del</strong> messaggio informativo;<br />

nel primo caso la finzione è dichiarata e quindi valutabile, per quanto inconsciamente, come tale; nel<br />

secondo, la finzione è nascosta dietro la continuità col reale.<br />

Nell’epoca <strong>del</strong>l’informazione (stampa, radio, tv) il rapporto comunicativo non è più un tu per tu, come<br />

accade per le fiabe: è informazione di massa, con un soggetto emittente spesso riconducibile, se non altro<br />

per struttura, a un soggetto unico, e con un soggetto ricevente che è al contrario generalista e univoco (la<br />

14


forzatura è ovviamente esemplificativa, ma non lontana<br />

dalla realtà). Si genera, in questo modo, una psicosi collettiva<br />

– frutto di anni e non di semplici occasioni – alla quale<br />

non può opporsi altro che la promessa di una riacquistabile<br />

sicurezza, l’happy end che la fiction in genere decreta<br />

come possibile, cioè qualunque azione viene vista e vissuta<br />

come narrazione. Allo stesso tempo, la militarizzazione<br />

<strong>del</strong>le città, per fortuna più apparente e di facciata che reale,<br />

non solo non tranquillizza, ma al contrario accresce la<br />

<strong>paura</strong>: ciò che si può pensare è che, “se si fanno intervenire<br />

i soldati, una ragione ci deve essere” – proprio come nei<br />

film, retti, come ogni narrazione, dalla logica <strong>del</strong> post hoc,<br />

propter hoc. Bisogna sfruttare fino in fondo questa disposizione<br />

o disponibilità alla <strong>paura</strong>, bisogna ripetere fino<br />

all’ossessione che il mondo la merita e suggerire interventi<br />

che si presentino come risolutori – almeno in un mondo<br />

virtuale nel quale veniamo guidati giorno per giorno. Di<br />

contro, la riflessione sulla complessità <strong>del</strong> fenomeno è<br />

relegata allo sfondo: è teoria, non realtà. Ancora una volta<br />

l’identificazione secondaria si oppone a quella primaria,<br />

come la suggestione alla riflessione – ed è la prima a<br />

(con)vincere. Non viviamo più la Storia, ma viviamo di<br />

storie che non sono le nostre, anche se è lo sono divenute<br />

attraverso un contagio, come in un colossale videogame le cui regole<br />

non dipendono da noi, bensì ci determinano come pedine, la cui<br />

tranquillità dipende solo da quel suo falso surrogato che è la <strong>paura</strong>.<br />

Nell’attuale crisi <strong>del</strong>la democrazia liberale, al rispetto di regole formali<br />

(il voto, i ricorsi, le lettere ai giornali, i dieci minuti di notorietà<br />

che spettano a tutti, ecc) si accompagna la totale disattenzione<br />

<strong>del</strong>le regole sostanziali: nel momento in cui l’informazione diventa<br />

narrazione (e non <strong>del</strong>le più sofisticate) e la <strong>paura</strong> diventa qualcosa<br />

che non è più né un fine, né un mezzo, ma entrambi contemporaneamente,<br />

non siamo più liberi. E non lo siamo perché guardiamo la<br />

televisione o il cinema come se fossero realtà - o suoi duplicati o prolungamenti<br />

- e perché l’informazione in sé è costruita solo per questo<br />

scopo.<br />

Naturalmente la colpa di tutto ciò non riguarda il cinema, come molti<br />

forse vorrebbero (quante volte abbiamo sentito incolpare il cinema<br />

<strong>del</strong> dilagare <strong>del</strong>la violenza o <strong>del</strong> sesso? Quante volte lo spettacolo è<br />

stato assunto ad alibi d’una società in sé violenta e repressiva?).<br />

Questa è solo una <strong>del</strong>le tante strategie messe in atto da una democrazia<br />

ridotta a organizzazione ideologica ed economica <strong>del</strong>le masse. Il<br />

cinema trasforma la <strong>paura</strong> in spettacolo, ma di questo siamo comunque<br />

consapevoli, malgrado le sue forti suggestioni; al contrario, l’informazione<br />

– questa informazione – nasconde la propria suggestione<br />

sotto una doppia maschera: un’apparenza di realtà e l’abuso di strutture<br />

comunicativo-narrative che con essa hanno ben poco a che fare.<br />

Il contagio <strong>del</strong>la <strong>paura</strong> diventa allora strumento di plagio collettivo.<br />

Claudio Bisoni, Il cinema tra paure post 11 settembre e il mal<br />

d’archivio nell’epoca dei new-media»<br />

Premessa<br />

Vorrei iniziare con due punti preliminari: il primo è chiarito da una<br />

15<br />

Bruce Willis in Die Hard - Vivere o<br />

morire, di Len Wiseman


attuta contenuta nell’ultimo episodio di Die Hard – Vivere o morire (Len Wiseman, 2007). Parlandone,<br />

già trasgredisco una regola-base <strong>del</strong>l’analisi culturologica dei timori contemporanei attraverso il cinema,<br />

la quale vuole che ci si occupi di ciò che striscia sotto la superficie <strong>del</strong>le nostre vite, anche se questo non<br />

significa che le paure umane scorrano solo sottopelle, come i vermi sotto i fiori nel giardino di Velluto Blu<br />

di David Lynch. Piuttosto, l’industria <strong>del</strong>l’interpretazione preferisce dedicarsi a significati poco visibili, per<br />

sembrare più efficace. L’effetto di profondità non è necessariamente là fuori: fa parte <strong>del</strong> discorso <strong>del</strong>le<br />

scienze umane, cioè <strong>del</strong>le regole <strong>del</strong> gioco. Anche per questa ragione vorrei invece proporre oggetti dove<br />

le paure, le idee e le preoccupazioni degli individui, o di certi gruppi sociali, sono ostinatamente superficiali,<br />

con la forza <strong>del</strong>la naivetè, e, se necessario, <strong>del</strong>la trivialità. Die Hard, dunque .<br />

Ad un certo punto il poliziotto analogico Bruce Willis - un uomo che non ha <strong>paura</strong> - si trova accoppiato,<br />

secondo la logica <strong>del</strong> buddy film, a un improbabile giovinetto hacker informatico. I loro dialoghi sono<br />

istruttivi fino al punto in cui, quando l’hacker riformula la teoria <strong>del</strong> complotto, Willis gli risponde con una<br />

frase tipo: “ Quello che tu chiami complotto o sistema è una Nazione”. Ovviamente, il tutto è detto senza<br />

un filo di ironia. Il che chiarisce ancora meglio il caso di due vocabolari inconciliabili. Da un lato, la retorica<br />

<strong>del</strong> rapporto visibilità/invisibilità, superficie simulativa/verità nascoste, la logica <strong>del</strong> complotto (di cui<br />

parlerò ancora), come logica tipicamente post-moderna; dall’altro, una tesi non complottistica, ma che<br />

paradossalmente fa leva su una nozione <strong>del</strong> tutto oscura e altrettanto fantasmatica di quella di complotto:<br />

l’idea di “nazione”, un significante-padrone vuoto, pronto a essere riempito da desideri (e paure). Quindi<br />

si confrontano non due visioni chiare <strong>del</strong> mondo, due coscienze, ma due forme di angosce, due paure <strong>del</strong><br />

vuoto, due fantasmi che rimandano a catene di altre paure, dolori, necessità di credenza, ecc.<br />

Ecco il primo punto: spesso ancoriamo le paure e le paranoie a nozioni-ombrello come “episteme”, “ideologia”,<br />

ma, seguendo Pierre Bourdieu, si dovrebbe notare che le paure in realtà funzionano come i gusti,<br />

sono retti da habitus, da assunzioni implicite, da status sociali. Mi pare che questo sia un aspetto spesso<br />

trascurato e io non farò che peggiorare la situazione perché lo nomino solo qui e più avanti non avrà spazio<br />

nel mio discorso, ma almeno nominiamolo: le nostre paure sono anche le non-paure degli altri, la derisione<br />

che gli altri fanno <strong>del</strong>le nostre paure e l’horror sfrutta spesso questo meccanismo. Uno dei suoi plot<br />

standard, come ha notato Nöel Carroll in The Philosophy of Horror, si basa sul fatto che le paure di una<br />

sotto-comunità non sono condivise dalle paure di un’altra sotto-comunità fino al punto <strong>del</strong>la conversione,<br />

e la posta in gioco <strong>del</strong>la narrazione è produrre proprio la conversione. Le paure, come i gusti, sono socialmente<br />

determinate, e come i gusti servono per distinguerci dagli altri, sono una forma di violenza attiva,<br />

non solo subita, basti pensare alle bellissime pagine di La distinzione in cui Bourdieu ricostruisce come i<br />

gusti siano forme di violenza socialmente accettata. La battuta di Bruce Willis mi sembra che spieghi<br />

benissimo come anche un film popolare possa avere coscienza di un problema che l’analisi sociologicotestuale,<br />

spesso per adesione ai suoi scopi intriseci (astrazione, generalizzazione ecc.), deve trascurare. Si<br />

tratta, quindi, di un problema di generalizzazione.<br />

Il secondo punto è più generale e riguarda la capacità <strong>del</strong>l’immaginario massmediale di rispecchiare, elaborare,<br />

rilanciare, mediare le paure, cioè riguarda lo statuto propriamente di medium dei mass media. La<br />

questione è che esiste una frattura tra nuovi media e vecchi media analogici, come il cinema. Occupandomi<br />

16<br />

L’attentato <strong>del</strong>l’11 settembre


di quest’ultimo non posso sottrarmi a un’altra domanda preliminare: quanto il cinema è ancora in grado di<br />

produrre-mo<strong>del</strong>lare un immaginario fobico, o un immaginario tout court?<br />

Come è noto, è nella grande fase <strong>del</strong> cinema classico che questo predispone un genere interamente dedicato<br />

alla messa in scena, alla diegetizzazione <strong>del</strong>la <strong>paura</strong>: l’horror. Cinema nella <strong>paura</strong>, dove il terrore è<br />

ricercato come effetto performativo, cinema sulla <strong>paura</strong> dove sommamente si ritrovano alcune ossessioni<br />

negoziate come, ad esempio, l’immersione/emersione dalle cose, ma anche altre preoccupazioni che le letture<br />

sintomatiche non hanno mancato di evidenziare dagli anni settanta <strong>del</strong> Novecento in avanti. Inoltre,<br />

cinema che fa <strong>paura</strong>, in un modo più sottile, cioè sul piano <strong>del</strong>la legittimazione sociale, <strong>del</strong>l’autenticazione<br />

culturale, cinema discusso all’interno <strong>del</strong>le categorie <strong>del</strong> gusto e <strong>del</strong>la pedagogia, <strong>del</strong>la convenienza<br />

sociale, <strong>del</strong>la storia <strong>del</strong> costume, e fonte di preoccupazione, spunto per dibattiti intorno a cui si forma la<br />

sfera pubblica, oggetto di monitoraggi continui. C’è forse da rimpiangere quel tipo di preoccupazione<br />

sociologica, ingenua e moralista, capace al contempo di giungere fino alla censura e di essere la spia di una<br />

centralità culturale <strong>del</strong> medium cinematografico riconosciuta in negativo. In quel tipo di clima, Tullio<br />

Kezich, uno dei principali critici italiani poteva scrivere di Inferno di Dario Argento (1980) “… per qualche<br />

momento azzeccato, per qualche momento di cinema fantastico, sono troppe le contropartite di tetra<br />

banalità, le concessioni al gusto efferato di platee ormai contaminate dall’estetica <strong>del</strong> teppismo”. Contagio,<br />

teppismo, nuovi consumi. Ecco come il genere <strong>del</strong>la <strong>paura</strong> si converte nella <strong>paura</strong> sociale <strong>del</strong> genere. Bene,<br />

questa circolarità si è spezzata. In che senso oggi un film può essere veramente percepito come sintomo<br />

preoccupante (pauroso) di qualcosa? Oggi lo scenario dei media è più liquido e indefinito e il cinema non<br />

rispecchia, né attiva più i processi in gioco fino a trenta anni fa.<br />

Ciò non implica che non si possano individuare comunque dei luoghi di reciproca influenza tra cinema e<br />

immaginario fobico contemporaneo. Provo ora a concentrarmi su duo oggetti circoscritti e concreti, che<br />

hanno che fare con le paure relative allo scenario <strong>del</strong> post 11 settembre 2001.<br />

Il modo più diretto in cui il trauma <strong>del</strong>le torri gemelle è stato riscritto e rielaborato è quella <strong>del</strong> film commemorativo,<br />

quale, ad esempio, World Trade Center di Oliver Stone e 11 settembre 2001 (film a episodi).<br />

Credo però che si possa cercare altrove la traccia <strong>del</strong>le nuove paure, senza per questo leggere come metafora<br />

<strong>del</strong> trauma/<strong>paura</strong> post-11 settembre ogni cosa prodotta in America, correndo il rischio <strong>del</strong>la lettura sintomatica<br />

in generale, che troviamo nei recenti numeri di certe riviste accademiche dedicati a temi tipo “il<br />

cinema post 11 settembre”. Vorrei a questo proposito considerare due film <strong>del</strong> 2008: Cloverfield e<br />

Redacted.<br />

Paure e immaginario urbano: Cloverfield<br />

C’è una bellissima cartolina degli anni trenta <strong>del</strong> Novecento riprodotta in Delirious New York (1978); è il<br />

manifesto retroattivo per Manhattan scritto da Rem Koolhaas in Design & Crime di Hal Foster, in cui si<br />

17<br />

Cloverfield. Una scena


vede lo sky line <strong>del</strong>la città mentre un dirigibile gli si avvicina. Questa immagine descrive perfettamente lo<br />

spazio utopico modernista <strong>del</strong>la città intesa come luogo di libera circolazione nello spazio, dall’alto al<br />

basso, ed è esattamente ciò che va in pezzi in un film come Cloverfield di Matt Reeves. Il film è una simulazione<br />

di un video-diario che registra, in soggettiva, niente meno che la distruzione di New York.<br />

Non che la modernità sia sempre stata modernolatrica (su questo punto Antoine Compagnon ha scritto cose<br />

importanti in “I Cinque paradossi <strong>del</strong>la modernità”) e basta leggere La metropoli e la vita <strong>del</strong>lo spirito,<br />

1903, di Simmel sull’intensificazione <strong>del</strong>la vita nervosa nei nuovi contesti metropolitani tra Ottocento e<br />

Novecento per rendersene conto. L’impegno percettivo e sensoriale che ci richiede la vita moderna rischia<br />

di proiettarci fuori da noi stessi, nel caos <strong>del</strong>le emozioni e quindi nell’incomprensione dei fenomeni, cui<br />

bisogna opporre rimedi. Simmel propone l’esercizio <strong>del</strong>l’intelletto e lo spirito <strong>del</strong> Blasé, mentre Freud, in<br />

Al di là <strong>del</strong> principio di piacere, parla di una barriera protettiva, di una corteccia in grado di rendere limitato<br />

l’effetto degli stimoli penetranti nell’organismo. Su questi temi, è interessante leggere il saggio di<br />

Francesco Casetti, L’occhio <strong>del</strong> Novecento.<br />

In Cloverfield, in effetti, è in gioco proprio l’eccesso di stimoli situati, il fatto che non si esca mai dall’orizzonte<br />

ridotto <strong>del</strong>l’attacco al corpo. La città non è più il luogo di articolazione di rapporti tra soggetti e totalità,<br />

tra individui e progetto urbano, ma lo spazio di rivisitazione perversa e cru<strong>del</strong>e <strong>del</strong>l’eccesso di stimolo<br />

primo-novecentesco, senza la possibilità di scappare (senza la libertà degli spazi, cioè senza una concezione<br />

positiva e liberatrice <strong>del</strong>la nuova vita nervosa). L’insieme di speranze e timori insiti nella constatazione<br />

<strong>del</strong>la nuova vita nervosa <strong>del</strong>la modernità lascia spazio solo a un set di fobie.<br />

Cloverfield porta in scena ciò che Paul Virilio chiama la città panico, una figura essenziale <strong>del</strong> cinema contemporaneo:<br />

in Godzilla il mostro cammina tra le avenue distruggendole, in L’alba <strong>del</strong> giorno dopo la catastrofe<br />

ecologica si riversa su Manhattan sotto forma di vento ghiacciato e allagamenti vari che inondano la<br />

città, secondo una dinamica figurativa che ricalca letteralmente il diffondersi <strong>del</strong>le polveri e <strong>del</strong>le macerie<br />

a Ground Zero. Non a caso, entrambi i film sono diretti da Ronald Emmerich, regista anche di<br />

Indipendence Day, film sull’invasione aliena dove ad essere distrutta è la Casa Bianca stessa. In I Am<br />

Legend si vede una New York deserta, abbandonata a causa di un virus, altro tema centrale nell’ultima stagione<br />

cinematografica, da 28 Weeks Later a Planet Hollywood, seppure in chiave grottesca, almeno per<br />

quest’ultimo film.<br />

Nella città-panico tutto si capovolge: l’apertura spaziale, la libertà di circolazione nello spazio cosmopolita<br />

diventa agorafobia (i protagonisti vanno a morire a Central Park). Inoltre, la fuga verso i ponti è illogica:<br />

perché nel New Jersey o a Brooklin dovrebbe esserci la salvezza? Perché scappare? Perché Manhattan<br />

è la città circondata per definizione, racchiusa nella cerchia dei suoi corsi d’acqua e dei suoi grattacieli.<br />

