2.Dante Maffia, Prefazione, in Fenicia, sogno di - Giuseppe Limone

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28.05.2013 Views

poetico s’incrociano, facendo risonanza e vertigine in luoghi diversi e molteplici dell’itinerario dell’autore, tre temi lirici in una sola parola evocativa visitata in più chiavi: la Fenicia. La quale si rivela, come in un progressivo dissigillamento, al tempo stesso: la terra antica dei Fenici centro di partenza simbolica di una civiltà mediterranea e marinara, altra ed alta, possibile alternativa sommersa alle tante che si svilupparono di fatto nella storia del mondo; la figlia del poeta, Fenicia, e il tema della resurrezione, incarnato nella celebre figura del mito. Non ci si inganni: i tre motivi sono le tre chiavi musicali di un unico plesso lirico – la catarsi solare del viaggio come rigenerazione del futuro. Anche le citazioni letterarie nascoste sono affluenti a questo fiume. Infatti il libro bisogna leggerlo come un unicum e non come brani sparsi. Limone ne ha progettato fin nei minimi particolari la scansione e lo sviluppo ed è evidente che è dall’insieme che si attende la verifica degli esiti. Per capire comunque la portata del testo è necessario partire dal titolo che si richiama alla Fenice, uno degli uccelli mitici di cui ci hanno dato notizia Plutarco ed Erodoto. Pare sia di origine etiopica, di bellezza eccelsa, longevo, con il potere di consumarsi nella fiamma del fuoco e di rinascere dalle proprie ceneri. Sulla Fenice sono stati scritti molti volumi, soprattutto durante il Medioevo che la considerò simbolo della Resurrezione di Cristo. In tutti i modi possiamo leggere nel suo mito la resurrezione, l’immortalità e la rinascita ciclica o, a partire da Origene, il simbolo della volontà di sopravvivenza, il trionfo della vita sulla morte. La premessa per dire che questo libro in fondo è una morte totale e una altrettanto rinascita totale che Giuseppe Limone compie attraversando “il punto più difficile, / cercando / gli affetti purissimi / e l’innocenza dell’aquila / irredenta”. Così ha inizio la prima lirica, e dunque il poeta si presenta privo di qualsiasi remora, affidandosi alla libertà e alla clemenza del lettore e di se stesso, ricordando, prima a se stesso e poi a noi lettori, quali siano stati gli elementi determinanti che l’hanno accompagnato per lungo tempo e che a un certo punto si sono dissolti. Si rivolge direttamente al signore, Gli ricorda che ha soccorso “i fiori recisi”, “gli alfabeti / plurali del respiro, / i gigli illesi, / i coriandoli del nome / e dell’onore” per

condurLo sul suo stesso piano, per invitarlo a scendere a patti con la sua persona e chiederGli la restituzione delle cose perdute. C’è in questo primo testo la disperazione starei per dire gaudiosa del proprio percorso che deve servire come moneta e credito da offrire al Signore per riavere nelle mani il proprio destino di uomo. Limone non tergiversa, conosce la sua forza interiore, lo slancio con cui ha amato, ha sofferto, ha goduto, e conosce la malinconia dell’addio, della rottura con l’equilibrio e l’armonia del mondo. Un palpito ungarettiano si rivolse in scatto campanellino. Le sofferenza sono un travaglio che deve suscitare l’interesse di Dio. E per farci sapere fino a che punto Limone è stato uomo di fede, soprattutto nella poesia, oltre che nella vita , fa ricorso a un nume tutelare che si chiama Federico Garcia Lorca. Vi fa ricorso addirittura ricalcandone i moduli espressivi (anche se riportati alla propria dimensione e al proprio ritmo), ricorrendo a una dovizia di sinestesie che hanno il bagliore delle lame di Toledo, a cominciare dall’incipit: “Il mio cuore cavalca un puledro / di lucido sole”, fino alla glorificazione di quell’arcobaleno che “è un pianoforte all’aria / per le tue dita / luce”. Un lirismo starei per dire accecante in cui “il pianto rosso dell’estate” diventa a un tempo malinconia fertile e danza irrequieta che prelude a qualcosa di straordinario. La Fenice sa attendere, sa divincolarsi dalle assurdità, dai dolori e trovare l’abbagliante mattino delle nuove albe. Il poeta altro non è che la Fenice, un unico fiato, un unico fine, un’unica attesa da cui salterà fuori la nuova strada. Viene naturalmente da domandarsi se il tu colloquiale a cui i rivolge Limone sia un astratto interlocutore oppure il suo doppio, o il suo amore sempre sullo sfondo e sempre pronto a dissolversi nella nebbia del ricordo. Eppure, anche nella caduta egli non recrimina, non fa la vittima, non si atteggia a giudice, a moralista. Resta il poeta incantato nella speranza fenicia e nel grumo irrisolto del dubbio. “Avrei voluto essere il lampo” spiega l’atteggiamento di tenerezza che ricolma le azioni e i pensieri del poeta che subito dopo si confessa e dichiara di non avere niente da dare all’amata, “se non il mio ultimo respiro…. La mia tenerezza invisibile … la mia attesa inutile … questi occhi, / segnati da fuochi e da morsi”. Il “pulcino rannicchiato” a questo punto deve ritrovare le braccia della madre e infatti

