riflessioni sui primi undici capitoli della genesi - Rocco Li Volsi – Saggi
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Rispetto agli animali, l’uomo è l’essere che proprio per la conoscenza del bene e del male, dovrebbe essere immagine di Dio. La<br />
condizione di chi non sa di sapere è propria di colui che non si rende ancora ben conto <strong>della</strong> ricchezza conoscitiva che potenzialmente<br />
possiede. Questa sembra essere la condizione di Adamo, posto in un giardino potenzialmente meraviglioso, ma non ancora ‘coltivato’;<br />
con un comando che gli è stato dato, ma che non è stato ancora eseguito; con un divieto che non ha ancora preso in considerazione. 15<br />
Ma c’è ancora questo da aggiungere: perché Dio, dopo aver dichiarato buona ogni cosa da Lui creata, dalla quale pare essere<br />
lontana ogni forma di male, ogni aspetto negativo, e le tenebre che coprivano l’abisso erano state fugate dalla luce dichiarata buona,<br />
perché ora Dio pone davanti all’uomo un albero <strong>della</strong> conoscenza del bene e del male, e cioè il principio di discernimento del bene e<br />
del male? Vi era, dunque, la possibilità del male nell’Universo creato da Dio? E quelle tenebre che coprivano l’abisso non erano state<br />
fugate completamente? E come era stata separata nel quarto giorno la luce dalle tenebre mediante la creazione dell’astro del giorno e<br />
di quelli <strong>della</strong> notte “per regolare giorno e notte”, così dovevano essere state separate luce e tenebre metafisiche, ma non annullate<br />
queste ultime. Dunque, c’è la possibilità del male, del nulla fuori di Dio.<br />
Dio avverte Adamo che, se mangerà del frutto dell’albero <strong>della</strong> conoscenza del bene e del male, morirà. La morte appare come il<br />
male; e nell’Apocalisse la vittoria del bene sul male è data dalla scomparsa <strong>della</strong> morte:<br />
“«Ecco la dimora di Dio con gli uomini!<br />
Egli dimorerà tra di loro<br />
ed essi saranno suo popolo<br />
ed egli sarà il “Dio-con-loro”.<br />
4 E tergerà ogni lacrima dai loro occhi;<br />
non ci sarà più la morte,<br />
né lutto, né lamento, né affanno,<br />
perché le cose di prima sono passate».” (21)<br />
La morte è la negazione <strong>della</strong> creazione, la distruzione dell’unione di elementi, come nel caso dell’anima e del corpo, o degli<br />
elementi dell’anima, in ragione di una causa esterna. Ma in Dio non c’è male: né un male reale, né un male potenziale, né un male per<br />
le proprie relazioni interne, né per quelle esterne di creazione e di provvidenza, infatti: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa<br />
molto buona.”<br />
Platone attribuisce a Dio il carattere di Bene, e ciò che è bene non ha bisogno di nulla poiché è perfetto, e inoltre rende amiche<br />
tutte le cose: 16 non è per ciò possibile che in Lui vi siano imperfezioni, limitazioni, male. Platone ne parla anche in termini di purezza:<br />
“Quando invece l’anima procede tutta sola in se stessa alla sua ricerca, allora se ne va colà dov’è il puro, dov’è l’eterno e l’immortale<br />
e l’invariabile”. 17<br />
18 Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile».<br />
Come abbiamo visto, in questo secondo capitolo l’uomo nasce solo: è Adamo; Eva non è stata ancora formata. L’uomo, creato ad<br />
immagine di Dio (maschio e femmina) è soltanto agli inizi <strong>della</strong> sua possibile perfezione. La solitudine di Adamo non è un male, ma<br />
una limitazione che, con il preannuncio del suo dover essere ad immagine e somiglianza di Dio, mostra il suo prestabilito<br />
superamento. Per ciò, attualmente Adamo non è un intero, sia per la mancanza del completamento <strong>della</strong> specie, sia perché la sua<br />
missione di ‘dominio’ sugli animali non è ancora iniziata. 18 Questo completamento dell’uomo, mediante “un aiuto che gli sia simile”,<br />
costituisce la possibilità del raggiungimento di quel dominio sugli animali che corrisponde, potremmo dire, alla maturazione<br />
dell’identico-intelletto.<br />
19 Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo,<br />
per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello<br />
doveva essere il suo nome. 20 Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie<br />
selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.<br />
Anche per gli animali, come per le piante, troviamo qui che essi sono plasmati “dal suolo”, dopo la nascita di Adamo, senza però<br />
che Dio ‘soffi’ nelle loro narici “un alito di vita”. Ma essi non vengono plasmati per servire di cibo all’uomo, bensì per ‘vedere’ se tra<br />
essi, per l’uomo, se ne trovi uno da costituire “un aiuto che gli fosse simile”. In vista del ‘dominio’ dell’uomo sugli animali, Dio li<br />
conduce davanti al giudizio di Adamo, affinché ricevano ciascuno il nome appropriato, cioè la funzione naturale in connessione con la<br />
razionalità complessiva del Creato: “in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il<br />
suo nome.” Non si tratta dunque di un nome fonetico, ma <strong>della</strong> specifica funzione di ciascun animale perché l’universo possa<br />
raggiungere una perfetta armonia.<br />
Adamo qui appare il pastore di tutti gli animali, affidatigli da Dio; “ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.” Il<br />
completamento maggiore e la sua essenziale armonia, egli non può ottenerli da esseri inferiori, quanto da un alter-ego, carne <strong>della</strong> sua<br />
carne, ossa delle sue ossa.<br />
21 Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la<br />
carne al suo posto. 22 Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.<br />
23 Allora l’uomo disse:<br />
15<br />
A riguardo, Platone distingue le seguenti condizioni: 1. di chi sa (l’esperto: egli riconosce tanto chi sa quanto chi non sa); 2. di chi non sa, ma crede di sapere<br />
(costui non riconosce né chi sa né chi non sa); 3. di chi sa di non sapere (egli si affida all’esperto); 4. chi non sa di sapere (si tratta, in genere, di giovani di buona<br />
natura, desiderosi di apprendere).<br />
16<br />
“Per tutte quelle cose che ci sono amiche in modo relativo, evidentemente noi usiamo un termine improprio: in realtà mi sembra che sia vero amico ciò a cui<br />
fanno capo tutte le cosiddette cose amiche. - Sembra davvero, disse. - Dunque, ciò che è il vero amico, lo è in senso assoluto. - Sì. - Questo dunque è stato chiarito, che<br />
il primo amico è amico in assoluto. Ma questo amico si identifica col bene? - A me sembra di sì.” Platone, <strong>Li</strong>side 220 a-b.<br />
17<br />
Platone, Fedone 79 c-d.<br />
18<br />
Platone, con la teoria <strong>della</strong> partecipazione dell’anima all’intero Intellegibile, ci mostra che l’identico è, sì, un intero, ma ancora privo di parti, che dovrà acquisire<br />
con l’esperienza. Per questo motivo ricorre al mito <strong>della</strong> reminiscenza, affermando che tutto ciò che conosciamo è un ricordare, un fare affiorare alla memoria ciò che<br />
già possediamo. In realtà, nascendo, noi possediamo un intelletto il cui oggetto (che egli chiama ‘principio’) non è ancora determinato, ma si va determinando appunto<br />
mediante l’esperienza, attraverso le connessioni tra le parti tra loro, e tra le parti e l’intero. V. Platone, Menone e Teeteto.<br />
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