Non è la città aperta, non il porto di mare da cui si arriva nel nuovo mondo, ma la città-prigione, nelle cui<br />

vie infossate nel disastro si proietta l’immagine stessa che andava incontro a chi arrivava nel nuovo mondo:<br />

un tronco <strong>del</strong>la Statua <strong>del</strong>la Libertà decapitata. Città, quindi, al contempo troppo aperta e troppo chiusa.<br />

Il gusto per la magniloquenza e l’altezza è anch’esso capovolto. In primo luogo, c’è una vera e propria<br />

catastrofe nei confronti dei nostri tradizionali parametri di scala, quelli che automaticamente attiviamo<br />

anche quando si tratta di valutare la magnitudo architettonica. La prima cosa che ci capita di notare andando<br />

a New York è la sensazione di cambio di scala nella percezione. Tutto è enorme e al contempo proporzionato.<br />

Quello che succede in Cloverfield è che questa città colossale diventa come una sorta di plastico<br />

in miniatura in mano a una “cosa” molto più grande di lei.<br />

In secondo luogo in Cloverfield si attua una corsa verso il basso, a cercare la salvezza nelle strade, nella<br />

metropolitana, si è trattenuti a terra e l’esperienza <strong>del</strong> crollo, che Marco Belpoliti ha provato a inventariare<br />

nel suo libro Crolli, contenendola entro il crollo <strong>del</strong> muro di Berlino e quello <strong>del</strong>le Torri Gemelle, sottolinea<br />

la centralità <strong>del</strong>la caduta. Non c’è più alcuna tensione verso l’alto (il grattacielo, il dirigibile), perché<br />

dall’alto arriva solo il pericolo, l’incarnazione <strong>del</strong>le nostre paure (aerei, creature mostruose, eccessi<br />

<strong>del</strong>la Natura ecc..<br />

Quando si va verso l’alto si va incontro a un’esperienza di spaesamento in cui l’altezza stessa, uno dei tratti<br />

distintivi di questa città fatta di ascisse e ordinate, si converte in una perdita di centro. La possibilità di<br />

orientamento orizzontale e verticale lascia posto alla vertigine, come nella sequenza-incubo <strong>del</strong> recupero<br />

<strong>del</strong> corpo <strong>del</strong>la ragazza nei due palazzi collassati l’uno sull’altro, in cui è in atto un sovvertimento <strong>del</strong>le<br />

categorie topologiche, alto e basso, sopra e sotto si confondono e si scambiano di posto. E’ la distruzione<br />

<strong>del</strong>la riconoscibilità di un luogo fatto di rapporti tra orizzontalità e verticalità, ovvero New York, la città in<br />

cui ordine e caos si bilanciano, dove l’architettura dei palazzi può pretendere di rimanere intatta e la città<br />

18


di cambiare continuamente: un luogo di equilibri diventa il<br />

contenitore catastrofico in cui tutte le caratteristiche positive<br />

sono deformate nella loro smorfia negativa e distopica.<br />

Ad ogni modo, ciò intorno a cui ruota tutto il film è il panico<br />

scopico-percettivo. Come dicevamo, il film è interamente<br />

ripreso attraverso una videocamera a mano, una handycam<br />

che situa e limita lo sguardo alla visione, alle paure di un<br />

solo personaggio; colui che tiene letteralmente la camera è<br />

l’amico nerd <strong>del</strong> protagonista, elemento che riprende il successo,<br />

una decina di anni fa, di The Blair Witch Project, un<br />

film che ha contribuito non poco a ridefinire i modi di produzione<br />

e circolazione mediale <strong>del</strong>la <strong>paura</strong>, visto che solo<br />

nel 2008 si ricordano numerosi titoli girati con lo stesso utilizzo<br />

<strong>del</strong>la macchina a mano (Rec, ad esempio), attraverso il<br />

regime narratologico <strong>del</strong>l’ocularizzazione interna.<br />

Cloverfield fa rivivere e rivisita uno dei grandi assi negoziali<br />

studiati da Casetti in “L’occhio <strong>del</strong> Novecento” a proposito<br />

<strong>del</strong> cinema classico, l’asse che struttura in generale anche<br />

il cinema horror nella sua lunga storia: il rapporto pericoloso<br />

tra immersione/emersione <strong>del</strong>lo sguardo nei confronti dei<br />

fenomeni su cui si posa.<br />

Il cinema ha sempre posto un problema di buona distanza<br />

dalle cose e ha negoziato tra la tendenza a immergersi nel<br />

fenomeni e quella di osservare dall’alto gli eventi <strong>del</strong><br />

mondo. In Cloverfield, quando l’elicottero si alza e guadagna<br />

un overlooking, il Mostro colpisce nel modo più inaspettato<br />

e illogico. Non c’è punto di vista dall’alto, non è consentito<br />

e ogni forma di visibilità sembra carente, impossibile, limitata,<br />

assurda, parziale. È un dramma <strong>del</strong>la conoscenza e <strong>del</strong>la<br />

visione, è il qui e ora <strong>del</strong>l’esperienza, la <strong>paura</strong> e la vertigine<br />

<strong>del</strong> corpo ignorante che non sa dove andare, una <strong>paura</strong> primordiale.<br />

Non è il complotto, che è una <strong>paura</strong> legata al sapere,<br />

alla conoscenza, a ciò che ci viene detto, ma è una <strong>paura</strong><br />

che ha a che fare con un altro tipo di sapere, quello legato a<br />

una prospettiva più vantaggiosa, resa impossibile. Il problema<br />

è la cecità fisica immediata: <strong>paura</strong> corporale e circoscritta<br />

all’esperienza sensoriale diretta.<br />

Con Cloverfield indago quindi una <strong>paura</strong> di tipo spaziale, al<br />

contrario di quello che succede, per esempio, in una serie tv<br />

tra le più indicative <strong>del</strong>lo scenario post 11 settembre, cioè 24.<br />

Qui, solo apparentemente siamo di fronte a un problema di<br />

generica “<strong>paura</strong> <strong>del</strong>l’Altro”, di <strong>paura</strong> di attacco, ennesima<br />

riscrittura <strong>del</strong>la sindrome <strong>america</strong>na per la vulnerabilità <strong>del</strong><br />

corpo stesso <strong>del</strong>la nazione <strong>america</strong>na. Stalin parlava di carne<br />

<strong>del</strong> Cremlino. Noi potremmo dire carne <strong>del</strong> Campidoglio.<br />

Ma qui il Campidoglio è assente: uno degli elementi più ridicoli<br />

di 24 è che i terroristi e il presidente sono animati da una<br />

stessa passione feticista per Los Angeles. Ogni attentato, in<br />

ogni stagione <strong>del</strong>la serie prende di mira la città californiana.<br />

Ma come dicevo, solo apparentemente si tratta di questa<br />

<strong>paura</strong> o, per meglio dire, questa <strong>paura</strong> viene riscritta completamente,<br />

subordinata a un altro problema, che è quello <strong>del</strong>la<br />

esiguità temporale.<br />

In 24 ciò che conta non è la cru<strong>del</strong>tà <strong>del</strong> nemico, ma il poco<br />

19<br />

Sotto: alcune immagini tratte<br />

dal serial Tv 24<br />

In basso: locandina <strong>del</strong> film di<br />

Brian De Palma Redacted


tempo che abbiamo per risponderle adeguatamente. Ciò che rende Jack Bauer esattamente l’alter ego, il<br />

doppio altrettanto osceno, dei terroristi a cui dà la caccia (e non, come una lettura ideologica molto superficiale<br />

può fare credere, l’ennesima reincarnazione <strong>del</strong>l’eroe reazionario) è la sua capacità di utilizzare 24<br />

ore per smontare una macchinazione che ha richiesto mesi di preparazione. L’eroe non lotta contro i terroristi,<br />

ma contro il tempo che li ha messi in vantaggio, subisce per la prima parte le prove che lo colpiscono<br />

da ovunque grazie al vantaggio di tempo, e poco a poco, recupera e vince arrampicandosi sulla scala<br />

temporale.<br />

Solo così 24 può non essere solo e semplicemente l’ennesima riscrittura <strong>del</strong>la <strong>paura</strong> <strong>del</strong>l’Altro, ma la serie<br />

cronofobica <strong>del</strong> nostro tempo, in cui, non a caso, la figura stilistico-sintattica dominante è lo split-screen<br />

cioè l’espediente che consente di esercitare uno sguardo su più spazi contemporaneamente e di sfaldare il<br />

tempo, contrarlo, di costringerci alla simultaneità, all’attenzione su molteplici centri d’azione concomitanti.<br />

Questo ci fa prendere familiarità con l’accadere immediato <strong>del</strong>l’evento e <strong>del</strong>le sue conseguenze, più che<br />

con la logica <strong>del</strong>la consequenzialità; la serie che lega in un unico abbraccio la questione <strong>del</strong> tempo e la questione<br />

prettamente filosofico-giuridica <strong>del</strong>lo Stato d’eccezione: si tratta <strong>del</strong>l’esiguità temporale che legittima,<br />

innesca, mantiene lo stato d’eccezione e quindi la sospensione <strong>del</strong>la Regola. È l’esiguità temporale che<br />

mette a nudo il legame profondo tra la Nazione, i suoi meccanismi di difesa e lo stato d’eccezione, con la<br />

possibilità di fare sparire uomini, donne, eroi senza commettere reati, torturare ed essere torturati, impegnare<br />

la firma presidenziale per non farla mantenere. In 24 una <strong>del</strong>le situazioni tipiche è il momento in cui<br />

il terrorista ottiene un’amnistia presidenziale, amnistia che va concessa in base esattamente alla considerazione<br />

<strong>del</strong>l’imminenza <strong>del</strong> pericolo, ma che può anche essere ritirata, trattata, negata, invalidata, portando<br />

il discorso giuridico sempre al limite <strong>del</strong> relativismo totale.<br />

Anche in Cloverfield abbiamo una situazione temporale contingentata, un isomorfismo tra tempo <strong>del</strong><br />

discorso e tempo <strong>del</strong>la storia, ma da ciò non discende il grande interesse <strong>del</strong> film. L’interesse <strong>del</strong> film è<br />

questa coincidenza di esiguità temporale ed esiguità di sguardo in relazione allo scenario urbano. Troppo<br />

poco tempo per scappare, troppo poco campo visivo per sapere dove andare e capire cosa succede, troppo<br />

cemento intorno a noi. La città, secondo Virilio, come “la più grande catastrofe <strong>del</strong> ventesimo secolo”. E<br />

appunto Cloverfield racconta bene come la città possa diventare “bersaglio per tutti i terrori domestici o<br />

strategici”, con la conseguente <strong>paura</strong> che il terrore possa colpire non più alla provincia <strong>del</strong>l’impero, sui<br />

deserti dei confini imperiali, in Iraq, Israele, Afganistan, ma possa cercare di fare il deserto <strong>del</strong>la forma<br />

urbanistica per eccellenza <strong>del</strong>la modernità novecentesca, la città, appunto.<br />

Il mondo ci guarda (ma noi lo sappiamo guardare?): Redacted<br />

Passiamo ora a Redacted di Brian De Palma, un mockumentary anomalo, girato in HD e montato come un<br />

collage di spezzoni eterogenei, in molteplici formati, in modo da ottenere il racconto di un episodio “verosimile”,<br />

ispirato a fatti reali accaduti in Iraq. Un gruppo di soldati, per rappresaglia, violenta una ragazza<br />

di quindici anni e ne stermina la famiglia. Da questo episodio si genera un’inchiesta giudiziaria, ma succede<br />

una cosa strana: i marine si comportano come se gli apparecchi di video sorveglianza che registrano<br />

i loro tentativi di cover up non esistessero e ci sono personaggi che incrociano gli sguardi <strong>del</strong>le proprie<br />

videocamere (i soldati tra loro, i soldati e i terroristi <strong>del</strong>la resistenza che filmano gli stessi eventi da distanza<br />

di sicurezza). Però, tutti questi sguardi non si incastrano, come succederebbe in una logica da paranoia,<br />

l’uno nell’altro, non entrano in relazioni di gerarchia (vantaggio scopico, dominio, assoggettamento ecc.).<br />

La situazione inedita messa in scena dal film è che a un certo punto si produce un evento, qualcuno ha visto<br />

e sa, qualcuno vorrebbe parlare ma non può, qualcuno cerca di ricostruire la verità o di insabbiarla. Al contempo,<br />

su un piano parallelo, esiste un altro ordine di realtà dove si compie una registrazione meticolosa<br />

<strong>del</strong>la verità dei fatti. Su questo piano la verità è data, basta cercarla, ma nessuno - né chi sa e nasconde la<br />

verità, né chi non sa e la ricerca - sembra in contatto con questo flusso autonomo di immagini. E’ come se<br />

fossimo di fronte a due universi paralleli. Qual’è questo piano autonomo e differenziato? E’ quello che idealmente<br />

assomma tutti i punti di vista disordinati sugli eventi, che dispone di un accesso illimitato a ogni<br />

posizione vedente.<br />

Non c’è un solo personaggio in Redacted che sappia e veda ciò che lo spettatore e il suo narratore onnisciente<br />

possono vedere. L’immagine da sola non ha alcun potere affermativo o di certificazione se non è<br />

ri-vista, ri-montata assieme ad altre immagini. Bisogna che il visibile sia pur visitato da qualcuno (proprio<br />

come si visita un sito web). Ci vuole, dopo tutto, un altro operatore di sintesi, un’istanza che operi prelievi,<br />

ri-innesti, che accorpi unità coerenti. La cosa interessante è che in Redacted questo operatore di sinte-<br />

20


si è ancora, in modo ostinato, anacronistico, sorprendente, il cinema (o quello che ne rimane). Il cinema<br />

torna a fare qualcosa di simile al lavoro di sempre: crea vettori narrativi e approfondimenti psicologici (è<br />

questo lo scopo <strong>del</strong>la maggior parte degli home movie girati al campo base dei marine), ordina le immagini<br />

in una forma di narrazione, costringe i frammenti dispersi in stringhe sintagmatiche ampie, che richiedono<br />

atti di visione completi, estesi nel tempo. In Redacted il cinema, spogliato <strong>del</strong>la sua materia, <strong>del</strong>la<br />

sua consistenza, <strong>del</strong>le proprie immagini, resiste come principio formale di rimediazione-falsificazione di<br />

tutti gli altri media e come mo<strong>del</strong>lo possibile di ri-articolazione <strong>del</strong>l’esperienza mediale.<br />

Il tipo di timore post-11 settembre che Redacted cerca di <strong>del</strong>ucidare ed esorcizzare è all’opposto di quello<br />

che si trova al centro di una pellicola come Cloverfield. Niente panico da insufficienza scopica. In De<br />

Palma la realtà è sempre iper-mediata. C’è comunque troppo da vedere. Il problema non è la prossimità di<br />

un pericolo imprevedibile e invisibile, ma la gestione di eccesso di immagini nell’epoca di ciò che<br />

Maurizio Ferraris, rileggendo Derida, ha chiamato “mal d’archivio”: la crescita rapida ed esponenziale<br />

<strong>del</strong>le possibilità di archiviazione informatica <strong>del</strong>la visione, il trasformarsi di ogni segno in traccia e documento<br />

immediatamente memorizzato su un supporto artificiale di memoria. Dove c’è debordare <strong>del</strong>l’archivio,<br />

l’archivio stesso diviene “più sfilacciato, meno consapevole, meno selettivo, in larga parte involontario”.<br />

(Ferraris 2007, p. 212)<br />

Conclusioni<br />

Ecco come due piccoli film, uno di buon successo, l’altro minoritario e laterale, ci parlano ancora <strong>del</strong>le<br />

paure <strong>del</strong> presente, la <strong>paura</strong> <strong>del</strong>la catastrofe urbana nell’epoca <strong>del</strong>la velocità <strong>del</strong>le informazioni e <strong>del</strong>la globalizzazione,<br />

e il mal d’archivio nell’epoca <strong>del</strong>la sorveglianza globale diffusa. Il cinema agisce nella sua<br />

funzione più classica, oggi spesso perduta ed ereditata da altri media, ma i film rappresentano le paure in<br />

modo nitido e riconoscibile, ci permettono di farne totale esperienza, per il tempo di una proiezione, di consumarle,<br />

di viverle in una situazione ancora protetta, in altre parole ci consentono di desiderarle. Il tema<br />

<strong>del</strong> consumo <strong>del</strong>la <strong>paura</strong>, o <strong>del</strong>le paure come forme di consumo è oggetto di studio <strong>del</strong>la sociologia da<br />

lungo tempo e ne fa un’analisi interessante il volume di Maura Franchi in “Il senso <strong>del</strong> consumo”.<br />

Qualcuno ricorderà senz’altro la fiaba lituana <strong>del</strong>l’eroe senza <strong>paura</strong> studiata da Greimas in “Del senso”,<br />

dove l’oggetto di valore <strong>del</strong>l’azione <strong>del</strong>l’eroe è la <strong>paura</strong> stessa e le prove che deve superare per raggiungere<br />

l’oggetto sono altri ostacoli “paurosi”, da cui discende un paradosso irrisolvibile: se l’eroe non raggiunge<br />

l’oggetto di valore non è vittorioso, se lo raggiunge diventa un soggetto che ha <strong>paura</strong> e quindi cessa di<br />

essere un eroe.<br />

Il problema su cui vorrei concludere è proprio l’ambigua necessità-ricerca <strong>del</strong>la <strong>paura</strong>, il godimento che<br />

può darci e che l’esperienza cinematografica, qualche volta ancora riesce a innescare. Ci chiediamo allora<br />

se si tratti di voglia di liberarsi <strong>del</strong>la <strong>paura</strong> o <strong>del</strong> sottile piacere nel cercarla sempre, di cercarla per confrontarci<br />

con essa o per perdercisi. Vogliamo, quindi, vincere le paure, combatterle o inseguirle, in una sorta di<br />

estremizzazione <strong>del</strong> paradosso <strong>del</strong>l’eroe senza <strong>paura</strong> studiato da Greimas, in cui la <strong>paura</strong> può essere allo<br />

stesso tempo la prova che dobbiamo superare e l’oggetto <strong>del</strong> nostro più profondo desiderio?<br />