condurLo sul suo stesso piano, per <strong>in</strong>vitarlo a scendere a patti con la sua<br />

persona e chiederGli la restituzione delle cose perdute.<br />

C’è <strong>in</strong> questo primo testo la <strong>di</strong>sperazione starei per <strong>di</strong>re gau<strong>di</strong>osa del<br />

proprio percorso che deve servire come moneta e cre<strong>di</strong>to da offrire al<br />

Signore per riavere nelle mani il proprio dest<strong>in</strong>o <strong>di</strong> uomo. <strong>Limone</strong> non<br />

tergiversa, conosce la sua forza <strong>in</strong>teriore, lo slancio con cui ha amato, ha<br />

sofferto, ha goduto, e conosce la mal<strong>in</strong>conia dell’ad<strong>di</strong>o, della rottura con<br />

l’equilibrio e l’armonia del mondo. Un palpito ungarettiano si rivolse <strong>in</strong><br />

scatto campanell<strong>in</strong>o. Le sofferenza sono un travaglio che deve suscitare<br />

l’<strong>in</strong>teresse <strong>di</strong> Dio. E per farci sapere f<strong>in</strong>o a che punto <strong>Limone</strong> è stato uomo<br />

<strong>di</strong> fede, soprattutto nella poesia, oltre che nella vita , fa ricorso a un nume<br />

tutelare che si chiama Federico Garcia Lorca. Vi fa ricorso ad<strong>di</strong>rittura<br />

ricalcandone i moduli espressivi (anche se riportati alla propria <strong>di</strong>mensione<br />

e al proprio ritmo), ricorrendo a una dovizia <strong>di</strong> s<strong>in</strong>estesie che hanno il<br />

bagliore delle lame <strong>di</strong> Toledo, a com<strong>in</strong>ciare dall’<strong>in</strong>cipit: “Il mio cuore<br />

cavalca un puledro / <strong>di</strong> lucido sole”, f<strong>in</strong>o alla glorificazione <strong>di</strong><br />

quell’arcobaleno che “è un pianoforte all’aria / per le tue <strong>di</strong>ta / luce”.<br />

Un lirismo starei per <strong>di</strong>re accecante <strong>in</strong> cui “il pianto rosso<br />

dell’estate” <strong>di</strong>venta a un tempo mal<strong>in</strong>conia fertile e danza irrequieta che<br />

prelude a qualcosa <strong>di</strong> straord<strong>in</strong>ario. La Fenice sa attendere, sa <strong>di</strong>v<strong>in</strong>colarsi<br />

dalle assur<strong>di</strong>tà, dai dolori e trovare l’abbagliante matt<strong>in</strong>o delle nuove albe. Il<br />

poeta altro non è che la Fenice, un unico fiato, un unico f<strong>in</strong>e, un’unica attesa<br />

da cui salterà fuori la nuova strada.<br />

Viene naturalmente da domandarsi se il tu colloquiale a cui i rivolge<br />

<strong>Limone</strong> sia un astratto <strong>in</strong>terlocutore oppure il suo doppio, o il suo amore<br />

sempre sullo sfondo e sempre pronto a <strong>di</strong>ssolversi nella nebbia del ricordo.<br />

Eppure, anche nella caduta egli non recrim<strong>in</strong>a, non fa la vittima, non si<br />

atteggia a giu<strong>di</strong>ce, a moralista. Resta il poeta <strong>in</strong>cantato nella speranza<br />

fenicia e nel grumo irrisolto del dubbio. “Avrei voluto essere il lampo”<br />

spiega l’atteggiamento <strong>di</strong> tenerezza che ricolma le azioni e i pensieri del<br />

poeta che subito dopo si confessa e <strong>di</strong>chiara <strong>di</strong> non avere niente da dare<br />

all’amata, “se non il mio ultimo respiro…. La mia tenerezza <strong>in</strong>visibile … la<br />

mia attesa <strong>in</strong>utile … questi occhi, / segnati da fuochi e da morsi”. Il “pulc<strong>in</strong>o<br />

rannicchiato” a questo punto deve ritrovare le braccia della madre e <strong>in</strong>fatti

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