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riflessioni sui primi undici capitoli della genesi - Rocco Li Volsi – Saggi

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Eva ora si pone davanti all’oggetto stesso <strong>della</strong> contesa, ed è esso che diviene capace di imporsi alla sua coscienza: “Allora la<br />

donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza”. Non sono più le parole del<br />

serpente a tentarla, ma l’albero stesso per come si presentava ai suoi sensi e al suo intelletto. Cadono così le parole del serpente e<br />

quelle di Dio che Adamo le aveva riferito: Eva rimane sola con la propria coscienza davanti all’oggetto che è diventato oggetto di<br />

desiderio.<br />

La ‘parte’ più debole dell’uomo, fatto ad immagine di Dio, fa partecipe la ‘parte’ più forte del frutto mangiato: Adamo, che pure<br />

aveva udito con le proprie orecchie il divieto divino, non abbandona l’essere tratto dal proprio corpo: egli non può che essere solidale<br />

con Eva, né si può pensare che sia stato ingannato da Eva, perché altrimenti la sua coscienza sarebbe restata senza colpa. Adamo<br />

accettò piuttosto il ‘destino’ di Eva, anche se si può pensare che non abbia conosciuto il discorso fatto dal serpente. Solo allora si<br />

aprono effettivamente i loro occhi, come aveva detto il serpente, ma non per diventare “come Dio”: essi scoprono la loro nudità, cioè<br />

la loro nullità, come la vede il Creatore che li trasse dall’abisso del nulla.<br />

Si sono aperti i loro occhi senza “acquistare saggezza”, o meglio, senza acquistare una saggezza positiva, volta cioè ad un<br />

continuo progresso, ma negativa, che ha per primo risultato un regresso: non hanno aquisito la conoscenza del bene e del male, ma<br />

hanno fatto esperienza del male e del suo prevalere sul bene. Il bene è tuttavia ancora presente in loro nelle forme negative del pudore<br />

e <strong>della</strong> paura: la loro coscienza percepisce dolorosamente la rottura di un’armonia che era perfetta nella sua semplicità, con una<br />

capacità di ampliamento che ora è venuta meno.<br />

Nel Popol Vuh troviamo una storia simile a quella narrata dalla Genesi, ma inserita in un contesto del tutto diverso, e diversamente<br />

narrata.<br />

“Questa è la storia di una fanciulla, figlia di un Signore chiamato Cuchumaquic. Giunsero [queste notizie] all’orecchio di una<br />

fanciulla, figlia di un Signore. Il nome del padre era Cuchumaquic e quello <strong>della</strong> fanciulla Ixquic. Quando essa udì la storia dei<br />

frutti dell’albero, che le fu raccontata dal padre, 26 rimase stupita nell’udirla. - Perché non devo andare a vedere quest’albero di cui<br />

parlano? - esclamò la giovane. - Devono certo essere saporiti i frutti di cui sento parlare -. Poi si mise in cammino da sola e giunse<br />

ai piedi dell’albero che era piantato a Pucbal-Chah. - Ah, - esclamò, - che frutti sono quelli che produce quest’albero? Non è<br />

meraviglioso vedere come si è coperto di frutti? Morirò, mi perderò se ne colgo uno? - disse la fanciulla. Allora parlò il teschio<br />

che stava tra i rami dell’albero e disse: - Che vuoi? Questi oggetti rotondi che coprono i rami dell’albero non sono altro che teschi<br />

-. Così disse la testa di Hun-Hunahpú rivolgendosi alla giovane. - Per avventura li desideri? - soggiunse. - Sì, li desidero, - rispose<br />

la fanciulla. - Benissimo, - disse il teschio. - Stendi da questa parte la tua mano destra. - Bene, - replicò la giovane, ed alzando la<br />

destra la stese nella direzione del teschio. In quell’istante il teschio lanciò uno spruzzo di saliva che andò a cadere direttamente<br />

sulla palma <strong>della</strong> mano <strong>della</strong> fanciulla. Essa si guardò svelta ed attenta la palma <strong>della</strong> mano, ma la saliva del teschio non era più<br />

sulla sua mano. - Nella mia saliva e nella mia bava ti ho dato la mia discendenza, (disse la voce sull’albero). - Ora non vi è più<br />