GLI AUTORI<br />

Claudio Bisoni insegna Istituzioni di Storia <strong>del</strong> Cinema e Metodologia <strong>del</strong>la critica cinematografica presso<br />

il DAMS <strong>del</strong>l’Università di Bologna. Si occupa dei rapporti tra critica cinematografica, estetica e processi<br />

culturali e <strong>del</strong> cinema nord<strong>america</strong>no contemporaneo. Suoi articoli e saggi sono apparsi in volumi<br />

collettanei e su varie riviste, tra le quali Fotogenia e La valle <strong>del</strong>l’Eden. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo<br />

Brian De Palma (2002), Full Metal Jacket, con Roy Menarini, 2002; Attraverso Mulholland Drive.<br />

In viaggio con David Lynch nel luogo di un mistero (2004); La critica cinematografica. Metodo, storia e<br />

scrittura (2006).<br />

Giorgio Cremonini ha insegnato Geologia presso la Facoltà di Scienze Naturali <strong>del</strong>l’Università di<br />

Bologna e si è interessato di cinema a partire dal 1970; ha pubblicato numerosi saggi su diverse tematiche<br />

e autori. Ricordiamo i volumi <strong>del</strong> Castoro su Charlie Chaplin (2004) e Buster Keaton (1995), Arancia<br />

meccanica (Lindau, 1996), Stanley Kubrick. Shining, (Lindau, 1999), Playtime. Viaggio non organizzato<br />

nel cinema comico, <strong>del</strong> 2000; sul cinema fantastico, Viaggio attraverso l’impossibile. Il fantastico nel cinema<br />

(2003), Dracula (2007) e Frankenstein (in corso di preparazione). Scrive inoltre sulla rivista <strong>Cineforum</strong><br />

e collabora con il Dipartimento di Musica e Spettacolo <strong>del</strong>l’Università di Bologna.<br />

21


GLI ALIENI SIAMO NOI<br />

Ho pensato di inserire nel quaderno questo pezzo di Emiliano Morreale come debito nei confronti<br />

<strong>del</strong> cinema di fantascienza che, a dire il vero, poteva reggere tutta la rassegna. Ho inserito questo<br />

articolo dopo aver letto il genio di Vonnegut commentare i romanzi di fantascienza:<br />

«Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che<br />

parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i<br />

soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure<br />

breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni. Voi siete i soli che<br />

hanno abbastanza fegato per interessarsi veramente <strong>del</strong> futuro, per notare<br />

veramente quello che ci fanno le macchine, quello che ci fanno le guerre,<br />

quello che ci fanno le città, quello che ci fanno le idee semplici e grandi,<br />

quello che cí fanno gli equivoci tremendi, gli errori, gli incidenti e le catastrofi.<br />

Voi siete i soli abbastanza stupidi per tormentarvi al pensiero <strong>del</strong><br />

tempo e <strong>del</strong>le distanze senza limiti, dei misteri imperituri, <strong>del</strong> fatto che stiamo<br />

decidendo proprio in questa epoca se il viaggio spaziale <strong>del</strong> prossimo<br />

miliardo di anni o giù di lì sarà il Paradiso o l’Inferno.»<br />

Kurt Vonnegut Dio la benedica, signor Rosewater 1965<br />

Pochi generi cinematografici come la fantascienza si prestano a semplificazioni sociologiche, a esser lette<br />

come metafore <strong>del</strong>la società. Specie negli Usa, patria <strong>del</strong> genere: gli alieni rispecchiano di volta in volta il<br />

maccartismo e la <strong>paura</strong> <strong>del</strong>l’atomica, le utopie degli anni ‘70 e perfino l’ Aids e ovviamente l’11 settembre...<br />

Corrispondenze talmente evidenti da risultare talvolta troppo facili. Potrebbe sembrare che il grado<br />

di positività morale attribuita agli extraterrestri sia direttamente proporzionale al grado di sicurezza di una<br />

società: tante più sono le paure e le insicurezze, tanto più gli alieni appaiono una minaccia. Ma i rapporti<br />

sono più complessi, da indagare caso per caso, nella interazione mutevole tra creatori, sistema <strong>del</strong>lo spettacolo<br />

e aspettative <strong>del</strong> pubblico.<br />

Hollywood, in questo discorso, è centrale. Certo, l’Inghilterra e il Giappone hanno espresso filoni importanti,<br />

e molti registi «colti» hanno utilizzato l’ alieno come portatore di uno sguardo straniato sulla società<br />

e sull’uomo: David Bowie in L’uomo che cadde sulla terra di Nicholas Roeg, o il recente finto documentario<br />

di Werner Herzog, L’ignoto spazio profondo. Peraltro, alla prossima Mostra di Venezia si vedrà<br />

l’atteso film di Gianni Pacinotti alias Gipi, L’ultimo terrestre, che promette, stando allo stile <strong>del</strong>l’ autore,<br />

una visione insieme buffa e desolata. Ma la storia degli alieni di celluloide è soprattutto un pezzo di storia<br />

<strong>del</strong>l’ America, e ovviamente <strong>del</strong>l’ America che c’è in noi, nel nostro immaginario.<br />

23


Prima di Hollywood, per la verità, era arrivata la radio, col celebre radiodramma La guerra dei mondi di<br />

Orson Welles, che nel 1938 seminò il panico, interrompendo le trasmissioni con la notizia di un’ invasione<br />

nel New Jersey. Alle spalle c’era il romanzo omonimo di H. G. Wells; ma il ventitreenne attore-regista,<br />

con la sua incursione, intercettava ben altre reali paure: poche settimane prima, alla Conferenza di Monaco,<br />

le potenze mondiali consentivano a Hitler di occupare la Cecoslovacchia, illudendosi di scongiurare una<br />

guerra mondiale.<br />

Tra i generi hollywoodiani, la fantascienza si forma tardi, negli anni ‘50 <strong>del</strong> maccartismo e <strong>del</strong>la guerra<br />

fredda («l’Urss è un mondo intermedio fra la Terra e Marte», scriveva Roland Barthes). I titoli sono eloquenti:<br />

Gli invasori spaziali, La terra contro i dischi volanti, La guerra dei mondi (ancora H. G. Wells)...<br />

Ma è riduttivo leggere in chiave di paranoia maccartista tutto il cinema <strong>del</strong>l’ epoca: ad esempio un capolavoro<br />

come L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel è ben più complesso, e già allora era vivo un filone<br />

umanista e disincantato: in Ultimatum alla terra, l’ alieno riunisce i potenti <strong>del</strong>la Terra spiegando che se i<br />

loro popoli continueranno a farsi la guerra, la Confederazione Galattica (una specie di Onu interplanetaria)<br />

attaccherà il pianeta. Negli anni <strong>del</strong>la «corsa allo spazio», si diceva allora, 2001: Odissea nello spazio<br />

(1968) rende adulta la fantascienza: la conquista spaziale diventa un viaggio dentro la storia <strong>del</strong>l’umanità,<br />

impastata di violenza fin dall’origine. E gli alieni sono esseri «al di là <strong>del</strong> bene e <strong>del</strong> male», e forse anche<br />

al di là <strong>del</strong>le immagini.<br />

Nel 1978, sotto l’ incerta presidenza Carter, se Incontri ravvicinati <strong>del</strong> terzo tipo di Steven Spielberg propone<br />

alieni da attendere con fiducia, redentori sui generis, ma pochi mesi dopo ha un aspetto ben diverso<br />

l’Alien di Ridley Scott. In quello stesso 1979 in cui il sociologo Christopher Lasch scopre intorno a sé «la<br />

cultura <strong>del</strong> narcisismo», l’ alieno di Scott cambia sede e si annida altrove: dentro il corpo, che è improvvisamente<br />

diventato il centro di pratiche, mode, ossessioni. E alieni magici o inquietanti invasori <strong>del</strong> nostro<br />

corpo attraverseranno gli anni ‘80, donandoci l’eterna giovinezza (Cocoon) o assumendo tutte le fattezze<br />

possibili, attraverso mutazioni ripugnanti (La cosa di Carpenter).<br />

Dopo Incontri ravvicinati, Spielberg rimane una figura decisiva per capire il mutare <strong>del</strong>lo sguardo verso l’<br />

alieno: se ancora il candido E. T. (1982) salvava i bambini dalla stupidità degli adulti (e dei militari in particolare),<br />

vent’ anni dopo, lo Spielberg post-11 settembre mette da parte le tenerezze, e arma Tom Cruise<br />

in una nuova versione di La guerra dei mondi nell’epoca <strong>del</strong>lo «scontro di civiltà». Ma negli ultimi anni,<br />

la scelta tra alieni tutti buoni o tutti cattivi sembra sempre più incerta. Basti pensare ai vari film che sviluppano<br />

il parallelo tra l’ alieno e il clandestino, l’ immigrato (da Men in Black al bellissimo District 9 ).<br />

O alla differenza tra due serie di culto come Visitors (1983-4), che era in chiara sintonia con i proclami reaganiani<br />

sull’Urss «Impero <strong>del</strong> male»,e X- files, serie-simbolo<br />

degli anni ‘90, che esibisce una logica <strong>del</strong> complotto<br />

e <strong>del</strong> potere segreto cui ricondurre la storia<br />

e la geografia mondiali.<br />

L’ultima frontiera è quella <strong>del</strong> recupero ironico,<br />

parodistico, vintage, di un mondo che fa tanto<br />

«anni ‘ 50» (travolgente precursore ne era stato, già<br />

15 anni fa, Mars Attacks! di Tim Burton). Oggi,<br />

dopo il sincretico Cowboys & Aliens, le sale <strong>america</strong>ne<br />

sono invase da Super 8, prodotto ancora una<br />

volta da Spielberg e diretto da J. J. Abrams, il creatore<br />

di Lost. Gli extraterrestri di Super 8 sembrano cattivi<br />

come quelli <strong>del</strong>lo Spielberg bellicista di La guerra<br />

dei mondi, ma alla fine i ragazzini protagonisti scopriranno<br />

una verità ben diversa. Il film, ambientato nel 1979,<br />

24<br />

Locandine di film di Sci-fiction di varie epoche


isulta anche un omaggio allo Spielberg di quell’epoca, e ai suoi alieni di cosmica bontà. Con effetti, anche,<br />

di mise en abyme, perché quello Spielberg lì era a sua volta nostalgico <strong>del</strong> cinema di serie B degli anni ‘40<br />

e ‘50. Viene il dubbio, allora, che in questo caso il vintage sia anche il mezzo per prendere le distanze dalle<br />

proprie paure, per dire «non siamo davvero noi ad avere <strong>paura</strong>, non siamo davvero così paranoici». Non<br />

siamo negli anni ‘50 o negli anni ‘80. E non sappiamo se così dicendo si sottintenda: «purtroppo», o «per<br />

fortuna».<br />

Di Emiliano Morreale, La Repubblica, 30 agosto 2011<br />

25


I FILM<br />

The Conspirator<br />

Splendore nell’erba<br />

L’invasione degli ultracorpi<br />

Sos Summer of Sam - Panico a New York<br />

A History of a Violence


THE CONSPIRATOR<br />

Regia di Robert Redford<br />

Con James McAvoy, Robin Wright Penn, Kevin Kline,<br />

Evan Rachel Wood, Justin Long<br />

Usa 2010<br />

durata 122 minuti<br />

Sceneggiatura: James Solomon<br />

Fotografia: Newton Thomas Sigel<br />

Musica: Mark Isham<br />

LA TRAMA<br />

Washington, aprile 1865. Frederick Aiken è un ufficiale <strong>del</strong>l'esercito<br />

nordista, sopravvissuto alla Guerra Civile e deciso<br />

a vivere e innamorarsi in una nazione finalmente unita.<br />

Avvocato in tempo di pace, è chiamato a difendere davanti a un tribunale<br />

militare Mary Surratt, accusata di complicità nell'assassinio di Abramo Lincoln. Proprietaria di<br />

una pensione, supposto luogo <strong>del</strong>la cospirazione, e madre di John Surratt, amico e frequentatore di uno<br />

dei sette uomini coinvolti nello scellerato <strong>del</strong>itto, Mary si dichiara innocente e chiede per sé un processo<br />

imparziale. Frederick, riottoso ad accettare la nomina di avvocato difensore e fermamente convinto <strong>del</strong>la<br />

colpevolezza di Mary, nondimeno avvia la sua indagine e prepara difesa e arringa.<br />

LA CRITICA<br />

Redford, il vecchio leone, non si arrende e ripropone la sua idea vagamente rètro di cinema politico e divulgativo,<br />

didattico e dimostrativo narrando la storia vera di Fredrick Aiken che difese in giudizio Mary<br />

Surratt (…) Redford, come nel precedente Leoni per agnelli, costruisce il film come un teorema verbale<br />

volto a dimostrare, in questo caso, la necessità <strong>del</strong> garantismo, <strong>del</strong> rispetto <strong>del</strong>le regole, <strong>del</strong>l’esigenza di<br />

appellarsi sempre e comunque al diritto, sconfiggendo le oscurantiste paure congiunturali, qui impersonate<br />

dal Ministro <strong>del</strong>la Guerra Edwin Stanton, in cerca di una soluzione plateale, anche ingiusta, per pacificare<br />

gli animi di una nazione inquieta.<br />

Diversamente da quanto fa pensare il titolo, il personaggio che sembra interessare Redford non è tanto<br />

l’imputata, dunque, quanto chi la difese, perché a essere davvero in discussione in The conspirator non è<br />

il merito <strong>del</strong> processo in questione, ma il principio <strong>del</strong>la legalità di cui Aiken si fa paladino: l’accorato<br />

appello alla Costituzione, che il giovane avvocato reitera, suona, quindi, come un doveroso richiamo alla<br />

29


agione in una vicenda processuale inevitabilmente deformata dalla situazione storica e inquinata da<br />

inquietanti interventi manipolatori, stanti gli insopprimibili risvolti politici legati al verdetto finale (I nostri<br />

padri fondatori hanno stilato una Costituzione espressamente per momenti come questo afferma Johnson -<br />

tanto per essere chiari).<br />

Il drammatico dibattimento in aula, i confronti tra avvocato e cliente, i dialoghi pubblici e privati sono dunque<br />

tutti imperniati sulla necessità di mettere in luce da un lato la spietatezza di un tempo bellico in cui la<br />

legge tace e dall’altro i tentativi strenui <strong>del</strong> giovane per farne risuonare la voce. Giocando su un controluce<br />

metaforico, in cui i personaggi, nei momenti topici, si stagliano come irriconoscibili figure paradigmatiche<br />

(l’effettata fotografia è di Newton Thomas Sigel), The conspirator non si limita a proporre le classiche<br />

dinamiche <strong>del</strong> film processuale, per esporre una puntuale ricostruzione dei fatti, ma problematizza la<br />

vicenda mettendone in luce le intime contraddizioni e i punti oscuri.<br />

Spezzando le geometrie oppressive <strong>del</strong> precedente lavoro e proponendosi come operazione esteticamente<br />

più ardita (l’uso <strong>del</strong>la macchina a mano nelle sequenze processuali, gli inusuali punti di ripresa dal basso,<br />

il montaggio alternato <strong>del</strong> rutilante incipit), il film è ammirevole nel suo svuotarsi da ogni facile sentimentalismo,<br />

nel suo piegare l’aneddotica alle necessità drammatiche e critico-storiche, nel rigoroso e didascalico<br />

attenersi all’obiettivo <strong>del</strong>la resa sostanziale dei nodi morali, meticoloso nella ricostruzione d’epoca,<br />

monolitico nel suo empirismo quasi rosselliniano: Redford, come in un film anni 70, non impartisce scolasticamente<br />

una lezione di storia, ma tende piuttosto a rovesciare il segno <strong>del</strong>la narrazione di una vicenda<br />

che gli statunitensi comunemente conoscono - o credono di conoscere - per mostrarne lo spinoso risvolto.<br />

Due ore di solido, classico, civilissimo cinema <strong>america</strong>no – scritto con vezzosa pedanteria e magnificamente<br />

interpretato - la cui visione non farebbe male alle scolaresche italiane, in tempi in cui la certezza <strong>del</strong><br />

diritto viene messa in discussione un giorno sì e l’altro pure.<br />

Luca Pacilio, www.glispietati.it, 11 luglio 2011<br />

Alla maniera di Jim Garrison, procuratore ostinato nel JFK – Un caso ancora aperto di Oliver Stone,<br />

Frederick Aiken affronta il cuore nero e rivelatore <strong>del</strong>la politica <strong>america</strong>na. ‘Legali’ all’indomani <strong>del</strong>l’assassinio<br />

dei loro presidenti, Garrison e Aiken incarnano una ribellione che si riverbera in una presa di<br />

coscienza individuale, in lotta con le istituzioni e contro un establishment che consuma il crimine ai danni<br />

di un individuo, colpevole o innocente, nascondendosi dietro l’iter ipocrita <strong>del</strong>la giustizia. L’avvocato<br />

colonnello di James McAvoy proverà allora, nell’America infiammata di Via col vento, a restituire un frammento<br />

di innocenza alla collettività, che fuori dall’aula precipita nel caos emotivo prodotto dalla morte di<br />

