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testimoniato da numerosi testi dell'India antica, a cominciare dalle famose a Domande di re Menandro"" (Milindapanha) - curioso degl'insegnamenti eterodossi rispetto alla tradizione brahmanica e ne riassume concisamente i principali. Si tratta di un prezioso repertorio di notizie sulla predicazione di guide spirituali contemporanee a Gautama, che consente di cogliere lo sfondo su cui egli viene a situarsi, sebbene la presentazione delle dottrine rivali sia - qua e là - deformata quasi ai limiti della caricatura. Così, se è ancora possibile riconoscere i tratti del severo fatalismo di Gopala ""il Bardo"" (Maskarin), fondatore della ""setta"" degli Allvika, la complessa etica del Tainismo, fondata quanto quella buddhistica - e più di essa! - sulla nonviolenza (ahimsa), non emerge affatto dalle parole riportate del suo iniziatore, Vardhamana ""il Vincitore"" (Jina, epiteto dello stesso Gautama), a il Grande Eroe"" (Mahavira), ""il Facitore del guado"" dell'oceano delle rinascite (Tirthamkara). Designato con l'epiteto di a Libero da nodi"" (Nirgrantha) e col patronimico Nayaputra (""Figlio del [principe Siddhartha della schiatta dei] Naya""), questi è presentato da Ajatasatru che era suo parente! - discettante sulla figura dell'asceta in oscuri rapporti con le ""acque"" (vari), forse metafora del flusso di materia entro la coscienza - in concomitanza con la condotta egoisticamente motivata - (asrava), o allusione alla rappresentazione mentale dell'alluvione destinata a spazzar via le contaminazioni mentali (varunidharana), importante momento dello yoga jainistico. In contrasto con l'inconcludente caos delle esposizioni a suo tempo ascoltate da Ajatasatru, il Buddha gli spiega con persuasiva eloquenza l'ascesi e i suoi frutti. Dapprima egli lo conduce ad ammettere - in un linguaggio sorprendentemente ""democratico""! - la promozione di status goduta nella società indiana da ogni asceta, prescindendo dalla sua prassi e dalle dottrine ad essa soggiacenti, poi traccia, sullo sfondo quasi picaresco dei costumi poco 8 dignitosi o troppo liberi della massa degli yogin itineranti dei suoi tempi, un quadro delle regole di vita per i propri seguaci, in termini prevalentemente negativi. Segue la precettistica positiva, che vien dipanando, in termini standardizzati costantemente ripresi nel Canone pali, il percorso meditativo seguito dall'asceta buddhista, gradino per gradino. Gli stati di consapevolezza via via attinti sono descritti e illustrati con attraenti similitudini, ma Ajatasatru, pur favorevolmente impressionato dalla lunga serie d'istruzioni, si limita ad una professione di rifugio nel Buddha ed alla confessione del proprio parricidio, senza deporre le insegne
egali per la veste ocra del rinunciatario. Gautama commenta che la macchia contratta col parricidio stesso gli ha precluso la comprensione ultima del Dharma così pazientemente insegnatogli." Ancora una volta si respira il meraviglioso nell'ottavo testo, il Kevaddhasutta, dove una classificazione delle varie capacità paranormali attingibili mediante l'ascesi è seguita dalla narrazione dei viaggi celesti di un praticante, che riprende un tema caro alla letteratura apocalittica in Occidente. La ricerca d'un substrato unitario dei quattro elementi che formano il mondo, mentre spinge alla sua ascesa in reami paradisiaci l'asceta, animato da un astratto spirito d'indagine intellettualistica, offre il destro al redattore della narrazione per porre in rilievo al solito la nescienza di Brahma. Essa sbocca in ultimo nella scoperta del fine, ben più esistenzialmente significativo, del Nirvana. Su questo sfondo s'inserisce nuovamente la presentazione standardizzata dell'iter ascetico del perfetto discepolo del Buddha. "La pratica meditativa, fondata sull'esercizio continuato dell'attenzione non coinvolta portata sui diversi momenti della vita psicofisiologica, è, anzitutto, resa attraente, nell'esposizione diretta ai ""laici"", attraverso l'elenco dei suoi sottoprodotti, appartenenti alla sfera del folklore yogico, mentre agli ""addetti ai lavori"" essa interessa come via di superamento delle false identificazioni dell'""io"" con l'uno o l'altro