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L’INDICE <strong>PENALE</strong>, 1/2011<br />

mità di una scelta repressiva; e, ovviamente la stessa formulazione, di una<br />

fattispecie penale fin troppo fluida e discutibile nei suoi elementi costitutivi.<br />

Ed è poi chiaro, quasi scontato: zone di disoccupazione, o non occupazione,<br />

visibilissime nelle condizioni economiche e sociali del tempo,<br />

avrebbero potuto ascriversi, molto semplicisticamente, seguendo pericolosi<br />

criteri di opportunità, all’ignavia, o alla ripugnanza verso il lavoro del singolo<br />

individuo; costretto a girovagare proprio nella ricerca, e persino nell’invenzione<br />

talvolta di una possibile occupazione.<br />

In ogni caso dunque, si operava una trasmutazione dal fatto di vagabondaggio<br />

al tipo del vagabondo, ignavo, ozioso: colpevolmente vagabondo.<br />

Vero però: la questione, in ultima analisi, induceva riflessioni diverse<br />

davvero da notazioni meramente dommatiche. Sarebbe stato erroneo irrealistico,<br />

infatti, dimenticare che ogni ragione di punibilità potesse infine cedere<br />

di fronte alla costatazione – decisiva – che la mancanza di lavoro e di<br />

mezzi leciti di sussistenza si manifestasse fin troppo spesso quale conseguenza<br />

di cause non imputabili al singolo individuo. Con estrema attenzione<br />

si avvertì, del resto come la stessa fragilità descrittiva del Tatbestand<br />

proposto, finisse in sostanza per rivelare e connotare una ratio punitiva di<br />

classe: si voleva effettivamente colpire il vagabondaggio dei poveri, privi di<br />

lavoro e di mezzi propri di sopravvivenza, votandoli psicologicamente alla<br />

ignavia, alla ripugnanza appunto verso il lavoro, elevato, tra l’altro, a fattore<br />

di moralità.<br />

Inevitabilmente, proprio l’antisocialità di queste motivazioni avrebbe<br />

sempre restituito non tanto una orientazione lesiva dell’illecito, quanto<br />

una tipologia di autori: l’ozioso, il vagabondo, il parassita, violatori, tutti,<br />

di un immaginifico obbligo di contribuire al lavoro sociale, di mantenersi<br />

con mezzi propri. Persone pericolose, insomma, estranee al tessuto sociale.<br />

Ora, a parte la difficoltà di concretizzare quel doveroso contributo al<br />

lavoro sociale, e la condotta, l’attività necessaria a rispettarlo, in un valore<br />

penalmente rilevante, significativa era sempre la personalizzazione del<br />

fatto; e la perdita di oggettività del fatto. Si smarriva la sua lesività, ed<br />

emergeva appunto il soggetto pericoloso, ‘‘molestatore’’ dell’ordine sociale.<br />

Emergeva – vale poi ricordarlo – la costruzione del sospetto: resisteva,<br />

e si confermava, traducendosi nell’idea che dal vagabondare, e dalle stesse<br />

occupazioni girovaghe, pur se autorizzate, potesse discendere un’attività<br />

delittuosa. Sottacendosi, in sostanza, la necessità di distinguere tra incriminazione<br />

del vagabondaggio, o di situazioni ad esso contigue, e persecuzione<br />

dei reati eventualmente commessi.<br />

Certo, l’assenza nel codice penale del 1889 di una fattispecie ad hoc<br />

per l’ipotesi in esame avrebbe poi vanificato l’interrogativo.<br />

E però non del tutto: se quell’humus di antisocialità, di sospetto, di<br />

estraneità a regole di ordinata convivenza sociale non fosse talvolta affio-

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