Lincoln, avvocato degli umili, Presidente degli (afro)<strong>america</strong>ni, punto di accumulazione di interrogativi da<br />

ricomporre.<br />

Quattro anni dopo Leoni per agnelli Robert Redford realizza un<br />

courtroom drama che trova nel confronto con la tradizione il terreno<br />

fertile per interrogare la storia e la coscienza <strong>america</strong>na. A<br />

partire da questa considerazione si chiarisce la classicità di<br />

Redford: nell’affinamento di un linguaggio che si vuole il più<br />

possibile conforme al proprio oggetto. Per questo non bisogna<br />

sottovalutare il ricorso al genere giudiziario. Dietro la parvenza<br />

rassicurante <strong>del</strong> già visto scorre una visione confacente a una<br />

precisa idea di cinema. Robert Redford, che è stato sullo schermo<br />

il giornalista irriducibile di Alan Pakula, condannato a urtare<br />

contro gli ostacoli frapposti alla rivelazione <strong>del</strong>lo scandalo<br />

Watergate, si presta perfettamente a diventare il testimone <strong>del</strong>la<br />

corruzione <strong>del</strong> sogno <strong>america</strong>no. Procedendo col passo greve e<br />

dolente <strong>del</strong>la tragedia, The conspirator è la densa ricostruzione<br />

<strong>del</strong>l’indagine condotta da un giovane avvocato intorno all’assas-<br />

30<br />

Nella pagina precedente: James McAvoy<br />

nella parte <strong>del</strong> protagonista, l’avvocato<br />

Frederick Aiken.<br />

A fianco: Robin Wright Penn interpreta<br />

Mary Surratt.


sinio di Abramo Lincoln, che denuncia l’impossibilità di avvicinare anche la più piana <strong>del</strong>le verità.<br />

Cortocircuitando realtà e finzione, passato e presente, cospiratori di ieri e terroristi di oggi, Redford dichiara<br />

l’illusione democratica, puritana e liberale <strong>del</strong> ‘giusto processo’, articolando il suo film attraverso due<br />

fronti: al di qua e al di là <strong>del</strong> confine più che simbolico rappresentato dalla sbarre <strong>del</strong>la prigione e dalla<br />

linea retta che separava Nord e Sud, tagliando in due il Paese. Su quel confine si incontrano per un attimo<br />

un unionista e una confederata, un avvocato e una cliente, un figlio e una madre in un mutuo scambio di<br />

salvezza che non scamperà la Mary di Robin Wright ma convertirà Frederick Aiken al giornalismo, impiegandolo<br />

come city editor <strong>del</strong> Washington Post, il quotidiano per cui scriveva il Bob Woodward di Redford<br />

in Tutti gli uomini <strong>del</strong> presidente. A clamorosa e geometrica dimostrazione di un percorso professionale e<br />

politico incline a produrre istanze come la battaglia contro il pregiudizio o la riaffermazione dei principi<br />

fondamentali sanciti nella costituzione <strong>del</strong>la (sua) nazione. Puntando il dito contro ‘l’uomo di fiducia’ degli<br />

States, contro le inerzie, le complicità e le rinunce di una giustizia che si vorrebbe giusta mentre impicca<br />

e inabissa i suoi nemici, il regista pone al centro <strong>del</strong>l’aula l’intervento individuale e la relazione tra il potere<br />

assoluto e il diritto alla vita <strong>del</strong> singolo. E all’iconoclastia di Obama oppone lo ‘spettacolo’ <strong>del</strong>la pena<br />

capitale. Obiezione accolta.<br />

Marzia Gandolfi, mymovies.it<br />

Dopo Leoni per agnelli Robert Redford torna a fare una digressione sull’America. Non quella di oggi, ma<br />

quella <strong>del</strong> passato con The conspirator, un film inchiesta ai tempi di Lincoln che crea un curioso continuum<br />

narrativo.<br />

Quando Redford torna dietro la macchina da presa lo fa con cognizione di causa. Il tema che sceglie, il film<br />

che realizza, persino gli attori, tutto è preparato a dovere affinché, insieme a una trama portante, emerga<br />

anche un incisivo sotto testo filmico. Lo aveva fatto con Quiz Show, dove criticava amaramente il mondo<br />

<strong>del</strong>la televisione, e più avanti con Leoni per agnelli, dove la <strong>del</strong>udente opera militare <strong>america</strong>na in<br />

Afghanistan si palesava nei dialoghi serrati. E lo ha fatto di nuovo con The conspirator, dove Robert<br />

Redford fa emergere tutti i suoi dubbi sulla gestione <strong>del</strong>la giustizia in America. Va detto che la questione<br />

non è nuova al cinema e che altri registi prima di lui si sono cimentati sul problema. Pensiamo a Eastwood<br />

con Fino a prova contraria o al più recente The Changeling; pensiamo anche a thriller come Presunto<br />

innocente di Alan Pakula; o infine a J.F.K – Un caso ancora aperto di Oliver Stone, con cui questo The<br />

conspirator ha pure dei punti in comune.<br />

Venendo più al film in questione, The conspirator si discosta fin dalle prime battute dal mero esercizio scolastico.<br />

Redford propone invece una analisi suggestiva sul popolo <strong>america</strong>no. In questo caso, infatti, ciò<br />

che colpisce è la fredda maniera con cui il regista descrive ciò che è intorno al processo. Le battute, le ipocrisie,<br />

i pregiudizi, atteggiamenti sociali di un popolo che, sembra suggerire il regista, si muove per <strong>paura</strong>.<br />

La <strong>paura</strong> e la voglia di vendetta, di fare giustizia, sovrasta qualunque altra condizione umana. Difficile,<br />

vedendo il film, non dargli ragione. E questa lettura, a voler essere cattivi, potrebbe giustificare il pessimo<br />

successo che il film ha riscosso in patria.<br />

Ottimo il cast, e anche questa forse non è una novità. James McAvoy dimostra una versatilità notevole, se<br />

pensiamo che recentemente ha interpretato Charles Xavier nel fumetto «X-men: l’inizio». La brava Robin<br />

Wright sembra recitare il ruolo di una vita: notevole il suo carisma. Il resto si conforma ai due, anche grazie<br />

a una ricostruzione storica da applausi.<br />

Redford, tra dramma teatrale e dramma giudiziario. In un’aula di tribunale piena di ombre echeggia i teoremi<br />

di indicibilità assoluta filosofeggiati da Gö<strong>del</strong>, portando come prova la morte <strong>del</strong>l’assistita.<br />

Come a dire che la sua non è un’opinione, ma storia.<br />

La frase: «Non le credo ma l’aiuterò».<br />

a cura di Diego Altobelli<br />

31


IL REGISTA: ROBERT REDFORD<br />

Biografia<br />

Nato in California, dopo un percorso da bohmien in Europa si iscrive<br />

a un corso di recitazione e nel 1960 inizia a lavorare in televisione.<br />

Nel 1962 Redford ottenne la sua prima parte in un film per il cinema,<br />

Caccia di guerra, di Denis Sanders. In seguito tornò a recitare a<br />

Broadway, nell’opera A piedi nudi nel parco, diretta da Mike<br />

Nichols, il quale volle la partecipazione di Redford, dopo averlo<br />

visto in televisione. Questa opera teatrale lo trasformò in una stella<br />

di Broadway. Fu il trampolino perfetto verso Hollywood, dove<br />

ottenne un contratto nel 1964. Nel 1966 gli offrirono un ruolo come<br />

protagonista nella versione cinematografica di A piedi nudi nel<br />

parco, che fu un gran successo. Negli anni successivi recitò in vari<br />

film che consolidarono la sua fama come attore di prestigio e anche<br />

come stella di Hollywood, il primo dei quali, Butch Cassidy, con<br />

Paul Newman, con il quale simpatizzò subito.<br />

Altri film di successo furono Come eravamo con Barbra Streisand,<br />

per la regia <strong>del</strong> suo amico Sidney Pollack e La stangata, che ottenne<br />

7 premi Oscar e grazie al quale Redford ottenne la sua prima nomination<br />

come attore protagonista. Sulla scia di questi due film, anche il successivo Il grande Gatsby, <strong>del</strong><br />

1974, ebbe un notevole successo.<br />

Ormai definitivamente consacratosi come una <strong>del</strong>le maggiori stelle <strong>del</strong> cinema di quegli anni, nel 1976<br />

recitò in Tutti gli uomini <strong>del</strong> presidente con Dustin Hoffman. Il film, che ripercorre l’inchiesta giornalistica<br />

che diede il via allo scandalo Watergate, ottenne sei nomination agli Oscar, inclusa quella per il miglior<br />

film. Fu il primo di una serie di film nei quali Robert Redford interpretò più volte personaggi che in vario<br />

modo si pongono contro le storture <strong>del</strong> sistema politico o economico: I tre giorni <strong>del</strong> condor, Il cavaliere<br />

elettrico, Brubaker.<br />

Come regista, Redford seguì subito una traiettoria importante, con film che gli valsero il riconoscimento<br />

per la professionalità e successo di pubblico. Nel 1980 inizia con Gente comune, che ottenne critiche molto<br />

buone e successo di incassi, e che gli valse l’Oscar come miglior regista. Nel 1992 diresse In mezzo scorre<br />

il fiume seguito poi da Quiz Show, che ottenne buone critiche, anche se uno scarso successo ai botteghini<br />

e che gli valse la sua seconda nomination agli Oscar.<br />

Nel 1998 è la volta di L’uomo che sussurrava ai cavalli, basato sul romanzo di Nicholas Evans; nel 2000<br />

diresse La leggenda di Bagger Vance e nel 2007 Leoni per agnelli.<br />

Redford ha creato nel 1990 un importante istituto cinematografico, il Sundance Institute, nelle sue proprietà<br />

nello Utah. Il nome è dovuto a quello <strong>del</strong> suo personaggio nel film Butch Cassidy, ovvero «Sundance<br />

Kid», Portò avanti questa impresa nonostante non incontrasse appoggio. All’istituto è collegato il celebre<br />

Sundance Film Festival, che ha scoperto e lanciato numerosi registi indipendenti come Quentin Tarantino,<br />

Kevin Smith, Robert Rodriguez, Jim Jarmusch, Darren Aronofsky, Christopher Nolan e James Wan.<br />

Filmografia (regista)<br />

Gente comune (Ordinary People) (1980)<br />

Milagro (The Milagro Beanfield War) (1988)<br />

In mezzo scorre il fiume (A River Runs Through It) (1992)<br />

Quiz Show (1994)<br />

L’uomo che sussurrava ai cavalli (The Horse Whisperer) (1998)<br />

La leggenda di Bagger Vance (The Legend of Bagger Vance) (2000)<br />

Leoni per agnelli (Lions for Lambs) (2007)<br />

The Conspirator (2010)<br />

32


SPLENDORE NELL’ERBA<br />

(Splendor In The Grass)<br />

Regia di Elia Kazan<br />

Con Natalie Wood, Warren Beatty, Audrey Christie,<br />

Pat Hingle, Sandy Dennis, Zohra Lampert<br />

Usa 1961<br />

durata 124 minuti<br />

Sceneggiatura: William Inge<br />

Fotografia: Boris Kaufman<br />

Musica: David Amram<br />

LA TRAMA<br />

Kansas, 1928. Bud Stamper, studente di liceo, è figlio di un<br />

imprenditore che ha fatto fortuna con il petrolio. Sua compagna<br />

di scuola è Deannie Loomis, proveniente da una famiglia<br />

perbenista e di strette vedute, che le ha impartito un'educazione rigidamente puritana.<br />

Tra passeggiate, feste tra amici, picnic e altri divertimenti ingenui, tra i due nasce una storia d'amore e Bud<br />

manifesta l'intenzione di sposarla dopo il diploma. Il loro rapporto è sul punto di sfociare in una relazione<br />

più matura, ma le inibizioni sessuali di Deannie creano tensioni tra i due ragazzi, che si logorano sia nel<br />

corpo che nella psiche.<br />

Bud vive un'atmosfera di tensione anche in famiglia, giacché suo padre desidera che egli continui gli studi e<br />

gli consiglia di lasciar perdere Deannie e di divertirsi con «altri tipi di ragazze» in attesa di iscriversi a Yale.<br />

Bud non ha il coraggio di imporre i suoi progetti e accetta di lasciare Deannie, ma senza convinzione.<br />

LA CRITICA<br />

Violento e diretto atto d'accusa contro una morale sessuale conformista in una società che eleva la proibizione<br />

a rango di legge e l'ipocrisia come sua ineluttabile conseguenza. Il cui individualismo e puritanesimo<br />

sono una maschera dietro la quale si nascondono speculazioni e trasgressioni (tutti bevono in barba al<br />

“proibizionismo”).<br />

(….) Ma il film è anche un profondo e partecipato studio sulla gioventù, un'educazione sentimentale verso<br />

la maturità che si raggiunge conoscendo se stessi e i propri desideri<br />

Paolo Mereghetti, Il Mereghetti<br />

Splendore nell’erba: Warren Beaty e<br />

Natalie Wood in una scena <strong>del</strong> film<br />

33


Forse il melodramma più fiammeggiante sul primo amore che mai sia stato fatto al cinema. E i suoi ultimi<br />

5 strazianti minuti sono uno dei culmini creativi <strong>del</strong> cinema di E. Kazan. Esordio <strong>del</strong> ventiquattrenne W.<br />

Beatty e un film made in USA che pose esplicitamente l'accento sulla sessualità adolescenziale, Superlativa<br />

direzione d'attori: N. Wood fu candidata all'Oscar, ma le fu preferita la Sophia Loren di La ciociara. Fu<br />

premiata, comunque, la sceneggiatura di William Inge. Il titolo è preso da un verso di Ode on Intimation<br />

of Immortality di William Wordsworth (1770-1850).<br />

Morando Morandini, Il Morandini<br />

RICONOSCIMENTI<br />

Per questo film, William Inge (che compare brevemente anche come attore nella parte di un sacerdote)<br />

ottenne nel 1962 l'Oscar alla migliore sceneggiatura originale. Natalie Wood fu candidata all'Oscar alla<br />

miglior attrice, ma il premio andò a Sophia Loren per La ciociara.<br />

1962 - Premio Oscar<br />

Migliore sceneggiatura originale a William Inge<br />

Nomination Miglior attrice protagonista a Natalie Wood<br />

1962 - Golden Globe<br />

Nomination Miglior film drammatico<br />

Nomination Miglior attore in un film drammatico a Warren Beatty<br />

Nomination Miglior attrice in un film drammatico a Natalie Wood<br />

1963 - Premio BAFTA<br />

Nomination Miglior attrice protagonista a Natalie Wood<br />

Intimation of Immortality (di William Wordsworth)<br />

Ma se la radiosa luce che una volta<br />

tanto negli sguardi è tolta,<br />

se niente può far si rinnovi all'erba il suo splendore<br />

e che riviva il fiore<br />

<strong>del</strong>la sorte non ci dorrem<br />

ma ognor più saldo in petto<br />

godrem di quel che resta.<br />

IL REGISTA: ELIA KAZAN<br />

Biografia<br />

I genitori greci si trasferiscono negli Stati Uniti quando Kazan è ancora negli anni <strong>del</strong>la sua infanzia. A<br />

New York, ancora giovanissimo, Kazan non resiste al fascino che il teatro esercita su di lui ed entra a far<br />

parte, nelle vesti di attore, <strong>del</strong>la compagnia di avanguardia “Group Theatre”. Di lì a poco il passaggio alla<br />

regia, che lo porterà a sbancare persino Broadway. Negli anni ‘30 ha le sue prime esperienze cinematografiche,<br />

prima come assistente di Ralph Steiner poi come attore.<br />

Nel 1944 i tentativi di Darryl F. Zanuck di ingaggiare Kazan vanno a buon fine e portano alla stipulazione<br />

di un contratto con la 20th Century Fox: Kazan dirige il suo primo film Un albero cresce a Brooklyn.<br />

L’ottimo Boomerang - L’arma che uccide è seguito da Barriera invisibile, uno shockante (al tempo) film<br />

di denuncia sull’antisemitismo diffuso negli USA. Il film, interpretato da come miglior attrice non protagonista<br />

e per il miglior film. Le contraddizioni sociali, a volte sfocianti in veri e propri drammi, divengono<br />

una costante tematica di Kazan. Nel 1951 mette in bacheca un altro Oscar personale con Un tram che<br />

si chiama desiderio, riduzione <strong>del</strong> testo di Tennessee Williams che già aveva portato in scena a Broadway,<br />

facendo conoscere al mondo Marlon Brando. La collaborazione tra i due sarà ancor più foriera di succes-<br />

34


so con Viva Zapata! e col celeberrimo Fronte <strong>del</strong> porto, vincitore di otto Academy Awards. Sarà lo stesso<br />

regista a scoprire, nel 1955, un certo James Dean dandogli il ruolo di protagonista ne La valle <strong>del</strong>l’Eden.<br />

