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l'Atman stesso è uno pseudo-concetto. Questa comprensione liberatrice è possibile soltanto quando gl'""ingorghi"" impuri della vita mentale (asrava) sono stati vinti dalla paziente fatica di riorientamento di essa, cui la prassi ascetica in primissimo luogo mira." "Il nono testo, fondamentale per la comprensione di tale prassi, è chiamato Mahasatipatthanasuttanta, dai quattro ""pilastri dell'attenzione/memoria"" (smrtyupasthana) su cui esso particolarmente indugia. Di notevole rilievo vi è la presentazione delle quattro Nobili Verità (Aryasatya) legate alla predicazione buddhistica fin dalle origini, che ripropongono la scoperta del disagio esistenziale (duhkha; il termine non designa soltanto il dolore e la sofferenza, ma più in generale ogni forma di esperienza negativa e traumatizzante) seguendo il formalismo dell'antica medicina indiana: a) individuazione della presenza del morbo in base alla constatata presenza dei sintomi di esso; b) ricerca dell'eziologia del morbo; c) accertamento dell'efficacia della rimozione delle cause del morbo, in quanto producente la scomparsa dei sintomi; d) prescrizione della cura vera e propria. Questa consiste nell'Ottuplice Sentiero (Astangamarga), probabilmente la più antica sistematizzazione dell'iter ascetico buddhistico, le cui tappe sono qui chiaramente 9 descritte. Il nesso tra disagio esistenziale e coinvolgimento involontario nel rapporto con l'oggetto, sentito come sete (trsna) nei confronti dell'oggetto medesimo, è il punto forte della struttura delle Nobili Verità, e la sua scoperta è tutt'uno con il ""risveglio"" che fa di Gautama il Buddha della sua epoca. Tale nesso viene esplicitato per tempo - in stretta associazione con una teoria del ciclo delle rinascite che si sforza di fare a meno della nozione di un Atman trasmigrante di corpo in corpo - attraverso l'analisi del processo del pratityasamutpada (""sorgere in concomitanza con il verificarsi di condizioni date""). Si tratta del momento teoretico sentito come di maggiore importanza nel Buddhismo antico, rivalutato poi anche dalle scuole del ""Grande Veicolo"", in ispecie da quella che fa capo al maestro Nagarjuna (II secolo d.C.), che fonda in esso la sua dottrina della vacuità (sunyata) di tutti i momenti del divenire, in quanto destituiti di autonomia ontologica." "Ad esso è dedicato il decimo testo, che prende il nome di Mahanidanasuttanta dalle tappe del processo in discorso, presentate come altrettante cause/condizioni (nidana) nei confronti delle tappe immediatamente
successive. Vi si trova anche una critica articolata delle teorie relative all'Atman (reso con ""anima"" dal Frola) che mostra ancora una volta l'attenzione degli ambienti buddhistici alle componenti del pensiero indiano diverse dal loro indirizzo. Giova ricordarlo, il Buddhismo è anche una ""filosofia""! Segnaliamo altresì la corrispondenza stabilita tra i diversi stati di meditazione ed una serie di condizioni paradisiache sempre più elevate. Si tratta di una nota caratteristica della riflessione indiana sullo yoga fin dall'epoca preclassica, che ritroviamo tanto in testi tecnici come il commento agli Yogasutra ascritto a Vyasa, quanto nelle dominanti sillogi puraniche ed agamiche che ispirano la più matura visione induistica. Del resto, la tradizione assegna una visione siffatta già ai maestri di Gautama, che l'avrebbero guidato rispettivamente all'attingimento del settimo ed ottavo stato sopracosciente: Arada Kalama di Vaisall, nel territorio della repubblica aristocratica di Vrjji, e il meno caratterizzato Udraka Ramaputra di Rajagrha, l'antica capitale dei Magadha. Di fatto, la capacità di accedere via via a queste stazioni sempre più rarefatte di esercizio dell'attenzione, fino ai gradi di attenzione vuota in cui la pratica culmina, sono condizione necessaria, ma non sufficiente alla esperienza terminale del Nirvana. Allorché il Buddha stesso si spegne, tale esperienza è detta comportare dapprima l'ascesa fino alla condizione più elevata, quella in cui non v'è più presenza né assenza d'attenzione (naivasamjnanasamjnayatana), indi la ridiscesa graduale allo stato di consapevolezza empirico. Come un pendolo che abbia descritta in tal modo interamente la propria curva, acquistando movimento ed energia, la coscienza del movente riparte poi verso gli stati più elevati fino a raggiungere la quarta esperienza. Qui, a metà tra il mondo delle forme (rupadhatu) e quello dell'informe (arupyadhatu), quasi aprendosi uno spazio interstiziale per uscire definitivamente dal cosmo, il Buddha si estingue (Mahaparinibbanasuttanta, VI, 8-9). A parte il ricorso al motivo ""pendolare"", che già avevamo notato a proposito delle età cosmiche, questo passo (in cui concordano sostanzialmente le varianti della narrazione appartenenti ai diversi Canoni in lingua diversa dalla pali sopravvissuti fino a noi, mostrandone l'antichità!) rivela l'importanza tutta particolare della ""via di mezzo"" fra affermazione e negazione, tanto spesso reperibile nelle fonti buddhistiche. Val la pena di segnalare che, appunto in corrispondenza della divisione fra i due mondi accennati, i maestri del ""Grande Veicolo"" pongono il ""corpo fruitivo"" del Buddha
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altresì la corrispondenza stabilita tra i diversi stati di meditazione ed una serie di condizioni<br />
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sempre più elevate. Si tratta di una nota caratteristica della riflessione indiana sullo yoga fin<br />
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dominanti sillogi puraniche ed agamiche che ispirano la più matura visione induistica. Del<br />
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