settore dell'esistenza esteriore Si tratta di utilizzare la consapevolezza (vyjana, lett. ""conoscenza comprensiva""), momento culminante del processo di percezione dell'universo oggettuale e ubi consistam del senso d'identità personale, come strumento di indebolimento e poi di negazione di questa stessa identità, identificata dal pensiero buddistico (ma non sappiamo se dallo stesso Gautama!) con l'Atman del lessico brahmanico, il Sé imperituro ed atemporale che funge, appunto, da testimone della vita dei sensi e della mente. ""Questo non sono io, questo non è il mio Atman"", ripete il meditante buddhista, prendendo in considerazione i vari strati della propria struttura corporea e dei propri flussi e riflussi sensoriali e psichici, sistemati in cinque skandha (""complessi"", ""aggregati"") via via più intimi. La conclusione è che non vi è da nessuna parte un Atman suscettibile d'essere scoperto. Fino a qui l'indagine buddhistica riproduce, mutatis mutandis, quella vedantica, fondata negli antichi insegnamenti delle Upanisad. Ma mentre quest'ultima sbocca nella presa di coscienza di un Atman ch'è il puro soggetto immanente nell'indagatore, irriducibile al mondo oggettuale su cui la ricerca s'era esercitata fino a quel momento, il procedere buddhistico s'arresta alla disidentificazione e proclama che
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gli ha precluso la comprensione ultima del Dharma così pazientemente insegnatogli."<br />
Ancora una volta si respira il meraviglioso nell'ottavo testo, il Kevaddhasutta, dove una<br />
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celesti di un<br />
praticante, che riprende un tema caro alla letteratura apocalittica in Occidente. La ricerca d'un<br />
substrato<br />
unitario dei quattro elementi che formano il mondo, mentre spinge alla sua ascesa in reami<br />
paradisiaci<br />
l'asceta, animato da un astratto spirito d'indagine intellettualistica, offre il destro al redattore<br />
della narrazione<br />
per porre in rilievo al solito la nescienza di Brahma. Essa sbocca in ultimo nella scoperta del<br />
fine, ben più<br />
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standardizzata dell'iter ascetico del perfetto discepolo del Buddha.<br />
"La pratica meditativa, fondata sull'esercizio continuato dell'attenzione non coinvolta portata<br />
sui diversi<br />
momenti della vita psicofisiologica, è, anzitutto, resa attraente, nell'esposizione diretta ai<br />
""laici"", attraverso<br />
l'elenco dei suoi sottoprodotti, appartenenti alla sfera del folklore yogico, mentre agli<br />
""addetti ai lavori""<br />
essa interessa come via di superamento delle false identificazioni dell'""io"" con l'uno o l'altro<br />
settore<br />
dell'esistenza esteriore Si tratta di utilizzare la consapevolezza (vyjana, lett. ""conoscenza<br />
comprensiva""),<br />
momento culminante del processo di percezione dell'universo oggettuale e ubi consistam del<br />
senso d'identità<br />
personale, come strumento di indebolimento e poi di negazione di questa stessa identità,<br />
identificata dal<br />
pensiero buddistico (ma non sappiamo se dallo stesso Gautama!) con l'Atman del lessico<br />
brahmanico, il Sé<br />
imperituro ed atemporale che funge, appunto, da testimone della vita dei sensi e della mente.<br />
""Questo non<br />
sono io, questo non è il mio Atman"", ripete il meditante buddhista, prendendo in<br />
considerazione i vari strati<br />
della propria struttura corporea e dei propri flussi e riflussi sensoriali e psichici, sistemati in<br />
cinque skandha<br />
(""complessi"", ""aggregati"") via via più intimi. La conclusione è che non vi è da nessuna<br />
parte un Atman<br />
suscettibile d'essere scoperto. Fino a qui l'indagine buddhistica riproduce, mutatis mutandis,<br />
quella vedantica,<br />
fondata negli antichi insegnamenti delle Upanisad. Ma mentre quest'ultima sbocca nella presa<br />
di coscienza di<br />
un Atman ch'è il puro soggetto immanente nell'indagatore, irriducibile al mondo oggettuale su<br />
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s'era esercitata fino a quel momento, il procedere buddhistico s'arresta alla disidentificazione<br />
e proclama che