Kazan negli anni seguenti perfezionerà il proprio personale linguaggio sempre accompagnato da una provocativa<br />

scelta dei temi - Baby doll, Un volto nella folla, Fango sulle stelle.<br />

Con Il ribelle <strong>del</strong>l’Anatolia, legato all’autobiografica esperienza di emigranti greci negli Stati Uniti, si<br />

chiude il periodo d’oro <strong>del</strong>la sua produzione, che dirigerà negli anni seguenti ben pochi film, fino a Gli<br />

ultimi fuochi che rappresenta il congedo dalle scene. Il 28 settembre<br />

2003 Elia Kazan si congeda anche dal mondo, spegnendosi a New<br />

York all’età di 94 anni. Molti lo ricorderanno per aver inventato il<br />

“Method”, il più diffuso metodo di direzione degli attori ancora oggi;<br />

alcuni per il suo ruolo attivo - mai perdonatogli - in una torbida pagina<br />

di storia moderna quale fu il maccartismo sotto l’egida <strong>del</strong>la House<br />

UnAmerican Activities Committee; ma probabilmente, ed è ciò che<br />

più conta, l’impatto che i suoi film ebbero e continuano ad avere sul<br />

pubblico di ogni provenienza geografica ed estrazione sociale, gli<br />

garantiscono un posto di primo piano nell’empireo dei grandi <strong>del</strong> cinema<br />

di tutti i tempi.<br />

Filmografia essenziale<br />

Un albero cresce a Brooklyn (A Tree Grows in Brooklyn) (1945)<br />

Boomerang - L'arma che uccide (Boomerang!) (1947)<br />

Barriera invisibile (Gentleman's Agreement) (1947)<br />

Pinky, la negra bianca (Pinky) (1949)<br />

Un tram che si chiama Desiderio (A Streetcar Named Desire) (1951)<br />

Viva Zapata! (Viva Zapata!) (1952)<br />

Salto mortale (Man on a Tightrope) (1953)<br />

Fronte <strong>del</strong> porto (On the Waterfront) (1954)<br />

La valle <strong>del</strong>l'Eden (East of Eden) (1955)<br />

Baby Doll - La bambola viva (Baby Doll) (1956)<br />

Un volto nella folla (A Face in the Crowd) (1957)<br />

Fango sulle stelle (Wild River) (1960)<br />

Splendore nell'erba (Splendor in the Grass) (1961)<br />

Il ribelle <strong>del</strong>l'Anatolia (America, America) (1963)<br />

Il compromesso (The Arrangement) (1969)<br />

I visitatori (The Visitors) (1972)<br />

Gli ultimi fuochi (The Last Tycoon) (1976)<br />

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L’INVASIONE DEGLI ULTRACORPI<br />

(Invasion of the Body Snatchers)<br />

Regia di Don Siegel<br />

Con Kevin McCarthy, King Donovan, Larry Gates,<br />

Dana Winters, Marie Selland<br />

Usa 1956<br />

Durata 80 minuti<br />

Fotografia: Ellsworth Fredericks<br />

Musica: Carmen Dragon<br />

Tratto da un romanzo di Jack Finney<br />

LA TRAMA<br />

Il dottor Miles Bennell (Kevin McCarthy) torna nella cittadina<br />

dove è medico condotto e si accorge di un fenomeno particolare:<br />

diverse persone sembrano soffrire di una sindrome paranoica<br />

che li porta a credere che parenti o amici non siano più loro, ma<br />

degli impostori. Miles è scettico: gli apparenti “sostituti” gli sembrano essere perfettamente normali e si<br />

comportano e parlano come gli “originali”. Presto però si rende conto che c’è qualcosa di vero nei racconti<br />

che gli sono stati fatti e cercando di capire cosa ci sia sotto arriva a scoprire una terribile verità che<br />

proviene dallo spazio.<br />

LA CRITICA<br />

Forse il più bel film fantastico <strong>del</strong>la storia <strong>del</strong> cinema, tratto da un romanzo di Jack Finney (The Body<br />

Snatchers). Niente a che vedere con la fantascienza, anche se c’è un medico di mezzo. Niente astronavi,<br />

viaggi nello spazio, mostri verdognoli, ricerche diaboliche, scienziati pazzi.<br />

Su L’invasione degli ultracorpi è stato scritto di tutto, interpretato in ogni maniera possibile, analizzato,<br />

psicanalizzato, politicizzato. Esistono anche i detrattori. John Carpenter, non uno qualunque, a proposito<br />

di un possibile paragone tra il film di Siegel e il suo La cosa disse: «È un po’ azzardato (…) In Don Siegel<br />

gli invasori sono talmente umanizzati da non essere possibile un distinguo, sono <strong>del</strong>le imitazioni perfette.<br />

Questo dà al film un tono più freddo: non si comprende quello che succede, tutti si comportano in maniera<br />

abituale: dov’è il problema?» A parte che in quanto a freddezza (e non è una battuta), pochi film possono<br />

reggere il confronto con La cosa, il bello <strong>del</strong> film di Don Siegel sta proprio in quel «dov’è il problema?».<br />

Gli ultracorpi sono in tutto e per tutto simili a noi, ma non provano amore né dolore né pietà. Sono il futuro<br />

<strong>del</strong>l’umanità, forse sono già arrivati e non ce ne siamo accorti. Non fanno <strong>paura</strong>, anzi esercitano un fascino<br />

sottile. Non a caso si diventa come loro attraverso il sonno, senza sentire dolore. Che sia la morte?<br />

Capostipite dei film-paranoia, L’invasione degli ultracorpi è anche (soprattutto) una storia d’amore di<br />

struggente e malinconica bellezza, che non può chiudersi con un lieto fine; è una metafora <strong>del</strong>la <strong>paura</strong> di<br />

dover diventare come gli altri, <strong>del</strong>la <strong>paura</strong> <strong>del</strong> futuro e di una società che annichilisce l’individuo e rende<br />

tutti uguali. Tema molto attuale, d’altra parte. E l’amore non vince su tutto: il primo piano di Becky (la<br />

splendida Dana Wynter) che guarda verso di noi con una luce diversa negli occhi, con uno sguardo<br />

improvvisamente divenuto freddo, è una inquadratura da vedere e rivedere. L’uomo che, spaurito, si trova<br />

dinanzi ai mostruosi mutamenti <strong>del</strong>la società, ancora più mostruosi perché impercettibili, cerca di lottare e<br />

finisce sconfitto e reietto: probabilmente è questo il vero, seducente terrore. L’invasione degli ultracorpi,<br />

in effetti, avrebbe dovuto concludersi con il dottor Miles creduto pazzo ma la produzione volle un finale<br />

meno pessimista. Anche così è un capolavoro, girato magistralmente, con un bianco e nero da favola,<br />

ambientazione e attori perfetti. Centinaia di registi ne sono rimasti influenzati, due (Kaufman e Ferrara) lo<br />

hanno rifatto con discreti risultati, altri lo hanno parodiato (Steno con il suo Totò nella Luna). Chiudiamo<br />

con le parole che Miles dice a Becky per invitarla a cena: «È estate e c’è la luna piena e conosco un posto<br />

37


dove cresce il pino selvatico». Servono commenti?<br />

Giudizio: immenso.<br />

di Roberto Frin, http://www.clubghost.it<br />

Gli anni ‘50 sono unanimemente considerati l’apice <strong>del</strong>l’età d’oro <strong>del</strong>la fantascienza, un genere che da<br />

sempre gode di una vasta diffusione tra i lettori e che, per questo motivo, si è visto spesso attribuire il titolo,<br />

falsamente detrattore, di «popolare».<br />

La letteratura dei precedenti vent’anni si è avvalsa dei nomi tra i suoi migliori rappresentanti, ma è proprio<br />

nel dopoguerra che per il cinema <strong>america</strong>no, la science fiction diventa un vero e proprio territorio di conquista,<br />

sia per il sicuro successo commerciale, garantito dal grande impatto visivo dei suoi film, e adatto<br />

perciò a fronteggiare l’emergente concorrenza <strong>del</strong>la televisione, sia per il vantaggio di presentare costi di<br />

produzione contenuti rispetto ad altri generi.<br />

Chiavi <strong>del</strong> suo successo sono inoltre la capacità di esplorare l’assurdo elaborando senza limiti una visione<br />

<strong>del</strong>l’improbabile, ma, si badi, non <strong>del</strong>l’impossibile, e la funzione allegorica a rappresentare un «nemico» a<br />

cui spesso la sci-fi viene piegata in ragione <strong>del</strong>la particolare situazione politica di quegli anni (siamo, infatti,<br />

in pieno maccartismo): alieni, mondi sconosciuti, viaggi spaziali diventano i temi portanti <strong>del</strong>la cinematografia<br />

fantascientifica la quale, giocando abilmente con le inquietudini <strong>del</strong> mondo moderno (la <strong>paura</strong><br />

<strong>del</strong>l’ignoto e <strong>del</strong> diverso su tutte), ne amplifica la portata trasferendole però nel contempo nel campo <strong>del</strong>l’immaginario<br />

e ottenendo in tal modo un effetto di normalizzazione <strong>del</strong>le nuove paure, assicurato anche<br />

da finali spesso lieti.<br />

In questo contesto e da un romanzo di Jack Finney pubblicato l’anno precedente (The Body Snatcher, letteralmente<br />

«Ladro di corpi») Don Siegel gira nel 1956 quello che è considerato un capolavoro <strong>del</strong> genere,<br />

pietra miliare e riferimento cinematografico di diversi remake.<br />

Si tratta però anche di un film evidentemente atipico rispetto ai canoni in voga allora: mancano totalmente<br />

i mostri alieni a sei braccia e due teste, non ci sono navi spaziali o scienziati pazzi e men che meno effetti<br />

speciali (per quanto all’epoca ancora molto artigianali) ed è solo sulla forza creativa e sulle soluzioni registiche<br />

di Siegel che si basa la forza dirompente, valida ancor oggi, <strong>del</strong>l’Invasione degli ultracorpi.<br />

(…) Anche il titolo originariamente deciso, No sleep more, fu trasformato così come lo conosciamo oggi,<br />

ugualmente a voler alleggerire la carica di angoscia e assicurarsi un maggior successo di pubblico.<br />

L’inquietudine e l’ansia provocati da L’invasione degli ultracorpi rimangono fortissimi proprio perché<br />

nascono da un’idea che da sé sola scava nelle paure più remote e che ancora mantiene intatta la sua capacità<br />

di turbare profondamente.<br />

Da un punto di vista cinematografico, il genere è evidentemente fantascientifico, anche se più propriamente<br />

corrisponde ad una dimensione mentale <strong>del</strong>lo stesso, ma il taglio registico è chiaramente quello <strong>del</strong> noir,<br />

genere nel quale Siegel avrà modo di prodursi successivamente in altri suoi celebri lavori e <strong>del</strong> quale adotta<br />

tutti gli accorgimenti.<br />

A ben vedere, la ricerca compiuta dal Dott. Bennel è, di fatto, un’indagine investigativa che a tutta prima<br />

indaga su un mistero: la sua voce fuori campo accompagna e spiega il progresso <strong>del</strong>le sue scoperte e lega<br />

tra loro gli accadimenti misteriosi, le scene sono spesso ambientate di notte e drammatizzate dall’uso sapiente<br />

<strong>del</strong> bianco e nero, oppure si svolgono in luoghi chiusi che divengono sempre più claustrofobici; la predominanza<br />

<strong>del</strong>le scene di azione mantengono alta una condizione di suspense iniziata fin dai titoli di testa,<br />

che scorrono su nubi cariche di minacciose promesse, sottolineate da una colonna sonora che prepara al<br />

peggio.<br />

38<br />

I famosi «baccelli giganti»,<br />

invasori <strong>del</strong>la Terra


Nessun effetto speciale o quasi è stato usato per mostrare l’invasione aliena, di cui i baccelloni, peraltro<br />

riprodotti in modo semplicissimo anche a causa di ristrettezze di budget, sono l’unica presenza anomala, e<br />

tutto l’orrore è demandato all’immaginare la silenziosa sostituzione dei corpi durante il sonno e al «risveglio<br />

in un mondo tranquillo, senza problemi nel quale i sentimenti non sono necessari e conta solo l’istinto<br />

di conservazione»: una metamorfosi in esseri completamente apatici, svuotati di ogni passione umana,<br />

<strong>del</strong>la quale possono accorgersi solo coloro che hanno un’intima conoscenza con chi è stato sostituito («lo<br />

zio non è più lo zio...») e che sembra rimandare profeticamente ad una condizione di vita non così impossibile<br />

a realizzarsi.<br />

Tutto il film è dotato di una straordinaria essenzialità, non c’è scena che possa definirsi superflua o dialogo<br />

che non abbia un preciso e diretto significato, gli eventi si susseguono con ritmo incalzante e in alcuni<br />

momenti si cela perfino il sorriso scaturito da un’amara ironia: si pensi ad esempio al nome <strong>del</strong> ristorante<br />

nel quale cenano Miles e Becky, «La terrazza sul cielo», e al commento <strong>del</strong>l’uomo dopo averla baciata «Ti<br />

riconosco, sei proprio tu», frase che risuonerà tragicamente beffarda quando alla fine sarà proprio con un<br />

bacio freddamente inumano che essa tradirà la propria sostituzione e farà capire a Miles di averla perduta<br />

per sempre.<br />

Le letture a cui si è prestato questo caposaldo cinematografico sono state molteplici e spesso superficialmente<br />

(o strumentalmente) dettate da convenienze socio-politiche <strong>del</strong> periodo in cui uscì, per cui fu allora<br />

tacciato di anticomunismo in quanto venne ravvisata una critica alla presunta omologazione degli individui<br />

in quel tipo di sistema sociale; viceversa, negli anni ‘60, la critica fu rovesciata e riportata verso il fascismo,<br />

nel suo più ampio significato di dominio dispotico, individuato per esempio nell’inquietante scena<br />

<strong>del</strong>la distribuzione dei baccelloni nella quale gli abitanti <strong>del</strong>la cittadina, sotto la guida <strong>del</strong>le autorità, si<br />

ritrovano nella piazza <strong>del</strong>la cittadina a diffondere il nuovo ordine costituito.<br />

Le parole di Siegel valgano a chiarire quale fosse il suo intento: «Quando la pellicola fu realizzata, né lo<br />

sceneggiatore (Daniel Mainwaring), né io, tantomeno, pensavamo ad un qualunque simbolismo politico; la<br />

nostra intenzione era di attaccare un’abulica concezione di vita».<br />

Concetto comunque politico, ma non di certo nella visione univoca proposta dal clima da caccia alle<br />

streghe, col quale Siegel difende con forza la libertà <strong>del</strong>l’individuo e se proprio una collocazione vogliamo<br />

trovargli è quella di un anarchico che non accetta il conformismo.<br />

Bisogna riconoscere che nel tempo, comunque, quella dei baccelloni, è diventata una vera e propria figura<br />

retorica che è andata a sedimentarsi nell’immaginario collettivo a indicare metaforicamente una normalità<br />

spersonalizzata e passiva, precorritrice di omogeneizzazioni comportamentali non molto di là da venire.<br />

Oggi le ulteriori riflessioni che nascono dalla visione<br />

sono di natura più specificatamente filosofica, nella<br />

quale il sorgere di tanta inquietudine, che a distanza di<br />

cinquant’anni si mantiene intatta se non rinnovata,<br />

riguarda l’essenza stessa <strong>del</strong>l’essere umano e il rifiuto<br />

resistente a cederla, foss’anche per una pace superiore<br />

che nessuno agogna; un’umanità per la quale lottare<br />

perché «mai ci accorgiamo di quanto valga come quando<br />

viene messa in pericolo», forse perché intimamente<br />

temiamo proprio di riconoscerci in quella cupa immagine<br />

espressa da Miles di «persone che perdono la loro<br />

umanità a poco a poco, senza accorgersene».<br />

Siegel ci ha avvertiti: «You’re next!»<br />

filmscoop.it<br />

Dana Wynter in una scena <strong>del</strong> film<br />

39


IL REGISTA: DON SIEGEL<br />

Biografia<br />

Don Siegel entrò nel mondo <strong>del</strong> cinema come assistente al montaggio,<br />

quindi come montatore. Tra i molti film curò anche il montaggio<br />

di Casablanca e di Agguato ai tropici. Lavorò inoltre come regista di<br />

seconda unità per una quarantina di film, fino al 1945, quando girò un<br />

cortometraggio intitolato Star in the night, moderna parabola sulla<br />

nascita di Cristo. Lo stesso anno diresse un altro corto, Hitler lives?.<br />

Questi due lavori vinsero l’Oscar 1945 come miglior corto e miglior<br />

documentario.<br />

L’anno seguente diresse il suo primo lungometraggio, La morte viene<br />

da Scotland Yard. La prima parte <strong>del</strong>la sua carriera è contraddistinta<br />

da film carcerari come Rivolta al blocco 11. Nel 1956 Siegel diresse<br />

L’invasione degli ultracorpi, metafora <strong>del</strong>la Guerra Fredda e <strong>del</strong> maccartismo.<br />

In seguito si specializzò in film d’azione con titoli come<br />

Contratto per uccidere, Squadra omicidi, sparate a vista! e soprattutto<br />

Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo.<br />

Il regista diresse due capolavori: Chi ucciderà Charley Varrick? e il meraviglioso La notte brava <strong>del</strong> soldato<br />

Jonathan oltre al famoso Fuga da Alcatraz, film carcerario considerato un classico <strong>del</strong> genere, anch’esso<br />

interpretato da Clint Eastwood, che ha dedicato a lui e a Sergio Leone l’Oscar vinto nel 1992 per Gli<br />