nulla sopra la mia testa, non è altro che un teschio spoglio <strong>della</strong> carne. Così è la testa dei grandi principi, soltanto la carne dà loro<br />

un bell’aspetto. E quando muoiono, gli uomini si spaventano alla vista delle ossa. Tale è anche la natura dei figli, che sono come<br />

la saliva e la bava, siano essi figli di un Signore, di un uomo saggio o di un oratore. La loro qualità non si perde, quando essi se ne<br />

vanno, ma si eredita; non si estingue né sparisce l’immagine del Signore, dell’uomo saggio o dell’oratore, ma essi la lasciano alle<br />

loro figlie ed ai figli che generano. Questo, appunto, ho fatto io con te. Sali dunque sulla superficie <strong>della</strong> terra, ché non morirai.<br />

Abbi fiducia nella mia parola, che così sarà, - disse la testa di Hun-Hunahpú e di Vucub-Hunahpú. E tutto ciò che così<br />

sagacemente avevan fatto era stato per ordine di Huracán, Chipi-Caculhá e Raxa-Caculhá [Dio: il Cuore del Cielo]. Ricevuti tutti<br />

questi avvertimenti, la fanciulla ritornò subito a casa sua, avendo immediatamente concepito i figli nel ventre in virtù <strong>della</strong> sola<br />

saliva. E così vennero generati Hunahpú ed Ixbalanqué.” 27<br />

Le analogie dei due racconti a me sembrano reali: si parla di una giovane donna e di un albero che è simbolo di morte per i suoi<br />

frutti-teschi. La giovane è fortemente attratta dalla bellezza dell’albero, il quale fa anche le veci del serpente, ovvero le fa “la testa di<br />

Hun-Hunahpú”. Inoltre, “tutto ciò che così sagacemente avevan fatto era stato per ordine di Huracán, Chipi-Caculhá e Raxa-Caculhá”,<br />

cioè <strong>della</strong> Trinità maya. La “testa di Hun- Hunahpú” dice inoltre alla giovane: “Sali dunque sulla superficie <strong>della</strong> terra, ché non<br />

morirai”; e questo sembra un passaggio da un luogo ageografico e astorico a quello in cui risiedono gli uomini. In fine, anche<br />

l’assicurazione (“non morrai”) ricorda quella del serpente.<br />

8 Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal<br />

Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. 9 Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». 10 Rispose: «Ho<br />

udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». 11 Riprese: «Chi ti ha fatto sapere<br />

che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». 12 Rispose l’uomo: «La donna<br />

che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». 13 Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai<br />

fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».<br />

Con espressione poetica il testo descrive la presenza di Dio nel giardino di Eden. Come Adamo aveva udito le parole di Dio, ora<br />

sente i suoi passi: Dio si manifesta sensibilmente ai progenitori, non nella sua natura e nella sua gloria, ma, possiamo dire, a immagine<br />

dell’uomo: secondo i suoi sensi.<br />

Con la stessa ingenuità con cui avevano nascosto le loro nudità “intrecciando foglie di fico”, così ora si nascondono “in mezzo agli<br />

alberi del giardino”. Essi non hanno ancora il senso <strong>della</strong> maestà divina, dell’onniscienza e dell’onnipotenza di Dio, e pensano di<br />

sottrarsi alla sua vista nascondendosi tra gli alberi. “Ma il Signore Dio chiamò l’uomo”.<br />

È da notare che non si rivolge ad entrambi, ma al solo Adamo; ed è Adamo a rispondere alle sue domande, perché a lui Dio aveva<br />

rivolto la raccomandazione di non mangiare dei frutti dell’albero <strong>della</strong> conoscenza del bene e del male. Benché Adamo abbia voluto<br />

condividere la sorte di Eva, ora non si trattiene dall’incolparla <strong>della</strong> disobbedienza, quasi rimproverando Dio di avergli dato tale<br />

compagna. Analoga è la risposta di Eva nei confronti del serpente: “Il serpente mi ha ingannata”.<br />

La coscienza di entrambi è divenuta una coscienza complessa (“Allora si aprirono gli occhi di tutti e due”), che riconosce il<br />

proprio limite (“si accorsero di essere nudi”: di essere nulla), la propria vulnerabilità (“Il serpente mi ha ingannato”), una propria<br />

26 È da tener presente che per Eva Adamo è quasi un padre.<br />

27 Popol Vuh, p. 58.<br />

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