Spietati.<br />

Filmografia essenziale<br />

La morte viene da Scotland Yard (The Verdict) (1946)<br />

Il tesoro di Vera Cruz (The Big Seal) (1949)<br />

Fuga dall’Ovest (No time for flowers) (1952)<br />

Le ore sono contate (Count the hours) (1953)<br />

Avventura in Cina (China venture) (1953)<br />

Rivolta al blocco 11 (Riot in cell block 11) (1954)<br />

L’invasione degli Ultracorpi (The invasion of the body snatchers) (1956)<br />

Delitto nella strada (Crime in the streets) (1956)<br />

Passione gitana (A Spanish affair) (1957)<br />

Faccia d’angelo (Baby Face Nelson) (1957)<br />

Crimine silenzioso (The Lineup) (1958)<br />

Sull’orlo <strong>del</strong>l’abisso (Edge of eternity) (1959)<br />

L’inferno è per gli eroi (Hell is for heroes) (1962)<br />

Contratto per uccidere (The Killers) (1964)<br />

Squadra omicidi, sparate a vista! (Madigan) (1968)<br />

Ultima notte a Cottonwood (Death of a gunfighter) (1969)<br />

L’uomo dalla cravatta di cuoio (Coogan’s bluff) (1969)<br />

Gli avvoltoi hanno fame (Two mules for Sister Sara) (1969)<br />

La notte brava <strong>del</strong> soldato Jonathan (The Beguiled) (1971)<br />

Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo (Dirty Harry) (1971)<br />

Chi ucciderà Charley Varrick? (Charley Varrick) (1973)<br />

Il pistolero (The shootits) (1976)<br />

Telefon (1977)<br />

Fuga da Alcatraz (Escape from Alcatraz) (1979)<br />

Taglio di diamanti (Rough cut) (1980)<br />

Jindex! (1982)<br />

40


SOS SUMMER OF SAM - PANICO A NEW YORK<br />

(Summer of Sam)<br />

Regia di Spike Lee<br />

Con John Leguizamo, Mira Sorvino, Jennifer Esposito,<br />

Adrien Brody, Anthony LaPaglia, Ben Gazzara, Michael<br />

Badalucco, Patti Lupone, John Savage, Bebe Neuwirth<br />

USA, 1999<br />

Durata 141 minuti<br />

Sceneggiatura: Victor Colicchio, Michael Imperioli<br />

Fotografia: Ellen Kuras<br />

LA TRAMA<br />

Nell'estate <strong>del</strong> 1977 un serial killer uccide coppiette e<br />

donne sole nel Bronx. Si chiama David Berkowitz<br />

(Michael Badalucco), sente i cani parlare e si firma<br />

"Son of Sam".<br />

La polizia chiede l'aiuto ad alcuni mafiosi <strong>del</strong> quartiere,<br />

guidati da Luigi (Ben Gazzara), che iniziano le ricerche, trasformandole presto in una vera e<br />

propria caccia alle streghe.<br />

Il loro principale sospetto è Ritchie (Adrien Brody), un punk che lavora in un locale gay di<br />

Manhattan. Il suo migliore amico è Vinny (John Leguizamo), sposato con Dionna (Mira<br />

Sorvino), assiduo frequentatore di discoteche e adultero.<br />

LA CRITICA<br />

Presentata alla Quinzaine des Réalisateurs <strong>del</strong> Festival di Cannes 1999, Summer of Sam è la pellicola con<br />

la quale Spike Lee decide di raccontare gli italo<strong>america</strong>ni che affollano il Bronx, già teatro di molte <strong>del</strong>le<br />

sue precedenti opere. Sebbene il titolo e la trama siano chiari riferimenti alla vicenda realmente accaduta<br />

<strong>del</strong> serial killer che terrorizzò New York tra il ’76 e il ’77, a Spike Lee non interessa raccontare una crime<br />

story quanto gli abitanti di Little Italy, evidenziandone non solo slang e dialetti caratteristici ma anche tradizioni<br />

e mentalità. In questo, Lee si conferma una volta di più la degna versione afro<strong>america</strong>na di Martin<br />

Scorsese.<br />

Sarebbe però sbagliato soffermarsi solamente sugli aspetti più superficiali di questo film, dato che la vera<br />

intenzione di Lee era di affrontare nuovamente il tema <strong>del</strong> razzismo. Non è necessario, infatti, che la vittima<br />

<strong>del</strong> razzismo dei bianchi sia una persona di colore, tant’è che in questo caso la vittima è un altro bianco,<br />

il punkettaro Richie, che pur frequentando assiduamente Little Italy è visto come un “diverso”, al punto<br />

da finire in cima alla lista dei sospettati degli omicidi <strong>del</strong> killer <strong>del</strong>la 44.<br />

Compatta e audace sia moralmente sia stilisticamente, l’opera di Lee ci conduce in una realtà che – pur nel<br />

suo forzato e innaturale perbenismo e nella sua aura di superiorità – non può nascondere corruzione, violenza<br />

e <strong>paura</strong>. Elementi apparentemente insignificanti come il sudore, gli odori e l’afa acquistano grande<br />

importanza grazie alla magistrale fotografia, che filtra luci e colori facendoli sembrare reali, fornendo allo<br />

spettatore le stesse vivide sensazioni percepite dai personaggi. Altri aspetti fondamentali rappresentati in<br />

modo come sempre sincero e spiazzante da parte di Lee sono la droga – da sempre presente nelle sue pellicole<br />

– e la musica, che il cineasta newyorchese pone sempre in risalto e che in questa occasione merita<br />

un discorso a parte. La radicale differenza di gusti musicali tra gli italo<strong>america</strong>ni e il punkettaro Richie<br />

riflette infatti la psicologia dei personaggi e, in generale, di due ben <strong>del</strong>ineate fazioni.<br />

In un periodo in cui discoteche come il famosissimo Studio 54 erano viste come l’irrinunciabile mecca <strong>del</strong><br />

divertimento, e in contrapposizione cominciava a farsi strada la corrente punk, si creò – e di conseguenza<br />

41


si viene a creare nel film – una netta divisione tra conformismo<br />

e idealismo rivoluzionario. Una <strong>del</strong>le due<br />

figure maschili portanti <strong>del</strong>la pellicola, il parrucchiere<br />

Vinnie, decide insieme alla moglie di seguire la massa<br />

e conformarsi alle mode <strong>del</strong> momento, spendendo le<br />

sue notti a ballare seguendo il culto <strong>del</strong>la Febbre <strong>del</strong><br />

Sabato Sera esploso proprio in quegli anni. Richie,<br />

invece, sceglie l’idealismo e la rivoluzione, coltivando<br />

la sua passione per il rock e il punk. Grazie<br />

all’ausilio <strong>del</strong> fido Terence Blanchard, Spike Lee<br />

inserisce nella colonna sonora brani musicali che<br />

hanno rappresentato l’apice <strong>del</strong>la disco-music<br />

anni ’70 o che sono veri e propri cimeli <strong>del</strong>la storia<br />

<strong>del</strong> rock, oltre alla doverosa “New York, New<br />

York” di Frank Sinatra che accompagna gli evocativi<br />

titoli di coda preceduti dall’intervento <strong>del</strong> giornalista<br />

Jimmy Breslin, presente anche all’inizio <strong>del</strong> film.<br />

Assolutamente degne di nota le prove di tutto il cast, in cui spicca un Adrien Brody che<br />

regala al suo primo ruolo davvero importante un’interpretazione stupefacente e all’altezza <strong>del</strong>la grande<br />

complessità <strong>del</strong> personaggio, perché in fondo tutto il film è basato su di lui. Mirabili anche John<br />

Leguizamo, la splendida Mira Sorvino, Jennifer Esposito, Michael Badalucco, Ben Gazzara e un invisibile<br />

John Turturro che presta la voce allo spirito <strong>del</strong> cane che tormenta il killer.<br />

Spike Lee dà vita qui alla sua opera forse più completa ed eterogenea, spaziando fra thriller, dramma, commedia,<br />

love story e gangster-movie, inserendo tutte le connotazioni e ossessioni che hanno da sempre<br />

popolato il suo cinema e che qui arrivano alla completa maturazione. Snobbato dal pubblico e non completamente<br />

apprezzato dalla critica, Summer of Sam è uno dei migliori film realizzati nella seconda metà<br />

degli anni ’90. Un film bello e maledetto, probabilmente anche l’ultimo – prima de La 25a ora, sempre di<br />

Lee – ad aver mostrato New York in modo estremamente sincero, spietato e assolutamente veritiero.<br />

Francesco Manca www.cinefile.biz<br />

Non ci sono che italo<strong>america</strong>ni in Summer of Sam: sovreccitati, litigiosi, machi, ambiguamente devoti a<br />

madonne e famiglie, impasticcati, sbandati, disperati o stupidi. Perché tutto sia più chiaro, si incontrano e<br />

tirano tardi in un luogo imprecisato, sotto un cartello che porta la scritta dead end, strada sbarrata. È un<br />

omaggio e anche qualcosa di più, sovraccarico di folclore acido, alle mean streets scorsesiane. D’altra parte<br />

siamo nella calda estate <strong>del</strong> 1977 a New York, gli Yankees si preparano a vincere il campionato, la disco e<br />

il primo punk si contendono la scena suburbana. […]<br />

di Paola Cristalli, Quotidiano.net, 24 novembre 1999<br />

Lontano da Harlem, lontano da Brooklyn: Spike Lee cambia quartiere con S.O.S. Summer of Sam-Panico<br />

a New York, rivolgendo la sua attenzione al microcosmo preferito di Martin Scorsese, quello degli italo<strong>america</strong>ni<br />

da vicenda è ambientata nella torrida estate <strong>del</strong> 1977). Un altro mondo, in perenne guerra con il<br />

resto <strong>del</strong> mondo. Confini guardati a vista, territorio controllato quasi militarmente, i “diversi” tenuti alla<br />

larga. E il terreno fertile per la nascita <strong>del</strong>l’intolleranza, per il riprodursi dei classici meccanismi perversi<br />

<strong>del</strong> gruppo chiuso, animato e cementato dall’interpretazione regressiva dei valori tradizionali, in realtà <strong>del</strong><br />

tutto svuotati di senso. (…)<br />

di Luigi Paini, Il Sole-24 Ore, 28 novembre 1999<br />

Adrien Brody (a sinistra) e John Leguizamo in una scena di SOS Summer of Sam<br />

42


IL REGISTA: SPIKE LEE<br />

Biografia<br />

Uno dei più alti esponenti <strong>del</strong> cinema afro<strong>america</strong>no e uno dei più lucidi registi contemporanei, Spike Lee<br />

è un autore senza tempo. Provocatorio, onirico e coloratissimo, il suo cinema si riconosce per la complessità<br />

con la quale affronta il tema <strong>del</strong>l’integrazione razziale, e per un gusto estetico originale, pop e rock allo<br />

stesso tempo. Le immagini si assemblano all’improvvisazione <strong>del</strong>la black music, inventando un cinema<br />

nuovo che sembra essere la risposta visiva al jazz musicale.<br />

Nasce ad Atlanta alla fine degli anni Cinquanta ma cresce a Brooklyn; figlio <strong>del</strong> jazzista Bill Lee, che<br />

diventerà il musicista ufficiale di molti suoi film, e <strong>del</strong>l’insegnante Jacquelyn, Spike Lee ha tre fratelli, tutti<br />

registi e attori cinematografici. Si diploma in Comunicazioni di massa al Morehouse College di Atlanta,<br />

una scuola per soli ragazzi frequentata esclusivamente da afro<strong>america</strong>ni, poi si iscrive alla New York<br />

University Film School, dove conosce il regista Martin Scorsese; nel frattempo realizza alcuni cortometraggi<br />

prima di dedicarsi alla tesi, Joe’s Bed-Stay Barbershop: We Cut Heads (1983), un film originale che<br />

ottiene numerosi riconoscimenti. Nel 1986 è l’ora di Lola Darling, che Spike dirige e interpreta, da subito<br />

il regista dimostra di avere un approccio surreale alla realtà <strong>del</strong>le cose e al gusto provocatorio nel raccontare<br />

le comunità afro<strong>america</strong>ne dalle quali proviene. La fortuna dei suoi primi lavori gli permette di<br />

fondare una propria casa di produzione indipendente, la Forty Acres and a Mule Filmworks.<br />

Nel 1989 segna un altro piccolo passo verso la consacrazione ad autore cinematografico: con Fa’ la cosa<br />

giusta realizza un’opera matura, ricca di colori e di interesse sincero e pulito per le comunità afro<strong>america</strong>ne.<br />

Per questo film ottiene la nomination per il miglior film agli Oscar<br />

Nel 1991 ritorna ai temi cari <strong>del</strong>l’integrazione razziale e alla denuncia contro la droga con Jungle Fever<br />

(premio a Cannes per il protagonista Samuel L. Jackson), stilemi <strong>del</strong>la sua carriera che riprenderà in mano<br />

con Malcolm X (1992), la sua opera più complessa, che guarda alla vita <strong>del</strong> famoso afro<strong>america</strong>no per<br />

costruire un manifesto dei diritti per i neri <strong>america</strong>ni. Nel 1994 è la volta di Crooklyn, il film più autobiografico<br />

e quindi intimista <strong>del</strong> regista (scritto con i fratelli), che racconta gli stenti e le gioie di una famiglia<br />

afro<strong>america</strong>na nella Brooklyn degli anni Settanta.<br />

Monta poi su una corriera in viaggio verso Washington, la città <strong>del</strong>la «Million Man March», con Bus – In<br />

viaggio (1996), per poi fermarsi un attimo con Girl 6 – Sesso in linea (1996) dove ingaggia la divertente<br />

Theresa Rande per un film <strong>del</strong>irante che riflette sulla varietà <strong>del</strong> sesso telefonico e <strong>del</strong>le conseguenze positive<br />

che può nascondere. Nel successivo He Got Game (1998) richiama l’amico Denzel Washington e lo<br />

veste da carcerato, uxoricida per caso, uno dei tanti emarginati <strong>del</strong>la sua galleria di personaggi che questa<br />

43


volta deve convincere il figlio prodigio <strong>del</strong> basket a tentare la carriera nello sport.<br />

Dopo il bellissimo S.O.S. Summer of Sam nel 2002 decide di uscire dal suo ghetto per affrontare la storia<br />

di Monty, un pusher che ha solo 24 ore per mettere a posto la sua vita, prima di finire in carcere per sette<br />

anni. Il film ha il bel titolo La 25ª ora ed è il capolavoro. Non a caso Spike lascerà passare un po’ di tempo<br />

prima di tornare sugli schermi con un film sconnesso, Lei mi odia (2004), una macchia nella sua carriera.<br />

Riconquisterà il suo pubblico e non solo con il thriller Inside Man (2006), con Clive Owen, Jodie Foster e<br />

il ritrovato Denzel Washington.<br />

Filmografia essenziale<br />

Joe’s Bed-Stuy Barbershop: We Cut Heads (saggio finale alla New York University) (1983)<br />

Lola Darling (She’s Gotta Have It) (1986)<br />

Aule turbolente (School Daze) (1988)<br />

Fa’ la cosa giusta (Do the Right Thing) (1989)<br />

Mo’ Better Blues (1990)<br />

Jungle Fever (1991)<br />

Malcolm X (1992)<br />

Crooklyn (1994)<br />

Clockers (1995)<br />

Girl 6 - Sesso in linea (Girl 6) (1996)<br />

Bus in viaggio (Get on the Bus) (1996)<br />

He Got Game (1998)<br />

S.O.S. Summer of Sam - Panico a New York (Summer of Sam) (1999)<br />

Bamboozled (2000)<br />

La 25ª ora (25th Hour) (2002)<br />

Lei mi odia (She Hate Me) (2004)<br />

When the Levees Broke: A Requiem in Four Acts (2005)<br />

Inside Man (2006)<br />

Miracolo a Sant’Anna (Miracle at St. Anna) (2008)<br />

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A HISTORY OF VIOLENCE<br />

Regia di David Cronenberg<br />

Con con Viggo Mortensen, Maria Bello, Ed Harris, William<br />

Hurt, Ashton Holmes, Peter MacNeill, Stephen McHattie,<br />

Greg Bryk, Sumela Kay, Kyle Schmid, Deborah Drakeford,<br />

Gerry Quigley, Heidi Hayes, Aidan Devine, Bill MacDonald<br />

USA, 2005<br />

Sceneggiatura: Josh Olson<br />

Fotografia: Peter Suschitzky<br />

Durata: 96 minuti<br />

LA TRAMA<br />

Tratto da un fumetto di John Wagner il nuovo film di<br />

Cronenberg torna sui territori cari al regista: Tom Stall è il<br />

proprietario di un piccolo ristorante in una cittadina di provincia. Conduce una vita normale con<br />

la moglie e i figli fin quando un giorno si difende dall'aggressione di due feroci criminali uccidendo<br />

entrambi. La sua immagine finisce su tutti i media e spinge Carl Fogarty, un boss <strong>del</strong>la mafia irlandese di<br />

Phila<strong>del</strong>pia ad andarlo a cercare. L'uomo è sicuro di aver riconosciuto in lui un <strong>del</strong>inquente che lo ha privato<br />

di un occhio e che era molto temuto nell'ambiente per la sua cru<strong>del</strong>tà. Tom deve difendere la sua famiglia.<br />

LA CRITICA<br />

A History of Violence, liberamente tratto dalla graphic novel di John Wagner e Vince Locke Una storia violenta.<br />

Possiamo dire che è molto liberamente tratto dal testo di partenza, in quanto lo sceneggiatore Josh<br />

Olson, di concerto con il regista, ha profondamente stravolto il testo, restandogli fe<strong>del</strong>e solo in alcuni tratti,<br />

che non sono peraltro quelli fondamentali <strong>del</strong>la narrazione.<br />

Cronenberg sceglie, per il suo quindicesimo lungometraggio, di raccontare una vicenda tutto sommato<br />

classica, cosa che non accade spesso, ma anche all’interno di una storia di non grande originalità inserisce<br />

tutti gli elementi classici <strong>del</strong> suo cinema: la mutazione, il rapporto tra normalità e anormalità, il dolore dei<br />

sentimenti, la carne, la violenza. Ecco, la violenza, come celebra sin dall’inizio il titolo <strong>del</strong> film, è la principale<br />

protagonista <strong>del</strong>la pellicola, ben nascosta ma decisamente presente in tutti i personaggi sin dall’inizio<br />

<strong>del</strong>la vicenda.<br />

Un accenno però meritano alcuni dettagli inseriti nel film, che saranno motivo di soddisfazione per gli spettatori<br />

più abituati al “registro” di Cronenberg: tutta la scenografia, perfetta per rappresentare – senza<br />

eccedere – la mentalità e la cultura di Millbrook; i cartelli di benvenuto che accolgono tutti con i loro<br />

“Welcome” qua e là. Pubblicità di birra che inneggiano all’amicizia secolare. Pick-up che “stanno tornando<br />

alla vita”… tutto questo per dire che la violenza, lo si voglia o no, appartiene a tutti noi, e chi più chi<br />

meno siamo disposti a tirarla fuori quando serve.<br />

Notevoli le performance <strong>del</strong> cast che, senza avere “grandi” personaggi da rappresentare, dà prova di ottimo<br />

lavoro. Mortensen – sul quale a dir la verità avevo discreti dubbi – riesce a trasmettere allo spettatore<br />

la metamorfosi che lo costringe a portare fuori il suo vero se stesso; Maria Bello credibile nella parte di<br />

mogliettina innamorata, ma allo stesso tempo di donna sensuale e di madre; anche il giovane Ashton<br />

Holmes è ben calato nella parte di adolescente alle prese con una rivelazione troppo grande per lui.<br />

Discorso a parte meritano Ed Harris nella parte di Carl Fogarty e soprattutto William Hurt che, in un cameo<br />

di pochi minuti, riesce a dipingere un personaggio complesso che racchiude tutto il passato di Tom, e che<br />

ne forgerà tutto il futuro.<br />

Interessante, dal punto di vista tecnico, la fotografia, che “muta” tra la prima e la seconda parte concettuale<br />

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di film, incupendosi e sgranandosi, quasi che volesse dire che tutta Millbrook ha subito una metamorfosi<br />

cupa ed irreversibile. Quasi inesistente la colonna sonora, che interviene solo a sottolineare i momenti di<br />

maggior tensione. Ottime la scene di azione, che sottolineano la scelta, complessa, <strong>del</strong> ritmo che<br />

Cronenberg ha voluto imporre al film: se inizialmente il ritmo è lentissimo – quasi fin troppo – e le esplosioni<br />

di violenza rarissime, con il passare <strong>del</strong> tempo l’equilibrio si inverte, senza che lo spettatore avverta<br />

alcuno strappo, per passare alla violenza in toto.<br />

Dal punto di vista <strong>del</strong>la scrittura segnaliamo la totale assenza <strong>del</strong> flashback, strategia sulla quale era invece<br />

interamente basato il testo di partenza; Cronenberg non ha bisogno di far vedere molto <strong>del</strong> passato per raccontare<br />

il presente: sono le azioni dei protagonista che ce lo mostrano.<br />

Cronenberg costruisce un film apparentemente tra i suoi più “innocui”, ma l’effetto sullo spettatore è a<br />

scoppio ritardato, è strisciante e infido come il percorso di un virus che, poco a poco, si insinua nel suo sistema<br />

immunitario, e quando ci se ne accorge è troppo tardi, ormai si è stati colpiti. A History of Violence è<br />

la dimostrazione che la frase «non è la storia, ma chi la racconta» ha davvero un senso. Una vicenda come<br />

quella narrata nel film avrebbe potuto diventare un classico polpettone hollywoodiano; quello che ne esce<br />

invece è un film d’autore che fa riflettere lo spettatore, che lo costringe a chiedersi, quasi senza rendersene<br />

conto. «E io che cosa farei al suo posto?», e a decidere, almeno per quanto mi riguarda, che forse la scelta<br />

di Tom era l’unica possibile<br />

Paola Cavallini, cinefile.biz, 16 dicembre 2005<br />

Era dai tempi di Crash che Cronenberg non ci offriva un film così rigoroso e crudo, senza cedimenti e<br />

senza compiacimenti; una storia fatta di immagini asciutte che coprono un’architettura solidissima; la rappresentazione,<br />

zeppa di segni, di una realtà codificata attraverso l’uso <strong>del</strong>la fiction (la stessa, nuova,<br />

esistenza – eXiztenZ? - <strong>del</strong> protagonista si fonda su una finzione: il sogno <strong>america</strong>no). La violenza ivi rappresentata<br />

“non è coreografata” (ipse dixit) ma è scabra, aspra, disturbante, reale; è, soprattutto, un<br />

malessere strisciante che si annuncia (i mostri <strong>del</strong> sogno <strong>del</strong>la bambina: una minaccia in germe) e che,<br />

giunto in casa, dilaga epidemico (il figlio che picchia il compagno e ammazza il nemico trova in sé l’energia<br />

di un male atavico, la moglie che schiaffeggia il marito, l’amplesso come una lotta mostruosa), è un<br />

morbo astratto ma contagioso che contamina un microcosmo apparentemente sterile che solo la scena<br />

finale sembra ricomporre (il gesto con cui la figlioletta mette il piatto in tavola restaura, tra mille perplessità<br />

– poiché nulla potrà più essere come prima -, il devastato quadro iniziale). Ed è molto interessante<br />

(più di quanto lo sarebbe stato l’ennesimo, programmatico progetto originale) il modo in cui Cronenberg<br />

piega la materia fumettistica di partenza, di un film che è un continuo procedere verso non si sa mai cosa<br />

(è un western? E’ un thriller? È un film psicologico? Una favola malata?), alla sua poetica: la malattia che<br />

corrompe l’ambiente e le persone (i segni <strong>del</strong>la violenza sulla schiena di Edie), la mutazione (anche se ad<br />

essere mutante, in questo caso, non è il corpo <strong>del</strong> personaggio ma la sua identità, un processo interiore che<br />

46<br />

Viggo Mortensen


coinvolge la stessa struttura <strong>del</strong>l’opera – il lungo, notturno viaggio in macchina di Tom conduce a un altro<br />

film -), le realtà multiple e le personalità scisse, l’umorismo nichilista.<br />

E nulla sbaglia l’autore da un punto di vista formale: inquadrature taglienti che dicono più di qualsiasi<br />

effetto speciale; un piano sequenza iniziale (un lynchiano ingresso nel malefico strange world) superlativo<br />

per sospensione, tempi, tensione e che sfocia nell’ordinary world di Tom (la chirurgica direzione <strong>del</strong>la<br />

fotografia è <strong>del</strong> fe<strong>del</strong>e Peter Sushitzky); superbe scelte attoriali (tutto il cast, nessuno escluso, e un redivivo<br />

William Hurt, gigione da applauso); le gravi, strategiche musiche di Howard Shore.<br />

Un colpo secco che ci ha stesi.<br />

Luca Pacilio, www.glispietati.it<br />

(…) Un uomo perfetto, con una moglie perfetta, dei figli perfetti, un lavoro perfetto in una cittadina perfetta…ma<br />

cosa si nasconde dietro tanta perfezione? La violenza, sembra ormai un dato di fatto, fa parte<br />

<strong>del</strong>la cultura <strong>america</strong>na, <strong>del</strong>l’essere <strong>america</strong>ni, e in questo film appare lampante come dietro una facciata<br />

idilliaca si possa nascondere il segreto più torbido e cru<strong>del</strong>e. Senza voler fare di un erba un fascio, lo sentiamo<br />

tutti i giorni nei telegiornali, fatti di cronaca e straordinaria follia, che generano la violenza più efferata<br />

nel cittadino più esemplare, e quasi non ci si stupisce più se, per le strade degli Stati Uniti, una vecchina<br />

tira fuori un fucile a canne mozze dal suo cesto <strong>del</strong>la spesa per freddare con un colpo in faccia il boy<br />

scout che l’aiuta ad attraversare la strada, forse solo perché non gli piace il suono <strong>del</strong>la sua voce. Visto sotto<br />

questa chiave il film di Cronenberg assume un tono diverso, e si nota come le sue esagerazioni facciano il<br />

verso ad una realtà che fino a qualche tempo fa veniva mascherata dal mito <strong>del</strong> mondo nuovo, e che, ora,<br />

sempre più difficilmente si riesce a nascondere dietro le casette bianche con il prato sempre rasato (…).<br />

Monica Cabras, filmup.it<br />

IL REGISTA: DAVID CRONENBERG<br />

Biografia<br />

David Cronenberg è nato a Toronto in una famiglia ebraica politicamente progressistama si dichara presto<br />

ateo. Si laurea in lettere all’Università di Toronto, e attraverso i suoi studi ha detto di aver trovato ispirazione<br />

per il suo cinema da letture filosofiche e dagli autori <strong>del</strong>la beat generation, come William<br />

Burroughs e da altri autori come Vladimir Nabokov. Dopo aver scritto una gran quantità di racconti fantascientifici,<br />

comincia a dedicarsi al cinema realizzando quattro cortometraggi ed due lungometraggi a bassa<br />

distribuzione. Nel 1975 scrive e dirige Il demone sotto la pelle, primo film ad avere una regolare distribuzione<br />

e ad essere portato anche in Italia.<br />

Attraverso tutto l’arco <strong>del</strong>la sua carriera, il cinema di Cronenberg ha seguito una progressione definita,<br />

muovendo da tematiche sociali verso un’analisi <strong>del</strong>l’interiorità umana. I suoi primi film si incentrano sulla<br />

modifica <strong>del</strong> corpo umano da parte di scienziati, e si risolvono in un’anarchia sociale (Il demone sotto la<br />

pelle, Rabid sete di sangue). Più avanti Cronenberg cominciò ad interessarsi all’angoscia interiore dei protagonisti<br />

frutto <strong>del</strong>lo sconsiderato progresso <strong>del</strong>la scienza (Brood - La covata malefica, Scanners,<br />

Videodrome). In un periodo più tardo lo<br />

scienziato stesso è trasformato dalla sua stessa<br />

arroganza (La mosca). Questo percorso<br />

culmina in Inseparabili, in cui due gemelli<br />

ginecologi condividono ogni cosa nella vita<br />

e si lasciano trascinare in una spirale di<br />

codipendenza e uso di droga. La successiva<br />

produzione di Cronenberg si rivolge maggiormente<br />

a temi psicologici come il contrasto<br />

fra realtà soggettiva e oggettiva: Il<br />

pasto nudo, dal romanzo di William<br />

Burroughs, sull’arte come esplorazione dei<br />

meandri mentali, in questo caso sotto l’effetto<br />

di allucinogeni; eXistenZ, sull’illusione, il<br />

gioco, il moltiplicarsi dei livelli di realtà; M.<br />

47


Butterfly, sull’amore impossibile e sul desiderio come elaborazione cerebrale; Spider; sul tormentato mistero<br />

<strong>del</strong>la malattia psichica.<br />

A History of Violence (2005) è uno dei suoi lavori a più alto budget. Cronenberg ha dichiarato che la decisione<br />

di dirigerlo era stata influenzata dalla necessità di finire di pagare alcuni stipendi per il suo precedente<br />

film Spider, ma è comunque stato uno dei suoi film più acclamati dalla critica. A settembre 2007,<br />

trionfa a Toronto con La promessa <strong>del</strong>l’assassino aggiudicandosi il premio dei fan. Ben accolto anche l’ultimo<br />

A Dangerous method sul rapporto Freud-Jung.<br />

Filmografia essenziale<br />

Il demone sotto la pelle (Shivers) (1975)<br />

Brood - La covata malefica (The Brood) (1979)<br />

Scanners (1981)<br />

Videodrome (1983)<br />

La zona morta (The Dead Zone) (1983)<br />

La mosca (The Fly) (1986)<br />

Inseparabili (Dead Ringers) (1988)<br />

Il pasto nudo (Naked Lunch) (1991)<br />

M. Butterfly (1993)<br />

Crash (1996)<br />

eXistenZ (1999)<br />

Spider (2002)<br />

A History of Violence (2005)<br />

La promessa <strong>del</strong>l’assassino (Eastern Promises) (2007)<br />

A Dangerous Method (2011)<br />

Cosmopolis (2012)<br />

48


FILMOGRAFIA<br />

A<br />

Alba rossa John Milius Usa 1984<br />

Alba <strong>del</strong> giorno dopo Robert Zemeckis Usa 2004<br />

Alibi era perfetto, L’ Fritz Lang Usa 1956<br />

Andromeda. Robert Wise USA 1971<br />

Android- Molto più che umano Aaron Lipstadt Usa 1982<br />

Angelo <strong>del</strong>la vendetta, L’ Abel Ferrara 1980<br />

Ai confini <strong>del</strong>la realtà episodi di John Landis, Steven Spielberg, Joe Dante e George Miller USA1997<br />

A.I. - Intelligenza artificiale Steven Spielberg USA 2001<br />

Alien, Ridley Scott, USA1979<br />

Alien? David FincherUSA1992<br />

Alien: la clonazione (Alien Resurrection) Jean-Pierre Jeunet 1997<br />

Aliens - scontro finale (Aliens) James Cameron 1986<br />

America Oggi Robert Altman USA 1993<br />

Amityville Horror Stuart Rosenberg USA 1979<br />

Amityville Horror Andrew Douglas USA 2005<br />

Appartamento, L’ Billy Wilder USA 1963<br />

Arancia meccanica Stanley Kubrick GB 1971<br />

Assalto alla Terra (Them!) Gordon Douglas USA 1954<br />

Avatar James Cameron USA 2009<br />

B<br />

Bad Boy Bubby Rolf de Heer Australia 1993<br />

Bamboozled Spike Lee USA 2000<br />

Benevenuti a Zombieland Ruben Fleischer USA 2009<br />

Bobby Emilio Estevez USA 2006<br />

Blade Stephen Norrington USA 1998<br />

Blade Runner Ridley Scott USA 1982<br />

Bowling a colombine Micheal Moore USA 2002<br />

Braccio violento <strong>del</strong>la legge, Il William Friedkin USA 1972<br />

Bruto e la bella di Vincente Minnelli USA 1952<br />

Buffalo 66 Vincent Gallo USA 1998<br />

Bug’s Life John Lassiter USA 1998<br />

49


Bus - in viaggio Spike Lee USA 1997<br />

Blair Witch Project,The Dan Myrick e Eduardo Sanchez USA 1999.<br />

Brazil Terry Gilliam USA 1985<br />

Buddy Boy Mark Hanlon USA 1999<br />

Buio oltre la siepe, Il Robert Mulligan USA 1962<br />

Buried – Sepolto Rodrigo Cortés Spa-Aus 2010<br />

C<br />

Cabal Clive Baker Canada 1990<br />

Cane di paglia Sam Peckimpah USA 1971<br />

Carrie- Lo sguardo di Satana Brian DePalma USA 1976<br />

Casa nera, La Wes Craven USA 1991<br />

Cavaliere <strong>del</strong>la valle solitaria, Il George Stevens USA 1953<br />

Cavaliere pallido, Il Clint Eastwood USA 1985<br />

Cavalieri <strong>del</strong> Nord Ovest, I John Ford USA 1949<br />

Che fine ha fatto Baby Jane? Robert Aldrich USA 1962<br />

Chi è l’altro? Robert Mulligan USA 1972<br />

Clockers Spike Lee USA 1995<br />

Cloverfield Matt Reeves USA 2008<br />

Cocoon - L’energia <strong>del</strong>l’universo Ron Howard USA 1985<br />

Collezionista d’ossa, Il Philiph Noyce USA 1999<br />

Contagion Steven Soderbergh USA 2011<br />

Contact Robert Zemeckis USA 1997<br />

Conversazione La Francis Ford Coppola USA 1974<br />

Corridoio <strong>del</strong>la <strong>paura</strong>, Il Samuel Fuller USA 1963<br />

Cosa, La Carpenter USA 1982<br />

Cosa da un altro mondo, La Christian Nyby, Howard Hawks USA 1951<br />

Conspirator The Robert Redford USA 2010<br />

Cowboys and Aliens Jon Favreau USA 2011<br />

Crash David Cronenberg Can-Gb 1996<br />

Creepshow George A. Romero USA 1982<br />

Crimini e misfatti Woody Allen USA 1989<br />

D<br />

Day After Tomorrow, The Ronald Emmerich USA 2004.<br />

Darkman Sam Raimi USA 1990<br />

Destinazione... Terra Jack Arnold USA 1953<br />

Die Hard, Len Wiseman USA 2007.<br />

Dietro la porta chiusa Fritz Lang USA 1947<br />

Dillinger John Milius, USA 1973<br />

District 9 Neill Blomkamp USA, Nuova Zelanda, Canada, Sud Africa 2009<br />

Distretto 13 - Le brigate <strong>del</strong>la morte John Carpenter USA 1976<br />

Dollaro d’onore, Un Howard Hawks USA 1959<br />

Donna che visse due volte, La Alfred Hitchcock USA 1958<br />

Donne amazzoni sulla luna Joe Dante, Carl Gottlieb, Peter Horton, John Landis, Robert K. Weiss USA 1987<br />

Dormiglione, Il Woody Allen USA 1973<br />

Dottor Jekyll, Il Rouben Mamoulian USA 1931<br />

Dottor Miracolo, Il Robert Florey USA 1932<br />

Dottor Stranamore, Il- ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba Stanley Kubrick Gb 1964<br />

Dracula Tod Browning - Karl Freund (non accreditato) USA1931<br />

Dracula di Bram Stoker Francis Ford Coppola USA1992<br />

Duel Steven Spielberg USA 1971<br />

2001: Odissea nello spazio Stanley Kubrick Gb-USA 1968<br />

2002: la seconda odissea Douglas Trumbull USA 1972<br />

50


Dune David Lynch USA 1984<br />

E<br />

Elephant Gus Van Sant USA 2003<br />

Erba <strong>del</strong> vicino, L’ Joe Dante USA 1989<br />

Esercito <strong>del</strong>le 12 scimmie L’ Terry Gilliam USA 1995<br />

Esorcista Friedkin William Friedkin USA 1974<br />

E.T. Steven Spielberg USA 1982.<br />

Eva contro Eva Joseph L. Mankievicz USA 1950<br />

eXistenZ David Cronenberg USA 1999<br />

F<br />

Fa’ la cosa giusta Spike Lee USA 1989<br />

Fargo Joel ed Ethan Coen USA 1996<br />

Fahrenheit 9/11 Michael Moore USA 2004<br />

Fahrenheit 451 François Truffaut GB 1966<br />

Femmina folle John M. Stahl USA 1945<br />

Fiamma <strong>del</strong> peccato, La Billy Wilder USA 1944<br />

Fight Club David Fincher USA 1999<br />

Frankenstein James Whale USA 1931<br />

Frankenstein Junior Mel Brooks USA1974<br />

Fronte <strong>del</strong> porto Elia Kazan, USA 1954<br />

Freaks Todd Browning USA 1932<br />

Fuga, La Delmer Daves USA 1947<br />

Fuga da Los Angeles John Carpenter USA 1996<br />

Fuga dalla scuola media Todd Solondz USA 95<br />

Full metal Jacket Stanley Kubrick USA 1987<br />

Furia Fritz Lang USA 1936<br />

G<br />

Gangster story Arthur Penn USA 1967<br />

Gattaca - La porta <strong>del</strong>l’universo Andrew Nicoll USA 1997<br />

Giorno degli zombi Il George A. Romero USA 1985<br />

Giorno di ordinaria follia, Un Joel Schumacher USA 1993<br />

Giorno dopo la fine <strong>del</strong> mondo, Un Ray Milland USA 1962<br />

Giungla d’asfalto John Huston USA 1950<br />

Good Night, and Good Luck George Clooney USA 2005<br />

Godzilla, Ronald Emmerich, USA 1998<br />

Grande caldo, Il Fritz Lang USA 1953<br />

Gran Torino Clint Eastwood USA 2008<br />

Greendale Neil Young USA 2003<br />

Guerra dei mondi, La Byron Haskin USA 1953<br />

Guerra dei mondi, La Steven Spielberg, USA 2005<br />

Guerre stellari George Lucas USA 1977<br />

Guerre stellari - L’Impero colpisce ancora Irvin Kershner USA 1980<br />

Guerre stellari - Il ritorno <strong>del</strong>lo Jedi Richard Marquand USA 1983<br />

H<br />

Halloween John Carpenter USA 1978<br />

Henry pioggia di sangue John McNaughtn USA 1986<br />

History of Violence, A David CronenbergUSA/GER 2005<br />

Hitcher, The – la lunga strada <strong>del</strong>la <strong>paura</strong> Robert Harmon 1986<br />

Ho camminato con uno zombie Jacques Tourneur USA 1943<br />

Hospital Frederick Wiseman USA 1969<br />

51


Hours, The Stephen Daldry USA 2002<br />

I-J-K<br />

I Am Legend Francis Lawrence USA 2007<br />

Ignoto spazio profondo, L’ Werner Herzog Gb/Fra/Ger2005<br />

INLAND EMPIRE David Lynch USA/Pol/Fra 2006<br />

Incontri ravvicinati <strong>del</strong> terzo tipo Steven Spielberg USA 1977<br />

Indipendence Day, Ronald Emmerich USA 1996.<br />

Indiziato di reato Irwin Winkler USA 1991<br />

Infernale Quinlan, L’ OrsonWelles USA 1958<br />

Interceptor George Miller Australia 1979<br />

Interceptor, il guerriero <strong>del</strong>la strada George Miller Australia 1981<br />

Intolerance David Wark Griffith USA 1916<br />

Into the abyss Werner Herzog USA 2011<br />

Into the wild Sean Penn USA 2007<br />

Io confesso Alfred Hitchcock USA 1953<br />

Io, robot Alex Proyas USA 2004<br />

Io sono un evaso Mervyn LeRoy USA1932<br />

Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo Don Siegel USA 1971<br />

Invasati, Gli Robert Wise USA 1963<br />

Invasione degli ultracorpi, L’ Don Siegel USA 1956<br />

J. Edgar Clint Eastwood USA 2011<br />

JFK un caso ancora aperto Oliver Stone USA 1991<br />

King Kong Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack USA 1933<br />

King Kong John Guillermin USA 1976<br />

King Kong Peter Jackson N.Zel/ USA 2005<br />

L<br />

Last Days Gus Van Sant USA 2005<br />

Lenny Bob Fosse USA 1974<br />

Leoni per agnelli Robert Redford USA 2007<br />

Lontano dal paradiso Todd Haynes USA2002<br />

M<br />

Macchia umana, La Robert Benton USA 2003<br />

Magnolia Paul Thomas Anderson USA 1999<br />

Mago di Oz, Il Victor Fleming USA 1939<br />

Malcom X Spike Lee USA1992<br />

Mars attacks! Tim Burton USA 1996<br />

Massacro di Fort Apache, Il John Ford USA 1948<br />

Matinée Joe Dante USA 1993<br />

Matrix Andy e Larry Wachowski USA 1999<br />

Matrix Reloaded Andy e Larry Wachowski USA 2003<br />

Matrix Revolution Andy e Larry Wachowski USA 2003<br />

Mean Streets Martin Scorsese USA 1973<br />

Mezzanotte nel giardino <strong>del</strong> bene e <strong>del</strong> male Clint Eastwood USA 1997<br />

MIB: Men in Black Barry Sonnenfeld USA 1997<br />

Miglio verde, il Frank Darabont USA 1999<br />

Milk Gus Van Sant USA 2008<br />

1997 Fuga da New York John Carpenter USA 1981<br />

1984 Michael Radford Gb1984<br />

1941- allarme a Hollywood Steven Spielberg USA 1979<br />

Minority Report Steven Spielberg USA 2002<br />

Misery non deve morire Rob Reiner USA 1990<br />

52


Mississipi Burning - Le radici <strong>del</strong>l’odio Alan Parker USA 1988<br />

Moglie, Una John Cassavetes USA 1974<br />

Moglie di Frankenstein, La James Whale USA 1936<br />

Mondo dei robot, Il Michael Crichton USA 1973<br />

Mondo perfetto, Un Clint Eastwood USA 1993<br />

Monello, Il Charlie Chaplin USA 1921<br />

Morte ti fa bella, La Robert Zemeckis USA 1992<br />

Mosca La David Cronenberg USA 1986<br />

Mostro <strong>del</strong>la laguna nera, Il Jack Arnold USA 1954.<br />

Mucchio selveggio, Il Sam Peckinpah USA 1969<br />

N<br />

Nashville Robert Altman USA1975<br />

Nel centro <strong>del</strong> mirino Wolfgang Petersen USA 1993<br />

Nella valle di Elah Paul Haggis USA 2007<br />

Nemico pubblico Micheal Mann USA 2009<br />

New Age - nuove tendenze Michael Tolkin USA 1994<br />

Nona configurazione, La William Peter Blatty USA 1980<br />

Non aprite quella porta Tobe Hopper USA 1974<br />

Non avere <strong>paura</strong> <strong>del</strong> buio Guillermo Del Toro Usa/Australia 2011<br />

Norma Rae Martin Ritt USA 1979<br />

Notte dei morti viventi, La George A. Romero USA 1970<br />

O- P<br />

Ombra <strong>del</strong> dubbio, L’ Alfred Hitchcock USA 1943<br />

Padrino, Il Francis Ford Coppola USA 1972<br />

Palindromi Todd Solondz USA 2004<br />

Pallottola senza nome, La Jack Arnold USA 1959<br />

Parola ai giurati, La Sidney Lumet USA 1957<br />

Phila<strong>del</strong>phia Jonathan Demme USA 1993<br />

Pianeta <strong>del</strong>le scimmie, Il Franklin J. Schaffner USA 1968<br />

Piano piano dolce Carlotta Robert Aldrich USA 1964<br />

Piccolo grande uomo Arthur Penn USA 1970<br />

Pi greco - il teorema <strong>del</strong> <strong>del</strong>irio Darren Aranofsky USA1998<br />

Plan 9 From Outer Space Ed Wood USA 1959<br />

Pleasantville Gary Ross USA 1998<br />

Potere assoluto Clint Eastwood USA 1997<br />

Predator John McTiernan USA 1987<br />

Prestanome Il Martin Ritt USA 1976<br />

Psycho Alfred Hitchcock USA 1960<br />

R<br />

Radiazioni BX: distruzione uomo Jack Arnold USA 1957<br />

Rambo Ted Kotcheff USA 1982<br />

Redacted Brian De Palma USA/Canada 2007<br />

Re dei giardini di Marvin, Il Bob Rafelson USA 1972<br />

Revolutionary road Sam Mendes USA 2008<br />

Ricomincio da capo Harold Ramis USA 1993<br />

Ritorno <strong>del</strong>lo Jedi, Il Richard Marquand USA1983<br />

Road, The John Hillcoat USA 2009<br />

Rocky Horror Picture Show, The Jim Sharman GB 1975<br />

Rosemary’s baby Roman Polansky USA 168<br />

53


S<br />

Sacco e Vanzetti Giuliano Montaldo Ita 1971<br />

Scanners David Cronenberg Canada 1981<br />

Seconda guerra civile <strong>america</strong>na, La Joe Dante USA 1997<br />

Sesso, bugie e videotape Steven Soderbergh USA 1989<br />

Sesto senso, Il M. Light Shyamalan USA 1999<br />

Setta dei tre K, La Stuart Heisler USA 1951<br />

Seven David Fincher USA 1995<br />

Shame Steve McQueen USA 2011<br />

Shining Stanley Kubrick, Gb 1980.<br />

Silenzio degli innocenti, Il Jonathan Demme USA 1991.<br />

Slither James Gunn USA 2006<br />

Smarrimento Vincent Sherman USA 1947<br />

Small Soldiers Joe Dante 1998<br />

Sospetto, Il Alfred Hitchcock USA 1941<br />

Sos Summer of Sam - Panico a New York Spike Lee USA 1999<br />

Sout Park: il film - Più grosso, più lungo & tutto intero Trey Parker USA 1999<br />

Specchio <strong>del</strong>la vita, Lo Douglas Sirk USA 1959<br />

Splendore nell’erba Elia Kazan USA 1961<br />

Squalo, Lo Steven Spielberg USA 1976<br />

Stagione <strong>del</strong>la strega, La George A. Romero Romero USA 1972<br />

Starship Troopers - Fanteria <strong>del</strong>lo spazio Paul Verhoeven USA 1997<br />

Star Trek Robert Wise USA 1979<br />

Strange Days Kathryn Bigelow USA 1995<br />

Straniero senza nome, Lo Clint Eastwood USA 1973<br />

Super 8 J.J. Abrams USA 2011<br />

Syriana Stephen Gaghan USA 2005<br />

T<br />

Taxi driver Martin Scorsese USA 1976<br />

Telefon Don Siegel USA 1977<br />

Tempi Moderni Charlie Chaplin USA 1936<br />

Tenebre Charles Vidor USA 1941<br />

Tenenbaum, I Wes Anderson USA 2001<br />

Terminator James Cameron USA 1984<br />

Terminator 2 - Il giorno <strong>del</strong> giudizio James Cameron USA 1991<br />

Terminator 3 - Le macchine ribelli Jonathan Mostow USA2003<br />

Terra dei morti viventi, La George A. Romero USA 2005<br />

Terra <strong>del</strong>l’abbondanza, La Wim Wenders USA 2004<br />

Terrore <strong>del</strong>lo spazio profondo Philip Kaufman USA 1978<br />

Tomba di Ligeia, La Roger Corman USA 1965<br />

Tranquillo week end di <strong>paura</strong>, Un John Boorman GB 1972<br />

Tre giorni <strong>del</strong> Condor, I Sydney Pollack USA 1975<br />

Tre giorni per la verità Sean Penn USA 1995<br />

Tron Steven Lisberge USA1982<br />

Truman Show Peter Weir USA 1998<br />

Tutti gli uomini <strong>del</strong> presidente Alan J. Pakula USA<br />

U<br />

Uccelli, Gli Alfred Hitchcock USA 1963<br />

Underworld Len Wiseman USA 2003<br />

11 settembre 2001 Youssef Chahine, Amos Gitai, Samira Makhmalbaf, Mira Nair, Idrissa Ouedraogo, Shohei Imamura, Sean<br />

Penn, Ken Loach, Danis Tanovic, Alejandro Gonzalez Inarritu, Claude Lelouch, 2002<br />

Ultimatum alla Terra Robert Wise USA 1951<br />

54


Uomo bicentenario L’ Chris Columbus USA 1999<br />

Uomo che cadde sulla Terra L’ Nicolas Roeg USA 1976<br />

Uomo che non c’era, L’ Joel e Ethan Cohen USA 2001<br />

Uomo che uccise Liberty Valance, L’ John Ford USA 1962<br />

Uomo che visse nel futuro L’ George Pal USA 1960:<br />

Uomo <strong>del</strong> banco dei pegni, L’ Sidney Lumet 1965<br />

Uomo <strong>del</strong> pianeta X L’ Edgar G. Ulmer USA 1951<br />

V- W -X<br />

Va’ e uccidi - Manchurian Candidate John Frankenheimer USA 1962<br />

Valle <strong>del</strong>l’Eden, La Elia Kazan USA 1955<br />

Vampyr George A. Romero USA 1978<br />

Vampires John Carpenter USA 1998<br />

Velluto blu David Lynch USA 1986<br />

Vestito per uccidere Brian DePalma USA 1980<br />

Videodrome David Cronenberg Canada 1983<br />

Villaggio dei dannati, Il Wolf Rilla USA 1960<br />

Vivere e Morire a Los Angeles William Friedkin USA 1985<br />

Volto nella folla, Un Elia Kazan USA 1957<br />

Wall-E Andrew Stanton USA 2008<br />

Wall street Oliver Stone USA 1987<br />

Wargames - Giochi di guerra John Baldham USA 1983<br />

World Trade Center Oliver Stone USA 2006<br />

X-Men Brian Synger USA 2000<br />

Z<br />

Z la formica Eric Darnell e Tim Johnson USA 1998<br />

Zombi George A. Romero USA 1978<br />

Zodiac David Fincher USA 2007<br />

SERIE TV<br />

Event, The<br />

Famiglia Addams, La<br />

Famiglia <strong>del</strong> terzo tipo, Una<br />

Lost<br />

Lost in Space<br />

Mork e Mindy<br />

Pianeta Terra: cronaca di un’invasione (Earth: Final Conflict)<br />

Spazio 1999<br />

Starman<br />

Star Trek<br />

Twin peaksUFO (UFO)<br />

V - Visitors (V, V: The Final Battle) e Visitors (V)<br />

X-Files (The X-Files)<br />

55


BIBLIOGRAFIA<br />

Belpoliti Marco, Crolli, Torino, Einaudi, 2005.<br />

Cana<strong>del</strong>li E., Locati.S, Evolution- Darwin e il cinema, Le mani 2009<br />

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De Lillo Don, Underworld, Einaudi, 1999<br />

Ellis Bret Easton, American Psyco, Einaudi, 1991<br />

Ellis Bret Easton, Le regole <strong>del</strong>l’attrazione, Einaudi, 2004<br />

Roth Philip, Ho sposato un comunista, Einaudi 2005<br />

Scott Fitzgerald Francis, Di qua il paradiso, collana I Meridiani, Arnoldo Mondadori, 1973<br />

Wright Richard, Paura, Bompiani, 1983<br />

Wright Richard, Ragazzo negro, Einaudi 2006<br />

Yates Richard, Revolutionary Road, Minimum Fax 2009<br />

58


INDICE<br />

Introduzione...................................................................................................................................................3<br />

Raccontare la <strong>paura</strong>. Storie e visioni fra letteratura e cinema.......................................................................9<br />

Gli alieni siamo noi......................................................................................................................................23<br />

I film............................................................................................................................................................27<br />

The Conspirator................................................................................................................................29<br />

Splendore nell’erba..........................................................................................................................33<br />

L’invasione degli ultracorpi.............................................................................................................37<br />

Sos Summer of Sam - Panico a New York......................................................................................41<br />

A History of Violence......................................................................................................................45<br />

Filmografia...................................................................................................................................................49<br />

Bibliografia..................................................................................................................................................57<br />

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